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Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura, Lecture notes of Literature

Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura - Letteratura inglese 5 - appunti in italiano

Typology: Lecture notes

2019/2020

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artemidadi27
artemidadi27 🇮🇹

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Download Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura and more Lecture notes Literature in PDF only on Docsity! Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura La dialettica della paura Una straordinaria analisi interpretativa del mostro e del vampiro è fornita dal saggio di Franco Moretti Dialettica della paura in Segni e stili del moderno (Einaudi, Torino, 1987, pp. 104-137). Per la sua importanza e chiarezza, si è voluto qui presentarlo con pochissimi rimaneggiamenti e alcune semplificazioni bibliografiche. Le edizioni dei classici “gotici” e della paura cui Moretti si riferisce sono: M. Shelley, Frankenstein, Dent, London 1973; B. Stoker, Dracula, Signet, New York 1965; R. L. Stevenson, The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, Dent, London 1975. La paura della civiltà borghese si riassume in due nomi: Frankenstein e Dracula. Il mostro (con Shelley) e il vampiro (con Polidori) nascono insieme, in una notte del 1816, nel salotto di Villa Chapuis, presso Ginevra, da un gioco di società fra amici per ingannare un’estate piovosa. Nati in piena rivoluzione industriale, risorgono insieme negli anni critici che chiudono l’Ottocento, con i nomi di Hyde e Dracula. Nel Novecento conquistano il cinema: dopo la prima guerra mondiale, in Germania, il cinema espressionista; dopo la crisi del ’29, in America, le grandi produzioni della RKO; finché nel ’56-57, Peter Cushing e Christopher Lee, diretti da Terence Fisher, reincarnano una volta ancora, trionfalmente, questo incubo a due facce. Vite parallele, quelle di Frankenstein e Dracula. Sono due figure indivisibili, perché complementari: i due volti orribili di una stessa società, i suoi estremi: il miserabile sfigurato e il possidente crudele. L'operaio e il capitale. «Tutta intera la società deve scindersi nelle due classi dei proprietari e degli operai senza proprietà». Quel “deve”, che per Marx è previsione scientifica del futuro (e garanzia di una futura riunificazione della società), per la cultura borghese ottocentesca è avvisaglia della fine. La letteratura del terrore nasce appunto dal terrore della scissione sociale, e dal desiderio di sanarla. Proprio per questo, tranne rare eccezioni, Dracula e Frankenstein non compaiono mai insieme. La minaccia sarebbe troppo forte: e la letteratura del terrore, dopo aver prodotto il terrore, deve anche cancellarlo, tranquillizzare. Deve ricostruire l’equilibrio spezzato, dar l’illusione di poter fermare la storia: perché il mostro esprime il dubbio che il futuro sarà mostruoso. Il suo antagonista, il nemico del mostro, sarà sempre, di contro, un rappresentante del presente, un concentrato di compiaciuta mediocrità ottocentesca: nazionalista, sciocco, superstizioso, filisteo, impotente, soddisfatto di sé. Ma questo non appare: affascinato dall’orrore del mostro, il pubblico accetta senza discutere i vizi di chi lo distrugge; così come ne accetta la presentazione letteraria, la tipologia frusta e ripetitiva che, a contatto con l’ignoto, riacquista forza e verginità. Il mostro, dunque, serve a spostare gli antagonismi e gli orrori che si manifestano dentro la società, al di fuori della società stessa: in Frankenstein la lotta sarà fra una “razza diabolica” e la “specie umana”. Chi osa combattere il mostro diventa automaticamente il rappresentante della specie, di tutti gli uomini, di tutta la società. Il mostro, l’assolutamente inumano, serve a ricostruire una universalità, una coesione sociale che − di per sé − non sarebbe più convincente. 1 Il mostro di Frankenstein e Dracula il vampiro, a differenza dei mostri del passato, sono mostri dinamici, totalizzanti. È questo che fa paura. Prima le cose andavano diversamente. I malvagi di Sade accettano di operare ai margini della società, nascosti nei loro torrioni: Justine ne è vittima perché rifiuta il mondo moderno, il mondo della città, dello scambio, della riduzione del suo corpo a merce: e si consegna così al vecchio orrore del mondo feudale, all’arbitrio del singolo signore. Di più: in Sade la malvagità ha un limite “naturale”, invalicabile, nel godimento del signore: saziatolo, cessa anche la tortura. Dracula, invece, è un asceta del terrore. In lui si celebra la vittoria della brama del possesso su quella del godimento: e il possesso in quanto tale, indifferente al consumo, è per sua natura insaziabile e illimitato. Il vampiro di Polidori è ancora un signorotto feudale che è costretto a girare l’Europa sgozzando fanciulle al misero scopo di sopravvivere: il tempo lavora contro di lui, contro le sue brame conservatrici. Il Dracula di Stoker, all’opposto, è un imprenditore razionale che investe il suo oro per espandere la propria signoria: per conquistare la City. Da un certo punto di vista, già