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ESAME ANTROPOLOGIA CULTURALE prof Broccolini - Testo esame: Fabio Dei, Sintesi del corso di Antropologia Culturale

Appunti del corso di Antropologia Culturale del prof Broccolini. Testo da studiare per l'esame: Antropologia Culturale di Fabio Dei

Tipologia: Sintesi del corso

2013/2014
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Scarica ESAME ANTROPOLOGIA CULTURALE prof Broccolini - Testo esame: Fabio Dei e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! ANTROPOLOGIA CULTURALE (Fabio Dei) Prima parte. CAPITOLO 1: LE DISCIPLINE DEA 1: Cosa significa M-DEA/O1? M-DEA significa “discipline demoetnoantropologiche”. Questa denominazione combina i nomi di tre insegnamenti di questo settore scientifico-disciplinare in Italia che sono: • Antropologia culturale • Etnologia • Demologia (storia delle tradizioni popolari) Si tratta di tre scienze umane il cui oggetto è lo studio dell’uomo e delle culture umane nelle loro articolazioni etniche e nelle loro espressioni popolari. In antropologia per cultura si intende non solo i prodotti del lavoro intellettuale (arte, letteratura, scienza) ma il complesso degli elementi non biologici attraverso i quali i gruppi umani si adattano all’ambiente e organizzano la loro vita sociale. Ad esempio fanno parte della cultura le istituzioni, le tecniche di lavoro, le forme di parentela, il linguaggio ecc ecc. Con il termine etnologia ci si riferisce a studi settoriali su specifici popoli e culture in ogni parte del mondo. La demologia è lo studio della cultura popolare e tradizionale della nostra stessa società, invece l’antropologia culturale pone l’accento su ampi approcci di tipo teorico e comparativo. 2:L’origine dell’antropologia culturale La nascita dell’antropologia culturale si fa corrispondere al 1871, data di pubblicazione di un libro di Edward Tylor intitolato “Primitive Culture”. Altri antropologi invece pensano che le origini dell’antropologia risalgano a molto prima vedendo precursori in varie epoche della storia del pensiero. Altri invece pensano che non si possa parlare di una vera e propria antropologia prima del Novecento ovvero quando si svilupparono metodologie di ricerca sul campo che diventano tratto distintivo della disciplina. Tuttavia sul piano istituzionale l’antropologia culturale si costituisce negli ultimi decenni dell’Ottocento: è il periodo della grande fiducia nella scienza e nel progresso e di uno sviluppo capitalistico visto come inarrestabile. L’antropologia si caratterizza per lo studio dei primitivi ovvero di quei gruppi non toccati dalla modernità. Troviamo però una tensione intellettuale in quanto parlare di cultura dei primitivi significa contrapporsi ad un senso comune che li considera bestiali e privi di ogni cultura e parlare di tale cultura significa mostrare come essi siano più vicini a noi di quanto ci piaccia immaginare. L’antropologia fin dall’inizio sta dalla parte dei primitivi e contro il razzismo biologico che ne afferma l’inferiorità congenita. 3:Vocazione per la diversità Nel contesto della globalizzazione è ovvio che non esistono più primitivi. L’attrazione per la diversità sta anche alla base di una vocazione critica dell’antropologia anche nei confronti della propria cultura. Il confronto con l’altro costringe ad una continua revisione delle nostre categorie e di ciò che nel nostro senso comune si dà per scontato. Il confronto con il diverso ci fa vedere le cose familiari sotto una luce diversa che in qualche modo le rende “strane”. Ernesto De Martino, uno dei fondatori della moderna antropologia italiana, chiamava scandalo etnografico questo incontro-scontro con una diversità che ci costringe a rivedere i nostri sistemi categoriali e ci costringe a rivederli in un processo di costante ampliamento della nostra consapevolezza storiografica. L’analisi di molte pratiche primitiva e apparentemente bizzarre hanno portato a ripensare in modo fortemente critico alcuni fondamenti propri della nostra vita sociale. Bisogna chiarire che non è possibile parlare di culture come entità compatte e ben definite e per di più coincidenti con un popolo e un territorio. Ciò non significa che le differenze culturali non esistano più, al contrario la globalizzazione per certi versi le moltiplica pur mischiando i contesti. In questa situazione l’antropologia continua a definirsi in base allo studio delle differenze. La comprensione antropologica non può far a meno di passare attraverso le diversità culturali. 4:La ricerca sul campo Un tratto peculiare molto importante dell’antropologia è la ricerca sul campo. L’antropologia attraverso il fieldwork (ricerca sul campo) tenta di rispondere ai problemi teorici che si pone. Il modello classico di fieldwork antropologico si viene definendo con le prime scuole novecentesche in particolare con quelle anglosassoni. I padri fondatori di tale metodo sono Franz Boas e Bronislaw Malinowski. DIFFERENZA TRA MALINOWSKI E BOAS: Boas è uno dei primi antropologi ad andare a fare ricerca sul campo, ma lui non viveva con gli abitanti del luogo bensì in una casa posta al di fuori del villaggio che intendeva studiare e riceveva gli abitanti del luogo nella propria casa per informarsi su quella cultura. Malinowski invece per fare ricerca va a vivere in mezzo alla popolazione che intende studiare e fa una vera e propria esperienza delle loro tradizioni vivendole lui stesso. Gli antropologi vittoriani non erano ricercatori. Ritenevano che la raccolta dei dati empirici e il lavoro teorico di analisi e comparazione dovesse restare separati, affidati a persone con diversi ruoli e competenze. Dunque non svolgevano il loro lavoro sul campo ma in biblioteca utilizzando come fonti i resoconti di viaggiatori, naturalisti, missionari ovvero persone che non avevano una preparazione specifica ma che erano stati in contatto con culture lontane e ne avevano scritto. Questa “antropologia da tavolino” aveva l’inconveniente di poggiare su dati incerti, raccolti in modo dilettantesco e privi di attendibilità scientifica. Nel ‘900 la figura del teorico e quella del ricercatore si fondono dando vita alla figura dell’antropologo . Il manifesto programmatico di questa nuova figura si trova in un libro di Malinowski: “Argonauti del Pacifico occidentale”(testo incentrato sulla descrizione del kula ring un complesso sistema di scambio cerimoniale di oggetti preziosi). Nell’introdurre la sua ricerca M. chiarisce come sia necessaria sia la preparazione teorica e metodologica, sia la diretta esperienza vissuta della cultura che si intende studiare per andare a formare la figura dell’antropologo: senza la preparazione non si saprebbe osservare e l’osservatore non sarebbe in grado di individuare i tratti rilevanti di un contesto culturale e di conseguenza non saprebbe trasformare in documenti o dati l’esperienza vissuta. Invece senza l’esperienza diretta il teorico non riuscirebbe mai a comprendere fino in fondo un’altra cultura e non riuscirebbe ad entrare in empatia con essa. Malinowski conia il termine osservazione partecipante per indicare quello stile di ricerca per cui l’antropologo vive all’interno di una comunità, condivide la quotidianità ed entra in rapporti personali con i suoi membri partecipando alle più importanti pratiche sociali. Questo stile di osservazione partecipante diventerà lo standard per molte generazioni successive di antropologi. Tale metodo implica una permanenza prolungata sul territorio non inferiore ad un anno e condotta a stretto contatto con gli indigeni: ciò significa tagliare i rapporti on gli altri occidentali e vivere un’esperienza di radicale estraniamento dalla propria cultura di provenienza. Questo può provocare vere e proprie crisi esistenziali: è il caso stesso di M. Infatti dopo la sua morte la moglie acconsentì alla pubblicazione del suo diario: “Diario di un antropologo” si trattava di appunti che M. stesso aveva preso durante la sua permanenza nelle isole Trobriand. Ciò provocò un grande scalpore nell’ambiente antropologico in quanto viene fuori un uomo frustrato, infastidito dalla società stessa che stava studiando e che non vedeva l’ora di tornare a casa. Da questa pubblicazione poi vennero fuori dei dibattiti sul ruolo della soggettività nella ricerca sul campo. La ricerca sul campo deve adottare un approccio olistico ovvero deve andare a studiare tutti gli aspetti di una cultura: occorre imparare il linguaggio locale, studiare gli aspetti economici quelli politici, le strutture di parentela, le pratiche religiose e così via. Altri strumenti metodologici molto importanti oltre all’osservazione partecipante sono: schemi genealogici, interviste strutturate (con scelta di informatori privilegiati) la schedatura dei manufatti, la documentazione fotografica e la redazione delle note e del diario di campo. Anche il modello malinowskiano di fildwork però non è sopravvissuto alle trasformazioni degli ultimi decenni. Sono troppo diverse oggi le condizioni per immaginare l’antropologo come eroe solitario che esplora una cultura nella sua autenticità. Tuttavia, anche se in forme diverse, la ricerca sul campo continua ad essere il nucleo centrale delle discipline DEA. 5: Gli specialisti disciplinari L’antropologia si articola in diverse partizioni specialistiche in quanto è aperta ad una molteplicità di tematiche. Tali partizioni riguardano innanzitutto le aree geografico-culturali in cui si svolge la ricerca. Il modello classico di fieldwork implica che uno studioso nella sua carriera, può diventare esperto di due, o in casi eccezionali tre, aree culturali. Solitamente lle specializzazioni vengono espresse in riferimento a grandi continenti o sub-continenti (antropologi africanisti, europeisti, oceanisti ecc ecc). Ovviamente, nel quadro di queste grandi aree, gli studiosi sviluppano la loro ricerca in regioni circoscritte o in piccoli villaggi. diversi ma in modo discriminatorio, come se ci si riferisse a barbari. Nel linguaggio biblico ethne designa i non ebrei e i non cristiani. Nelle lingue europee invece si afferma con l’accezione dispregiativa di pagani: quando il cristianesimo si identificò con tutta la società occidentale, l’accezione negativa si estenderà a tutti i non occidentali. E’ nella seconda metà dell’ottocento che si afferma un uso neutrale dei termini etnici. L’accezione antropologica definisce come etnia un gruppo che condivide un insieme di elementi culturali, quali lingua, religione, usi e costumi. Tuttavia spesso queste descrizioni si caricano di connotazioni negative e discriminatorie: etnici sono gli altri, le minoranze, i poveri, gli arretrati. Il rischio principale che corrono le nozioni di etnico e di etnia è la reificazione: tali nozioni tendono ad essere lette secondo la cartina geografica ovvero come si può appartenere ad un solo Stato così si appartiene ad una sola cultura o etnia. L’appartenenza culturale ed etnica è intesa come proprietà immutabile di un gruppo umano e di tutti gli individui che ne fanno parte. Di questa tendenza all’essenzialismo o reificazione è colpevole anche l’antropologia in quanto essa ha a lungo mostrato un’immagine eccessivamente statica e divisionista delle culture. L’antropologia ha naturalizzato le culture, ci ha abituato a pensarle come cose che esistono prima ed indipendentemente dai processi storici. Pur ammesso che tale modello divisionista fosse adeguato alle realtà primitive classicamente studiate dall’antropologia, esso non è di certo adeguato alla realtà attuale di un pianeta dominato dai processi di globalizzazione. Al giorno d’oggi si riconosce che le realtà sociali sono sempre il frutto di processi storici e dinamiche politiche. Tuttavia nel senso comune e nel linguaggio dei media, l’uso reificato persiste. 4:Razzismo differenzialista La tendenza alla reificazione dei termini etnici e culturali rischia di produrre una nuova assolutizzazione delle differenze. Il rischio è che il discorso etnico-culturale sia usato strumentalmente usato come supporto “scientifico” di pratiche discriminatorie che sono definite razziste. L’essenzialismo culturale è teorizzato in alcune forme odierne di ideologia e pratiche neo-razziste, in particolare in quello che viene chiamato razzismo differenzialista. Al giorno d’oggi le idee di pulizia etnica non possono più essere mandate avanti nel modo in cui si faceva in passato (Hitlermetafore sugli ebrei come agenti infestanti portatori di contagio e impurità). Il neo-razzismo differenzialista non parla più di differenze naturali, esso accetta il relativismo culturale (secondo il quale tutte le culture hanno pari dignità e importanza e non possono essere giudicate sulla base di criteri ad esse estranei) ma proprio questa tolleranza porta poi a riaffermare quell’esigenza xenofoba: i nostri valori, le nostre convinzioni morali, sono radicate in una ben precisa identità culturale e proprio per questo motivo le identità non devono essere mescolate. Anche secondo Strauss bisogna evitare contaminazioni in quanto la diversità culturale è il bene massimo da preservare per l’umanità, poiché il progresso stesso non è consentito dalla prevalenza di una cultura su tutte le altre ma dalla compresenza di culture diverse. Quindi è necessario favorire lo scambio e il dialogo ma bisogna anche evitare contaminazioni troppo profonde che facciano perdere il senso della diversità. 5:Come riconoscere il neo-razzismo I punti in comune tra il razzismo biologico della prima metà del Novecento e il razzismo differenzialista sono stati descritti in una delle teorie più avanzate dello studioso Taguieff che individua tre atteggiamenti intellettuali comuni dell’ideologia e del comportamento razzista. La prima di esse per Taguieff è la categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi che implica la riduzione dell’individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza o comunità d’origine elevata a comunità di natura fissa e insormontabile. Nascere tali significa essere e dover rimanere tali. Il secondo punto è la stigmatizzazione: una volta categorizzati, gli altri possono subire un processo di stigmatizzazione, cioè subire un processo di esclusione simbolica basato sull’attribuzione di stereotipi negativi. Il nemico viene “disumanizzato” e ciò crea una distanza psicologica e morale che spiega anche le manifestazioni di violenza. Una conseguenza della stigmatizzazione è la mixofobia ovvero la paura della mescolanza e dell’ibridazione. Il terzo elemento che caratterizza il razzismo è la barbarizzazione e consiste nella convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili . Taigueff sostiene che la barbarizzazione è il più alto grado di distanziamento ed esclusione in quanto il “barbaro” è l’antitesi stessa della civiltà. La barbarizzazione implica l’impossibilità di ogni assimilazione e quindi apre la strada a politiche eliminazioniste, di radicale separazione xenofoba e perfino di genocidio. Taguieff distingue tre tipi di azioni legate alle precedenti condizioni: 1. Segregazione, discriminazione, persecuzione 2. Violenza essenzialista (cioè rivolta contro una categoria in quanto tale) 3. Genocidio (sterminio di tutti i rappresentanti di una categoria) Le pratiche di persecuzione e di violenza non sono semplici conseguenze di convinzioni teoriche o ideologiche. I comportamenti razzisti possono essere ricondotti a una serie di cause strutturali (economiche, sociali, politiche) ma anche a cause di esperienze di vita convinzioni economiche, vissuto personale, ideologie politiche ecc ecc. 6:Antirazzismo Anche il contrapporsi al razzismo oggi rappresenta un problema. L’antirazzismo corre il rischio non solo di usare gli stessi strumenti ideologici e culturali del proprio avversario ma anche di riprodurre gli stessi meccanismi di essenzializzazione, stigmatizzazione e barbarizzazione. Si finisce quindi per costruire un nemico assoluto e astratto. Il razzista figura negativa centrale , seguace del male assoluto. Ma è anche un rischio per l’analisi culturale del razzismo. Ad esempio negli ultimi decenni si è sviluppato un nuovo filone di studio che riguarda l’analisi retorica del discorso razzista. Si tratta di scoprire, attraverso sofisticati strumenti d’indagine, un razzismo dissimulato all’interno di conversazioni quotidiane, nei messaggi dei notiziari televisivi o della pubblicità. E’ emerso che un discorso comune che si dichiara antirazzista in realtà è impregnato di pregiudizi e stereotipi verso gli altri. Tuttavia gli strumenti analitici utilizzati sono troppo forti e finiscono per scoprire razzismo dietro ogni tipo di discorso. In poche parole si scatena una caccia al discorso razzista che in realtà non lo è. Vi è poi un ulteriore rischio: l’incapacità di distinguere i diversi livelli di pregiudizio. I pregiudizi depositati nel linguaggio stanno alla base d grandi apparati simbolici che non hanno nulla di naturale: es opposizione bianco/nero: è una contrapposizione densa di connotazioni estetiche, morali ed emotive strettamente collegate ai temi della diversità etnica e potenzialmente razziste (bianco è associato alla purezza, al bene. Nero associato al male,peccato, sporcizia.) Tali meccanismi agiscono a fondo nel nostro senso comune. Tuttavia simili connotazioni simboliche non possono rappresentare un indicatore di razzismo né ideologico, nel senso di Taigueff, né pratico, nel senso di persecuzione violenta, esclusione. A volte per voler individuare a tutti i costi il razzismo si rischia di non individuare le espressioni più pericolose e deleterie per la convivenza civile. CAPITOLO 3: ETNOCENTRISMO, RELATIVISMO, DIRITTI UMANI. 