Docsity
Docsity

Prepare for your exams
Prepare for your exams

Study with the several resources on Docsity


Earn points to download
Earn points to download

Earn points by helping other students or get them with a premium plan


Guidelines and tips
Guidelines and tips

Teocrito: Poesia Pastorale e Divinità: Idillio I e III, Study notes of Ancient Greek

Due idilli di Teocrito, I e III, che rappresentano la poesia pastorale e la relazione tra gli eroi pastorali e le divinità. Il primo idillio descrive la poesia di Tirsi e la sua relazione simpatetica con la natura, mentre il secondo idillio descrive l'amore di Giasone per Medea e la sua relazione con la divinità. Il documento mette in evidenza come Teocrito inserisca elementi letterari e colti, come l'ökfrasij, nella poesia pastorale, e come le divinità non siano più onnipotenti come in Omero.

Typology: Study notes

2021/2022

Uploaded on 06/27/2022

giada-francesconi-1
giada-francesconi-1 🇳🇱

4.5

(2)

4 documents

Partial preview of the text

Download Teocrito: Poesia Pastorale e Divinità: Idillio I e III and more Study notes Ancient Greek in PDF only on Docsity! Da G. A. Privitera – R. Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca TEOCRITO GLI IDILLI BUCOLICI Fra gli idilli bucolici i più significativi sono senza dubbio il I, il V e il VII. Nell'Idillio I, intitolato Tirsi (QÚrsij À òd»), l'omonimo pastore, su invito di un capraio che gli ha promesso in dono una ricca tazza di legno artisticamente intagliata, intona un canto dedicato alle pene d'amore e alla morte di Dafni: è questo il motivo più tradizionale e rappresentativo di tutta la poesia pastorale, in quanto incentrato sulla figura dell'eroe bucolico per eccellenza. Il personaggio di Dafni, già presente non solo nella mitologia popolare, ma anche nella letteratura (come attesta uno dei carmi minori di Stesicoro intitolato appunto Dafni, fr. 279 Page), viene promosso da Teocrito a figura emblematica del mondo dei pastori e, per tale ragione, quest'idillio è stato scelto dai primi editori come carme di apertura della silloge teocritea. L'eroe vive in simbiosi con la natura, tanto da preferire la morte pur di rifiutare l'amore, da lui vissuto come sentimento che, in quanto esclusivamente umano, potrebbe estraniarlo dal mondo e dai valori in cui si identifica: interviene qui infatti la tradizionale dicotomia tra il binomio amore-cultura e il binomio verginità- natura. Particolarmente originale nel canto di Tirsi è la descrizione del rapporto simpatetico tra Dafni e la natura; intorno all'eroe che soffre si stringe tutto il suo mondo: le piante, gli animali, i pastori e le divinità agresti (Hermes e Pan). Dal punto di vista formale, siamo di fronte a elegantissimi esametri dattilici, ma mentre il verso nell'ambito della poesia epica è impiegato in modo rigorosamente stichico, il canto di Tirsi tradisce l'originario carattere folclorico, poiché impiega ripetutamente una sequenza che funge da ritornello e che divide gli esametri in tanti brevi gruppi diseguali, quasi stanze di una canzone. Ma, come contraltare a questo carattere «popolare», Teocrito inserisce nell'Idillio I un motivo squisitamente letterario e colto, l'œkfrasij, cioè la descrizione minuziosa di un oggetto artistico, nel caso specifico la tazza di legno donata dal capraio a Tirsi. Il canto di Tirsi sui dolori e la morte di Dafni viene presentato come la riproposizione di un carme composto precedentemente, in occasione di un agone pastorale con un non meglio identificato Chromi di Libia (vv. 23-24): è chiaro il riferimento a gare popolari di canto, per le quali i cantori attingevano a veri e propri repertori tematici, adattabili dall'autore-esecutore alle mutate necessità e circostanze dell'esecuzione. Rispetto agli altri, l’Idillio V (A„polikÕn kaˆ poimenikÒn, "Il capraio e il pastore") è quello in cui risultano più evidenti e meglio conservati gli elementi e i motivi che sono alla base della trasposizione letteraria operata da Teocrito. Tutta la prima parte (vv. 1-79) è un serrato dialogo - particolarmente ricco di realistici elementi campestri e pastorali - fra il