il mostro di Frankenstein semina devastazione per tutto il mondo, dalle Alpi alla Scozia, dall’Europa orientale al Polo. Di fronte a loro, il gigantesco fantasma del Castle of Otranto di Walpole fa la figura di un nano: è confinato a un solo luogo; può manifestarsi una sola volta; è unicamente un ricordo del passato. Ristabilito l’ordine esso tace per sempre. I mostri moderni, invece, minacciano di vivere per sempre e di conquistare il mondo: per questo non si può non ucciderli. Frankenstein. Il Mostro come emblema del proletariato. Come al proletariato, al mostro viene negato un nome e una individualità: è il mostro-di- Frankenstein, appartiene interamente al suo creatore. Come il proletariato, è una creatura collettiva e artificiale. Non è dato in natura, va costruito: Frankenstein è uno scienziato-inventore, produttivo, in aperto conflitto con Walton, scienziato-scopritore, contemplativo (la cosa si ripeterà con Jekyll e il dott. Hastie Lanyon). Nel mostro si riunificano e si riportano in vita le membra di coloro − i “poveri” − che la dissoluzione dei rapporti feudali ha costretto al brigantaggio, alla miseria, alla morte. Solo la scienza moderna può offrir loro un futuro. Essa li ricuce insieme, li plasma secondo la sua volontà, infine gli dà la vita − ma nell'attimo in cui il mostro apre gli occhi, il suo creatore si ritrae inorridito: «al traballio della lampada che si andava spegnendo, vidi l'occhio giallo e ottuso della creatura aprirsi [...] Come posso descrivere i miei sentimenti di fronte a questa catastrofe?» (Frankenstein, p. 51). Tra Frankenstein e il mostro esiste un rapporto ambivalente, dialettico, uguale a quello che, secondo Marx, connette il capitale e il lavoro salariato. Per un verso, lo scienziato non può non creare il mostro: «spesso la natura umana che era in me si rivoltava disgustata contro la mia impresa; ma intanto, trascinato da un desiderio febbrile che continuamente cresceva, andavo avanti e mi approssimavo al compimento del mio lavoro» (Frankenstein, p. 48). Per l’altro verso, ne ha subito paura e vorrebbe distruggerlo, perché capisce di aver dato vita a un essere che è più forte di lui (Frankenstein, pp. 101, 178-79) e di cui ormai non può più liberarsi. È la stessa maledizione che si abbatte su Jekyll: «per tranquillizzare il vostro 2 economico della famiglia: non solo i parenti, ma anche la domestica, anche l’amico fraterno Clerval: colui che, rispetto al coetaneo Victor, è ancora così tradizionalista e tranquillo; colui che ha scelto, al contrario di Frankenstein, di restare nella città dei padri, nella casa dei padri, e di mantenere in vita i loro valori. Valori corporativi, localistici, immobili: l’etica della “common road” elogiata dal padre di Robinson Crusoe. Valori cui finisce col convertirsi, quando è ormai troppo tardi, lo stesso Frankenstein: «Quanto più felice quell’uomo che crede che la sua città natale sia il mondo, rispetto a colui che aspira a diventare più grande di quanto la sua natura possa permettergli [...] Addio, Walton! Cerca la felicità nella tranquillità, ed evita l'ambizione, fosse anche soltanto l'ambizione, così innocente in superficie, di distinguersi per la tua scienza e le tue scoperte.» (pp. 46, 236). Le ultime parole di Frankenstein riconducono alla Prefazione della Shelley: scopo dell’opera è l’«esposizione dell’amabilità dell'affetto domestico» (p. 2). Né è casuale che queste parole Frankenstein le dica a Walton: Walton, infatti, è essenziale perché il messaggio dell’opera possa esser comunicato. Come Frankenstein, Walton è inizialmente il protagonista di un’impresa disperata, cui è spinto da un’idea di progresso scientifico imperiosa quanto conflittuale e disumana: «La vita o la morte di un uomo sarebbero state un misero prezzo da pagare per il raggiungimento della conoscenza che cercavo.» (p. 17). Il racconto di Frankenstein, lo si è visto, dissuade Walton dal proseguire la sua impresa e la sua infrazione alla norma naturale e morale. Alla fine, Walton si piega alle proteste dei marinai, che temono per la propria vita, e accetta «ignorante e insoddisfatto», di tornare in patria, in famiglia. Grazie alla sua conversione, Walton sopravvive. E questo gli conferisce una funzione dominante nella struttura narrativa, nel sistema degli “emittenti” di Frankenstein. Walton inizia il racconto e lo conclude: la sua narrazione “contiene”, e dunque sottomette, la narrazione di Frankenstein (la quale, a sua volta, “contiene” quella del mostro). A Walton viene riservata la posizione narrativa più vasta, più comprensiva, più universale. Il sistema della narrazione capovolge il significato di Frankenstein così come lo abbiamo descritto, e ne esorcizza il terrore: l’elemento dominante della realtà non è la scissione della società in due poli contrapposti, ma la sua ricomposizione simbolica nella famiglia Walton. La ferita è rimarginata: si torna a casa. In questa luce acquistano la loro giusta rilevanza e comprensibilità le parole, già ricordate, che Mary Shelley affida alla Prefazione: scopo dell’opera è l’«esposizione dell’amabilità dell’affetto domestico.» (p. 2). Di quei valori, ai quali tardivamente lo stesso Frankenstein sembra volersi di nuovo e definitivamente convertire, Walton è l’espressione piena. Walton gioca dunque una duplice partita: quella individuale, in relazione alla realtà contemporanea, che si risolve in una esaltazione dello status quo (la città come mondo, la famiglia come rifugio di tranquillità, una serena quiete lontana dall’idea di progresso illimitato e perciò disumano professata da Frankenstein); e una di respiro, di portata universale. E l’universalità attribuita a Walton dal sistema degli emittenti non riguarda solo la realtà contemporanea, ma l’intero corso storico. 