1:La ragione e i costumi Remotti parla di giro lungo per indicare il confronto con la diversità: l’idea che per capire la nostra stessa ragione occorre ampliare lo sguardo, passare attraverso ciò che ci è meno familiare. Gli strani costumi di popoli lontani non appariranno più come bizzarre curiosità , ma come elementi cruciali per capire anche la nostra cultura. In epoca moderna sono stati proprio i viaggi e le scoperte geografiche a nutrire questo tipo di riflessione. La scoperta degli Indios americani sollevò grandi dibattiti nel Cinquecento. Vi era il dubbio se si trattasse di esseri umani o di creature a metà strada fra il mondo umano e quello animale e se li si doveva trattare come fratelli da civilizzare o come natura da dominare. Montaigne nei suoi “Essais”descrive il tema della diversità e quello specifico dei selvaggi che anticipano per certi versi la sensibilità relativistica. Nel suo saggio Sui cannibali Montaigne fa un resoconto etnografico di una comunità di indios del Brasile, servendosi di un informatore francese che aveva vissuto a lungo in questa comunità. Qui descrive il cannibalismo che si praticava in questo popolo, rituale che veniva praticato nei confronti dei nemici uccisi. Il cannibalismo è una pratica che spesso viene attribuita ai selvaggi nei primi resoconti europei, è una prova della loro disumanità. Ma Montaigne, dal racconto del viaggiatore, ricava l’idea del cannibalismo come pratica culturale organica piuttosto che espressione di furore bestiale e preculturale. Cioè coglie la natura rituale dell’atto di divorare parti del corpo dei nemici uccisi in combattimento: un atto morale che si può ben contrapporre ai supplizi e alle torture che gli europei infliggono ai loro nemici. Inoltre Montaigne cerca di cogliere anche il meccanismo dell’etnocentrismo, lui afferma: Ora mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di selvaggio e barbaro, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento che l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Quanto ci appare verità o valore assoluto è frutto della consuetudine. Al concetto della consuetudine Montaigne dedica un altro saggio, in cui afferma che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine. La convenzione non si lascia scorgere come tale, ma si presenta ai nostri occhi pretendendo di essere natura. Montaigne sostiene quindi che la diversità dei costumi è costitutiva del concetto di agente umano e l’unico modo per capire tale diversità è passarci dentro e non evitarla (concetto del giro lungo). Solo così diventa possibile mascherare la presunta naturalità dei nostri modi di essere riuscendo a capire quanto in realtà sia la consuetudine ad influenzare i nostri comportamenti. 2:Relativismo epistemologico La storia dell’antropologia presenta una costante tensione culturale: da un lato troviamo un atteggiamento scientifico radicato nel positivismo e dall’altro troviamo le istanze del giro lungo. L’antropologia però fin dai suoi esordi nel XX secolo entra in rapporto con una più vasta sensibilità relativistica. La cultura Novecentesca, in tutti i suoi campi, sembra interessata allo scuotimento di vecchie certezze. E’ il tema del “primitivo dentro di noi” che affascina l’immaginario artistico e letterario allo stesso modo dell’inconscio freudiano. Nel pensiero Novecentesco il rapporto tra razionalità scientifica e diversità antropologica si va invertendo. Nel positivismo, la razionalità scientifica sembra il solido punto di partenza per spiegare le stranezze delle altre culture. Al contrario, nel Novecento, la stessa razionalità scientifica viene a poggiare su basi storico- culturali. L’antropologia quindi può essere intesa come la descrizione empirica di contesti nei quali maturano forme irriducibili di razionalità E’ questa la prospettiva chiamata del relativismo epistemologico. Questi tipo di relativismo riguarda il non pretendere di possedere a priori criteri universali di razionalità prima di accostarsi alla diversità delle culture e alle epoche storiche. Negli anni 60 e 70 si aprono diversi dibattiti su razionalità e relativismo: il problema di fondo è se nel capire altre culture si può davvero rinunciare ad alcuni criteri minimi ma universali di razionalità come ad esempio una percezione del mondo di senso comune (li c’è una roccia e non posso passare) e le fondamentali leggi della logica. Ci deve essere una sorta di ponte interculturale che non sia sottoposto a variazioni locali o storiche. A questa argomentazione i relativisti rispondono che non è possibile possedere a priori un nucleo epistemologico in quanto la comprensione avviene sempre su basi pratiche. Peter Winch ha sostenuto che gli antropologi non possono legittimamente considerare false illogiche, o irrazionali le credenze o i modi di vivere di un’altra cultura in quanto tali modi di vivere sono guidati da norme condivise di ragionamento razionale. Affrontare il tema della stregoneria o della fede religiosa partendo da un’imputazione di falsità è una procedura etnocentrica che non ci permetterà di capire che posto occupano la stregoneria o la religione. Per Winch la comprensione antropologica deve mostrare la scienza, la stregoneria, la religione come diverse possibilità di dare un senso al mondo e alla vita, come diverse concezioni del bene e del male. 3:Relativismo etico Il relativismo etico è stato sostenuto in modo esplicito e consapevole. Riguarda la formulazione di giudizi morali e sistemi di valori. E’ stata in particolare la scuola americana di antropologia culturale a fare del relativismo uno strumento di lotta contro il razzismo, i pregiudizi etnici e l’oppressione coloniale. Boas e i suoi allievi si sono battuti per affermare un pubblico uso del sapere antropologico a sostegno della tolleranza, dell’eguaglianza e dei diritti dei popoli occidentali. Di questo progetto il relativismo è stato il fulcro. Herskovits si appella ai dati di fatto e ci presenta il relativismo come una dottrina positiva basata sulla scienza. C’è un tentativo, quasi paradossale, di affermare il relativismo attraverso una retorica positivista. Herskovits era un influente membro della Tripla A (American Anthropological Association). A nome dell’associazione Herskovits elaborò un documento da sottoporre alla commissione dell’ONU volto ad inserire nella dichiarazione il tema del rispetto delle differenze culturali e il nesso tra diritti e culture. Il documento, dal titolo Statement on Human Rights, sosteneva il principio secondo il quale l’uomo è libero solo quando vive nel modo in cui la sua società definisce la libertà, che i suoi diritti sono quelli che egli riconosce in quanto membro della sua società. Lo Statement antropologico non fu accolto nella Dichiarazione dei diritti. La motivazione sta nel fatto che la cultura politica prevalente nelle Nazioni Unite vedeva le differenze come disuguaglianze, ostacoli da superare verso il perseguimento di una reale eguaglianza,laddove gli antropologi le vedevano come uno sfondo da salvaguardare. La tensione tra il discorso umanitario e quello antropologico nonsi attenuerà negli anni. Negli anni 50 Strauss viene incaricato dall’Unesco di scrivere una critica all’ideologia razzista. Ne esce Razza e Storia un saggio dove Strauss afferma che limitarsi ad affermare l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini non basta perché l’uomo non realizza se stesso in un’umanità astratta ma in culture tradizionali. Ma allora come si può conciliare il riconoscimento della diversità con i principi di unità ed eguaglianza del genere umano? Secondo Strauss la soluzione sta nell’affermare che la comune umanità si realizza attraverso prime si concentrano sul fieldwork mentre le seconde mantengono vive le tradizioni di ricerca sulle culture contadine presenti in molti luoghi dell’Europa. Soprattutto nell’età romantica in Europa si erano sviluppati filoni di studi sul folklore, inteso come patrimonio culturale di un popolo-nazione con profonde radici storiche che lo legano a specifici territori. Mentre il fieldwork si concentra su raccolta di informazioni attraverso documentazione, analisi di materiale d’archivio, reperti di cultura materiale e dialogo con informatori locali, il folklore non prende molto in considerazione il concetto di “campo” o “terreno”. Egli magari si decentra dalla città alla campagna ma non supera mai i confini di un altro mondo. E’ diversa anche la documentazione in quanto lavora su testi, oggetti ed altri tipi di fonti, mutati dalla storiografia o dalla filologia. Sono pochi i folkloristi che trovanoi attenzione nel dibattito novecentesco tra cui Gennep e Propp. Una sorta di combinazione tra folklore e fieldwork è quella proposta da Ernesto de Martino. Con le sue spedizioni nelle regioni più povere e arretrate del Mezzogiorno, De Martino associava ricerca partecipante sul campo, metodi di rilevazione folk lorica, analisi storiche, consapevolezza epistemologica. Per De Martino conoscere la cultura delle plebi rustiche era un modo di lottare per la loro emancipazione. 5:La decolonizzazione e la svolta riflessiva Nel periodo che va dagli anni 60 agli anni 80 il modello classico di fieldwork entra in una crisi profonda. Il fattore cruciale è l’avvio del processo di decolonializzazione . Molte zone dell’Africa lottano per raggiungere l’indipendenza politica. Non si può più pensare a quei popoli come primitivi, inconsapevoli che hanno bisogno di essere descritti da qualcun altro. L’antropologia è una disciplina che viene vista con sospetto, una disciplina occidentale che pretendeva di parlare per loro e che è portatrice degli interessi del dominio coloniale. Ma anche gli antropologi, con l’affermarsi del nuovo punto di vista, hanno difficoltà nel mantenere i propri progetti di ricerca soprattutto per la mancanza di condizioni di sicurezza. Cambia anche il modo di scrivere le etnografie . Il modello della monografia classica, condotto in modo impersonale e distaccato, non appare più soddisfacente. Si comincia a mettere in scena la soggettività stessa del ricercatore e degli informatori. Negli anni 70 iniziano ad apparire testi incentrati su singole figure di “informatori” o interlocutori nativi, messi a fuoco per la loro peculiarità più che per la loro tipicità culturale. Negli anni 60 poi viene pubblicato il “Diario di campo” di Malinowski che sconvolse lo scenario antropologico del tempo. Il M del diario vive un profondo senso di spaesamento culturale, è ossessionato dalla solitudine, dall’ipocondria, dalla privazione sessuale, attraversa frequenti crisi di collera e di isteria e si lascia andare perfino ad insofferenza e disprezzo razziale verso gli indigeni. Il dibattito aperto dal Diario di Malinowski mette a fuoco proprio il carattere di finzione dei testi etnografici, finzione non nel senso di falsità ma di costruzione letteraria. Argonauti non è un inganno ma non lo è nemmeno il rapporto che M ha avuto con la realtà trobriandese. Quando un antropologo fa ricerca e dopo ne scrive un resoconto, la ricerca viene ricostruita, inscritta all’interno del testo. Nel testo l’antropologo diviene un “autore” che cerca di affermare la propria autorità di fronte ai lettori e lo fa con i mezzi specifici della scrittura: figure retoriche, accorgimenti stilistici, strutture narrative. 6:Prospettive attuali della ricerca antropologica La ricerca di oggi non riguarda più il partire per posti lontani e piantare una tenda in mezzo al villaggio. Oggi c’è la necessità di una pluralità di prospettive e per questo si parla di etnografie multi situate. Per studiare oggetti come il commercio e lo scambio, le migrazioni, gli effetti culturali dei mezzi di comunicazioni di massa occorre costruire ampi percorsi di circolazione, gli stessi dei soggetti che si intendono studiare. Ancora più difficile è affrontare oggetti nuovi come la comunicazione in internet: pratiche immateriali che non sono legate a nessun luogo o villaggio e che sfuggono alle classiche tecniche di osservazione etnografica. Inoltre il numero degli antropologi è aumentato in modo considerevole in tutto il mondo. Ma non solo non esistono più territori “vergini” da studiare, ma sono nate ovunque delle antropologie indigene. Ogni cultura ormai è in grado di descrivere se stessa antropologicamente. E gli antropologi interni spesso fanno apparire ridicoli e grossolani gli sforzi di osservazione partecipante degli esterni e le loro pretese di comprendere una cultura in pochi mesi. L’antropologia inoltre si trova a condividere il proprio oggetto con altri saperi specialistici: dalla sociologia alla storia, dalla linguistica all’economia. Pretendere di descrivere una cultura nel suo complesso è al giorno d’oggi altamente improbabile. In più la ricerca pura oggi sta subendo una carenza di finanziamenti e quindi gli antropologi fanno ricerca applicata: partecipano a progetti di cooperazione internazionale in diversi campi come medicina, economia, agricoltura, promozione si diritti umani. I relativi report devono seguire certi standard dettati per lo più da esigenze burocratiche che strettamente scientifiche. Inoltre oggi le ricerche non si concentrano più sullo studio della religione, rituali, parentela ma su problemi riguardanti la contemporaneità come la migrazione, le violenze, i diritti umani le guerre ecc ecc. Troviamo inoltre un nuovo modo di utilizzare il linguaggio e la scrittura: gli etnografi oggi sentono il dovere di riferire in modo esplicito sulle circostanze pratiche in cui la ricerca ha avuto luogo. In più sono cresciuti altri tipi di antropologie come quella museale e visuale anche grazie all’accessibilità di tecnologie digitali che consentono di realizzare prodotti di buon profilo a basso costo. A questo quadro non bisogna dimenticare di aggiungere le possibilità offerte dall’informatica e da internet. CAPITOLO 5: PARADIGMI TEORICI 1:La scuola evoluzionista L’evoluzionismo antropologico ha l’obiettivo di risalire indietro nel tempo alla scoperta dell’origine delle forme viventi e culturali che sono oggi osservabili. Il metodo utilizzato è quello comparativo: dati provenienti dai più diversi contesti geografici e temporali possono essere accostati e gettar luce gli uni sugli altri, integrarsi a vicenda come parti di un unico disegno. La soluzione comparativa implica un fondamentale presupposto, noto come principio uniformi sta: l’evoluzione si dispiega in modo graduale continuativo e costante seguendo alcune leggi che restano invariate nel tempo e nello spazio. Inoltre si articola in fasi e stadi che hanno ovunque la stessa sequenza. Anche se l’evoluzione è uniforme, non procede alla stessa velocità nelle diverse parti del mondo. La teoria darwiniana poggiava sull’osservazione di specie arcaiche che mostravano nel presente storico i tratti di precedenti fasi evolutive. Anche per la cultura è così. Ma non solo esistono i “primitivi d’oggi”, nel presente possiamo notare un’infinità di simboli cifrati del passato, tratti culturali il cui significato si chiarisce solo in riferimento a stadi arcaici. Gli antropologi parlano di sopravvivenze. (es coprirsi la bocca con la mano quando sbadigliamosegno di educazionerelazione con la credenza antica che l’anima potesse scappare dagli orifizi del corpolo sbadiglio è un momento in cui interno ed esterno vengono a contatto e quindi c’è bisogno di una protezione) Tutti gli usi e i costumi recenti della nostra cultura affondano le radici in sacrifici in credenze e valori passati. Un esempio di evoluzionismo antropologico è la teoria di Tylor sulla religione. La religione è presente in tutte le culture e in forme diverse: come ricostruire l’origine? Si possono affiancare tutte le religioni dalla più semplice alla più complessa e cercare cosa hanno in comune: la credenza nell’anima. Dunque all’origine di ogni religione deve esserci stata una fase animistica dalla quale poi si sono sviluppate forme più complesse fino al giorno d’oggi. Ci si può chiedere come nasce la credenza nell’anima. Secondo Tylor l’idea di anima nasce dal filosofo selvaggio che riflette sul mondo, sulle esperienze di morte e di sogno che sembrano suggerire un’esistenza di un’essenza vitale separabile dal corpo. La tendenza degli studiosi vittoriani alla costruzione di una storia universale per cui tutto procede dal semplice al complesso sembra oggi etnocentrica soprattutto perché il complesso alla fine coincide con le istituzioni della società borghese. Anche se tali teorie vanno valutate nel quadro ottocentesco che comprendeva una visione del mondo per cui l’essere umano da selvaggio non avrebbe mai potuto elevarsi da solo ad una condizione superiore e quindi tutto veniva spiegato con l’intervento divino. 2:Verso una teoria sociale della cultura A cavallo tra l’ottocento e il novecento si affiancano all’evoluzionismo, gli indirizzi di ricerca diffusioni sta. Secondo i diffusionisti, di fronte a un tratto culturale presente in diverse aree anche lontane fra loro, occorre risalire all’unico punto di irradiazione da cui si è generato ricostruendo poi i complessi processi di circolazione e scambio tra popoli. Anche Boas punta a ricostruzioni di tipo diffusioniste, essendo insofferente all’approccio generalizzato dell’evoluzionismo. Nella scuola nordamericana, la produzione teorica è volta prevalentemente ad affermare l’autonomia del piano culturale rispetto a quello biologico o psicologico, e alla critica del determinismo naturalistico nella spiegazione del comportamento umano. Manca tuttavia un elemento cruciale ovvero la teoria sociale. Si può dire che non fu preso molto in considerazione un aspetto della definizione di Tylor della cultura: la cultura riguarda le capacità e le abitudini acquisite dall’uomo in quanto membro della società. Durkheim si occuperò di questo aspetto insieme ad importanti etnologi tra cui Mauss. L’assunto centrale di Durkheim è che la società è qualcosa di più della somma degli individui che la compongono. Essa funziona secondo meccanismi oggettivi di cui non necessariamente gli attori sociali sono consapevoli e che invece possono essere colti dallo sguardo scientifico. Molto importante fu il suo studio sul suicidio (1897) una pratica che sembra dipendere dalla psicologia individuale si rivela in realtà legata a precise regole e a particolari situazioni sociali, al di la dei punti di vista e della coscienza delle singole persone. A mediare tra società ed individuo ci sono i concetti di coscienza collettiva e rappresentazioni collettive. Si tratta di credenze o modi di sentire comuni ai membri di una società o cultura. Per D e Mauss sono di questo tipo le rappresentazioni basilari della magia e della religione, come la credenza nell’anima, in entità sovrannaturali o in forze e poteri sovrannaturali. Attraverso le rappresentazioni collettive la società influenza ai suoi livelli più profondi il pensiero individuale. Molto importante è l’opera le forme elementari della vita religiosa in cui D analizza la religione a partire dalla contrapposizione tra sacro e profano. Ciò che noi consideriamo sacro ha lo stesso potere che la società esercita nei confronti dell’individuo. Le forze magioco-religiose e le divinità sono onnipresenti, onnipotenti e immortali. E’ dunque la sovra-individualità del collettivo il tema portante dell’esperienza religiosa e delle relative dottrine pratiche. D si interessa soprattutto delle religioni totemiche degli aborigeni australiani. Il culto si indirizza verso un totem nel quale viene riconosciuto l’antenato originario di un clan o di un gruppo sociale (personificazione della collettività). Per D non è nella credenza che va ricercato il radicamento dell’esperienza religiosa (evoluzionisti, ma è la performance rituale che rappresenta l’interfaccia tra individuo e società. Il rito è il momento centrale in cui la collettività si impone alla coscienza individuale e ne diventa parte integrante sottoforma di sentimenti morali. Secondo D nei riti vi è una sorta di effervescenza collettiva nel quale gli individui esprimono l’appartenenza al gruppo attraverso il corpo e le emozioni prima che sul piano intellettuale. 