capraio Cornata e il pecoraio Lacone, durante il quale quest'ultimo sfida Cornata a un agone bucolico con relativa posta in palio: il boscaiolo Morsone farà da giudice. Nell'idillio l'agone bucolico (vv. 80-137), del tipo a «botta e risposta», ha subìto una letterarizzazione, in virtù della quale il poeta ha attribuito costantemente una coppia di esametri a ciascuno dei due contendenti: il primo, analogamente a quanto accade nella realtà, si fa carico della «proposta», mentre all'altro spetta la «risposta». Tuttavia dell'agone reale (come ha dimostrato Gregorio Serrao) Teocrito conserva la caratteristica fondamentale: da una parte la precisa rispondenza fra proposta e risposta, dall'altra la continuità tematica fra ciascuna coppia di «botta e risposta». Si viene cosi a realizzare una corrispondenza sia orizzontale, con l'osservanza dell'identità di argomento fra battuta del proponente e replica di colui che risponde, sia verticale, con l'osservanza del principio di non contraddire quanto si è affermato nelle coppie agonali precedenti. Proprio perché Lacone viola quest'ultima norma, Morsone arresta la gara e assegna la vittoria a Cornata (v. 138). Che l’Idillio V si ispiri direttamente alla realtà lo rivela il linguaggio colorito, in certi punti addirittura crudo, con riferimenti a particolari della vita pastorale: valga per tutti l'insistenza e la precisione con cui Teocrito distingue, nell'ambito dei ruoli pastorali, la funzione del pecoraio da quella del capraio. Egli rispetta infatti la gerarchia bucolica, che prevedeva al suo apice la figura del bovaro, per scendere poi a quella del pecoraio e infine a quella del capraio, e ciò in base al maggior valore, in natura, della razza bovina rispetto a quella ovina e caprina. Anche l’Idillio VI (Boukoliasta…, "I cantori") presenta un agone tra due pastori, Dameta e il bovaro Dafni. Questa volta però i due contendenti non si sfidano in un serrato confronto a «botta e risposta», ma si impegnano a cantare ciascuno un breve componimento; il primo canto, incentrato sull'amore di Polifemo per Galatea, è di Dafni (vv. 6-19), al quale risponde, sulla medesima tematica, Dameta, che per l'occasione impersona addirittura il ruolo di Polifemo (vv. 21-40). Dai contenuti e dai modi della performance di Dameta, il quale riprende i temi del canto che funge da proposta, risulta evidente che il suo boukoliasmÒj («canto bucolico») è concepito come l'imitazione di quello che nella realtà era un componimento improvvisato. In questo senso l'agone fra il bovaro Dafni e Dameta costituisce forse l'esempio più fedele degli agoni poetici pastorali del tipo di quello tra Tirsi e Chromi ricordato nell’Idillio I. Come si vede, gli Idilli V e VI testimoniano due modalità diverse nella realizzazione degli agoni bucolici: il primo è fondato sulla capacità tutto sommato meccanica dei contendenti di non allontanarsi dal tema proposto, l'altro, pur non prescindendo da questo tipo di abilità, presuppone una loro notevole capacità compositiva. Evidentemente l'agone a «botta e risposta» era aperto, in modo più generalizzato, a quanti avessero prontezza e facilità di battuta, l'altro doveva invece essere riservato a veri e propri cantori. Le occasioni di canto in ambiente pastorale non erano certo limitate agli agoni bucolici, come del resto si è già detto a proposito del canto di Tirsi nell'Idillio I, eseguito su sollecitazione di un anonimo capraio. Infatti, nell’Idillio VII (QalÚsia) - il carme in cui viene descritta l'investitura di Simichida/Teocrito a poeta pastorale da parte del capraio Licida -, la successiva performance dei due boukoliasmo… avviene al di fuori di un contesto agonale. L'occasione è costituita dall'incontro fortuito dei due protagonisti, Simichida e Licida: il primo, in compagnia di due amici, si sta recando fuori città al podere di Frasidamo, dove ha luogo la festa contadina delle Talisie, durante la quale si celebra la dea Demetra per l'abbondanza del raccolto. Dopo l'episodio dell'investitura, i due, dovendo percorrere un tratto di strada in comune, si compiacciono di far ascoltare l'uno all'altro un canto pastorale. I