5 Per mezzo di Walton, Frankenstein e il mostro sono declassati a meri “accidenti” storici; il loro è solo un episodio, un “caso”, come sarà quello di Jekyll. Con ciò la Shelley ci vuol convincere che il capitalismo non ha futuro: c’è stato, sì, per qualche anno, ma adesso è tutto finito. Chi non vede che Frankenstein e il mostro sono morti senza eredi, mentre Robert Walton sopravvive? È un anacronismo vistoso: cui però la Shelley ci aveva preparati. Il fulcro sociologico di Frankenstein − la creazione del proletariato − non risponde infatti né a interessi economici né a necessità oggettive. È il frutto di un lavoro solitario, soggettivo e del tutto disinteressato: Frankenstein non si ripromette alcun vantaggio dalla creazione del mostro. Meglio, non può riprometterselo, perché nel mondo del romanzo non c’è modo di utilizzare il mostro. E non c’è modo di utilizzarlo perché il processo produttivo non è ancora sufficientemente avanzato: perché non ci sono le fabbriche. E queste, ovviamente, non ci sono per due ottimi motivi: perché per la Shelley le esigenze della produzione non hanno valore di per sé, ma devono esser subordinate al mantenimento della solidità morale e materiale della famiglia; e perché, come la Shelley ben sapeva, le fabbriche avrebbero di certo moltiplicato all’infinito la temuta “razza diabolica”. Volendo esorcizzare il proletariato, con assoluta consequenzialità, Mary Shelley cancella dal suo quadro anche il capitale. Ovvero la storia. E infatti il risultato ultimo della peculiare struttura narrativa impiegata consiste nell’assimilare la vicenda di Frankenstein e del mostro a una favola. Come nelle favole, il racconto procede in forma orale: Frankenstein parla a Walton, il mostro a Frankenstein, di nuovo Frankenstein a Walton (Walton invece, che incarna la storia e il futuro, scrive). Come nelle favole, si cerca di creare una situazione raccolta, fiduciosa, familiare: persino il mostro, all’inizio del suo racconto, suggerisce di rifugiarsi in una capanna tra i monti per stare meglio. Come nelle favole, non esistono prove dell’accaduto: Frankenstein muore, e il mostro ha l’accortezza di dileguarsi. Come una favola è trattata la vicenda da Walton, che la confida alla sorella ma non osa parlarne alla ciurma. Come nelle favole, infine, per ferrea conseguenza, bisogna pensare a quel che è accaduto come a un fatto immaginario. Il capitalismo è un sogno. Un brutto sogno, ma pur sempre un sogno. HW: in che senso il risultato ultimo della peculiare struttura narrativa scelta da Mary Shelley consiste nell’assimilare la vicenda di Frankenstein e del Mostro a una favola? Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura 2 Dracula. 6 Il Conte Dracula è un aristocratico per modo di dire. Jonathan Harker − l’impiegato londinese ospite nel suo castello, il cui diario apre il romanzo di Stoker − osserva sbalordito che a Dracula manca proprio ciò che rende “nobile” un uomo: la servitù. Dracula si piega a guidare la carrozza, preparare i pasti, rifare i letti, pulire il castello. Il Conte ha letto Adam Smith: sa che i servi, lavoratori improduttivi, assottigliano il reddito di chi li mantiene. Dell’aristocratico, a Dracula, manca del resto anche la sfrenatezza nel consumo: Dracula non mangia, Dracula non beve, Dracula non fa l'amore, Dracula non ama i vestiti sgargianti, Dracula non va a teatro e non va a caccia, Dracula non offre ricevimenti e non innalza palazzi. Neanche la sua violenza ha come fine il piacere: Dracula (a differenza di Vlad l’impalatore, il Dracula storico, e di tutti gli altri vampiri prima di lui) non ama spargere sangue: è che il sangue gli serve. Ne succhia quanto basta, e non ne spande mai una goccia. Il suo fine non consiste nel distruggere a suo arbitrio la vita altrui, nello sprecarla: ma nell’utilizzarla. Dracula, insomma, è un risparmiatore. Un asceta. Un campione dell’etica protestante. E infatti non ha corpo. O meglio, non ha ombra. Ovvero, il suo corpo esiste, si, ma è “incorporeo”. «Sensibilmente sovrasensibile», come scrisse Marx della merce. «Impossibile in quanto fatto fisico», come la Shelley definisce il mostro nelle prime righe della Prefazione. E infatti è impossibile, “fisicamente”, estraniare l’uomo a se stesso, disumanarlo: ma il lavoro alienato, questo rapporto sociale, lo rende possibile. Così come esiste davvero un prodotto sociale che sussiste e che tuttavia non ha corpo, che ha valore di scambio ma non ha alcun valore d'uso. Questo prodotto, si sa, è il denaro. E quando Harker esplora il castello, vi trova una cosa sola: «Un gran mucchio d'oro [...] oro di tutti i tipi; denaro romano ed inglese, e austriaco, e ungherese, e greco, e turco, coperto da un sottile strato di polvere, come se avesse giaciuto a lungo sottoterra.» (p. 56). Il denaro che era sepolto ritorna alla vita, si fa capitale, si lancia alla conquista del mondo: questa, non altra, la storia di Dracula il vampiro. «Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia». L’analogia di Marx scioglie la metafora del vampiro. Il quale, come tutti sanno, è morto e tuttavia non è morto: è un Undead, un Non-morto, un “morto” che tuttavia continua a vivere grazie al sangue che succhia ai “vivi”. Le loro forze diventano le sue forze. Quanto più il vampiro diventa forte, tanto più i vivi diventano deboli: «Il capitalista non si arricchisce come il tesaurizzatore in proporzione del suo lavoro personale e della sua frugalità personale, ma nella misura nella quale succhia forza-lavoro altrui e impone all’operaio la rinuncia a tutti i piaceri della vita». Come il capitale, Dracula è spinto a una crescita continua, a un’espansione illimitata del suo dominio: l’accumulazione è insita nella sua natura. «Questo − esclama Harker − era l’essere che aiutavo a trasferirsi a Londra, dove forse, per secoli e secoli, avrebbe saziato la sua sete di sangue su milioni e milioni di esseri formicolanti, e avrebbe creato una nuova e sempre più vasta cerchia di esseri diabolici che sarebbero prosperati a danno degli inermi» (p. 60, corsivo mio). 7 I seguaci dell’individualismo economico in senso stretto, coloro che perseguono solo il proprio profitto, sono anzi, inconsapevolmente, i migliori alleati del vampiro. L’individualismo non è l'arma con cui si può sconfiggere Dracula. Bisogna servirsi di altre cose. Due, sostanzialmente: il denaro e la religione. Denaro e religione considerati come un tutto unico, che non si deve separare. Il denaro, cioè, al servizio della religione; e viceversa. Il denaro dei nemici di Dracula è denaro che rifiuta di essere capitale: che non vuole obbedire alle leggi economiche, profane, del capitalismo, ma essere utilizzato a fin di bene. Verso la fine del romanzo, Mina Harker pensa all’impegno finanziario dei suoi amici: «Mi fece pensare al meraviglioso potere del denaro! Cosa non può fare quando è adoperato secondo giustizia; e cosa invece quando è usato in modo vile.» (p. 360). Ecco il punto: bisogna usare il denaro secondo giustizia. Il denaro non deve avere il suo fine in sé, nella sua continua accumulazione. Deve avere invece un fine morale, anti-economico: al punto che in tutta tranquillità si possono accettare – e si accettano − spese e perdite colossali. Denaro e religione, ovvero l’etica del denaro. HW: quali sono i tratti “non aristocratici” del conte Dracula e in che senso egli può essere visto come un campione dell’etica protestante. Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura 3 La dialettica della paura L’idea del denaro quale la si è definita nella parte conclusiva della precedente lezione è, per il capitalista, qualcosa di inammissibile: ma è anche la grande menzogna ideologica del capitalismo vittoriano. Del capitalismo che si vergogna di se stesso, che nasconde fabbriche e stazioni sotto pesanti sovrastrutture gotiche, che tiene in vita ed elogia i modelli di vita aristocratici, che esalta la santità della famiglia che già, sotterraneamente, disgrega. I nemici di Dracula sono appunto esponenti di questo capitalismo: sono la versione militante dei benefattori dickensiani. Trovano il loro compimento nella superstizione religiosa, che invece paralizza il vampiro. Crocefissi, ostie, aglio, fiori magici ecc. non sono però importanti per il loro intrinseco significato religioso, ma per una ragione più sottile. La loro vera funzione consiste nel porre dei limiti invalicabili all'attività del vampiro: gli impediscono di entrare in quella casa, di conquistare quella persona, di effettuare quella metamorfosi. Un’unica nube oscura il lieto fine: nell’uccidere Dracula muore anche, quasi per caso, Quincey P. Morris, l’americano che ha aiutato i suoi amici inglesi a salvare la loro patria. Sembra un evento inspiegabile, estraneo alla logica narrativa. E invece si inserisce alla perfezione nel disegno sociologico di Stoker. 10 L’americano Morris deve morire. Perché Morris è un vampiro. Fin dalla sua prima apparizione è avvolto dal mistero (un mistero amichevole, certo: ma non è molto simpatico, all’inizio, lo stesso Conte Dracula?): «E una persona così simpatica, un americano del Texas, e sembra così giovane e fresco (sembra: come Dracula, che lo sembra ma non lo è) che sembra quasi impossibile che egli sia stato in tanti posti e abbia avuto tante avventure.» (pp. 66-67). Quali posti? Quali avventure? Da dove viene tutto il suo denaro? Che lavoro fa il signor Morris? Dove abita? Di tutto questo nessuno sa nulla. Ma nessuno sospetta. Nessuno sospetta neanche quando Lucy muore − e poi si trasforma in vampiro − subito dopo aver ricevuto una trasfusione di sangue da Morris. Nessuno sospetta quando Morris, poco dopo, narra la storia della sua cavalla, dissanguata nella Pampa (nella Pampa: come Dracula, Morris ha girato il mondo) «da uno di quei grossi pipistrelli che chiamano vampiri» (p. 167). È la prima volta che il nome “vampiro” vien fatto nel romanzo: ma non c’è reazione. E non c’è reazione quando, poche righe dopo, Morris «si avvicinò e mi chiese in un bisbiglio, in tono aspro: ‘Che cosa ha fatto uscire il sangue?’». Ma il dottor Seward scuote la testa: non ne ha la minima idea. E Morris, rinfrancato, promette il suo aiuto. Nessun s’insospettisce allorché, durante la riunione in cui si pianifica la caccia al vampiro, Morris esce e va a sparare − mancandolo, beninteso − al grosso pipistrello che, seduto sul davanzale, ascolta i preparativi. Nessuno infine si insospettisce quando, dopo l’irruzione di Dracula in casa Harker, Morris va a nascondersi in mezzo agli alberi, con l’unico risultato di perder di vista Dracula e invitare tutti gli altri a rinunciare, per quella notte, alla caccia. E questo, pressappoco, è tutto quello che Morris fa in Dracula. Sarebbe un personaggio assolutamente superfluo se, a differenza degli altri, non fosse caratterizzato da questa misteriosa connivenza col mondo dei vampiri. Finché a Dracula le cose vanno bene, Morris si comporta come un complice; appena la tendenza si rovescia, si trasforma nel suo più irriducibile nemico. Morris entra in concorrenza con Dracula, vorrebbe sostituirlo nella conquista del Vecchio Mondo. Non ci riesce nel romanzo ma ci riuscirà, nella storia “vera”, pochi decenni dopo. Ora, se è interessante capire che Morris è legato ai vampiri − perché l’America finirà davvero col soggiogare l’Inghilterra, e l’Inghilterra ne ha, sia pur inconsapevolmente, paura − la cosa decisiva è però capire perché Stoker non lo presenta come un vampiro. La ragione sta nella concezione borghese del monopolio descritta più sopra. Per l’inglese Stoker, il monopolio deve essere feudale, orientale, tirannico: non può essere il frutto di quella stessa società che egli vuole difendere. E Morris, naturalmente, è invece un prodotto della civiltà occidentale, così come l’America è una costola dell’Inghilterra e il capitalismo americano una conseguenza di quello inglese. Fare di Morris un vampiro significa accusarlo direttamente; ovvero accusare l’Inghilterra, ammettere che è essa stessa ad aver partorito il mostro; e questo non può essere. 11 Morris dunque muore. E Morris va sacrificato per il bene dell’Inghilterra: ma l’Inghilterra deve comunque essere tenuta fuori da un delitto di cui non può riconoscere la legittimità. A ucciderlo sarà la coltellata casuale di uno zingaro (che gli inglesi lasceranno fuggir via impunito). E nel momento in cui Morris muore e la minaccia si estingue, la vecchia Inghilterra concede la sua benedizione a questo finanziere troppo invadente e spregiudicato, e lo innalza alla dignità di un lanciere del Bengala: «And, to our bitter grief, with a smile and in silence, he died, a gallant gentleman.» (p. 381. La frase, significativamente, è una miniera di figure obbligate della letteratura eroico-imperiale inglese: una misera traduzione potrebbe essere: «E, con nostro amaro dolore, sorridente e silenzioso, egli spirò, da prode gentiluomo.»). Queste, si badi, sono le ultime parole del romanzo: la cui vera conclusione non sta − è ormai chiaro − nella morte del conte rumeno, ma nell’uccisione del finanziere americano. Uno degli aspetti più appariscenti di Dracula − come già di Frankenstein − è il “sistema” degli emittenti narrativi. A cominciare dal fatto che − in questa girandola di lettere, diari, appunti, telegrammi, avvisi, registrazioni, articoli − la funzione propriamente narrativa – la descrizione e l'ordinamento degli eventi − è riservata ai soli inglesi. Non disponiamo mai né del punto di vista di Van Helsing né di quello di Morris né, tantomeno, di quello di Dracula. La vicenda esiste solo nella forma e nel senso impressi dalla cultura inglese vittoriana. Sono quelle categorie culturali, quei valori morali, quelle forme espressive ad essere messe in pericolo dal vampiro; sono quelle stesse categorie, forme e valori a ricostituirsi e trionfare. È una vittoria della convenzione sull'eccezione, del presente sul possibile futuro: dello “Standard English” su ogni trasgressione linguistica. In Dracula la cosa è trasparente: da un lato l’inglese perfetto e immutabile dei narratori − dall’altro il “dialetto” americano di Morris, l’inglese imparaticcio di Dracula, gli svarioni di Van Helsing. E − come Dracula è un pericolo perché costituisce una variazione non prevista dal codice culturale inglese − così il massimo della minaccia sul piano del contenuto coincide con la massima inefficienza e disgregazione della lingua inglese. A metà romanzo, quando Dracula sembra padrone della situazione, la frequenza dei discorsi di Van Helsing aumenta enormemente, e il suo inglese perverso domina la scena. E la domina perché la lingua inglese ha sì la parola “vampiro”, ma non sa attribuirle un significato, così come la società inglese ritiene che “monopolio capitalistico” sia un’espressione priva di senso. Van Helsing deve spiegare, con parole approssimative e smozzicate, che cos’è un vampiro: solo allora, quando queste nozioni siano state tradotte nel codice linguistico e culturale degli inglesi, e il codice si sia riorganizzato e rafforzato, la narrazione può tornare ad esser distesa, la caccia può avere inizio e la vittoria appare sicura. È del tutto logico che l’ultima frase sia, come s’è visto, un vero e proprio do di petto dell’inglese letterario. In Dracula non esiste un narratore onnisciente, ma solo punti di vista individuali e separati fra loro. 12 l’illuminista Stendhal, questo significa negare la stessa ragion d'essere dell'uomo: l’amore diventa un pericolo mortale, e solo un pericolo più forte (Dracula!) potrà guarire chi ne è preda. Per l’illuminista Stendhal, dunque, l’amore può diventare un pericolo mortale e solo un pericolo più forte potrà guarire chi ne è preda: «Il salto di Leucade – egli dice – era una bella immagine nell’antichità: in verità, il rimedio all’amore è quasi impossibile. Occorre non solo il pericolo che richiama forte l’attenzione dell’uomo alla cura della propria conservazione, ma anche, cosa molto più difficile, la continuità di un pericolo affascinante». Un pericolo affascinante, come quello dell’amore è un fascino pericoloso: paura e desiderio si rovesciano incessantemente l’uno nell’altra. Sono indivisibili. Ne troviamo conferma in Sade. Nella Lamia di Keats. Nella Ligeia di Poe. Nelle donne di Baudelaire, nella donna vampiro di Hoffmann. Gli esempi si possono moltiplicare. Ma chiediamoci invece: perché? Il vampirismo è un ottimo esempio dell’identità di desiderio e paura: poniamolo dunque al centro dell'analisi. E prendiamo l'interpretazione psicoanalitica di questo fenomeno, avanzata per esempio da Marie Bonaparte nel suo studio su Poe. Commentando l’affermazione di Baudelaire secondo cui le donne di Poe sono ritratte «con lo stile enfatico dell’adoratore», la Bonaparte precisa: «Di un adoratore [...] che ha paura di avvicinarsi a ciò che adora per timore di qualche mistero terribile e pericoloso». E questo mistero non è che il vampirismo: «Il pericolo della sessualità, il castigo che minaccia chi vi si abbandona, sono indicati, in Berenice, dall’ossessione che ha Egaeus per i suoi denti. Infatti nel corso dell’analisi di molti impotenti si trova l'idea più o meno inconscia, e che sembrerà strana a più di un lettore, che la vagina della donna sia dentata e quindi pericolosa, perché può mordere e castrare [...] La bocca e la vagina nell’inconscio sono equivalenti, e quando Egaeus, in un impulso morboso, strappa i denti a Berenice, cede insieme all’attrazione della vagina materna e a un desiderio di vendetta contro di essa, che, troppo pericolosa, lo escludeva dal possesso della donna. Egli esegue in tal modo sulla madre, amata e odiata insieme per aver respinto l’amore sessuale del suo bambino, una castrazione punitiva [...]. Il tema immaginario della vagina dentata e quindi pericolosa è d’altronde anche la trasposizione di un altro tema [...]. Sappiamo che il lattante si contenta, finché non ha i denti, di succhiare il seno materno, ma, quando essi cominciano a spuntargli, se ne serve per morderlo. È questa la prima forma che prende in tutti noi l’istinto di aggressione [...] Più tardi, quando si è impiantato (nel bambino) il senso di “ciò che non si deve fare” [...] allora il ricordo, o piuttosto il fantasma, del morso del seno materno deve riapparire nell'inconscio, investito di un senso di colpa retrospettivo. E il bambino, che ha imparato, per esperienza, la legge del taglione che si applica alle sue infrazioni morali [...] il bambino, in risposta ai morsi che voleva infliggere alla madre, teme a sua volta il morso di quest'ultima, il taglione del cannibalismo». È una citazione lunga: ma fissa con precisione la radice ambivalente, l’intreccio di odio e amore, che sta alla base del vampirismo. E un’ambivalenza analoga era già stata descritta da Freud in relazione al tabù dei morti (e il vampiro, si sa, è anche un morto che torna in vita per distruggere i superstiti). 15 «L’ostilità dell'inconscio, dolorosamente avvertita come soddisfazione per la morte avvenuta, [...] è esteriorizzata, e cioè spostata all’oggetto dell’ostilità, al defunto [...] Ancora una volta troviamo che il tabù è nato sul terreno di un’ambivalenza affettiva. Anche il tabù dei morti ha origine dall'antitesi tra il dolore cosciente e l'inconscia soddisfazione per la morte avvenuta. È ovvio, posta questa origine della malevolenza degli spiriti, che proprio i superstiti più prossimi e più cari debbano temerli più degli altri». Il testo di Freud non lascia dubbi: l’ambivalenza esiste all’interno della psiche di chi patisce la paura. Per sanare un simile stato di tensione si è costretti a reprimere, inconsciamente, uno dei due stati affettivi in conflitto, quello socialmente più illecito. Dalla repressione nasce la paura: «Qualsiasi stato affettivo pertinente a un impulso emozionale, se represso, si trasforma, a prescindere dalla sua natura, in ansia». E la paura esplode quando − per un qualsiasi motivo − questo impulso represso si ripresenta e si impone alla coscienza: «Si ha una sensazione perturbante quando una data impressione riporta a nuova vita complessi infantili repressi, oppure quando credenze primitive e superate sembrano trovare nuova conferma». La paura, insomma, coincide con il “ritorno del represso” cui s'intitola questo paragrafo. E con questo arriviamo forse al cuore del problema. La letteratura del terrore è costellata di passaggi in cui i protagonisti sfiorano la consapevolezza − descritta da Freud − che l’elemento perturbante sia dentro di loro: che siano essi stessi a produrre i mostri di cui hanno paura. La loro prima paura è − immancabilmente − quella di impazzire. «Ricorda, non sto descrivendo le allucinazioni di un pazzo.» (Frankenstein, p. 45). «Dio preservi la mia sanità mentale [...] solo questo spero, di non impazzire [...] se sono ancora sano di mente.» (Dracula, pp. 44-45; parla Harker). «[Il dottor Seward] sostiene che costituisco per lui un curioso caso psicologico.» (Dracula, p. 64: Lucy). «Sono giunto alla conclusione che debba trattarsi di un fenomeno mentale.» (Dracula, p. 121: Seward, che è anche direttore di un manicomio). Jekyll deve difendersi dal sospetto di essere pazzo; così come, un secolo prima, lo Aubrey di Polidori. È il represso che ritorna. Sono romanzi in cui la realtà funziona spesso secondo le leggi che governano i sogni: “non stavo sognando”, “ancora brutti sogni”, “come un sogno”, “come se avessi attraversato un lungo incubo”. Alcuni di questi personaggi − Frankenstein, Harker, Aubrey, il paziente di Seward, Renfield − impazziscono davvero, almeno per un certo periodo. È il represso che ritorna. HW: quali sono i tratti perturbanti e “pericolosi” di Lucy, in Dracula. 16 Frankenstein e Dracula. La dialettica della paura 5 È il represso che ritorna, si diceva. Ma come ritorna? Non come pazzia, o solo marginalmente come pazzia. La lezione che queste opere vogliono impartire è che non bisogna aver paura di impazzire, ossia che non bisogna aver paura delle proprie rimozioni, della scissione della propria psiche. No: bisogna aver paura del mostro, di qualcosa di materiale, di qualcosa di esterno: «‘Dottor Van Helsing, siete impazzito?’ [...] ‘Magari lo fossi − rispose −, la pazzia sarebbe facile da sopportare a paragone di fatti reali come questo’» (cioè il vampiro, Dracula, p. 200). Magari lo fossi: questa è la chiave. La pazzia non è nulla di fronte al vampiro. La pazzia non costituisce un problema. Meglio: la pazzia, di per sé, non esiste: è il vampiro, il mostro, la pozione a crearla. Dracula, scritto nello stesso anno in cui Freud iniziò la sua autoanalisi, è un raffinato tentativo della coscienza ottocentesca per non riconoscersi. Ne è simbolo il personaggio che − già in preda a oscuri timori − si trova casualmente di fronte a uno specchio. Vi guarda dentro e trasale: nello specchio si riflette il suo volto. Ma l’attenzione del lettore è subito sviata: la paura non deriva dall’aver visto la propria immagine, ma dal fatto che il vampiro non si riflette nello specchio. Trovatosi faccia a faccia con la semplice e terribile verità, l’autore − e con lui il protagonista e il lettore − se ne ritrae inorridito. Il represso, dunque, ritorna: ma travestito da mostro. Dopo aver cambiato forma. Per una ricerca psicoanalitica, il dato principale è appunto questa metamorfosi. «Il rapporto tra inconscio e letteratura ‒ ha scritto Francesco Orlando di una sua analisi della Phèdre ‒ non veniva postulato in base alla presenza di contenuti, quali che fossero, nelle opere letterarie [...] il desiderio perverso non avrebbe potuto essere accolto come contenuto nell’opera letteraria senza che questa accogliesse insieme il modello formale capace di filtrarlo». Questo modello formale è la metafora-mostro, la metafora-vampiro. Essa “filtra”, ossia rende sopportabili alla coscienza, quei desideri e paure che essa, giudicandoli inaccettabili, è stata costretta a reprimere, e di cui dunque non può riconoscere l'esistenza. La formalizzazione letteraria, la figura retorica, ha perciò una doppia funzione: esprime il contenuto inconscio e insieme lo nasconde. La letteratura contiene sempre entrambe queste funzioni. Cancellarne l’una o l’altra significherebbe o eliminare il problema dell’inconscio (asserendo che in letteratura tutto è trasparente e manifesto) o il problema della comunicazione letteraria (asserendo che la letteratura serve solo a nascondere certi contenuti). Ma se queste due funzioni son sempre presenti nella metafora letteraria, il rapporto fra di loro può nondimeno cambiare: l’una può assumere un rilievo maggiore dell’altra e conquistare una posizione dominante all'interno del significato complessivo dell’opera. Queste osservazioni interessano direttamente il nostro discorso, perché la metafora del vampiro è uno splendido esempio di come possa variare l’equilibrio delle funzioni letterarie. 17 Del resto, questa storia la conosciamo: è la storia del dottor Frankenstein. Nel romanzo della Shelley il mostro, la metafora, appare ancora, almeno in parte, come un dato che va costruito, come un prodotto dell’uomo. Il mostro, avverte la Shelley, è qualcosa di «fisicamente impossibile»: è qualcosa di metaforico. Ma tant’è: il mostro vive. Il mostro come metafora, dunque. Ma una metafora “viva”. Il primo momento di terrore di Frankenstein nasce proprio dinanzi a questo fatto: che una metafora si alzi e cammini. Una volta avvenuto questo, egli sa che non potrà mai riassumerne il controllo. D’ora in poi la metafora del mostro condurrà un’esistenza autonoma: non sarà più un prodotto, una conseguenza, ma l’origine stessa della letteratura del terrore. In Dracula − che porta alle estreme conseguenze la logica di questa letteratura − il vampiro esiste ormai da tempo immemorabile, increato e inspiegabile. C’è un altro punto su cui le opere della Shelley e di Stoker divergono radicalmente: sull’effetto che intendono produrre sul lettore. La diversità si può esprimere così: c’è una bella differenza fra una descrizione della paura e una descrizione paurosa. Frankenstein (come anche Jekyll) non vuole spaventare il lettore: vuole convincerlo. Fa appello alla sua ragione. Vuole costringerlo a riflettere su alcuni grandi problemi (lo sviluppo della scienza, l’etica familiare, il rispetto delle tradizioni) e a convenire − razionalmente – che essi sono minacciati da forze potenti ed oscure. Vuole insomma ottenere l’adesione del lettore alle tesi “filosofiche” che l’autore espone a chiare lettere nel corso della narrazione. La paura è subordinata a questo progetto. È uno dei mezzi usati per convincere; ma non l’unico, né il principale. Ad aver paura non è il lettore, ma il protagonista. La paura si risolve all’interno del testo, senza penetrare nel suo rapporto con il destinatario. A questo fine, la Shelley usa due espedienti stilistici. Stabilisce che il tempo della narrazione sia il passato: e il passato attenua ogni paura, perché il tempo intercorso permette di non restar prigionieri degli eventi. Al caso subentra l’ordine, allo shock la riflessione, al dubbio la certezza. E questo è tanto più vero in quanto il mostro non ha nulla di ignoto: vediamo Frankenstein costruirlo pezzo per pezzo e sappiamo fin dall’inizio quali saranno le sue caratteristiche. È minaccioso perché è vivo e perché è grande: non perché sfugge alla comprensione razionale. Ed è proprio dall’insicurezza della ragione, viceversa, che nasce la paura: «La “suspense” − scrive Barthes − prende allo “spirito”, non allo stomaco». Diversa, infatti, la struttura narrativa di Dracula, che è il vero capolavoro della letteratura del terrore. Qui il tempo narrativo è sempre il presente, e l’ordine narrativo, sempre paratattico, non istituisce mai nessi causali. Al pari dell’io narrante, il lettore dispone solo di indizi: vede gli effetti, ignora le cause. È appunto questa situazione a generare la “suspense”. La quale, a sua volta, rafforza l’identificazione del lettore nella vicenda narrata. Il lettore è trascinato a viva forza dentro il testo. La paura dei personaggi è anche la sua paura. Tra testo e lettore non esiste più quella distanza che, in Frankenstein, stimolava la riflessione. Stoker non vuole un lettore pensante, ma un lettore atterrito. Certo, la paura non è fine a se stessa: è il mezzo per ottenere il consenso ai valori ideologici che abbiamo esaminato. 20 Ma, questa volta, la paura è l’unico mezzo. Il che vuol dire che la convinzione non ha più nulla di razionale: è altrettanto inconscia del terrore che la produce. E così, pretendendo di salvare la ragione, minacciata da forze oscure, la letteratura del terrore non fa che asservirla più saldamente: la restaurazione di un ordine logico coincide con l’adesione, inconsapevole e irrazionale, a un sistema di valori su cui non si ammette discussione. Pretendendo di salvare l’individuo, essa in effetti lo annulla: presenta la società − l’idillio feudale di Frankenstein al pari dell’Inghilterra vittoriana di Dracula − come una grande corporazione: chi ne infrange i vincoli è perduto. Pensare con la propria testa, seguire i propri interessi: questi i veri pericoli che la letteratura del terrore vuole scongiurare. Illiberale in senso profondo, rispecchia e promuove l’aspirazione a una società integrata, a un capitalismo che sappia essere “organico”. Il mostro e il vampiro fanno sempre la loro comparsa in periodi di crisi sociale: per sanarla. Questa è la letteratura dei rapporti dialettici: in cui gli opposti, invece di separarsi ed entrare in conflitto, esistono l'uno in funzione dell’altro, si rafforzano a vicenda. Tale, secondo Marx, il rapporto fra capitale e lavoro salariato. Tale, secondo Freud, quello tra Super-io e inconscio. Tale, secondo Stendhal, il legame fra l’innamorato e il suo amore malato. Tale il rapporto che stringe Frankenstein al mostro e Lucy a Dracula. Tale infine il legame tra il fruitore e la letteratura del terrore. Quanto più un’opera fa paura, tanto meglio fa stare. Quanto più umilia, tanto più esalta. Quanto più nasconde, tanto più illude di rivelare. È una paura di cui si ha bisogno: il prezzo per adeguarsi felicemente a un corpo sociale che si basa sull'irrazionalità e la minaccia. Altro che evasione. (Franco Moretti) HW: il significato della seguente affermazione di Francesco Orlando: «il desiderio perverso non avrebbe potuto essere accolto come contenuto nell’opera letteraria senza che questa accogliesse insieme il modello formale capace di filtrarlo». 21
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