3:Funzionalismo Nell’antropologia dei primi decenni del novecento l’influenza di D si combina con lo sviluppo della ricerca sul campo. Studiare una cultura come un tutto sincronico conduce a sottolineare i nessi funzionali tra i suoi diversi elementi mettendo in risalto la centralità delle diverse forme di organizzazione sociale Per questo l’orientamento teorico che si va affermando prende il nome di FUNZIONALISMO. Di fronte ad un tratto culturale non ci si chiede più da cosa abbia avuto origine ma a cosa serve in relazione di tutti gli altri tratti e all’equilibrio del sistema che li comprende. Malinowski sviluppa queste idee all’interno di una “teoria scientifica della cultura” mostrando la natura funzionale della cultura legandola ad una serie di bisogni umani: ad esempio la magia e la religione fungono da controllo dell’ansia e da rassicurazione. Se i trobriandesi compiono riti magici sul campo non è perché non hanno tecniche di agricoltura anzi le loro tecniche sono molto efficaci e complesse, ma quando la tecnica non basta più come ad esempio di fronte ad un temporale, si ricorre all’”ottimismo cristallizzato” della magia, che consente di procedere come se il rischio non esistesse. Dopo la partenza di M, in Gran Bretagna si sviluppa un nuovo modo di intendere il funzionalismo: Radcliffe-Brown sostiene che l’antropologia non si occupa di individui astratti che sono definiti dai propri bisogni naturali a cui la cultura risponderebbe, ma di persone concrete che sono parte di una totalità organica i cui componenti sonno connessi attraverso relazioni ordinate, vale a dire in una struttura. Il concetto di funzione,secondo Brown, ha senso solo in rapporto alla continuità della struttura sociale. In sintesi, la funzione di ogni pratica culturale è il ruolo che essa svolge nella vita sociale intesa come totalità e perciò il contributo che da al mantenimento della continuità strutturale. Tra gli anni 30 e 60 molti studiosi si occupano di analizzare le strutture sociali di gruppi di piccole dimensioni caratterizzati dall’assenza di uno stato di tipo moderno. Uno studioso particolarmente rappresentativo di quegli anni è Evans-Pritchard che si occupò di studiare una popolazione nilotica di agricoltori, gli Azande, e una popolazione di pastori seminomadi,i Nuer. Nel caso degli Azande si è occupato di capire come la stregoneria contribuisse al mantenimento dell’ordine sociale: gli Azande attribuiscono all’influsso della stregoneria la colpa di ogni disgrazia. All’interno di questa società viene quindi individuato colui che pratica la magia e che rivolge i malefici, volontariamente o involontariamente, verso un’altra persona. Questa individuazione avviene tramite pratiche magiche la cui autorevolezza è riconosciuta anche dall’accusato. Pritchard nota che le accuse sono scambiate fra soggetti che si trovano effettivamente in conflitto ma in questo modo la reciproca aggressività viene incanalata istituzionalmente in pratiche socialmente riconosciute e accettate. Dunque il significato della stregoneria è ,in ultima analisi, politico. Per quanto riguarda i Nuer invece essi sono suddivisi in lignaggi o gruppi di parentela che si riconoscono in un antenato comune, non legati da alcuna autorità centrale né da forme amministrative di tipo statale.Pur senza forme di potere centrale la società non si disgrega e si mantiene in equilibrio. Secondo lo studioso ciò avviene in virtù di un sistema segmentario nel quale alleanza e conflitto, identità e differenza si scompongono e ricompongono su diversi livelli di profondità genealogica. Il punto di forza del funzionalismo sta nell’analisi olistica di società catturate in una sorta di immobilità sincronica. Tuttavia il funzionalismo presenta una debolezza cioè tende a descrivere le società come omeostatiche . Questa tendenza dipende dal fatto che i ricercatori studiano popolazioni colonizzate, che dunque vivono un tempo e una situazione politica artificiosamente immobilizzata dal dominio coloniale. A partire dagli anni 50 e con l’avvio dei processi di decolonizzazione, gli studiosi sviluppano una maggior 2. L’ETNOCENTRISMO CRITICO È in quest’ultimo scenario che si colloca l’antropologia interpretativa: un sapere comprendente e non esplicativo, che cerca di chiarire il significato delle pratiche culturali attraverso un progressivo accostamento tra le categorie del ricercatore e quelle degli attori sociali. Questo accostamento è una comprensione di natura pratica, sempre possibile ma sempre imperfetta,ossia non garantita da alcun metodo:né da protocolli naturalistici, né da forme di partecipazione o immedesimazione psicologica. Sulla natura pratica della comprensione, converge con l’ermeneutica anche l’altra grande corrente filosofica,che fa capo ai giochi linguistici del secondo Wittgenstein. Come per l’ermeneutica, il tentativo di capire i significati e le categorie di pensiero degli altri mette in gioco un riassestamento delle nostre stesse categorie e significati. L’idea del “circolo ermeneutico” presenta sotto una diversa luce la quasi irrisolvibile tensione tra etnocentrismo e relativismo. Non possiamo fare a meno di partire dai nostri pregiudizi, ma nel confronto con la diversità ne diventiamo criticamente consapevoli e disponibili ad “andare oltre”, ad “estenderli”. Questa prospettiva era stata espressa da un antropologo italiano, E. De Martino, il quale aveva sviluppato una critica all’etnologia positivistica, di cui la principale fallacia(cosa falsa,fittizia) consisterebbe nella pretesa di studiare le altre culture assumendo come scontata quella datità del reale che è invece un prodotto specifico delle culture stesse. Tuttavia De Martino non sosteneva il relativismo come antidoto all’etnocentrismo di quella che chiamava la “boria dell’Occidente”.Egli diceva che non possiamo pretendere di uscire dalla storia culturale nella quale siamo nati,per guardare dall’alto tutte le culture,la nostra e le altre, in modo altrettanto distaccato ed equilibrato; dobbiamo partire dalle nostre “fedeltà” culturali,ma non per riaffermarle dogmaticamente:il confronto con le altre culture deve invece nutrire un costante sforzo di ampliamento del nostro orizzonte storiografico ossia,nel linguaggio di De Martino,la consapevolezza dei modi in cui si sono costruite storicamente le condizioni del nostro “essere questa forma particolare di umanità”. In un volume dal titolo “la fine del mondo” De Martino esprimeva questi punti con particolare efficacia contrapponendo a etnocentrismo e relativismo una terza posizione che sarà chiamata “etnocentrismo critico”. È una posizione che si definisce a partire dal “paradosso dell’incontro etnografico”,cioè dal problema del posizionamento dell’antropologo di fronte alla cultura diversa che cerca di comprendere si definisce così in paradosso dell’incontro etnografico: ”o l’etnografo tenta di prescindere totalmente dalla propria storia culturale nella pretesa di “spogliarsi completamente” di fronte ai fenomeni culturali da osservare, ed è allora che diventa cieco e muto davanti ai fatti etnografici e perde,con i fatti da osservare,la propria vocazione specialistica; oppure si affida ad alcune “ovvie e scontate” categorie antropologiche,assunte magari in un loro significato medio,minimo o di buon senso, ed è allora che si espone,senza possibilità di controllo, al rischio di immediate valutazioni etnocentriche a partire dallo stesso livello della più elementare osservazione”. (De Martino) La seconda strada è la soluzione adottata dalla tradizione positivistica, mentre la prima è la strada suggerita dal relativismo culturale americano, verso il quale De Martino è critico e considera gravato da limiti positivistici, proprio per la sua pretesa di neutralità osservativa. “ L’unico modo di risolvere questo paradosso si trova nel concetto stesso dell’incontro etnografico come duplice tematizzazione, del “proprio” e dell’ “alieno”. L’etnografo è chiamato ad esercitare un’ epochè etnografica che consiste nell’inaugurare, sotto lo stimolo dell’incontro con determinati comportamenti culturali alieni,un confronto sistematico ed esplicito fra la storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale occidentale che è depositata nelle categorie dell’etnografo impiegate per osservarli,descriverli e interpretarli: questa duplice tematizzazione è condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il proprio e l’alieno sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo,quel fondo a partire dal quale anche noi avremmo potuto imboccare la strada che conduce alla umanità aliena che ci sta davanti nello scandalo iniziale dell’incontro etnografico,che in questo senso costituisce l’occasione per il più radicale esame di coscienza che sia possibile all’uomo occidentale;un esame il cui esito media una riforma del sapere antropologico e delle sue categorie valutative,una verifica delle dimensioni umane oltre la consapevolezza che dell’essere uomo ha avuto l’occidente”. Questa formulazione dell’etnocentrismo è stata accusata di considerare l’altro solo come un pretesto per conoscere meglio se stessi: per una conoscenza che resta auto centrata. Dobbiamo riconoscere che oggi è difficile condividere la fiducia che De Martino nutriva cinquant’anni fa nella storia culturale dell’occidente nel nostro saldo radicamento in essa. In epoca globalizzata e post-coloniale il discorso antropologico non è più prerogativa di soggetti “occidentali” che studiano “gli altri” come propri oggetti. Molti sostengono che la tradizione cui si riferisce De Martino subisca una violenza epistemologica nei confronti degli “altri”, e che l’antropologia abbia bisogno di una rottura piuttosto che di una continuità. Questa critica è ingrata verso De Martino,che quando parlava degli “altri” aveva in mente soprattutto i contadini poveri del Mezzogiorno d’Italia, considerati come soggetti politici non meno che come campo di studio. Mentre ne descriveva ed interpretava le pratiche culturali,egli era attivamente impegnato nella lotta per la loro emancipazione da condizioni storiche di miseria e oppressione. Il ricercatore infatti accettava di porsi come orizzonte dei suoi soggetti,non viceversa. L’etnocentrismo critico ha il merito di custodire le istanze anti-positivistiche degli approcci comprendenti,evitando nello stesso tempo le contraddizioni e i paradossi del relativismo culturale. È lo stesso atteggiamento che porterà Geertz a rivendicare una forma di anti anti-relativismo: contro chi cerca di rendere credibile quelle forme di oggettivismo epistemologico che non avrebbe alcuna base. 3.RETORICHE E POLITICHE DELL’ETNOGRAFIA Nella proposta geertziana di considerare l’antropologia un sapere interpretativo confluisce un’ampia tradizione “comprendente” delle scienze umane e sociali,che le ritiene irriducibili all’epistemologia di quelle naturali,rigide ed esatte. Certo è che una parte consistente dell’antropologia resta legata al modello naturalistico: si tratta delle correnti neo-evoluzioniste,di ecologia culturale e comportamentale,della sociobiologia le quali affrontano i fenomeni umani su una scala diversa da quella etnografica,e sono interessati alle funzioni adattive che essi svolgono per la specie;nel caso della sociobiologia l’oggetto di ricerca sono più i geni che gli esseri umani,e i fenomeni culturali sono valutati in relazione al concetto di “successo riproduttivo”. Ma,quando si cerca di spiegare pratiche sociali relative all’altruismo e alla violenza sulla base delle strategie riproduttive dei geni,si trascurano i complessi livelli di mediazione che si collocano tra la costituzione genetica degli individui e quel comportamento specifico (relazioni sociali,contesto storico,tradizione,scelte morali). Quindi si può sostenere una spiegazione biologica ma solo della possibilità di un comportamento altruista o violento, mentre la scelta di adottare comportamenti pacifici o violenti,altruisti o egoisti, può essere solo compresa in termini morali e interpretativi,ossia storici o socio- antropologici. L’antropologia interpretativa non abbandona né il rigore scientifico,né l’aderenza stretta alla realtà per il rifiuto nei confronti del determinismo naturalistico. Infatti la ricerca sul campo e l’accurata esperienza dei contesti che si vogliono studiare restano i metodi fondamentali. Solo che l’esperienza di ricerca non produce in modo immediato dei dati oggettivi; l’esperienza etnografica consiste nell’osservare ma anche nel partecipare a situazioni sociali e nel dialogare con altre persone: per trasformarsi in dato deve passare attraverso il filtro dell’interpretazioni di significati,ossia una pratica creativa del ricercatore. Per Geertz questa pratica è la scrittura: la scrittura tipica dei romanzi. Certo per l’antropologia vale quello che sosteneva Arnaldo Momigliano sul rapporto tra letteratura e storia : “la differenza tra un romanziere e uno storico è che il romanziere è libero di inventare i fatti,mentre lo storico non inventa i fatti”. Lo storico e l’antropologo devono cioè basarsi sulle fonti, laddove il romanziere non può farlo. Ma le fonti devono essere trasformate in fatti,racconti,rappresentazioni significative per i lettori. Per l’antropologo,rispetto allo storico, c’è un ulteriore passo : la maggior parte delle sue fonti consiste in esperienza vissuta che deve essere,a sua volta, testualizzata, trasformata in documento. In questa costruzione di rappresentazioni si svolge una funzione d’autore,simile a quella dello scrittore. Gli autori del volume “Writing Culture” svilupparono una critica serrata all’antropologia classica(inclusa quella di Geertz) ,accusata di aver mascherato le proprie strategie retoriche e letterarie dietro la pretesa di una scrittura neutrale e trasparente. Questo gruppo,invece,insisteva sulla necessità di non nascondere nella scrittura le condizioni della ricerca etnografica,soprattutto le relazioni umane e il contesto storico-politico in cui essa si definisce: ad esempio le relazioni di potere coloniale e post-coloniale che influenzano il ricercatore e i suoi soggetti. Oltre a Geertz è decisiva anche l’influenza di E. Said che cercò di decostruire le rappresentazioni che il mondo occidentale aveva dato dell’Oriente. Egli sosteneva che questo discorso non poteva essere compreso se non ponendolo in relazione alle forme di potere coloniale che l’Occidente esercitò sull’Oriente;partendo dal rapporto tra sapere e potere: “idee,culture e vicende storiche non possono venir comprese se non si tiene conto delle forze storiche,o configurazioni di potere,che ad esse sono sottese”. Questo non significa che il potere determina le forme del sapere:esso però esercita una funzione plasmante,traducendosi in figure retoriche,pregiudizi ideologici,nuclei narrativi che percorrono il discorso orientalista. Nell’analisi di Said,la differenza tra i resoconti di taglio accademico che aspirano all’oggettività e quelli creativi è di secondaria importanza: entrambi sono sotto determinati da “rappresentazioni”,nelle quali risiede il nucleo più profondo del rapporto tra Oriente e Occidente. “ciò cui occorre prestare attenzione sono lo stile,le figure retoriche,il contesto,le circostanze storiche e sociali, e non la correttezza delle rappresentazioni e la sua fedeltà rispetto all’originale… nel discorso culturale, a circolare non sono verità ma rappresentazioni..” Il gruppo di Writing Culture tenta di volgere verso l’antropologia la stessa critica fatta da Said verso l’orientalismo;ma anche di promuovere forme nuove di rappresentazione che cerchino di “disimparare l’atteggiamento di dominio”. 