due componimenti vengono presentati come frutto non di improvvisazione, ma di una precedente elaborazione avvenuta sui monti (vv. 51, 92): quest'ultima affermazione sulla bocca di Simichida/Teocrito, che non è un pastore, rivela, dopo l'avvenuta investitura a poeta bucolico, un'esplicita intenzione di mimesi della vita pastorale. Il primo dei due boukoliasmo…, quello recitato da Licida, si configura come un propemptikÒn, cioè come un canto augurante un felice viaggio, nei confronti dell'amato Ageanatte, in procinto di navigare alla volta di Mitilene. Particolarmente suggestiva è la descrizione del simposio agreste preparato per celebrare, nell'ambito di una festa campagnola, il felice esito del viaggio dell'amato (vv.71-82): Suoneranno per me l'aulo due pecorai, uno di Acarne, l'altro di Licope; Titiro da presso canterà come una volta di Xenea era innamorato Dafni, il bovaro, e come si affannava per la montagna e come lo piangevano le querce, che crescono sulle sponde del fiume Imera, quando si struggeva come neve ai piedi dell'alto Emo o dell'Athos o di Rodope o del Caucaso ai confini del mondo; canterà come una volta un'ampia cassa accoglieva il capraio (il mitico Cornata) ancora vivo, a causa della malvagia superbia del padrone, e come lo nutrivano, venendo dal prato al cedro odoroso, con fiori delicati le api camuse, perché la Musa gli versava sulla bocca dolce nettare. Sono versi molto interessanti perché da un lato testimoniano che ancora nel secolo III a.C. il simposio, anche se trasferito in ambiente agreste-pastorale, costituiva una delle occasioni privilegiate per l'esecuzione di canti che, vista la mutata ambientazione, erano ovviamente di APOLLONIO RODIO L'EPICA DI APOLLONIO E IL RAPPORTO CON LA TRADIZIONE Quello argonautico è un mito molto antico, a cui fa riferimento già l'Odissea (XII, 69-72), in un modo che sembrerebbe confermare la preesistenza di un vero e proprio ciclo epico; e infatti la critica omerica di stampo analitico ha supposto che un epos argonautico sia il modello dell'Odissea. In base ai più recenti studi sulla cultura orale, le conclusioni avanzate dalla vecchia critica analitica sui rap porti tra i poemi omerici e altri cicli epici non sono più accettabili, ma resta indubitabile (come testimonia il suddetto passo dell'Odissea) la notevole antichità del ciclo argonautico. L'opera di Apollonio è l'unica testimonianza diretta pervenutaci di questo ciclo epico; tuttavia esso dovette avere molta fortuna nell'epica preellenistica e venne trattato da diversi autori, come dimostra soprattutto il ragguardevole numero di varianti mitiche testimoniate dagli scoli alle Argonautiche. Certamente quindi Apollonio si inserì in un antico filone di epica ciclica ed ebbe presente una pluralità di fonti e di modelli. II rapporto di Apollonio con la secolare tradizione epica che lo precede è mediato dalla riflessione estetico-letteraria aristotelica. Apollonio, infatti, tenne certamente presenti molti dei canoni di eccellenza espressi da Aristotele nella parte della Poetica relativa al genere epico. Il filosofo, riferendosi in particolar modo all'epica e alla tragedia, identifica tre categorie estetiche in base alle quali un'opera letteraria si può ritenere eccellente (Poetica 1459a-b): l'unità, intesa come svolgimento tematico intorno a un'unica azione mitica; la compiutezza, ovvero l'articolarsi della narrazione secondo uno svolgimento che abbia un inizio e una fine; l'estensione dell'opera. A proposito dell'estensione, Aristotele sostiene che la giusta lunghezza di un'opera letteraria va commisurata alla giusta grandezza di un essere vivente, il quale, per essere considerato bello, non deve essere né piccolo né troppo grande, ma grande fino al punto da poter essere abbracciato con lo sguardo (Poetica 1450b-1451a): il che, rapportato a un'opera letteraria, significa che essa non deve essere né troppo breve né tanto lunga da procurare al lettore o all'ascoltatore una sensazione di smarrimento, ma estesa in misura tale che la sua materia risulti dominabile dalla memoria di chi ne fruisce. Mentre riguardo all'unità e alla compiutezza non sussiste differenziazione fra il genere epico e quello tragico, il discorso muta in riferimento all'estensione: l'epos infatti può permettersi dimensioni più ampie in ragione delle sue frequenti digressioni tematiche, che hanno la precisa funzione di distrarre e sollevare emotivamente il fruitore, mentre la tragedia è necessariamente più breve, in quanto non può permettersi questo tipo di espediente narrativo (Poetica 1459b). Tuttavia Aristotele, pur reputando giusto che vi sia una differenza di estensione tra l'epos e la tragedia, suggerisce che un'opera epica, per poter essere abbracciata con la mente e rispondere quindi al canone di perfetta estensione, dovrebbe essere lunga quanto una tetralogia tragica (Poetica 1459b). Le Argonautiche di Apollonio sono chiaramente ispirate alla volontà di attuare, in maniera coerente e fedele, le norme aristoteliche. Sono infatti un'opera unitaria, in quanto articolata narrativamente intorno a una sola azione mitica, costituita dal viaggio, dalla conquista del vello e dal ritorno degli eroi; sono un'opera compiuta, poiché si sviluppa dall'inizio alla fine con un esito circolare, idealmente rappresentato dal ritorno dei protagonisti al punto di partenza; e sono infine un'opera estesa nella giusta misura, poiché con un totale di circa seimila versi (vale a dire poco più di un terzo della lunghezza dell'Iliade) riescono ad abbracciare per intero la narrazione di una vicenda mitica cronologicamente molto vasta. Ma, come ha fatto notare Gregorio Serrao, Apollonio va anche oltre nell'attuazione del verbo aristotelico, tanto da mettere in pratica quella che il filosofo di Stagira presentava come un'ipotesi teorica: le Argonautiche sono infatti divise in quattro libri, aventi ciascuno approssimativamente l'estensione di una tragedia, in modo tale che l'intera opera raggiunga l'esatta lunghezza di una tetralogia drammatica. L'ORIGINALITÀ DI APOLLONIO Tuttavia Apollonio, pur nel rispetto delle norme estetiche imposte dalla tradizione del genere epico e sancite dalla riflessione teorica di Aristotele, elabora una personale scelta letteraria, che non è certo quella di rottura col passato propugnata da Callimaco, ma neppure quella estremamente conservatrice di tanti poeti suoi contemporanei. Sia Callimaco sia Apollonio prendono le mosse dalla critica aperta che Aristotele rivolge agli epigoni di Omero, i poeti dell’epos ciclico, accusandoli di non saper dare alle loro opere quell'unitarietà e compiutezza che caratterizza l'Iliade e l’Odissea (Poetica 1451a, 1459b). Mentre però Callimaco ritiene perduta in partenza la sfida di dare unità e compiutezza a una vasta materia mitica e preferisce abbandonare il vecchio modo di comporre l'epica a vantaggio dell'epillio (un breve epos che tratti soltanto episodi circoscritti e marginali della saga mitica), Apollonio accetta questa sfida, e non rinuncia a priori a un epos di vasto respiro. Aristotele infatti sosteneva che la ragione dell'unità narrativa dei poemi omerici è insita nel fatto che essi non raccontano la saga eroica nella sua totalità, ma solo una parte di essa: l’lliade narra solo gli eventi relativi a un periodo dell'ultimo anno di guerra (Poetica 1459a); l’Odissea non narra tutte le vicende mitiche legate a Odisseo, ma solo quelle relative al suo ritorno da Troia (Poetica 1451a). In altri termini, della saga troiana e dei viaggi di ritorno degli eroi a essa conseguenti i due poemi omerici affrontano solo alcuni momenti ben definiti, tant'è vero che a completarne il quadro intervengono numerosi poemi del Ciclo. Apollonio va addirittura oltre la teorizzazione aristotelica e compone un poema che abbraccia un intero ciclo epico, raccontando tutta quanta la saga argonautica: i preparativi del viaggio, la partenza, il viaggio con le imprese a esso relative, gli avvenimenti in Colchide, il ritorno. E lo fa dando unità, compiutezza e giusta estensione alla sua opera. Apollonio raccolse dunque una diffìcile sfida letteraria e la vinse, innovando in maniera notevole la tradizione epica classica. Se si valuta quindi il poema di Apollonio tenendo conto del rapporto che in esso