4. L’APPROCCIO POST-COLONIALE Verso la fine degli anni ’80,la tradizione comprendente delle scienze sociali e la critica alle implicazioni ideologiche coloniali e post-coloniali dell’antropologia, convergono. Questo viene chiamato atteggiamento POST-MODERNO: un concetto ambiguo e sfuggente,che coniuga questi due aspetti. Da un lato lo scetticismo verso la Grande Teoria e verso l’oggettività del sapere storico-sociale,di cui si sottolinea il carattere funzionale ossia la costruzione retorica;dall’altro la tesi che tale costruzione è sempre connessa a relazioni di potere ossia a dinamiche di egemonia. Sono i due termini programmatici che compongono il sottotitolo di Writing Culture : “le poetiche e le politiche” dell’etnografia. Essi si svelano attraverso lo stesso movimento critico, smascherando le strategie realiste che li nascondevano sotto un’oggettiva neutralità. Ma l’equilibrio tra questi due termini non è facile da mantenere,e ben presto si allontanano e alimentano programmi di ricerca diversi. La dimensione macropolitica può difficilmente fare a meno del linguaggio teorico forte;i rapporti di potere richiedono di essere descritti e criticati attraverso un linguaggio oggettivo. In altre parole porre al centro del discorso antropologico l’interpretazione delle ragnatele geertziane di significati,piuttosto che la dura realtà degli interessi economici e politici,acquista per alcuni il senso di una mistificazione: è un modo di pensare i rapporti tra noi e gli altri in termini di vaghe differenze culturali piuttosto che di ben precise e concrete forme di disuguaglianza un modo di nascondere dietro i trucchi dell’ermeneutica la violenza del dominio. Si sviluppano in questo periodo correnti di pensiero di antropologia critica e confinano con l’ambito degli studi post-coloniali, ovvero si tratta di indirizzi neo- marxisti,che partono dalla priorità della dimensione politico-economica ma si allontanano sul marxismo classico su due fonti. In primo luogo,sottolineano rapporti di potere che non sono riconducibili ai rapporti di classe,in particolare le diseguaglianze di genere e quelle “etniche” che si manifestano in ambito coloniale e post-coloniale. In secondo luogo, nello studiare i rapporti tra basi politico-economiche e dinamiche culturali,poggiano su una serie di teorie post-strutturaliste. La cosa interessante è osservare come in quest’area di studi emergano in primo piano i concetti di “ideologia” e “falsa coscienza”, che modificano il problema della comprensione antropologica rispetto alla sua impostazione interpretativa. Per quest’ultima le categorie e i significati espressi dagli attori sociali sono il dato di partenza del processo ermeneutico. Per comprendere o anche solo per descrivere una pratica sociale occorre passare attraverso i significati e le intenzioni che gli attori le attribuiscono (come abbiamo già detto precedentemente). Nell’antropologia critica di impianto neo-marxista questi elementi passano in secondo piano rispetto a una descrizione della pratica dall’esterno. I discorsi e i sentimenti che occupano la coscienza rappresentano un livello superficiale,sotto al quale occorre mostrare l’azione strutturante delle grandi forze economico-politiche. Ad esempio dietro le pratiche dello shopping c è l’azione del mercato capitalistico che ha bisogno di incrementare sempre più i consumi e crea soggetti orientati in tal senso: le emozioni e i sistemi di significati dei compratori sono inessenziali di un comportamento,o meglio sono strumenti ideologici inculcati dall’esterno per favorire quel comportamento(pubblicità). In quanto al linguaggio religioso, oggi nessuno sostiene più la vecchia tesi marxiana “la religione è l’oppio dei popoli”,ma la tendenza a trattare il linguaggio religioso come una trasfigurazione delle relazioni politiche è ancora molto forte. F. Fanon,uno dei padri del pensiero coloniale, aveva espresso con efficacia questo punto a proposito della “superstruttura magica” che domina l’esistenza delle popolazioni colonizzate. In Dannati della terra Fanon rovescia l’approccio “culturalista” dell’antropologia classica,infatti i miti,le divinità minacciose,zombie,storie sovrannaturali rappresentano per lui un rispecchiamento dell’oppressione coloniale e un meccanismo che sposta su oggetti fantastici,la rabbia e il terrore della realtà. Ci troviamo davanti ad una netta differenza tra ESSENZE(il potere) e APPARENZE (la cultura): e ad un’immagine di soggettività sottomessa o alienata, che guadagnano autonomia con la riscoperta del reale e il rilevamento delle illusioni ideologiche. Secondo Fanon del ramo ideologico fanno parte anche i saperi dell’Occidente sugli altri,prima fra tutti l’antropologia, la quale con la sua insistenza sulla cultura sostituisce un mondo di apparenza alle basi reali dei rapporti sociali. Questo tipo di critica è sviluppata in modalità radicali da alcuni autori contemporanei, fino ad arrivare ad una legittimità delle nozioni “cultura” e “differenza”. J.L. Amselle diceva che “non esistono culture o differenze già date prima dell’incontro coloniale: è la logica della conquista e del potere che,tramite la ragione etnologica,classifica e immobilizza gli altri in recinti o gabbie epistemiche quali “culture” o “etnie” e simili ”. Questa critica è volta a tutta la storia della disciplina (Mauss, Tylor,Levi-Strauss e Geertz), e secondo Amselle l’unica alternativa sembra essere un’etnologia storica che non faccia uso del concetto di cultura e di tutti i suoi correlati,facendo coincidere la comprensione antropologica con l’analisi dei rapporti di forza strutturali che esistono tra gruppi umani. è una posizione che si diffonde ampiamente nell’antropologia critica e rovescia il programma di Writing Culture. L’obiettivo non è più capire le modalità con cui si “SCRIVE LA CULTURA”; diventa piuttosto quello di “SCRIVERE CONTRO LA CULTURA” (secondo uno slogan lanciato da L.Abu-Lughod). Si intravede da questo attacco l’idea ancora più radicale di un abbandono dell’antropologia culturale novecentesca, che in quanto discorso esperto e oggettivante sugli altri,agisce come “linguaggio del potere”, che non solo rispecchia, ma crea disuguaglianza e gerarchia. che altrimenti sarebbero stati inosservati. È dunque anche grazie alla genealogia che la ricerca sulla cultura popolare conosce grande impulso nell’epoca positivista. Ogni cultura nazionale produce una propria tradizione di studi: per l’Italia Giuseppe Pitrè, medico fondatore della “demopsicologia” (primo insegnamento universitario dedicato al folklore). Ma ogni regione italiana ha i suoi appassionati raccoglitori di curiosità popolari;gli ambiti più frequentati restano quelli dei canti e delle fiabe; importanti anche i proverbi,le filastrocche,le ninne-nanne,la medicina popolare,le credenze,ecc. Agli inizi del ‘900 Lamberto Loria,viaggiatore,studioso e collezionista, fonda a Firenze il Primo Museo di Etnografia Italiana, una raccolta di cultura materiale proveniente dalle diverse regioni diverrà Mostra di Etnografia Italiana a Roma. Da ciò emerge la vitalità di un ambito di studi che fa della grande varietà di culture regionali italiane,il suo punto di forza. 2.IL FOLKLORE COME SCIENZA E COME POLITICA Tornando al contesto europeo,osserviamo come il folklore divenga un’autonoma disciplina di studio,e non più un ambito marginale e un po’ bizzarro dell’attività dei filologi. La denominazione “folklore” è coniata nel 1846 da W.J.Thoms con l’esplicito obiettivo di sostituire un termine anglosassone alle denominazioni latine fino ad allora usate, come vulgares antiquitates o popular antiquities. Thoms definisce la sua disciplina come “manners,customs,observances,superstitions,ballads,proverbs of the olden time”: una definizione che influenzerà a lungo la disciplina,con quel riferimento ai tempi antichi che le conferisce un orientamento quasi nostalgico al passato,ovvero una missione di salvataggio nei confronti di un patrimonio che sembra destinato prima o poi a scomparire. Il temine “folklore” conquista ampia diffusione nel linguaggio sia scientifico che ordinario. In Francia Ethnologie francaise legata al patrimonio nazionale; in Germania Volkskunde; in Italia,dopo la denominazione di Pitrè “demopsicologia”, divenne Storia delle tradizioni popolari. Il folklore e l’antropologia si separano dopo la Grande Guerra come conseguenza della rivoluzione metodologica che investe l’antropologia culturale. Gli studi di folklore non seguiranno l’antropologia,restando legati a un approccio di tipo filologico, ad una ricerca concentrata su singoli tratti culturali più che sulla vita complessiva di intere comunità, e ad interesse per l’origine e la diffusione più che per il funzionamento del sistema sociale. Nel corso del ‘900 demologia e antropologia si sono distinte non solo per l’oggetto,ma per un’impostazione metodologica e per interessi teorici assai diversi e anche per un diverso assetto accademico e istituzionale. Mentre l’antropologia si è sviluppata in pratiche di ricerca “pura” condotte all’interno del mondo universitario, gli studi sulla cultura popolare,pur non assenti dall’accademia, hanno trovato massima espressione nei musei, nelle politiche territoriali di valorizzazione del patrimonio. Se l’antropologia ha prodotto una letteratura e una discussione internazionale compatte, il folklore si è frammentato in scuole nazionali non sempre comunicanti. Per questo è oggi possibile ricostruire in qualche modo una storia unitaria degli studi antropologici ed etnologici;per quelli folklorici questo obiettivo è assai difficile da perseguire. Occorre tenere in conto anche un altro aspetto sugli studi del folklore: l’interesse per un loro uso pubblico, che si trasforma in vere e proprie forme di strumentalizzazione politica. Nel XIX secolo la valorizzazione della poesia popolare si accompagna alla costruzione di una cultura e di sentimenti nazionalisti,divenendo un importante strumento di plasmazione della coscienza collettiva nel moderno Stato nazione. I folkloristi non si limitano a raccogliere tra il popolo,canti, fiabe, teatro, ecc. in realtà selezionano, modificano e a volte creano loro stessi forme “popolaresche” di cultura. Il loro lavoro contribuisce alla trasmissione e alla diffusione di certi contenuti. I fratelli Grimm ad esempio,girano per le campagne tedesche facendosi raccontare fiabe dalle anziane contadine:poi riscrivono i racconti in una lingua letteraria e li cambiano in modo sostanziale. I folkloristi non restano esterni all’oggetto che studiano, ma contribuiscono a costruirlo. Per quanto riguarda l’Italia molte delle forme che oggi riconosciamo come folkloriche non hanno affatto origini antichissime: sono al contrario rielaborazioni o creazioni recenti promosse da soggetti colti come parroci o altri. Questa tendenza proseguirà nei regimi totalitari del ‘900. Il nazismo si è appropriato del folklore come supporto alla costruzione del mito della razza;anche ne fascismo le politiche del ministero della Cultura hanno fatto ampio uso del folklore nella creazione di mitologie italiche,nell’organizzazione di manifestazioni di massa e in altre strategie di costruzione di un consenso popolare. Una politica presente anche in molti regimi di socialismo reale: in nome di una “cultura del popolo” e contro l’etilismo borghese, si è promosso un folk di stato ripulito e controllato. Si guarda,in più casi, al folklore come a un deposito di simboli di appartenenza e identità,utile a forgiare una nuova ritualità a sostegno del potere. 3.EGEMONIA E SUBALTERNITA’ Gli studi di cultura popolare si sviluppano in correnti nazionali autonome e difficili da ricondurre a unità. Per quanto riguarda l’Italia,si verifica un brusco arresto degli studi antropologici,non solo a causa della Grande Guerra che anzi susciterà un interessante dibattito sulla diffusione di uno specifico folklore militare. Dopo la Guerra saranno due i fattori principali a determinare l’immobilità della ricerca in campo folklorico e antropologico. Il primo è il FASCISMO,che con le sue politiche autarchiche taglia i contatti vitali tra gli studiosi italiani e le correnti internazionali(anglosassoni e francesi) dove più forti sono le scienze sociali e l’etnografia. Questo soffocante abbraccio degli studi,ne compromette l’autonomia e lo spessore,portandoli verso un approccio ideologico e fino all’aperto sostegno alle aggressioni coloniali e al Manifesto della Razza. Il secondo fattore è il ruolo cruciale che nell’Italia di quegli anni gioca L’IDEALISMO STORICISTICO di Benedetto Croce:un indirizzo culturale di assoluto rilievo, che non vede di buon occhio lo sviluppo delle scienze umane e sociali. Né Croce è interessato alla cultura “primitiva” o a quella dei ceti popolari,che considera come rami secchi nello sviluppo della civiltà umana. Nel periodo tra le due guerre gli studi antropologici non godono dunque in Italia di particolare vigore. Ma le cose cambiano nel secondo dopo guerra. Da un lato,l’Italia si apre alla cultura internazionale,dove arrivano per la prima volta in traduzione le grandi opere della psicoanalisi,della storia delle religioni,dell’antropologia;dall’altro lato, si sviluppa un indirizzo di studi autonomo che si accentra proprio su un interesse specifico sulla cultura popolare,le cui radici sono da ricercare nel pensiero di Antonio Gramsci, il quale elaborò nei suoi quaderni del carcere una versione originale della teoria marxista,incentrata sui rapporti tra struttura economica e forze sociali e culturali,e su una lettura della cultura come campo in cui le classi esercitano un’azione egemonica nei confronti di quelle subalterne. Nei suoi quaderni egli dedica alcune pagine importanti proprio al folklore,infatti ritiene che ciò che definisce un tratto culturale come folklorico è proprio la collocazione nelle dinamiche dei rapporti sociali. Le classi popolari non potendo accedere alla cultura dei ceti dominanti si accontentano di frammenti quando questi cadono verso il basso; il folklore è appunto la raccolta di questi frammenti:eppure è anche capace di organizzarsi in forme “progressive” o oppositive, che denunciano la subalternità e l’oppressione ed esprimono un’aspirazione emancipativa. Gramsci di distacca dalle concezioni positivistiche e romantiche del folklore e lo ripensa come rapporto tra le classi e come conseguenza diretta dei processi egemonici tramite i quali i ceti dominanti esercitano il potere. Il folklore si trova posto al centro della teoria e della pratica politica. Gramsci individuava gli intellettuali come i principali mediatori dei processi di EGEMONIA CULTURALE,e ipotizzava la formazione di nuovi intellettuali, “organici” non più alle classi dominanti ma a quelle subalterne. Gianni Bosio,seguendo questa direzione,propone una figura di INTELLETTUALE ROVASCIATO che non insegna ai ceti popolari ma impara da loro. Lo strumento attraverso il quale può avvenire ciò è il “magnetofono”:registratore vocale portatile,che consentiva di produrre la storia dal basso basata sulla voce diretta dei subalterni e dei lavoratori. A.M.Cirese ricompatta l’unità di una tradizione di studi il cui nome è demologia. I vecchi studi di folklore come spirito della nazione o come sopravvivenza non sono da buttare:possono essere reintegrati in una moderna scienza della cultura popolare, a patto di rileggerli sullo sfondo della contrapposizione EGEMONIA-SUBALTERNITA’. Cultura egemonica e cultura subalterne è la più nota opera di Cirese,nella quale troviamo al centro una definizione relazionale del folklore. Un tratto culturale non è mai di per sé alto o basso,egemonico o subalterno:la sua natura dipenderà dal concreto e determinato contesto storico-sociale in cui si colloca. La tematica gramsciana si radica nell’antropologia italiana, e ne rappresenta l’elemento unificante e propulsivo. Ne nasce un filone di ricerche su aspetti della cultura popolare che si avvicinano a forme di inchiesta e denuncia sociale. Una ricerca affascinante poiché le culture subalterne per definizione non sono conservate nella documentazione ufficiale:occorre intuirne la presenza attraverso tracce e indizi che esse lasciano indirettamente nel discorso egemonico. 4.FOLK REVIVAL Con quel vasto movimento di democratizzazione della cultura,che esplode nella società italiana ed europea negli anni ’60,ci troviamo di fronte ad una nuova valorizzazione politica del folklore,anche se è di segno completamente inverso rispetto a quello del fascismo. Tra i ’50 e i ’70,questo apprezzamento per il valore progressivo o alternativo del folklore si salda ad un FOLK REVIVAL di tipo più estetico e persino commerciale,che riguarda fasce sempre più ampie di popolazione. Il “folk” da oggetto di interessi specialistici diviene un apprezzato genere del consumo di massa. Ma,nel secondo dopoguerra,in Europa e in Italia in modo particolare,si verifica una fase di “grande trasformazione” che in pochi anni spazzò via il centro del folklore ossia il mondo contadino. L’industrializzazione e i flussi portarono allo spopolamento delle campagne. L’universo culturale contadino si disgrega;nelle regioni del Mezzogiorno questi processi di modernizzazione hanno luogo in modo forse più limitato. Nel ventennio 50-70 vengono meno proprio quelle condizioni che nella visione di Gramsci e Cirese garantivano la separazione della cultura subalterna da quella egemonica: l’isolamento territoriale,la perifericità,l’impossibilità di accedere all’istruzione,ecc. la modernizzazione non cancella certo le differenze di classe: ma non c è più una lineare corrispondenza fra differenza di classe e differenze culturali. Se le generazioni dell’inurbamento hanno cercato di disfarsi della memoria contadina,vista quasi come un retaggio di arretratezza, le nuove generazioni ne hanno fatto oggetto di nostalgia,di revival,di patrimonializzazione. Il disgusto per la cultura di massa attraversa in quegli anni il campo intellettuale a tutti i livelli. La sociologia critica della Scuola di Francoforte considera l’industria culturale come agente di un nuovo totalitarismo che distrugge l’autonomia individuale; e in Italia Pier Paolo Pasolini denuncia i suoi effetti omologanti e alienanti. Negli Scritti Corsari, Pasolini vede nel consumismo di massa la principale causa di una “rivoluzione antropologica” che ha cambiato gli italiani. La scomparsa delle lucciole è l’immagine poetica con cui rappresenta l’allontanamento dall’autenticità della vita e della cultura contadina. Le masse popolari si “imborghesiscono” cadendo così in una forma tanto più totalizzante di oppressione e falsa coscienza. È questa diffusa coscienza che spinge a salvare il passato contadino. Gli Enti Locali sviluppano progetti focalizzati sulla memoria,le tradizioni,le radici del passato. Prendono vita archivi di memoria basati sulle fonti orali e musei del lavoro agricolo e della vita contadina. Tutto ciò accade sulla base dell’alleanza e della convergenza tra gli obiettivi di tre diversi agenti culturali: gli studiosi, i portatori della tradizione e le amministrazioni locali. 5.IL PARADIGMA PATRIMONIALE Dagli anni ’90 si afferma una nuova cornice o paradigma,incentrata attorno alla nozione di memoria e soprattutto a quella di patrimonio. È proprio un’istituzione internazionale,l’UNESCO (Organizzazione per le Nazioni Unite per l’Educazione,la Scienza e la Cultura), che ne diventa interprete e detta il nuovo linguaggio e i nuovi obiettivi della valorizzazione delle culture locali e tradizionali. Come abbiamo già visto l’UNESCO è promotore del pensiero antirazzista ed è contro la discussione di Levi-Strauss sull’etnocentrismo e il relativismo. Ma l’attività principale di quest’istituzione ha riguardato la costruzione di un quadro di riferimenti normativi per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale dell’umanità. Una convenzione del 1972 ha creato la lista dei beni culturali e naturali riconosciuti appunto come “patrimonio dell’umanità”, di carattere storico-artistico e monumentale. A questa lista se ne sono aggiunte altre, come quella delle memorie del mondo,ossia gli archivi e i documentari, e quella del “patrimonio immateriale”,relativa alla cultura nel sesno etnografico del termine. • 1989 : “Raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore”; • 1993: “Tesori Umani Viventi”,programma volto a favorire la trasmissione di saperi tradizionali; • 1999: “Capolavori del patrimonio orale e intangibile dell’umanità” altro programma. In questi documenti si associa l’idea di patrimonio a quella di “tesori” e “capolavori”, nell’individuazione di eccellenze che emergono rispetto ad uno sfondo che non merita di essere salvaguardato. La cultura è per certi aspetti l’opposto dei monumenti o dei capolavori. Tale difficoltà caratterizza anche atti successivi dell’ UNESCO come la “Dichiarazione sulla diversità culturale” e la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile”. Quest’ultimo documento contribuisce alla definitiva affermazione della nozione di “intangibile” (o “immateriale”) per definire quanto un tempo si chiamava folklore o cultura popolare. In questa nozione di “Patrimonio Intangibile” sono ricompresi i seguenti ambiti culturali: a)tradizioni ed espressioni orali,incluso il linguaggio,intesi come veicolo del patrimonio culturale intangibile; b)arti dello spettacolo; c)pratiche sociali,riti e feste; d)conoscenze e pratiche riguardanti la natura e l’universo; e)artigianato tradizionale. Questo documento rappresenta oggi lo standard di riferimento per il ministero dei Beni culturali,per le politiche delle Regioni,degli Enti Locali e delle associazioni culturali. I documenti UNESCO parlano di differenze in riferimento a proprietà visibili e spettacolari di una comunità indifferenziata e le procedure di riconoscimento richiedono l’assenza di conflitto,un totale consenso comunitario verso i tratti culturali da “salvare”. 6.CULTURA POPOLARE E CULTURA DI MASSA Cambia anche il ruolo degli antropologi:devono rapportarsi anch’essi alle emergenze patrimoniali. Lo fanno da un lato proponendosi come tecnici del patrimonio etnografico materiale o immateriale:cercano di portare un minimo di rigore filologico; dall’altro si dedicano piuttosto ad analizzare i processi di patrimonializzazione stessi,facendone emergere le connotazioni politiche e ideologiche. Quindi si distingue uno sguardo interno alle pratiche del patrimonio,che cerca di guidarle in dialogo con altri soggetti sociali,e uno sguardo che le studia invece criticamente dall’esterno. È stato recentemente ripensato il concetto di “tradizione”,che deve essere intesa come un processo di attiva costruzione di un passato significativo in relazione a esigenze del presente. Ossia sono le dinamiche e gli interessi del presente a decidere quali aspetti del passato occorre ricordare e quali si possano invece dimenticare. Ancora però, persiste il problema di Gramsci e Cirese, ovvero l’esistenze dei dislivelli interni nella cultura contemporanea e la correlazione tra da ogni lavoro che abbia a che fare con i bisogni quotidiani. Con il capitalismo e il prevalere della borghesia,che basa il proprio potere sulle attività produttive,questo sistema si digrega. In una società mobile in cui le distinzioni fra classi si fanno meno rigide,ciò innesca meccanismi di emulazione: le classi inferiori cercano a loro volta di accedere ai beni di prestigio,spingendo le classi agiate a spostare i loro investimenti vistosi per differenziarsi dai “nuovi arrivati”. La logica emulativa così caratterizzerà l’intero campo del consumo di massa. In questo libro il consumo appare come un grande campo di definizione delle relazioni sociali :campo dominato da regole morali più che economiche. Spesso la sociologia e l’antropologia hanno contrapposto il consumismo moderno a istituzioni tradizionali come il “dono”, volte a costruire e saldare legami sociali. Si può pensare che il consumo è in qualche misura vistoso e percorso da rapporti di emulazione: bisogna tenere in conto il “buon gusto” , le capacità da intenditore e simili competenze culturali sono insite nei soggetti. Su questo punto s’innesta la riflessione di Bourdieu che ne “La Distinzione” introduce il concetto di “HABITUS”, proprio per dar conto della relazione tra la dimensione oggettiva dell’appartenenza sociale e quella soggettiva del gusto. L’ habitus consiste in una serie di competenze, disposizioni,atteggiamenti che il soggetto incorpora come risultato del processo di inculturazione – cioè nascere,crescere e venire educato in un certo ambiente sociale e culturale. Fanno parte dell’habitus le tecniche del corpo, come vestirsi e gesticolare,, le forme del parlare e del comunicare e le abitudini linguistiche, tutto ciò che attiene al buon gusto,alle competenze da “intenditori”. Al concetto di habitus si accompagna una cartografia delle differenze sociali basata sul possesso di due forme di capitale:economico e culturale. La combinazione di queste due forme dà luogo a 4 grandi tipologie: 1. Ceti ad alto capitale economico ed alto capitale culturale, ad esempio la grande borghesia – classe agiata; 2. Ceti ad alto capitale economico ma basso capitale culturale, ad esempio gli imprenditori che tradiscono nell’habitus un’origine bassa,hanno cioè il problema di convertire il nuovo capitale economico in capitale culturale; 3. Ceti a basso capitale economico e a basso capitale culturale, come i contadini e gli operai; 4. Ceti a basso capitale economico e alto capitale culturale,come gli insegnanti e certi tipi di intellettuali. In queste posizioni i soggetti si muovono non solo in modi che rispecchiano la loro collocazione ma perseguendo STRATEGIE DI DISTINZIONE, che sono per Bordieu più demercanti che emulative: cioè rivolte più verso il basso che verso l’alto. C è un principio di vicinanza/lontananza strutturale che guida le contrapposizioni estetiche:” le scelte estetiche esplicite si costruiscono spesso per contrapposizione alle scelte dei gruppi più vicini nello spazio sociale”. Bordieu sempre in questa sua opera discute i materiali di una ricerca sui consumi culturali nella Francia degli anni ’60; l’aspetto più suggestivo sono i SOCIOGRAMMI, ossia cartografie in cui i più diversi oggetti del consumo trovano un loro posto nello spazio cartesiano definito dai due tipi di capitale: economico e culturale. 4. L’APPROCCIO ETNOGRAFICO La linea teorica di ricerca di cui M.Douglas,grande studiosa inglese, e D.Miller,altro studioso britannico, sono rappresentativi si concentra soprattutto sul consumo di beni materiali;tuttavia molte delle loro acquisizioni si potrebbero estendere anche al campo dei “consumi intangibili”, come i generi espressivi dell’industria culturale. Vediamo in breve le loro acquisizioni: • Per quanto prodotti in modo seriale e distribuiti attraverso il mercato,i beni di consumo rappresentano un ricco sistema semantico o “cosmologico”,strutturato attorno alle principali categorie culturali delle società contemporanee; • I comportamenti di consumo, lontano dal risultare “alienati”, utilitari e individualisti,rappresentano un campo morale e hanno natura in ultima analisi rituale:sono pratiche che costituiscono i legami sociali, sia quelli primari (ad esempio fare la spesa per la famiglia,scegliendo i prodotti e pianificando i consumi in base ai gusti,alle necessità,al benessere dei proprio familiare “consumo” lontano dall’individualismo utilitarista), sia quelli gerarchici e di classe; • I consumatori utilizzano in modo attivo e spesso creativo i beni,e non sono solo le vittime passive delle strategie di marketing. L’atto del consumo consiste nel sottrarre al mercato determinate merci per portarle in un ambito di valore e di significato personalizzato, mentre la letteratura apocalittica pensa che oggetti tutti uguali facciano diventare uguali anche le persone che li consumano; • Di conseguenza, l’attenzione del ricercatore passa dall’analisi semiotica dell’oggetto alla descrizione delle modalità di fruizione e consumo da parte di specifici e concreti soggetti sociali; • Una tale descrizione deve avere carattere etnografico,cogliere cioè le pratiche della quotidianità attraverso il rapporto diretto con gli attori sociali,cioè i consumatori stessi, e con il loro punto di vista. 5. I CULTURAL STUDIES L’antropologia trova forti punti di convergenza con quel filone di ricerche multidisciplinare detto “Cultural Studies”, affermatosi negli ultimi decenni nell’accademia anglosassone per indicare l’attenzione per le produzioni culturali attraverso un approccio che tratta in modo simmetrico l’alto e il basso,il colto e il popolare. Hanno origine negli anni ’60. Si tratta di uno sviluppo e una reazione al punto di vista espresso dalla teoria critica della Scuola di Francoforte. L’ideologia è il concetto fondamentale che spiega il rapporto tra la dimensione “reale” del dominio e i fenomeni culturali,educativi e comunicativi e in più essa rispecchia,maschera e sostiene i dominanti rapporti di forza. Combinate con l’approccio semiotico queste teorie portavano ad una lettura dei testi della cultura di massa andando a caccia di implicite configurazioni ideologiche. Nel momento della fruizione si apre una differenza che si articola sull’asse EGEMONIA- SUBALTERNITA’:i gruppi subalterni accedono alla cultura all’interno di condizioni dettate da classi dominanti. La nozione di subalternità che Hall e i Cultural Studies impiegano, sviluppa quella di Gramsci ma se ne differenzia per alcuni aspetti. Ciò che definisce l’egemonico e il subalterno è la posizione dei soggetti rispetto non solo al modo di produzione, ma anche ad altri tipi di differenze e disuguaglianze:quelle di genere, quelle di generazione, quelle etniche. L’oppressione maschile sulla donna e quella coloniale e post- coloniale costituiscono in modo autonomo rapporti di subalternità. Questo vale anche per i giovani,nelle moderne società occidentali, che si trovano al centro di strategie di mercato e consumo ma non hanno potere economico e politico: una subalternità che conduce alla costituzione di movimenti sub culturali, uno dei fenomeni che suscitano più attenzione nei Cultural Studies. Hall tenta di ridefinire il rapporto egemonico- subalterno nei termini di una contrapposizione tra la GENTE e il BLOCCO DI POTERE: intendendo con ciò che si tratta di configurazioni mobili e variabili piuttosto che ceti definiti una volta per tutte. Maggiori sono le convergenze con un altro teorico francese M. De Certeau, che in alcuni suoi lavori sulla vita quotidiana ha suggerito di indagare il rapporto egemonico-subalterno nel campo del consumo in termini di azione “tattica”. La TATTICA,come nel significato militare e politico del termine, si contrappone alla STRATEGIA. La strategia è un corso d’azione programmato, volto a raggiungere obiettivi prefissati in modo chiaro,sostenuto sulla base di risorse messe a disposizione; la tattica consiste invece in corsi di azione frammentari,che tentano di adattarsi a situazioni del momento sulla base delle risorse volta per volta disponibili. De Certeau pensa al consumo come una serie di mosse tattiche volte a rendere “abitabili” beni (materiali o immateriali) prodotti sul piano strategico. È facile associare la strategia alla cultura egemonica e la tattica a quella subalterna. Hoggart fonda nel 1964 il Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS),il quale dedica particolare attenzione a due campi, la fruizione dei programmi televisivi e le subculture giovanili. La televisione appare fin dall’inizio banco di prova della teoria della decodifica asimmetrica. Ne emerge un pubblico capace di integrare le risorse della comunicazione televisiva in una propria sfera culturale che resta autonoma e creativa,legata all’esperienza quotidiana e all’appartenenza sociale. Lo stesso vale per le subculture, stili basati su scelte di consumo:modi di vestire e di presentare il corpo,passione per un genere musicale,ecc. Dagli esistenzialisti alla beat generation,agli hippy e ai punk,generi diversi ma contrassegnati da caratteristiche etniche o sociali,con vari gradi di trasgressività diversa. Le pratiche sub culturali sono dipendenti dal mercato e dall’industria culturale,che esse usano in modi creativi i quali si configurano come “rituali di resistenza”. Questa espressione dà il titolo ad un celebre libro scritto dal CCCS che ha segnato uno spartiacque tra una sociologia che si occupava di gruppi giovanili e delle loro pratiche trasgressive in termini di devianza e criminalità, e uno studio centrato sul concetto di popular, interessato al consumo di moda e musica e ai riti di identificazione collettiva . CAPITOLO 9 : “CORPO,SALUTE,MALATTIA” 1.LA PROSPETTIVA BIOMEDICA Il senso comune ci abitua a pensare a noi stessi come composti di un corpo,di una mente e di una rete di rapporti sociali. Il corpo è qualcosa di materiale,un oggetto del mondo naturale che ci appartiene: in quanto entità fisica è descritto dalle scienze naturali e la sua cura è compito di una medicina. La mente la concepiamo come un’entità immateriale racchiusa nel corpo,nella quale risiede la nostra essenza più intima individuale. La mente pur essendo nostra, potremmo non conoscerla in parte, essa è descritta dalla scienza psicologica. Nella sfera dei rapporti sociali, persone già costituite si rapportano tra di loro: questo è l’ambito descritto e studiato dalla politica e dalla sociologia. La “cultura” è il tessuto connettivo tra queste sfere della vita umana, ovvero non è possibile comprendere il corpo e la mente senza tirare in ballo aspetti sociali. Questo è il nucleo concettuale dell’ANTROPOLOGIA MEDICA. Byron Good articola tre livelli essenziali di una malattia: • L’esperienza di dolore del paziente,ossia la persona che soffre; • I suoi tentativi di comunicare e descrivere questa esperienza interiore; • La condizione biologica del corpo. La medicina moderna affida priorità all’ultimo punto,che viene descritto attraverso i saperi delle scienze naturali. I “segni” e i “sintomi” sono indicazioni vaghe e imperfette di una realtà biologica profonda e non visibile. I pazienti esprimono i loro sintomi in un linguaggio culturale: il compito del medico è quello di decodificarli nei termini della sua realtà. La diagnosi consiste proprio in questo: interpretare l’esperienza disturbata,comunicata dai pazienti in linguaggi culturali, e riportandola a disturbi fisiologici. Segni e sintomi erano interpretati come indicatori di un livello più profondo “la concezione rinascimentale del corpo come un microcosmo che rispecchia ed entra in sintonia con il macrocosmo,in un sistema di rapporti armonici tra elementi e forze,in cui l’equilibrio rappresenta la salute e la dissonanza,la malattia.” La medicina moderna ci apre ad una nuova visibilità:adesso il corpo appare come “una cosa in un mondo di cose”. Il corpo e la sua interiorità si aprono ad una concezione materialistica e abbandonano i sistemi simbolici e le connotazioni etiche ed estetiche alle quali erano legati. M.Focault si eprime : “la malattia si stacca dalla metafisica del male a cui apparteneva”. Il determinismo biologico sostenuto dal sapere medico e dalla istituzioni sanitarie dello Stato,diviene egemone: questo rende molto più difficile accettare che corpo,salute e malattia possano rappresentare campi culturali. 2. CONOSCENZE E CREDENZE L’antropologia prende in considerazione le concezioni premoderne del corpo e della medicina solo come forme di ignoranza o almeno di conoscenza imperfetta. Le pratiche di diagnosi e guarigione riscontrate nelle culture primitive sono trattate in due modi: -da un lato vi sono quelle basate sull’uso di erbe,rimedi naturali,manipolazioni corporee, una sorta di adesione ai principi biomedici pur in assenza di una loro esplicita formulazione; -dall’altro vi sono le medicine basate su visioni magiche e religiose e sull’impiego del rituale:queste sono false e illusorie,e capirle significa ricostruire il percorso di questa illusione. L’antropologia positivista poggia sulla distinzione tra CONOSCENZE e CREDENZE. La “conoscenza”,come quella biomedica, esiste perché è vera,verità che si è rivelata dopo la liberazione dalla superstizione. Le “credenze” non sono invece corrispondenti alla realtà:occorre allora spiegare come possono continuare a esistere malgrado la loro illusorietà. In assenza di conoscenza scientifica il pensiero primitivo si rifugerebbe in tentativi pseudo-razionali di spiegare e risolvere il male oppure in rituali che servono in realtà obiettivi di carattere sociale. In Italia per quanto riguarda gli studi sulle tradizioni mediche popolari,sotto il nome di “DEMOIATRIA”, nascono studi di carattere compilativo che raccolgono i rimedi delle tradizioni contadine. Quella che oggi chiamiamo “antropologia medica” nasce con la volontà di trattare in modo simmetrico la nostra e le altre medicine:non si tratta di assumerne una come vera e spiegare le altre in termini di illusione, bensì di capire sia la nostra che le altre come modi complessi di affrontare il problema del male nelle società umane. L’antropologia medica si trova davanti al compito di studiare come le culture formulano la realtà in modi peculiari e come la conoscenza e i significati linguistici sono organizzati in rapporto a queste forme peculiari di realtà. L’antropologia non si contrappone alla biomedicina né intende negare i successi che essa ha ottenuto,ma solo proporre una visione alternativa di corpo,salute,guarigione e malattia. Ad esempio lo storico K.Thomas racconta le condizioni in Inghilterra negli anni ’50 – ’60: un’aspettativa di vita di meno di 30 anni attacchi di epidemie che decimavano la popolazione di cui non si comprendevano ancora le cause e le trasmissioni. Di fronte a questo i medici erano incapaci di diagnosticare e curare gran parte delle affezioni. Vi era una totale impotenza di una medicina che finiva per proporre rimedi che peggiorano solamente i fattori di rischio,senza alcuna risoluzione. 3.ATTEGGIAMENTO NATURALE E ANTROPOLOGIA DEL CORPO All’antropologia medica interessa affermare che il progresso non può essere letto in termini di passaggio dall’ignoranza alla coscienza o dall’illusione alla verità,ma come transizione tra complessive cornici di senso che articolano in modo diverso il RAPPORTO TRA CORPO,ESPERIENZA E LINGUAGGIO. Il compito hanno coniato l’espressione di corspo pensante o consapevole e alla teoria di M.Douglas dei due corpi sostituiscono una teoria basata sulla competenza di tre dimensioni del corpo: SOCIALE,POLITICO e PERSONALE. Il corpo sociale è quello di cui parla l’antropologia simbolica,che appare come un peso morto, inerte e passivo, attaccato ad una mente vivace,attenta e nomade, che rappresenta il vero agente della cultura. Il corpo politico è quello plasmato dalle relazioni di potere: qui il potere non si esercita più attraverso una violenza imposta dall’esterno,bensì attraverso una plasmazione e una presa in carico dall’interno dei corpi e delle personalità sociali. Il corpo personale, non è solo vittima del controllo politico,ma soggetto attivo di strategia di autoaffermazione,difesa e resistenza. Un corpo agente che non si limita a subire le società e il potere ma cerca di trasformarli. Si apre qui il campo che possiamo chiamare “un’economia politica della sofferenza” dove la malattia non è considerata come un evento “naturale” ma è posta in relazione a condizioni di sfruttamento economico,forme di depressione, ecc. S.Hughes (autrice) interpreta la sindrome “dei nervi” : “il corpo nervoso-arrabbiato del bracciante si offre come metafora e metonimia di un sistema sociopolitico nervoso, e della posizione paralizzata del lavoratore rurale nell’attuale disordine economico e politico”. L’antropologia critica ha avuto il merito di richiamare a un collegamento tra due dimensioni cruciali nella comprensione antropologica: l’etnografia di microcontesti delle sottili reti di significati locali da una parte e dall’altra le analisi delle macrocondizioni che determinano le condizioni di salute e malattia di individui e collettività.l’importanza si è manifestata nello studio delle epidemia quali l’AIDS in Africa. Qui gli antropologia hanno smontato la naturalità della malattia non solo relativizzandola in termini culturali ma soprattutto mostrando i grandi meccanismi socio-economici che la producono la gestiscono e la definiscono. 7.PLURALISMO MEDICO E MEDICINE NON CONVENZIONALI Con la nozione di “PLURALISMO MEDICO” ci si riferisce alla compresenza,istituzionalizzata o di fatto,di biomedicina e medicine tradizionali nei sistemi di diagnosi e cura. La medicina scientificamente fondata avrebbe voluto far scomparire l’inefficacia delle pratiche popolari della tradizione,ma così non è stato e le medicine tradizionali hanno spesso mantenuto un ruolo importante come risorse diagnostiche e terapeutiche affiancate a quelle scientifiche e ufficiali. Le medicine “popolari” sono facilmente accessibili,più vicine all’esistenza quotidiana delle persone e alla cultura locale e continuano spesso a dimostrarsi insostituibile in riferimento a certi disturbi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cercato di considerare le medicine e i guaritori tradizionali come un patrimonio da preservare più che come un ostacolo di cui liberarsi. Negli ultimi decenni del ‘900 ha avuto grande impulso il fenomeno delle “MEDICINE NON CONVENZIONALI” (MCN) : saperi e pratiche diagnostiche e terapeutiche che si differenziano in modo netto dalla biomedicina, proponendo stili di cura radicalmente alternativi ( omeopatia,agopuntura,iridologia,fiori di Bach,ecc); uno stile olistico che dichiara di prendere in considerazione l’essere umano come indivisibile unità di corpo, mente e spirito; una concezione “energetica” piuttosto che meccanicistica o biochimica del corpo. Gli utenti tra i più frequenti sono i giovani. Le MCN sono interessanti per l’antropologia perché delineano un sistema di pluralismo medico di fatto e segnalano importanti mutamenti nelle concezioni contemporanee del corpo. Il principale di questi mutamenti è la rivendicazione della libertà di scelta terapeutica. Nel quadro biomedico classico il paziente si rimette all’autorità dello specialista,annullando la propria soggettività nel processo terapeutico: ciò che invece emerge in questi decenni è la volontà di diretta presa in carico dei problemi del corpo da parte degli attori sociali. Dopo secoli di separazione sembra che le due prospettive –la salute e la salvezza- tornino ad accostarsi. Uno dei punti fermi delle MCN riguarda il fatto che non ci si ammala per caso: la malattia come la cura, è sempre una questione di responsabilità individuale. La malattia non sarebbe altro che un segnale cifrato inviato dal corpo per segnalare un modo di vita squilibrato; la cura a sua volta è la riconquista di uno stato di armonia ed equilibrio. Capitolo 10: Tempo, memoria, storia In antropologia la memoria svolge la funzione fondamentale di “componente costitutiva delle sue fonti più importanti”. Infatti tutti i fenomeni sociali su cui l’antropologia punta l’attenzione quali riti,cerimonie,simboli, luoghi pubblici ecc. sono considerati forme di memoria collettiva. Questo capitolo parte con delle definizioni psicologiche della memoria, passando poi a considerala come un fenomeno collettivo e sociale. La memoria si articola in dimensioni ufficiali e vernacolari ed è spesso motivo di conflitti e divisioni. Sia l’antropologia che la storia sono prevalentemente interessate alla memoria a lungo termine. Invece per memoria a breve termine si intende la capacità di richiamare informazioni appena assunte nel giro di pochi secondi. Quest’ultima viene a sua volta distinta dalla memoria a brevissimo termine o memoria sensoriale consistente nella capacità immediata di gestione degli stimoli esterni, i quali divengono memoria a breve termine solo quando sono stati selezionati dall’attenzione. Memoria sensoriale e memoria a breve temine sono ricomprese nella memoria di lavoro costituita da una “centrale esecutiva” con funzioni di direzione dell’attenzione e da due “servosistemi” dove in uno sono trattate le informazioni linguistiche e nell’altro c’è l’immagazzinamento e trattamento dell’informazione sensoriale e visuale. Per memoria a lungo termine si intende la capacità di richiamare informazioni per un tempo superiore a pochi secondi che caratterizzano la memoria del lavoro. Essa è divisa in tre sistemi: • La memoria procedurale ovvero la capacità o le competenze incorporate che operano quasi sempre in modo implicito e che spesso non sono facilmente verbalizzabili; • La memoria semantica ovvero il nostro sapere generale sul mondo, contiene sia un’enciclopedia cioè un repertorio di conoscenze, sia i segni e le regole che permettono l’uso e la comprensione del linguaggio. • La memoria episodica ovvero quella che registra eventi o episodi, collocabili con relativa precisione in termini di spazio-temporali, di cui il soggetto ha avuto esperienza. Per questo nesso con l’esperienza diretta viene anche chiamata memoria personale o autobiografica. Memoria semantica ed episodica sono definite insieme come memoria dichiarativa in quanto mirano a rappresentare il mondo o il passato. La prima aspira alla verità e di solito è formulabile verbalmente, la seconda aspira all’efficacia ed è di solito incorporata in tecniche del corpo di cui non si ha una consapevolezza linguistica. È molto importante anche il concetto di memoria involontaria introdotto da Marcel Proust e consiste in uno stimolo sensoriale (gustativo,olfattivo ecc.) che improvvisamente apre un intero scenario di ricordi che sembravano perduti, con una componente affettiva e l’immediata associazione ad immagini e luoghi. Inoltre, la psicoanalisi non ha studiato solamente le modalità cognitive di acquisizione della memoria ma anche le dinamiche psichiche che consentono o impediscono l’accesso alla memoria, oppure che consentono un accesso in forme oblique e distorte, oppure ancora che producono “fantasie” cioè ricordi di episodi non realmente accaduti. (Tema psicoanalitico del RIMOSSO) Nella psicologia novecentesca, Bartlett diede una definizione della memoria come uno “sforzo verso il significato” ovvero Non come la capacità di immagazzinare dati passati, ma come un processo di ricostruzione che, partendo dagli interessi e dalle conoscenze presenti nel soggetto, tenta di ricostruire a posteriori il significato del ricordo. Questa definizione di Barlett fu poco seguita nel 900 quando gli studi psicologici erano dominati dal comportamentismo, ma ispirò successivamente altre ricerche. Soffermiamoci ora sui fenomeni della falsa memoria e della distorsione dei ricordi, che hanno importanti implicazioni per la storia e per l’antropologia. Si tratta di aspetti della memoria che non riguardano solamente la perdita o l’incompletezza delle informazioni. Barlett ha introdotto il concetto di schema per indicare le strutture sulle quali i ricordi si innestano e si plasmano; la ricerca cognitiva più recente invece preferisce parlare di copioni per sottolineare la natura narrativa di queste strutture in quanto consistono in sequenze di eventi intorno ai quali si organizzano le informazioni. Schemi e copioni svolgono una funzione di filtro rispetto alla possibilità di integrare esperienze o contenuti della memoria a breve termine in quella a lungo termine. Ma soprattutto, essi sono in grado di plasmare i ricordi in configurazioni coerenti. Distorsione dei ricordi: Ci sono diverse teorie. Una di questa sostiene che il ricordo reale (ad esempio un evento traumatico) continua ad esistere e ad essere intatto, nella profondità della psiche, schermato da elaborazioni secondarie che lo rendono invisibile e irriconoscibile. Secondo la prospettiva cognitivista invece non si può parlare di ricordo reale celato dal ricordo falso in quanto il lavoro di plasmazione degli schemi non esiste al di là del normale funzionamento della memoria: è parte di esso. Neisser in particolar modo ha introdotto il concetto di memoria “Repisodica” per indicare la tendenza a ricordare più eventi analoghi come se si trattasse di un unico episodio: una strategia che produce un ricordo in sé falso, il quale conserva lo stesso un fondamentale elemento di verità. Dovremmo chiamare questi ricordi non tanto falsità quanto “finzioni” ovvero qualcosa di modellato, di costruito attraverso strategie rappresentative, che non si possono definire facilmente come vere o false. È bene dire però che queste finzioni influenzano a fondo la verità e la testimonianza in rapporto al sapere storico ed etnografico. La consapevolezza del carattere “costruito” delle memorie, in particolare di quelle autobiografiche, ci impedisce di vedere le testimonianze in un ottica realista. Inoltre bisogna sottolineare che, la concezione della memoria di Bartlett come “attiva interpretazione del passato sulla base di schemi psicologici connessi alla vita concreta del presente” (sforzo verso il significato), apre la strada verso gli aspetti SOCIALI del ricordare. L’atto psichico del ricordare infatti non può essere inteso separandolo dal contesto del mondo vitale e delle pratiche comunicative ovvero dal contesto sociale e culturale. È questo il punto di incontro tra gli studi psicologici della memoria e gli studi storico-sociali. Su questo punto di incontro è importante citare il contributo di un altro importante studioso: Maurice Halbwachs, seguace di Durkheim. L’idea centrale del suo lavoro è l’applicazione del campo della memoria al concerto di “rappresentazione collettiva” di Durkheim intesa come una categoria di pensiero che precede l’elaborazione individuale e che è radicata nelle istituzioni e nelle pratiche sociali. Proprio per questo motivo, secondo H. l’atto individuale del ricordare è possibile solo sulla base di “quadri sociali” che sono logicamente antecedenti a qualsiasi singolo ricordo. Tali quadri producono i ricordi. I quadri sociali non sono semplici strutture cognitive ma hanno invece un forte contenuto di senso, una sostanzialità che corrisponde a quella del gruppo sociale cui si riferiscono. Infatti secondo H. “Ricordare per un individuo corrisponde a rendere attuale la memoria di un gruppo sociale cui egli appartiene o è appartenuto in passato”. Quindi la memoria di gruppo è molto più reale di quella individuale. Quindi H., diversamente dalla linea cognitivista, è interessato alle funzioni sociali della memoria: • La memoria è un aspetto delle pratiche sociali e non un loro prerequisito • La memoria esprime solidarietà fra l’individuo e il gruppo sociale cui egli appartiene • Il ricordare è una pratica performativa e non puramente rappresentativa, la cui logica si intreccia con quella delle altre pratiche sociali • La memoria interna, ovvero i meccanismi psichici del ricordare, non possono essere studiati separatamente dalla memoria esterna, ovvero i meccanismi attraverso cui la società incorpora la memoria del passato in oggetti, luoghi,pratiche ecc. La costruzione linguistica del ricordo: Attraverso l’analisi del discorso, la pratica quotidiana di interazione fra le persone si può considerare come l’unica realtà sociologica che si può descrivere in modo oggettivo. I costrutti e le astrazioni teoriche di cui ci serviamo normalmente nella vita quotidiana, infatti, sono il prodotto di quelle interazioni. Mentre per Bartlett, la memoria è un modo di concepire il passato a seconda degli schemi culturali che si possiedono, secondo l’analisi del discorso non sono presenti questi processi mentali ma la memoria viene fuori da pratiche comunicative di tutti i giorni. A prescindere dall’esistenza dei ricordi che provengono lo stesso dalle pratiche discorsive: Quindi sono il prodotto del nostro parlare al passato. L’analisi del discorso intesa come LINGUAGGIO è uno strumento di gestione, di creazione e di mantenimento delle relazioni sociali, prima ancora di essere una forma di rappresentazione del mondo. Il significato delle parole consiste nel loro uso. Ciò può essere strano dal momento che siamo abituati ad usare il linguaggio proprio per rappresentare le cose; ma questo accade solo dove sono presenti relazioni sociali già costituite dai modi di parlare e dove queste parole sono già usate (“Viviamo all’interno di mondi costituiti dalle nostre ordinarie pratiche linguistiche e relazionali”). Quanto più è profonda questa costituzione, tanto più difficilmente riusciamo ad uscirne e a coglierla come oggetto di descrizione sociologica. Il costruzionismo sociale richiede quindi uno sforzo di estraniamento. L’analisi del discorso non consiste nella scarsa attenzione al livello soggettivo del ricordare, ma ad un’integrazione del livello individuale e di quello sociale. Sul piano epistemologico, vediamo che il costruzionismo radicale si scontra con il problema della verità. Infatti, se ogni resoconto del passato è una costruzione plasmata rispetto alle esigenze del presente e guidata da criteri non di esattezza rappresentativa ma di efficacia pragmatica; dov’è la verità fattuale e oggettiva del ricordo? Per questo motivo bisogna mantenere separato il piano della verità oggettiva da quello dell’utilità o funzionalità di certi eventi o dal consenso comune su di essa. È proprio su questa separazione che si basa la storia in quanto conoscenza scientificamente fondata sul passato. Questo problema emerge soprattutto in quella particolare forma di memoria che è la testimonianza. Infatti, come si può testimoniare le violenze e le ingiustizie oppure denunciare il male, se il nostro racconto del passato non è altro che una costruzione retorica? L’analisi del discorso ci mostra come sia la rappresentazione che la pragmatica sono mischiate all’interno del discorso quotidiano e come l’appello alla “verità oggettiva” sia proprio una delle strategie retoriche principali impiegate per far prevalere una versione sull’altra. Un esempio è il lavoro di Middleton ed Edwards dedicato all’analisi linguistica e relazionale della pratica domestica del guardare gli album fotografici di famiglia. Siamo abituati a pensare a quest’attività come un’attività che fa riemergere ricordi già presenti in maniera stabile nella memoria individuale dei membri della famiglia, con le foto che svolgono la funzione di “richiami” o “esche” di questi ricordi immagazzinati. divisa. Essi sono chiamati a testimoniare la semplice e assoluta verità, la verità oggettiva e molto spesso si trovano a competere con altre figure portatrici di memoria: La figura del testimone. La prospettiva soggettiva e autobiografica del testimone, infatti, può rappresentare una fonte per lo storico, il quale tuttavia deve trascenderla per considerare i fatti da un punto di vista generale. La sofferenza che emerge dai racconti della Shoah oppure dai testimoni del processo di Eichmann, può essere considerata come autentica e vera narrazione del passato; ma anche come un muro di fronte al quale il metodo storiografico si infrange. Un ulteriore dilemma che storici e antropologi devono affrontare è quello del tema dell’identità in quanto memoria ed identità sono strettamente legate. Infatti come è evidente, quella che un gruppo sociale percepisce come propria identità, si concretizza nelle produzioni (discorsive,monumentali, rituali) della sua memoria collettiva. Ma bisogna dire che l’identità, in quanto proprietà sostantiva dei gruppi sociali, si è fatta strumento di politiche di esclusione ed inclusione e quindi bisogna essere consapevoli dei suoi ambigui usi politici. Capitolo 11: Il dono fra economia e antropologia Ci sono due principi basilari che spingono gli esseri umani a scambiarsi i beni. Il primo è un principio utilitarista ovvero lo scambio o meglio il comportamento economico sono motivati dalla ricerca del maggior utile possibile per sé o per il proprio gruppo sociale. Il secondo principio è che le forme dello scambio possono essere descritte attraverso modelli di validità universale come ad esempio la legge del rapporto domanda/offerta. Gli antropologi hanno difficoltà a tener fermi questi due principi poiché mettono in discussione l’esistenza di una dimensione economica autonoma e separata dalle altre sfere della vita sociale e l’esistenza di un soggetto come “agente economico” puro. Esiste un concetto che va contro la razionalità economica, stiamo parlando del concetto di DONO. Marcel Mauss ha scritto il “Saggio sul Dono” dove il tema principale sono le varie forme di scambio di beni di prestigio che lui chiama prestazioni sociali totali e che rintraccia nelle società arcaiche. Queste sono: • Delle forme di scambio non legate alla logica del mercato o del baratto • La transazione è una pratica pubblica che avviene tramite riti e cerimonie • Non ci sono accordi di tipo contrattuale; le transazioni avvengono in tre momenti: dare, ricevere, ricambiare in quanto poiché la catena non si interrompe è necessario che ciascun dono sia accettato e successivamente ricambiato • Queste prestazioni sono di tipo agonistico ovvero le parti in gioco gareggiano per dare e non per ottenere di più • Sono pratiche sociali totali in quanto sono sia pratiche economiche ma anche pratiche in cui si intrecciano altre dimensioni come quella giuridica, morale, politica e religiosa. In questo saggio Mauss analizza in particolar modo due casi etnografici, il primo è quello del Kula delle isole Trobriand già studiato da Malinowski. In questo arcipelago, lo scambio di oggetti preziosi (collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche) è un’attività molto importante che comporta lunghe navigazioni tra le isole. Ogni gioiello è famoso per la sua storia e porta su di sé il ricordo delle persone importanti che lo hanno posseduto. Lo scambio di gioielli durante i viaggi Kula ha una particolarità ovvero implica lo “spirito del dono” cioè chi riceve un oggetto cerca di ricambiare con uno ancora più prezioso. Un secondo caso etnografico di cui parla Mauss è il Potlach tra gli indiani e altri gruppi nativi del Nord America. Si tratta di cerimonie rituali nel corso delle quali le famiglie più ricche distribuiscono e talvolta distruggono grandi quantità di beni di prestigio. Qui la componente agonistica è esplicita: Acquisisce un rango più alto non chi trattiene di più ma chi sperpera di più. Ci sono state varie interpretazioni del Potlach, alcuni pensavano fosse una forma di protezione dell’equilibrio del sistema economico indigeno contro le pressioni esercitate dal mercato capitalistico, altri saranno interessati alla distruttività e ad una visione antiutilitarista: Al centro dei più profondi desideri umani c’è il dispendio e non il possesso o profitto. Al contrario, Mauss era interessato al fatto che sia nei Kula che nei Potlach, lo scambio dei beni era posto al servizio della costruzione di relazioni sociali al contrario di quanto avviene nella moderna logica del mercato che tenta invece di usare le relazioni sociali per acquisire più beni. Ma visto che il dono è libero, ci deve essere qualcosa che in assenza di norme contrattuali obbliga l’altro a ricambiare. Mauss nel suo saggio trova la risposta proponendo un ulteriore caso etnografico: I Maori della Nuova Zelanda. Qui si attribuisce ai Taonga, oggetti cerimoniali, un’essenza spirituale che obbliga colui che ha ricevuto il dono a ricambiare, se non dovesse farlo la pena sarà la sua distruzione. Stiamo parlando dello Hau o “spirito della cosa donata” che vuole tornare da dove è partito, incarnandosi nel contro-dono. Mauss è interessato in particolar modo al legame tra le persone e le cose cui lo Hau allude: Ciò che obbliga l’altro a ricambiare è che la cosa donata non è inerte, anche se il donatore l’ha abbandonata rimane pur sempre qualcosa di lui e quindi questo obbliga il beneficiario a ricambiare. L’obbligo di ricambiare fonda quindi il legame sociale. Infatti mentre il donatore rende altrui qualcosa che in realtà è una particella della sua natura e della sua sostanza; il beneficiario accetta questo qualcosa dal donatore e ciò equivale ad accettare una parte della sua anima e della sua essenza spirituale. Inoltre Mauss osserva che sia il Kula, che il Potlach, che lo Hau, contribuiscono, ciascuno con un loro tratto specifico, a comporre un modello di dono che non esiste nella realtà. In più, definendo “dono” queste prestazioni, Mauss le compara a ciò che noi oggi intendiamo con questo termine ovvero un regalo cerimoniale o uno scambio gratuito che avvengono fuori dal mercato. Mauss proietta anche il rapporto tra dono e mercato su scala storica. Prevalentemente nelle società arcaiche, il dono sarebbe stato soffocato nella modernità dallo sviluppo del mercato in cui le forme di scambio sono subordinate al principio dell’equivalenza del valore. Nel mercato lo Hau scompare: Le cose non incorporano più una parte di anima di chi le ha date, ma un valore astratto calcolabile in termini monetari e universalmente fruibile. Nel mercato quindi non è necessario un legame sociale fra il donatore e il beneficiario. Inoltre Mauss ritiene che le nascenti forme di assistenza statale e gli istituti previdenziali dei suoi tempi, rappresentino una rinascita moderna del dono. L’intervento statale e quindi pubblico riporta nell’economia quell’elemento morale che era stato cancellato dal mercato (Ad es. impiegare parte del reddito di impresa per sostenere la classe operaia e i ceti più poveri). Reciprocità: Malinowski ritiene che il classico modello utilitarista dell’Homo economicus non basti a comprendere pratiche come il Kula. Infatti secondo lui e secondo alti autori, non è soddisfacente il fatto che Mauss sia ricorso ad una singola credenza religiosa di una particolare cultura per spiegare un principio così generale come l’obbligo di ricambiare. Lo scambio secondo loro non poggia su una serie di singoli atti di dono, concatenati dalla paura superstiziosa per lo hau, ma su una vera e propria logica di organizzazione di questi scambi che tiene in equilibrio l’intero sistema economico delle società primitive, in assenza di istituzioni di governo. Stiamo parlando della reciprocità: logica che regola il corpo sociale. “Malinowski si rende conto dell’importanza della reciprocità ovvero del dare e ricevere: Il dono costringe a ricambiare e da qui si mantengono le relazioni sociali, la reciprocità quindi promuove la solidarietà sociale.” Nel 900 vediamo come la reciprocità sia il tema principale di molti dibattiti antropologici. Per Polanyi è una delle tre principali forme di integrazione dell’economico nel sociale insieme alla redistribuzione e al mercato; e come Mauss anche egli la caratterizza come uno scambio in cui la costruzione dei legami sociali è più importante dei beni che circolano. Per Strauss invece c’è una concezione diversa in quanto egli pone la reciprocità al centro delle sua teoria delle strutture elementari della parentela e individua due errori nello Hau: il primo è che non si può ricorrere ad una credenza locale per spiegare un fenomeno generale; soprattutto prendendolo alla lettera e non comprendendo la realtà che c’è al di sotto di quella credenza. Il secondo è che per Strauss la struttura dello scambio o della reciprocità, preesiste ai singoli atti separati di dare, ricevere e ricambiare. Questo perché è lo scambio che costituisce il fenomeno primitivo e non i singoli atti in cui Mauss scompone la vita sociale e che generano un tutto attraverso lo Hau che è l’elemento di coesione. Quindi Strauss pone in ombra ciò che per Mauss era decisivo ovvero gli aspetti etici dello scambio, la partecipazione fra persone e cose e la condivisione di un principio spirituale che lo scambio implica. La reciprocità di Strauss non ha nulla di etico tanto che gli attori sociali non ne sono neppure consapevoli. Negli anni 50 e 70 del 900 vediamo però che cominciano ad emergere delle posizioni favorevoli allo Hau. In particolar modo, Marshall Sahlins (figura importante dell’antropologia americana), accosta lo Hau ai concetti Marxiani di alienazione e di feticismo delle merci. In entrambi i casi, sia per Mauss che per Marx, non si tratta solo di animismo ovvero di attribuzione di una qualità personale alle cose, ma anche di vedere nelle transazioni di dono e di mercato una particolare forma di alienazione ovvero l’alienazione mistica del donatore nella reciprocità primitiva e l’alienazione del lavoro umano sociale nella produzione delle merci. Quindi Sahlins evidenzia come sfugge che nelle prestazioni totali “Le cose sono correlate in qualche misura come persone, e le persone in qualche misura come cose” e come la moderna antropologia economica eviti l’animismo e ritenga che la reciprocità sia una sorta di contratto secolarizzato guidato dal calcolo e dall’interesse utilitario. Il movimento antiutilitarista: Il dono fra stato e mercato A partire dagli anni 80 del 900 il tema sul dono non è più un interesse solamente antropologico ma anche etico - politico. I principali protagonisti di questo percorso sono un gruppo di intellettuali francesi che nel 1981 fondano il MAUSS ovvero il Movimento Anti-Utilitarista nelle Scienze Sociali (Dal nome dell’autore). All’interno di questo movimento, lo studioso più vicino ad un approccio sociale empirico è sicuramente Godbout che scrisse “Lo Spirito del Dono”, un volume che rielabora l’opera di Mauss. Godbout parte esattamente da dove Mauss conclude la sua opera e dove Mauss afferma che “La modernità si è allontanata dal principio del dono, ma non interamente in quanto questo principio è sopravvissuto in maniera sotterranea e annuncia un suo ritorno in grande stile attraverso la mutualità e la legislazione di sicurezza sociale, che comportano un ritorno ad una morale di gruppi”. Invece qui Godbout si distanzia da Mauss utilizzando un modello Weberiano, per lui la razionalità dello Stato e il mercato sono degli ingredienti fondamentali. Lo Stato e il mercato sono dei meccanismi anti-dono. In essi, i beni devono circolare fra soggettività astratte e a prescindere dalle concrete relazioni personali ed evitando per quanto possibile di crearne. Solamente in qualità di astratto possessore di denaro posso comprare un bene in un negozio ed è in qualità di astratto cittadino che posso accedere all’assistenza pubblica. Queste sfere di accesso ai beni e ai servizi sono del tutto separate dalla sfera dei legami personali. Ma allo stesso tempo, Godbout nota che lo Stato e il mercato non riescono mai completamente ad esaurire i rapporti personali, i quali continuano a scorrere in maniera sotterranea seguendo una logica che è diversa da quella economico-giuridica. Tale logica, che G. identifica nello “spirito del dono” si infiltra nella rete Stato- mercato. E quindi si può affermare in realtà che il dono, nella modernità, si trova dappertutto. “È come se il cittadino-utente praticasse una resistenza indiretta agli eventi e continuasse, in quanto persona, ad agire e stabilire legami sociali: Continua a comunicare con gli altri membri della società senza passare attraverso i sistemi previsti per questo fine. Sono loro i principali protagonisti, loro e i luoghi in cui le cose continuano ad avere un anima e vivere al servizio dei legami sociali. “ - Afferma Godbout. Quindi mentre l’accoppiata Stato - mercato mira a distruggere i legami sociali, il dono si pone come uno strumento attraverso cui ci si può difendere dalla minaccia della modernità capitalistica e attraverso il dono vengono protetti e coltivati i legami sociali. Ma perché la razionalizzazione operata dall’accoppiata Stato - mercato dovrebbe distruggere i legami sociali? Stato e mercato presuppongono l’esistenza di soggetti e relazioni astratte in quanto per muoversi nella sfera economica, giuridica e amministrativa bisogna astrarsi dalle legami sociali, dalle relazioni e dai vincoli. Ma bisogna dire che l’astrazione non è la distruzione poiché i soggetti umani riescono ad astrarre alcune loro specifiche caratteristiche senza perdere lo stesso la capacità di costruire relazioni e legami. Del resto, proprio la teoria degli antiutilitaristi secondo i quali “il dono è ovunque” dimostra che la distruzione non è affatto avvenuta! Il dono è ovunque: Dai lavori di Godbout e del MAUSS emerge una grande quantità di pratiche di dono presenti proprio in quella modernità che dovrebbe averle eliminate. Possiamo dividerle in categorie: • I DONI CERIMONIALI: ovvero doni di nozze, di Natale, di compleanno, di amici o di colleghi offerti in occasioni particolari ecc. Sono doni finalizzati a costruire i legami sociali e basati sulla reciprocità. Sono acquistati sul mercato e quindi nascono come merci per poi trasformarsi in doni. Il valore monetario è un parametro importante per la scelta del dono dopodiché i doni si incartano, cancellando il prezzo per sottrarli al circuito commerciale. • I DONI IN FAMIGLIA: sono di solito sottoposti a calcolo ed equivalenza. I membri della famiglia insistono per “dare di più”, per sottrarre agli altri i compiti più difficili o per dividere il budget domestico. Questo tipo di relazione si esaurisce quando si cominciano a fare calcoli su chi ha ricevuto e dato di più. Comunque questo tipo di economia prescinde dalla logica di mercato. • IL VOLONTARIATO e I SETTORI NO-PROFIT DELL’ASSISTENZA E DELL’ECONOMIA: questi forniscono servizi che né il mercato né lo stato riuscirebbero a garantire da soli. Per funzionare non hanno bisogno solo della generosità dei partecipanti ma anche di risorse finanziarie, una precisa organizzazione burocratica ecc. Proprio per questo motivo c’è una tensione in questa pratica: più funzionano e più si ampliano e più rischiano di passare dallo spirito del dono a quello dello Stato e del mercato. sfere dell’agire sociale. La facilità di produzione e diffusione delle informazioni, ad esempio, rende più difficile separare la sfera pubblica da quella privata. I dettagli della vita privata emergono più facilmente e non c’è più una differenza tra stage e backstage. Allo stesso modo risulta molto evidente anche la confusione dei confini tra le sfere “alte” e “basse” della cultura ovvero la grande arte, la scienza e la politica da un lato e dall’altro l’intrattenimento, le forme commerciali, la pubblicità ecc. Sembra quasi che l’autorevolezza del più grande scienziato e quella del meno esperto dei giornalisti è più o meno la stessa. Questo carattere cosiddetto “orizzontale” appare evidente in Internet in cui tutto scorre sullo stesso piano. Un altro esempio è sicuramente l’Università in quanto istituzione del sapere scientifico vero e serio; la sua attuale crisi sta nella difficoltà del trovare un equilibrio fra il suo modello classico (che non sembra più svolgere alcuna funzione sociale) e un rinnovamento che la porterebbe a inglobare stili e linguaggi avvertiti come estranei. Questa confusione dei confini è rappresentata da alcuni atenei che ricorrono a sponsorizzazioni, insegnamenti di discipline “pop”, figure di testimonial del mondo dello spettacolo ecc. Un altro tratto del modello Weberiano di modernità che sembra invertirsi con la Globalizzazione è quello del “disincanto del mondo”. Weber indicava nel processo di secolarizzazione la separazione della fede e della politica, da finalità pratiche e da dimensioni magiche e miracolistiche. Al giorno d’oggi invece, l’irrazionale si fa sempre più esplicitamente presente nella sfera pubblica, dopo una fase in cui sembrava destinato ad essere bandito. Vediamo infatti come nelle grandi religioni si sono fatte di nuovo strada istanze mistiche e miracolistiche (Apparizioni della madonna di Medjugorie, culto di Padre Pio ecc.). Ritornano i movimenti carismatici all’interno del Cristianesimo, malattia e peccato, guarigione e salvezza tornano a toccarsi. In molti paesi africani invece troviamo la stregoneria che si pone come una chiave di lettura della stessa post- modernità sia per i ceti popolari che quelli dirigenti. Si tratta di fenomeni che non sono necessariamente connessi alla Globalizzazione ma sicuramente provengono dall’indebolimento dei confini, della sfera normativa e della razionalizzazione della modernità. Omologazione e Ibridazione: la Globalizzazione da un lato viene considerata come un processo di omologazione ovvero un processo di acculturazione che comporta un’imposizione dall’esterno di una cultura che cancella quella dominante. Questo processo può essere ben riassunto nell’espressione “McDonaldizzazione della società” (Anche dal titolo del lavoro del sociologo Ritzer). Il riferimento alla famosa catena americana di fast-food è da intendersi in due sensi: Prima di tutto, la McDonald’s esporta in tutto il mondo, con migliaia di ristoranti, sia un modello industriale e organizzativo, sia una cultura alimentare standardizzata, che si impone in ogni angolo del mondo sradicando le peculiarità locali. È una pratica che investe tutti gli ambiti del mercato e secondo Ritzer la sua caratteristica fondamentale è la “prevedibilità” in quanto i consumatori sanno già in ogni minimo dettaglio cosa aspettarsi dalla qualità del cibo e dal personale. Più che di globalizzazione si dovrebbe parlare di americanizzazione in quanto è il sistema industriale statunitense che detta le regole. All’omologazione si contrappongono le teorie dell’eterogeneità o ibridazione. L’interesse qui si sposa nel modo in cui queste pratiche interagiscono con i contesti locali, modificandoli ma venendo anche a loro volta modificati e assumendo una grande varietà di forme e significati. Alcuni studiosi parlando del cosiddetto “effetto karaoke” con una base standard da cui possono poi scaturire diverse interpretazioni. Sono soprattutto i prodotti occidentali a circolare (o meglio americani) ma diffondendosi anche essi vengono “indigenizzati” ovvero riletti su uno specifico sfondo culturale. Ritornando all’esempio del cibo, la diffusione del McDonald’s in tutto il mondo, non ha cancellato i modi locali di mangiare e cucinare. Spesso è accaduto infatti che di fronte a questa invasione dei fast-food, si sono ripresi e valorizzati i cibi e le pratiche culinarie tradizionali. Nei paesi più ricchi, vediamo che la diffusione di cibi ha prodotto da una parte una difesa verso la tradizione, dall’altra si sono create pratiche ibride, mescolazioni e combinazioni di vario tipo. Non stiamo parlando né del puro “BigMac”, né della pura tradizione, ma di qualcosa di nuovo! Dal Globale al Locale: Quindi come abbiamo detto fin’ora, non bisogna considerare la Globalizzazione come quel “grande nulla” che distrugge la realtà e la cultura autentica là dove la tocca; piuttosto per l’Antropologia è molto importante studiare il modo in cui i processi di globalizzazione influiscono sui contesti locali producendo mutamento e ibridazione. Bisogna dire che l’analisi antropologica ed etnografica è sempre riferita a qualche unità di luogo in quanto le risorse possono circolare in modo globale ma sono consumate e acquistano significato in mondi locali: Infatti, il perfetto cosmopolita ovvero il cittadino che si trova d’dappertutto ugualmente “a casa”, non esiste. Prendiamo l’esempio di internet e della comunicazione on line. Questo tipo di comunicazione annulla ogni ostacolo spazio-temporale e sociale in quanto possiamo comunicare con ogni altro individuo del mondo, che sia il nostro vicino di casa o uno sconosciuto dall’altra parte del pianeta. Ma bisogna comunque dire che la comunicazione di rete come ad es. Facebook vanno di fatto a rafforzare la rete di rapporti locali. William Blake afferma: “La vocazione dell’antropologia è quella di vedere il mondo dentro un granello di sabbia” questo vuol dire che se vogliamo cogliere le forze della Globalizzazione, dobbiamo partire dal modo in cui queste si manifestano all’interno di universi locali. Prendiamo altri due esempi nell’ambito della cultura globale di massa: Le serie televisive e il gioco del calcio. Prendiamo serie televisive come Dallas o Beautiful e vediamo che siamo di fronte a dei prodotti fortemente standardizzati, con contenuti narrativi elementari, stili di vita alti e valori occidentali dominanti. È molto importante sottolineare il vedere queste soap operas in paesi diversi o fra gruppi sociali diversi in quanto fa differenza vederle in salotti borghesi o nelle braccopoli sudamericane, stando in silenzio oppure facendo lavori domestici poiché i prodotti standard svolgono funzioni e assumono significati culturali molto diversi a secondo delle pratiche d’uso locali. Prendendo anche il gioco del calcio vediamo che esso acquisisce significati diversi nelle varie parti del mondo: Il culto argentino per Maradona, la natura multirazziale del calcio in Brasile, il rapporto tra calcio e stregoneria in Tanzania e così via. Quindi vediamo che in entrambi questi esempi da un lato emerge la Globalizzazione (Per cui nessun contesto è mai chiuso a se stesso) ma dall’altro la grandissima varietà di significati simbolici che possono assumere in situazioni locali. In definitiva possiamo dire che le culture peculiari e distintive che gli antropologi hanno sempre cercato, possiamo trovarle nelle forme di “indigenizzazione” della cultura di massa. Capitolo 13: Spazio, Luogo, Città L’antropologia culturale ha sempre incentrato le sue ricerche all’interno di contesti locali che generalmente corrispondono a territori specifici. Negli studi antropologici, la descrizione dell’ambiente può avvenire in forma soggettiva ad esempio quando l’etnografo arriva sul campo e riporta le sue prime impressioni che esprimono il suo senso di stupore e di interesse verso la novità; oppure in maniera oggettiva facendo delle citazioni sul clima, la flora, la fauna ecc. Bisogna però andare a vedere come si intreccia la differenza tra l’ambiente fisico e quella delle società umane che lo abitano. In geografia spesso si utilizza la differenza tra elementi naturali ovvero quelli che esistono indipendentemente dall’uomo come il clima, la vegetazione, i corsi d’acqua; e gli elementi antropici ovvero tutte le trasformazioni che ha effettuato l’uomo sull’ambiente a scopi produttivi attraverso l’uso dell’economia e della tecnologia come fabbriche, centri abitati, vie di comunicazione ecc. In poche parole quindi un ambiente naturale puro non esiste se non per poche zone disabitate e deserte; e non esiste neanche un determinismo ambientale che modelli il comportamento umano in base alle specificità climatiche e fisiche del territorio. Infatti è lo spazio che viene modellato in maniera quasi radicale dall’attività umana! Tuttavia bisogna sottolineare che in antropologia le caratteristiche fisiche di un certo territorio, pur non essendo l’argomento centrale, sono lo sfondo e la premessa della ricerca; in quanto l’approccio etnografico non può prescindere dalle particolarità di un certo spazio che siano esse l’ambiente naturale, la casa o il villaggio. In antropologia l’oggetto fondamentale sono i gruppi di persone in relazione diretta fra loro. Spazio e Cultura: Un’altra caratteristica fondamentale degli studi antropologici sta nella lettura del tema dello spazio dal punto di vista del “nativo” (persona appartenente ad un territorio diverso da quello dell’etnografo). Infatti mentre il ricercatore è abituato a descrivere il territorio attraverso ciò che lo colpisce quando arriva sul campo, le impressioni degli abitanti del posto sul loro ambiente potrebbero essere diverse. Vediamo infatti come al giorno d’oggi avviene una “minuziosa costruzione sociale degli spazi umani differenziati e regolati” vale a dire che vengono tracciati dei confini, precisati degli spazi, disegnati dei percorsi e tutto ciò deriva dalla precisa tradizione culturale di quell’ambiente. Questo influenza la nostra conoscenza sui luoghi. Ad esempio vediamo come, attraverso l’influenza delle nostre convenzioni cartografiche, per noi il Nord si trova “sopra” e l’Ovest si trova “a sinistra”; oppure vediamo come molto spesso vengono tracciati dei confini formali ed informali nella nostra vita quotidiana che provengono da un preciso status sociale. Flaubert, approposito di questo, mostrò come alcuni palazzi cittadini (nell’epoca precedente all’introduzione degli ascensori) avevano una stratificazione sociale interna che dipendeva dal numero di scale che si era costretti a salire; così che “al piano nobile, ovvero quello con pochi gradini da fare, non si parlava come al quarto piano”. Il termine confine riguarda quindi l’individuazione di uno spazio propriamente nostro, una parte di territorio dove un gruppo umano accampa determinati diritti. Proprio per questo motivo, per gli antropologi è molto difficile maneggiare i diversi criteri che regolano il rapporto tra territorio e gruppi umani. È importante però non pensare ai confini come a qualcosa che racchiuda necessariamente porzioni ben delimitate di territorio in quanto il tema dello spazio “è ovunque e in nessun posto”. Basti pensare all’ esempio degli Aranda dell’Australia ovvero dei gruppi familiari nomadi che fanno riferimento ad un centro, che non è tale per la sua posizione, ma perché è sede degli spiriti degli antenati. Quindi gli spazi qualitativi dei popoli studiati hanno poco a che fare con il carattere geometrico e misurabile che siamo abituati ad associare alla parola spazio. Ma non bisogna nemmeno dimenticare quanti spazi sacri, solenni e minacciosi oppure riconducibili ad una certa idea del “noi”, siano presenti nelle nostre città e campagne. Spazi e Luoghi: Il tema dello spazio è diventato nell’antropologia più recente il principale oggetto di attenzione. Infatti non si osserva più come un determinato sistema culturale impatta e modella un ambiente, ma si considera lo spazio come una delle dimensioni fondamentali della cultura. Heidegger ha fatto una riflessione sui temi di spazio e luogo e si è interessato in particolar modo alla dicotomia tra spazio naturale e oggettivo – percezione soggettiva di questo spazio. Secondo Heidegger noi “soggiorniamo presso le cose” ovvero siamo umani in quanto abbiamo dei luoghi concreti all’interno dei quali pensiamo e costruiamo. È solo da qui che posso ordinare e pensare ad uno spazio astratto e geometrico in quanto “Gli spazi ricevono la loro essenza dai luoghi e non dallo spazio!”. Al di là di queste riflessioni filosofiche, con la nozione di luogo ci riferiamo quindi a qualcosa che attribuisce grande importanza alle dinamiche della vita quotidiana. Secondo Marc Augé se i luoghi sono riconoscibili per i fenomeni di appartenenza, le relazioni sociali e la memoria locale; allora la modernità crea non-luoghi ai quali nessuno può appartenere. Esempi di non-luoghi sono l’autostrada, la stazione, l’aeroporto, il centro commerciale ecc. ovvero tutti luoghi dove non è possibile essere altro che un utente o un uomo medio. Ma soprattutto bisognerebbe chiedersi se i non-luoghi siano non-luoghi per tutti. In altre parole la contrapposizione tra luoghi e non-luoghi è da interpretare dall’esterno e bisogna distinguere gli uni dagli altri in base al loro uso “normale” e a quelli che sono i principi sociali ed economici della civiltà contemporanea. Per Michel De Certeau bisogna immergersi nei luoghi per capire se ciò che essi rappresentano per coloro che vi abitano, corrisponde a come essi risultano dall’esterno. De Certeau nella sua opera “L’invenzione del Quotidiano” parte da un’idea della società contemporanea come razionalistica, oppressiva, disincantata e tecnocratica: Qui i soggetti potenti si appropriano dei luoghi e li organizzano e razionalizzano a seconda dei loro scopi utilizzando delle cosiddette strategie. Agli altri quindi non resta altro che giocare all’interno delle regole che sono state stabilite e usare delle tattiche quali la flessibilità e l’improvvisazione, per sfruttarle a proprio vantaggio. Quindi egli da una parte critica gli esperti che immobilizzano e ordinano i contesti sociali per teorizzare come una città deve essere, dall’altra pone l’attenzione sulla creatività ovvero la capacità quotidiana di rigiocare le abitudini acquisite e la memoria locale. Senso del luogo: Espressione che sta ad indicare i processi e le pratiche culturali attraverso cui i luoghi assumono i loro significati. Quindi se esiste qualcosa che possiamo chiamare “cultura” la possiamo trovare in maniera concreta e completa nei luoghi piuttosto che nelle menti o nei segni. La grande città (e il villaggio): Al contrario dei villaggi, dei piccoli centri rurali o meglio del cosiddetto “Terzo Mondo”, le metropoli occidentali non sembrano essere un posto da antropologi ma piuttosto da sociologi e urbanisti. La cosa è molto strana se si considerano tutti gli studi antropologi che sono stati portati a termine nelle città oppure il fatto che il mondo contemporaneo è sempre più chiaramente urbanizzato e quindi è difficile praticare un’analisi lontano dalle città. Tutto ciò proviene dal significato che le città hanno assunto nella nostra cultura: Infatti attorno ai termini di campagna e città si concentrano molti stereotipi in quanto mentre la campagna è quella che rimane fedele alla tradizione, la città è quella che tende verso il futuro avendo caratteristiche positive come libertà e sviluppo ma anche negative come caos, alienazione ecc. Inoltre la parola città può essere applicabile a molte cose e può trarre in inganno. Noi ci riferiamo alla città che emerge dalla rivoluzione industriale, dalla tecnologia, dal capitalismo e dal rimescolamento dei ceti. Quindi il punto non è proprio la città ma la modernità che a sua volta produce un ambiente umano specifico ovvero la grande città! Per Ferdinand Tonnies infatti esiste una distinzione fondamentale tra società e comunità: Borghi e città antiche sono la comunità, la società invece domina indisturbata nella grande metropoli moderna. Secondo George Simmel, l’esperienza urbana è la forma più pura della vita moderna il cui carattere intellettualistico si contrappone alla ripetizione di abitudini delle città di provincia. In un contesto dominato dall’economia monetaria, il singolo diventa più individualizzato che mai e si difende assumendo un atteggiamento scettico e distaccato. La Scuola di Chicago è una corrente di pensiero che si colloca entro ambedue le tradizioni disciplinari della sociologia e dell’antropologia. Bisogna sottolineare tre aspetti dei lavori profondamente contradditori di questa scuola: Il primo è l’utilizzo del cosiddetto approccio ecologico secondo il quale diversi gruppi umani si creano una nicchia propria nel territorio urbano. Questo è stato criticato per il parallelo con l’ecologia vegetale che appare poco convincente in quanto finisce per sottovalutare la mobilità degli abitanti. Il secondo è l’approccio etnografico in quanto la Scuola di Chicago utilizza tantissime metodologie come l’osservazione, l’intervista, l’uso di lettere e diari e anche l’esperienza diretta del ricercatore. Utilizzano questa metodologia in maniera eclettica in quanto a volte sono più interessanti all’urgenza delle informazioni che al rigore metodologico. Il terzo punto è la ricerca di migliori politiche urbane in quanto la scuola fu coinvolta in progetti di intervento sui problemi sociali della città, o “malattie sociali” come ad esempio i del lutto (Commemorazioni, celebrazione degli eventi drammatici, monumenti, musei, luoghi di memoria ecc). L’elaborazione del lutto inoltre si intreccia spesso con il raggiungimento della giustizia: ovvero l’accertarsi della punizione dei colpevoli attraverso interventi istituzionali e giuridici. Si può dire che il raggiungimento della giustizia è una delle condizioni necessarie per il superamento del trauma. Ma la giustizia non può essere praticata come un compromesso; infatti molto spesso le società che escono dalla violenza sono sempre divise in due parti: Quelli che non vogliono ricordare e quelli che non possono dimenticare. La memoria è destinata così ad essere divisa e a rimanere un terreno di manifestazione dei conflitti rispetto ai quali la giustizia deve cercare mediazioni. Mito e realtà nel conflitto etnico: Il tratto specifico di queste nuove guerre è che si caratterizzano come movimenti che partono dall’identità razziale, etnica o religiosa, per rivendicare a sé il potere dello Stato. Nel linguaggio giornalistico e nell’opinione pubblica occidentale, infatti, si pensa che le cause dei conflitti siano da ricondurre ad un odio ancestrale tra gruppi etnici, che cova sotto la cenere per emergere poi in modo esplosivo. Gli antropologi invece sono intervenuti per smontare questo “mito del conflitto etnico globale” in quanto, come ha scritto Ugo Fabietti, quando gli uomini entrano in conflitto non lo fanno perché hanno costumi o culture diverse, ma per conquistare il potere, ed evidentemente quando seguono schieramenti etnici per ottenere questo potere vuol dire che era il mezzo più efficace per raggiungerlo”. Quindi l’identità non è la causa dei conflitti, al massimo ne è la conseguenza. Tuttavia, ci sono ancora dei problemi aperti: Bisogna dire che ci troviamo di fronte a casi di violenza di massa che si indirizzano verso nemici percepiti come etnici, penetrano nella società civile e assumono forme particolarmente atroci. Tutto ciò non si può assolutamente spiegare solo in termini di razionalità economico-politica della guerra, né come effetto delle propagande nazionaliste. Questo è qualcosa di più profondo: è un elemento che si consolida storicamente, che si immerge nella profondità dei corpi e nella vita quotidiana. Un fattore che può aver contribuito all’atrocità dei conflitti etnici può essere la Globalizzazione e il suo conseguente indebolimento dei confini. Secondo un antropologo indiano, infatti, la furia della violenza etnica può essere legata alle incertezze che il mondo contemporaneo comporta a proposito delle nostre identità e di quelle degli altri. Le cornici identitarie nazionali si indeboliscono e diventano confuse di fronte alla circolazione globale di persone, merci e idee. Quindi la violenza può essere considerata come un mezzo per raggiungere la certezza, per liberarsi da una situazione di angosciosa incertezza e per dare forzatamente un ordine a quella realtà dove l’anomalia è diventata una regola. In questo preciso punto l’analisi storica e antropologica si saldano: Gli storici invocano gli antropologi per spiegare la quantità e qualità di una violenza che un’analisi in chiave di razionalità politica non è in grado di spiegare. Un Continuum Genocida: A questo punto ci chiediamo: Come sono stati possibili avvenimenti come la Shoah, le guerre mondiali, regimi totalitari e simili tragedie in un secolo dominato dall’emancipazione femminile, dalla decolonizzazione, dalla cultura della pace e della tolleranza? Inoltre questa domanda si scinde in due parti: Da un lato ci chiediamo quali siano state le condizioni sociali, economiche, politiche che hanno permesso non solo le guerre in sé ma anche la creazione di progetti genocidi e luoghi come lager e gulag; dall’altro ci chiediamo come i persecutori siano stati in grado di compiere atti così atroci, non solo senza rifiutarsi ma anche in modo zelante e come allo stesso tempo grandi masse di persone hanno assistito a tutto questo senza reagire minimamente. “A quali condizioni saremmo disposti a infliggere fortissime scosse elettriche ad un innocente sconosciuto?” Secondo alcuni studi di psicologia sociale la compassione umana non è sufficiente a sottrarsi al volere dell’autorità. In questi casi gli individui si trovano in uno stato di Eteronomia ovvero obbedendo all’autorità, essi delegano ad altri la responsabilità dei loro comportamenti e quindi anche la loro coscienza morale. Un’altra interpretazione dei genocidi novecenteschi è quella che chiamiamo con il nome “Banalità del male” che è un espressione che è stata coniata come commento alla figura di Adolf Eichmann, criminale di guerra nazista responsabile della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Eichmann durante il processo si difese presentando se stesso come un normale burocrate, che non aveva fatto direttamente del male a nessuno ma che si era limitato solo al suo lavoro organizzativo. Queste affermazioni di Eichmann dimostrano come il suo fosse un male anonimo, astratto, che non ha bisogno di “mostruosità” per manifestarsi ma si esercita attraverso gli ordinali canali dell’amministrazione. È quindi BANALE. Al giorno d’oggi possiamo usare l’espressione “Continuum Genocidio” ovvero un genocidio continuo per indicare come questi atti di violenza ancora non siano completamente spariti ma si praticano nella vita quotidiana in maniera nascosta e molto spesso autorizzata come: la violenza nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle case di cura, negli ospedali, nei tribunali, nelle prigioni ecc. Questo atteggiamento è caratterizzato dalla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non – persone, di mostri o di cose attraverso l’utilizzo di forme di esclusione sociale, spersonalizzazione, disumanizzazione .
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