si realizza tra vastità della materia narrata e osservanza dei criteri di unità, compiutezza ed estensione, le Argonautkhe si dimostrano, per assurdo - ma neanche tanto, qualora si superi una prospettiva di impronta callimachea -, uno straordinario esempio di brevitas narrativa: Apollonio ripensa il genere epico secondo le nuove norme estetiche aristoteliche, rivissute nell'atmosfera culturale dell'età alessandrina. Mentre l'epica tradizionale, come si può vedere soprattutto dai poemi omerici, procede narrativamente senza selezionare gli elementi del racconto, Apollonio applica questo principio con costanza. In altre parole la diegesi in Omero procede come un flusso continuo, sempre alla stessa velocità, narrando distesamente ogni evento e ogni azione dei protagonisti umani e divini: questa uniformità narrativa priva di scarti si esplica perfettamente nella cosiddetta «scena tipica», la cui descrizione viene reiterata ogniqualvolta se ne presenti l'occasione. In termini narratologici l'epos tradizionale ignora del tutto il principio della sintesi, pone tutti gli eventi su uno stesso livello di importanza, tendendo a riempire completamente lo spazio del racconto. Apollonio, invece, ha composto le Argonautiche secondo un ferreo principio di selezione, cosi da creare un flusso narrativo a differenti velocità. I primi due libri e il quarto, che descrivono rispettivamente il viaggio di andata e quello di ritorno, seguono in generale i tempi narrativi tipici dell'epos, e tuttavia presentano notevoli sproporzioni nell'estensione delle singole parti: la descrizione dei preparativi della partenza si prolunga fino a occupare quasi metà del primo libro, col chiaro intento di creare un effetto di attesa; tra gli episodi del viaggio, quelli salienti per gli esiti futuri dell'impresa, come la perdita di Ila ed Eracle in Misia o l'incontro con l'indovino Fineo, vengono dilatati più di altri, per esempio più degli episodi dei Dolioni o dei Bebrici. Le scene di navigazione sono ridotte al minimo indispensabile e, spesso, si passa da una tappa all'altra del viaggio senza accennare ai tempi dello spostamento. Rarissime sono le digressioni e sempre funzionalizzate. Indicativa, a questo proposito, è l'œkfrasij ("descrizione") del mantello indossato da Giasone per recarsi da Issipile, regina di Lemno (I, 721-767): richiamando direttamente il parallelo omerico della descrizione dello scudo di Achille nel canto XVIII dell'Iliade, l'opposizione tra i due oggetti - il capo di vestiario destinato all'abbellimento e l'arma destinata alla guerra - definisce la differenza, sul piano della dimensione eroica, tra Achille e Giasone, il primo capace di gesta belliche, il secondo di imprese amorose. Solo apparentemente digressivi sono poi i procedimenti eziologici e analettici (intendendo per analessi quel procedimento narrativo per cui di ogni evento mitico raccontato viene presentato l'antefatto); al contrario essi svolgono una funzione fondamentale nell'economia generale del poema. Le Argonautiche infatti vogliono essere un'opera non solo epica, ma anche storica: il loro autore non intende il passato mitico come qualcosa di distante dal presente storico, ma vuole connettere i due diversi piani. La storicizzazione del mito si compie attraverso quel procedimento eziologico che abbiamo visto essere uno dei tratti peculiari della nuova poetica alessandrina. In tal senso Apollonio si rende indipendente dalla dottrina aristotelica, che voleva la poesia e la storia ben differenziate negli intenti e nella materia, e approda decisamente a posizioni nuove, di stampo callimacheo. L'intento eziologico impronta di sé gran parte dell'opera apolloniana; esso è sotteso a molti degli episodi narrati nei primi due libri e nel quarto, là dove le vicende del mito argonautico servono a spiegare usanze, riti, fondazioni di culti e città che riguardano i luoghi toccati dalla spedizione. Come il procedimento eziologico serve a creare un rapporto tra passato mitico e presente storico, cosi quello analettico serve a contestualizzare il mito principale, a metterlo cioè in rapporto con eventi mitici precedenti. Si tratta di un procedimento estraneo all'epica tradizionale, in cui ogni opera appartenente a un ciclo si limitava a narrare solo un segmento di una saga mitica, senza sconfinare nella materia di altre opere del medesimo ciclo, né (se si escludono brevi e sporadici accenni) in quella di cicli differenti. La tendenza di Apollonio a spiegare le cause e gli antefatti di ogni episodio mitico, anche di episodi esterni rispetto alla saga argonautica, risponde alla volontà di creare un'opera in sé compiuta e auto sufficiente, in cui ogni evento narrato trovi una sua motivazione. Agganciare il mito al suo passato, attraverso la narrazione dell'antefatto, e al suo futuro, facendone un a‡tion, significa dunque storicizzare il mito, cioè creare una linea continua che va dall'origine del fatto mitico fino al suo permanere nel presente storico. Il mito non è più, come per gli aedi epici tradizionali, un passato senza tempo che solo la divina ispirazione della Musa può far tornare alla prodigiosa memoria del cantore, ma è qualcosa che è avvenuto nel tempo passato e che ha lasciato tracce nell'attualità storica. Tuttavia collegare il mito alla storia significa desemantizzarlo, privarlo cioè di quel valore etico e paradigmatico che la cultura greca dei secoli precedenti gli aveva attribuito: Apollonio non crede più nel mito in quanto tale, ma solo in quanto elemento interpretativo della storia. L'approccio razionalistico al mito ha come conseguenza primaria la rinuncia alla figura dell'eroe come perfetto modello di virtù quali il coraggio, l'ardore bellico e la capacità di superare ogni avversità soltanto con le proprie forze e l'aiuto divino. Giasone infatti è la negazione dell'eroe epico tradizionale, sia sul piano oggettivo che sul piano psicologico. Più volte nel corso dell'opera il poeta sottolinea la sua ¢mhcan…a ("incapacità di trovare soluzioni") di fronte ai casi che gli si presentano; un'incapacità che non è solo impotenza, ma spesso anche profonda incertezza: egli non compie, con le sue forze e il suo coraggio, nessuna impresa degna di un eroe e, peggio ancora, non tiene fede al suo ruolo di capo, dimostrandosi in varie occasioni sopraffatto dal dubbio. Del resto la fragilità di fronte agli eventi non è solo di Giasone, ma anche dei suoi compagni di spedizione: nessuno degli Argonauti possiede le caratteristiche dell'eroe tradizionale, tranne Eracle. Eracle è l'unico personaggio che sfugge alla crisi dei valori eroici, è il solo vero vincente del gruppo, quello da cui - non a caso - gli altri si sentono incoraggiati e protetti; unico tra tutti, egli incarna la vigoria e la risolutezza e sa incidere prepotentemente sugli eventi. Ma proprio perché non vuole privare la figura di Eracle della sua valenza eroica tradizionale, Apollonio è costretto a estromettere ben presto questo personaggio dal poema: se Eracle avesse continuato a far parte dell'impresa, ne sarebbe stato il vero protagonista, offuscando in maniera definitiva la figura di Giasone. Tant'è vero che, dopo la perdita di Eracle, i suoi compagni lo rimpiangono, consapevoli che se ci fosse stato lui le cose avrebbero preso tutt'altra piega (II, 145-153). Il presupposto ideologico su cui si fonda lo sviluppo narrativo del terzo libro consiste proprio nel fatto che Era e Atena, le divinità protettrici degli Argonauti, riconoscono l'inadeguatezza di Giasone e dei suoi compagni all'impresa, non realizzabile con le loro sole forze; e dal terzo libro in poi il coinvolgimento divino negli eventi diviene più frequente e determinante che nei primi due. Giasone ha bisogno dell'amore di Medea per compiere l'impresa, ed esso gli viene garantito dall'intervento divino; ma vincere con l'aiuto dell'amore è tutt'altro che epico. Giasone non è più un eroe epico, immaginato come un essere a metà tra l'umano e il divino, capace di scegliere e determinare il proprio e l'altrui destino, bensì un eroe tragico, rappresentato con tutte le fragilità tipiche dell'uomo, messo costantemente a confronto con un destino più forte e più grande di lui. La
Docsity logo



Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved