Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La Teoria degli Ordini e l'Architettura Fortificata nel Cinquecento: Carlo Morello, Dispense di Architettura

Un'analisi della teoria degli ordini architettonici e della loro applicazione all'architettura fortificata nel Cinquecento, con focus su Carlo Morello, ingegnere militare dei duchi di Savoia. Si esplora come la tradizione degli ordini architettonici si cristallizzò in Nord Europa, riducendo le teorie architettoniche a un canone e indicazioni sull'uso degli ordini. Vengono citati esempi come il progetto di Bramante per San Pietro in Montorio e i piani per Poggioreale, oltre alla ricchezza dello ionico nella libreria e la differenza tra i primi progetti di Raffaello e quelli di Giuliano. Si evidenzia come queste opere richiedessero un disegno scientifico e come le parti si concretizzassero in un progetto generale. Si affrontano anche problemi come le correlazioni tra forma dell'opera di difesa e procedimenti di attacco, i principi che condizionano l'architettura fortificata e la distribuzione delle architetture militari sul territorio.

Tipologia: Dispense

2011/2012

Caricato il 10/06/2012

kakashi19_86
kakashi19_86 🇮🇹

4.5

(14)

16 documenti

1 / 62

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica La Teoria degli Ordini e l'Architettura Fortificata nel Cinquecento: Carlo Morello e più Dispense in PDF di Architettura solo su Docsity! 3. Il Cinquecento La dogmatizzazione del XVI secolo Nessuno scritto del Quattrocento e neppure le edizioni e i commenti di Vitru- vio della prima metà del Cinquecento venivano incontro ai bisogni degli architetti in cerca di indicazioni pratiche o di stimoli per concreti compiti edilizi. Il libro che più si addentrava nelle questioni dell’architettura coeva, il trattato di France- sco di Giorgio, era inedito e dopo l’affermazione di Bramante a Roma difficil- mente accettabile per le sue posizioni stilistiche. […] È a questo problema che ri- sponde Sebastiano Serio. Vuole fornire regole per l’architettura, non per gli «ele- vati ingegni», ma perché «ogni mediocre ancora ne possa essere capace». Rinuncia a basi teoriche, le scredita addirittura, scrivendo a proposito della prospettiva che è suo intento esporre in modo estremamente sintetico solo quel tanto che serve all’architetto, astenendosi dal filosofeggiare e dal domandarsi cosa sia la prospet- tiva. Serlio fornisce, con un linguaggio estremamente scarno e chiaro, un atlante figurato dell’architettura in grado di offrire anche al collega «mediocre» un aiuto concreto per i suoi progetti. Con tale impostazione il trattato di Serlio è diventa- to, accanto a quello un po’ più tardo del Vignola, una delle più influenti pubblica- zioni di architettura in assoluto. Sebastiano Serlio (1475-1553/54) Nato a Bologna, ricevette la sua prima formazione come pittore dal padre Bartolomeo. Comin- ciò la sua carriera a Pesaro (1511-1514) come pittore di prospettiva. Dal 1514 al sacco di Roma (1527) Serlio lavorò in quella città come assistente di Baldassarre Peruzzi; questi, che accarezzava il progetto di un trattato di architettura, lasciò a Serlio tutti gli studi preliminari. Tale circostanza, per nulla taciuta da Serlio, gli procurò da parte dei suoi contemporanei l’accusa di plagio. Serlio diven- ne a fianco di Peruzzi architetto. Egli trascorse gli anni dal 1527 al 1540 a Venezia e nel Veneto. A quel periodo risalgono numerosi contatti con umanisti e artisti dell’Italia settentrionale, ma Serlio non ottenne come architetto successi rilevanti. In quegli anni nacque il progetto di un proprio am- pio trattato di architettura, pubblicato in vari libri a partire dal 1537. La dedica di un libro (il terzo) a Francesco I di Francia (1540) gli procurò un invito in quel paese, dove trascorse il resto della sua vita (fino al 1553-1554). Sotto Francesco I lavorò come pittore e architetto di corte soprattutto a Fontainebleau, ma anche qui i suoi successi nel campo pratico furono modesti. Si dedicò soprat- tutto alla pubblicazione del suo trattato. Dopo la morte di Francesco I (1547) venne sostituito nel suo incarico a corte da Philibert Delorme. Prima del 1550 si trasferì a Lione, dove trascorse in po- vertà gli ultimi anni della sua vita, continuando a lavorare al suo trattato. Come Serlio scrive nella prefazione al IV libro, pubblicato per primo, aveva pensato all’inizio a un piano di complessivi cinque volumi. Ci ha invece lasciato nove libri di cui soltanto quelli da 1 a 5 e il Libro extraordinario vennero pubblicati durante la sua vita, mentre nel 1550 egli vendette al mercante d’arte Jacopo Strada parte dei manoscritti dei libri VI-VIII, e il VII fu edito a Fran- coforte nel 1575. Le due versioni a noi pervenute del VI libro sono state pubblicate solo nel 1967 e nel 1978. Del libro VIII esiste una edizione parziale del 1969. […] Il IV libro, sugli ordini architettonici, pubblicato per primo è per Serlio il più im- portante «e più necessario che gli altri per la cognition delle differenti maniere de gli Il Cinquecento 154 edificii, e de’ loro ornamenti». Contiene il canone dei cinque ordini che trova qui per la prima volta nella teoria dell’architettura una sua sistematizzazione. Gli ordini (to- scano, dorico, ionico, corinzio, composito) sono fissati stabilendo che l’altezza delle colonne deve essere un multiplo intero del loro diametro inferiore, e lo stesso per i piedistalli. È nato così un rigido canone ignoto sia al mondo antico che al Quat- trocento. Il risalto dato alla teoria degli ordini da Serlio stesso («con queste s’abbrac- cia quasi tutta l’arte per la cognitione delle cose diverse») e la sua pubblicazione iso- lata fondano una tradizione che si cristallizza, soprattutto in Nord Europa, negli in- numerevoli libri sugli ordini architettonici del XVI secolo e che determina una ridu- zione delle teorie architettoniche al canone degli ordini e a indicazioni sul loro uso. Richiamandosi direttamente alle definizioni del decor applicate da Vitruvio agli ordini architettonici, Serlio esige un adeguamento ai bisogni dell’epoca moderna («questi moderni tempi»), essendo necessario seguire dal punto di vista del conte- nuto i «costumi nostri Christiani». In ambito sacro e profano gli ordini vengono messi in rapporto con contenuti specifici. L’ordine usato per una casa riflette le specifiche caratteristiche dei suoi abitanti: «darò agli huomini, secondo lo stato, e le professioni loro». L’ordine toscano è preferito per tutti i tipi di fortezze, quello do- rico per incarichi edilizi che concernono Cristo, i santi animosi (Pietro, Paolo, Giorgio) e le abitazioni private di eroi della guerra e di potenti; l’ordine ionico è previsto per sante «di vita matronale» e «huomini letterati, e di vita quieta, non ro- busti»; l’ordine corinzio è riservato alla vergine Maria, ai santi di vita ineccepibile, ai conventi e ai privati che si distinguono per una condotta casta; l’ordine composito, definito da Serlio con qualche titubanza «una quasi quinta maniera» e definito come forma mista, è da lui osservato soprattutto negli archi di trionfo romani e nelle so- vrapposizioni. Crede di dover giustificare l’assenza di questo ordine in Vitruvio «il quale non ha potuto abbracciare il tutto». Nonostante l’aspirazione a un rigido canone, negli ordini di Serlio non va dimen- ticato il continuo richiamo alla discrezione dell’architetto (arbitrio) e alla libertà for- male (licentia). Serlio propone così la mescolanza di forme toscane («opera rustica») con elementi architettonici dorici e ionici, rappresentando i primi per lui «opera di natura», i secondi «opera di mano». Con tali accenni alla libertà dell’architetto Serlio, nonostante le tendenze normative, finisce per oltrepassarne i limiti e diventare il fondatore teorico di un manierismo architettonico. Forme miste di ordini architet- tonici sono giustificate con la tendenza a una originalità architettonica, a «le novità e le cose non troppo usate». Serlio concepisce alcuni suoi progetti come concessioni alle mode architettoniche; motiva così i suoi progetti di portale del Libro extraordina- rio: «la maggior parte de gli huomini appetiscono il più delle volte cose nuove». Anche il suo interesse per le forme architettoniche regionali dimostra che a Serlio non preme un canone architettonico che esuli da qualsiasi contesto; così già nel IV libro parla approfonditamente degli usi edilizi di Venezia («costume di Venezia»). Il suo rapporto con Vitruvio si rivela fin dall’inizio improntato a un atteggia- mento critico. Egli osserva continuamente la divergenza fra le indicazioni di Vi- truvio e i monumenti antichi visti di persona, .e non esita a scostarsi dalle opinio- ni dell’autore latino. Anche nei confronti delle proprie regole Serlio mantiene una certa distanza critica, quando ammette che esistono solo «alcuni luoghi nell’ Ar- Il Cinquecento 157 fra la colonna e l’architrave è di 12:3. Vignola parte dunque da una divisione dell’altezza complessiva in diciannove o quindici parti. Solo dopo tale asserto, i- dentico per tutti gli ordini, arriva a una differenziazione. È a questo punto che compare nelle riflessioni del Vignola il modulo. Il modulo è per Vignola, come per la maggior parte dei suoi predecessori, il raggio inferiore della colonna. I nu- meri base ottenuti empiricamente, relativi al rapporto fra il modulo e l’altezza del- la colonna, sono nei singoli ordini: 14 (toscano), 16 (dorico), 18 (ionico), 20 (co- rinzio o composito). Se si divide per questi numeri la rispettiva misura della co- lonna – 12/19 o 12/15 dell’altezza totale – si ottiene automaticamente la giusta proporzione per i singoli ordini. Dalle misure del modulo, ulteriormente suddivi- se in «parti», si ottengono le proporzioni di base e capitello. Dato che questi calcoli danno frazioni relativamente complicate, Vignola sem- plifica il procedimento fornendo numeri chiave per i diversi ordini, grazie a cui si può calcolare direttamente il modulo partendo dall’altezza complessiva. Questi numeri chiave sono: 22 1/6 (toscano), 25 1/3 (dorico), 28 1/2 (ionico), 32 (co- rinzio e composito). Basta dividere la misura assoluta dell’altezza per questi nu- meri per trovare il modulo di ciascun ordine. Risultano in modo automatico le proporzioni del piedistallo, della colonna, dell’architrave e dei singoli ordini. Vi- gnola stabilisce per tutti gli ordini lo stesso rapporto nell’apertura delle arcate 1:2. Il vasto successo arriso al metodo del Vignola dipende dal fatto che era possi- bile applicarlo, grazie alla numerazione delle tavole con le rispettive misure del modulo, a ogni sistema metrico esistente. Una volta calcolato, partendo da una desiderata altezza complessiva, il modulo relativo, ogni singola misura poteva es- sere determinata moltiplicando i numeri delle tavole della Regola. […] La Regola del Vignola, fondata su un’estetica empirica, arriverà poi a irrigidirsi in norma in un’applicazione che non mette in dubbio le premesse da lui formula- te. Questo è accaduto, e costituisce il vero motivo per cui il Vignola ha finito con l’essere frainteso come il grande codificatore dell’architettura. Questo fraintendi- mento esiste però solo nei confronti delle vere intenzioni del Vignola, non nei ri- guardi dell’influenza che egli ha in effetti esercitato. Serlio e Vignola sono diventati ambedue prigionieri di tendenze dogmatizzatri- ci che essi forse avrebbero potuto giudicare e che fino a oggi gettano un’ombra pregiudizievole sulla loro opera teorica. […] Andrea di Pietro della Gondola detto Palladio (1508-1580) Non è solo in virtù del suo appellativo un rappresentante dell’Umanesimo; nonostante tutte le sue doti, non bisognerà sottovalutare l’impronta spirituale e artistica ricevuta dai suoi mecena- ti. In epoca giovanile furono soprattutto Giangiorgio Trissino e Alvise Cornaro e in età matura Daniele Barbaro a favorirlo, a consentirgli di recarsi a Roma e in altri luoghi dell’antichità classi- ca e a elaborare insieme con lui programmi architettonici. Palladio divenne grazie alle sue capaci- tà artistiche l’esponente di questo gruppo, capace di tradurre nella forma ciò che i suoi mecenati avevano pensato in astratto. Nel 1554 Palladio soggiornò – insieme a Daniele Barbaro – per l’ultima volta a Roma. Il frut- to di questa permanenza fu una guida di Roma antica pubblicata da Palladio nello stesso anno sotto il titolo L’antichità di Roma (Venezia 1554) in cui egli intese rievocare l’immagine dell’antica città e al tempo stesso fare giustizia di tutti gli scritti mirabolistici di carattere leggendario. All’incirca nel periodo in cui lavorò alle illustrazioni per il commento vitruviano di Barbaro Pal- Il Cinquecento 158 ladio redasse il piano per la pubblicazione di un proprio trattato sull’architettura. Nel 1570 appar- vero I quattro libri dell’architettura in due serie: 1. I due primi libri dell’architettura; 2. I due libri dell’antichità. Palladio aveva probabilmente progettato, in analogia con Vitruvio e Alberti, dieci libri complessivi. […] Erano molto avanti i lavori preparatori di tutti i libri progettati ed è presumibile che alla morte di Palladio il manoscritto fosse già pronto per la stampa. Si sono conservati gran parte dei disegni destinati alla pubblicazione. Il manoscritto è andato perduto, e non è stato stampato. Bisogna tener presente l’intero progetto, se si vuole dare una esatta valutazione dei Quattro li- bri pubblicati separatamente e che sono dunque un frammento del piano complessivo. Ad ogni modo l’intero trattato dava una notevole prevalenza alla pubblicazione dell’architettura antica. I quattro libri dell’architettura hanno avuto fin dalla loro comparsa un grande successo e sono stati divulgati in numerose ristampe e traduzioni del XVII e del XVIII secolo. […] Il trattato di Pal- ladio è sotto questo punto di vista, accanto alla Hypnerotomachia Poliphili (1499), il più bel prodot- to del Rinascimento. Nei Quattro libri sono esposte le seguenti tematiche: libro I: teoria dei materiali; costruzione di una casa dalle fondamenta al tetto; precetti generali validi per gli edifici pubblici e privati; teoria dei cinque ordini architettonici; libro II: la casa privata in città e in campagna (villa); libro III: strade, ponti, piazze, basiliche; libro IV: templi antichi a Roma, in Italia e fuori d’Italia. Un tratto dominante dei Quattro libri è il risalto dato dall’autore a se stesso. Questi si rivolge al lettore in prima persona. Fa riferimento ai suoi viaggi, alle sue misurazioni dei monumenti antichi, e fondandosi sulla sua esperienza avanza la pretesa di poter enunciare regole valide per i suoi contemporanei e i posteri […]. Nella sua prefazione al lettore egli sottolinea la preminenza artistica dei Roma- ni sui posteri e motiva così il ritorno all’antico. Vitruvio passa in seconda linea di fronte ai monumenti antichi, la cui conoscenza è alla base dell’architettura del presente e del futuro. Se gli antichi monumenti o Vitruvio non sono sufficienti come fonti informative di un compito edilizio, egli non esita a prendere a model- lo la propria architettura. Palladio non si sente un imitatore, ma un continuatore degli antichi. I suoi edifici non sono solo possibili soluzioni di problemi, ma ven- gono pubblicati «ad utilità anco degli altri». Respinge in larga parte l’architettura coeva, oggi definita manieristica, ricordando i suoi «strani abusi, le barbare inven- tioni e le superflue spese» e i ruderi finti. Diversamente da Serlio sensibile alla moda, Palladio è tutto rivolto alla classicità. La lingua di Palladio è chiara e sintetica – «fuggirò la lunghezza delle parole» – e si serve di una terminologia comprensibile a tutti. Nei concetti estetici Palladio dipende in larga parte da Vitruvio e Alberti. Le sue categorie di «utilità» (da lui intesa come sinonimo di «commodità»), «perpetui- tà» e «bellezza» sono quelle di Vitruvio. La sua definizione del bello come «corri- spondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto» è desunta da Alberti. Un edificio è un corpo concluso e ben definito. Ma l’interesse di Palladio non sta nei suoi concetti, ma nella visione complessiva. Nel capitolo sugli abusi dell’architettura (I, 20) emerge la vicinanza di Palladio a Daniele Barbaro. L’archi- tettura è «imitatrice della Natura». Costruire il bello significa anche costruire il ve- ro e il bene. Palladio sostiene qui evidentemente la posizione neoplatonica dell’u- Il Cinquecento 159 nità del vero, del buono e del bello. Tutto ciò che è contrario alla ragione, con- travviene anche alla natura, alle «regole universali e necessarie dell’Arte»: cartocci, frontoni spezzati etc. L’architettura è per Palladio razionale, semplice, classica. I cinque ordini canonizzati da Serlio e Vignola sono da lui recepiti come cosa naturale. I dati forniti da Vitruvio contano per lui meno dei risultati delle sue mi- surazioni. Con maggior chiarezza di Serlio stabilisce in un sistema modulare i rapporti proporzionali intercorrenti fra gli ordini, gli elementi delle colonne e gli intercolunni. Palladio segue nella teoria degli ordini la Regola del Vignola (1562) fin nella forma delle illustrazioni. L’atteggiamento non dogmatico di Palladio nei confronti del mondo antico si rivela in un particolare: egli osserva che le colonne doriche sono spesso prive di base. Ma si decide a usare una base attica, «la quale accresce molto di bellezza». Il secondo libro, con cui inizia la tipologia degli edifici, si occupa delle case di città e di campagna (villa). Come esempi vengono quasi esclusivamente adottati e illustrati propri edifici. Si avverte il forte influsso di Trissino e soprattutto di Cor- naro quando Palladio pone qui chiaramente al primo posto il criterio della «com- modità»: Palladio combina in modo singolare la «commodità» con il problema del decor e della bellezza, ponendo questi ultimi in una posizione subordinata: «E per- ché commoda si deverà dire quella casa, la quale sarà conveniente alla qualità di chi l’haverà ad habitare e le sue parti corrisponderanno al tutto, e fra se stesse». Il concetto di comodità è in seguito messo in rapporto con l’organismo umano (II, 2). Considerazioni funzionali ed estetiche sono legate fra loro; le parti più belle di un edificio sono poste sul davanti, quelle brutte, ma necessarie, nascoste. La cor- rispondenza organica ed estetica delle parti fra loro e con il tutto è messa in forte ri- salto da Palladio con continue ripetizioni. Ma da uomo esperto sa che le idee dell’ar- chitetto devono spesso piegarsi ai desideri dei committenti. Afferma con tono pragmatico: «Ma spesse volte fa bisogno all’Architetto accommodarsi più alla volon- tà di coloro che spendono che a quello che si devrebbe osservare». Questa frase è però una netta revoca delle affermazioni fatte nel piano manoscritto dell’opera. Palladio è del tutto consapevole della novità dei suoi progetti. […] Nel suo capito- lo sulla ubicazione delle ville (II, 12) Palladio delinea un breve quadro della loro fun- zione; rendita fondiaria, rinvigorimento fisico, studio e contemplazione devono esse- re legati fra loro senza costrizioni. Si integrano a vicenda considerazioni funzionali ed estetiche. Una villa deve trovarsi per quanto possibile su una collina, perché questo è sano e bello. Deve sorgere per quanto possibile vicino a un fiume navigabile; la cosa è infatti comoda, risparmia le spese di trasporto ed è bella etc. L’ubicazione nell’am- biente circostante è fondamentale per il progetto edilizio che si presenta, per così di- re, come una risposta alla posizione topografica. La spiegazione fornita da Palladio per la Villa Rotonda chiarisce bene la cosa: «Il sito è degli ameni, e dilettevoli che si possono ritrovare: perché è sopra un monticello di ascesa facilissima, è da una parte bagnato dal Bacchiglione fiume navigabile, e dall’altra è circondato da altri amenissi- mi colli, che rendono l’aspetto di un molto grande Theatro, e sono tutti coltivati, e abondanti di frutti eccellentissimi, e di buonissime viti: onde perche gode da ogni parte di bellissime viste, delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane, e altre che terminano con l’Orizonte; vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie». Il Cinquecento 162 I tipi architettonici dell’antichità non potevano essere utilizzati come modelli per la nuova concezione di un edificio commemorativo cristiano, qual’è il tempietto, tuttavia il colonnato circolare sollevato su un plinto si era conservato in due antichi esempi a Roma e a Tivoli. L’opera di Bramante si basa su una comprensione nuova e quasi senza preconcetti dell’architettura antica, e il tempietto si può considerare un monumento celebrativo il cui interno in forma di cella contiene l’altare. Il tempietto, oltre che nel disegno generale, segue i modelli antichi anche nella copertura a volta, infatti la cupola emisferica è eseguita in conglomerato cementizio. Ma mentre nelle rotonde dell’antichità la cupola si imposta direttamente sull’ordine maggiore, Bramante qui ha inserito un livello intermedio, un tamburo la cui altezza all’incirca corrisponde al raggio della semisfera della cupola. Quindi, come nel Pan- theon, si tabilisce un nesso logico tra la circonferenza della pianta, l’altezza del cilin- dro che sostiene la cupola, e la semisfera della cupola stessa. Nello stesso tempo la trabeazione del colonnato non impedisce la visione della cupola dall’estemo. Secondo Serlio la pianta di Bramante non fu eseguita in tutte le sue parti. Il tem- pietto non si doveva trovare, com’è oggi, in un cortile quadrilatero, ma avrebbe dovuto essere circondato da un chiostro circolare con sedici colonne. Serlio affer- ma che il diametro delle colonne di questo chiostro sarebbe stato una volta e mez- za quello delle colonne del tempietto e che l’altezza ne avrebbe seguito il rapporto. Dunque, per lo spettatore che veniva a trovarsi nel chiostro, la veduta del tempiet- to sarebbe stata incorniciata dalle colonne e dalla trabeazione del chiostro e, quasi certamente, egli avrebbe ritenuto le colonne del chiostro alte quanto quelle del tempietto. In questo modo il tempietto sarebbe tato molto più monumentale; sa- rebbe sembrato più largo e più alto e il cortile circostante più spazioso. Nonostante la regolarità del disegno, il tempietto è studiato in modo da otte- nere diversi effetti prospettici. Quando la porta è aperta, lo spettatore che si trova di fronte all’edificio vede l’altare, con la crocifissione di san Pietro nella predella, incorniciato dall’ingresso alla cella. Il rilievo della crocifissione si trova esattamen- te all’al-tezza dei suoi occhi. Questa immagine rivela il significato iconografico dell’edificio: se l’impianto originale riprodotto dal Serlio fosse stato completato, il colonnato dell’edificio sarebbe stato incorniciato dal chiostro, e l’altare, con la sua rappresentazione del martirio di Pietro cioè l’evento in memoria del quale il mo- numento venne eretto – sarebbe sembrato un dipinto nel dipinto. Dall’ingresso della corte si sarebbero colte con un solo guardo entrambe le immagini. Il linguaggio formale e strutturale del tempietto, così come il suo progetto in quanto cappella commemorativa, si avvicinano all’essenza dell’architettura antica più di qualsiasi altro edificio religioso del Quattrocento. Bramante ha largamente superato i compromessi tra la tradizione cristiana medievale e le forme dell’antico ammesse nel XIV secolo. La sua formazione a Urbino e lo studio della teoria dell’archi-tettura, specialmente delle opere di Alberti, lo avevano condotto a ope- re ancora “dialettali” in Lombardia; il linguaggio classico del suo stile più tardo, sviluppato quando aveva quasi sessant’anni ed espresso nel tempietto, fu il risul- tato di un confronto consapevole con l’architettura antica di Roma. Naturalmente questo stile tardo non rappresenta una completa rottura con il passato lombardo. Nonostante tutte le innovazioni formali, la concezione del tem- Il Cinquecento 163 pietto è strettamente imparentata alla prospettiva illusionistica del coro di Santa Maria presso San Satiro. Nell’opera romana le vedute dell’esterno e dell’interno dell’edificio sono unite in una sola immagine; il risultato è una struttura tridimen- sionale, non un’architettura simulata in bassorilievo, ed è la conseguenza di un pro- blema architettonico totalmente diverso. Ma a Roma come a Milano allo spettatore è assegnato un punto di vista preciso, che è il solo possibile per avere una giusta vi- sione. In entrambi i casi la struttura realizzata si deve intendere come un’immagine statica, e non come uno spazio in cui il visitatore si muove, e entrambi gli edifici embrano essere stati composti nella piramide visiva dell’Alberti. Tuttavia nel tem- pietto questo sistema compositivo risulta più evidente poiché lo spazio ridotto dell’edificio permette a un solo spettatore di occupare l’“esatto” punto di vista. [liberamente tratto da W. LOTZ, Architettura in Italia 1500-1600, Milano 1997, pp. 11-12]. Michelangelo Buonarroti (1475-1564) e il Campidoglio Fin dal medioevo la sede del governo cittadino di Roma si trovava nella piazza del Campidoglio, piazza formatasi dopo la rovina dei templi antichi nella leggera depressione fra i due poggi del Mons Capitolinus. La parte orientale della piazza era occupata dal turrito palazzo Senatorio, sede della guida nominale dell’amministra- zione della città. Sul lato nord si trovava il fianco allungato della chiesa gotica dei francescani, Santa Maria in Ara Coeli. Di fronte era il quattrocentesco palazzo dei Conservatori, con gli uffici delle magistrature al piano terreno. Un ripido sentiero conduceva alla città dal lato ovest, aperto. Michelangelo modificò le facciate dei palazzi Senatorio e dei Conservatori, ma lasciò gli edifici nella loro collocazione originaria. Inoltre, “raddoppiando” il pa- lazzo dei Conservatori sul lato nord, ridusse le dimensioni della piazza ed eliminò la chiesa dalla vista del complesso. Le vicende dei progetti per la ricostruzione del Campidoglio non sono mai sta- te chiarite in modo soddisfacente. Il nome di Michelangelo non appare nei do- cumenti fino al 1539, quando fu collocata la statua di Marco Aurelio. Nel 1544 una loggia a tre campate e una rampa di gradini furono addossate al transetto del- la chiesa: in tal modo la chiesa di Santa Maria, utilizzata anche per i servizi religio- si ufficiali delle autorità cittadine, fu provvista di un nuovo accesso dalla piazza. Subito dopo vennero iniziati i lavori alla scala doppia di fronte al palazzo Senato- rio; nel 1550-1553 una loggia a tre campate e una scala furono aggiunte accanto al palazzo dei Conservatori. Il sistema delle tre grandi scalinate è ovviamente frutto di un progetto unitario, forse esistente nel momento in cui Michelangelo collocò al suo posto la statua equestre. È verosimile, anche se non provato, che questo progetto prevedesse già gli interventi di trasformazione ai due palazzi. L’ultima campagna di lavori, che conferì alla piazza la forma odierna, iniziò nel 1561, tre anni prima della morte di Michelangelo, quando Pio IV destinò conside- revoli fondi allo scopo e ordinò un completo restauro del palazzo Senatorio. Il pie- distallo e la posizione della statua di Marco Aurelio furono di nuovo cambiati, si costruì la balaustra lungo il lato occidentale della piazza e nel 1563 fu iniziata la nuova facciata del palazzo dei Conservatori. Un patrizio, amico di Michelangelo, Il Cinquecento 164 Tommaso dei Cavalieri, fu incaricato della direzione dei lavori per il palazzo Sena- torio, mentre i disegni esecutivi per il palazzo dei Conservatori furono eseguiti dall’architetto Guidetto Guidetti sulla base delle istruzioni di Michelangelo. I lavori commissionati da Pio IV erano certamente basati su un progetto compiessivo mi- chelangiolesco. E probabilmente è questo il progetto che è stato conservato dalle incisioni di Étienne Dupérac, pubblicate nel 1569 dopo la morte di Michelangelo. Senza dubbio le incisioni difficilmente possono essere considerate un’esatta ripro- duzione di un disegno di mano di Michelangelo: a quel che sappiamo, egli non die- de mai corpo alle sue idee in un disegno definitivo per alcuno dei suoi edifici. Du- pérac tentò certamente di combinare le parti riconoscibili degli edifici ancora in- compiuti con ciò che aveva saputo o immaginato delle intenzioni di Michelangelo, ovviamente restituendo in modo corretto le caratteristiche principali del progetto. La più semplice spiegazione delle discrepanze fra le incisioni e gli edifici attuali è che i successori di Michelangelo dovettero supplire alle lacune in base al loro giudizio. La facciata del palazzo dei Conservatori fu completata nel 1584, quella del palazzo Senatorio intorno al 1600. L’architetto che le eseguì fu Giacomo della Porta. L’antica torre del palazzo Senatorio fu danneggiata da un fulmine nel 1577 e ricostruita nella sua attuale posizione da Martino Longhi nel 1583, nella stessa collocazione prevista dall’impianto di Michelangelo, ma non secondo il suo pro- getto. Negli stessi anni della Porta portò a termine il suo lavoro alla cordonata, la rampa che conduce alla piazza, con la sua balaustra. L’edificio denominato palaz- zo Nuovo, il “doppio” del palazzo dei Conservatori, non fu costruito fino al XVII secolo, fra il 1603 e il 1654. È nei palazzi del Campidoglio che l’ordine gigante fece la sua prima apparizio- ne nell’architettura civile romana del Rinascimento. Le otto grandi paraste sui due piani del palazzo dei Conservatori si innalzano a sostenere la trabeazione princi- pale, incuranti delle divisioni orizzontali retrostanti. Colonne e trabeazioni delle logge al piano terra formano un sistema subordinato a quello primario. L’ordine gigante di Michelangelo fornisce una soluzione semplice e insieme radicale a un problema che aveva impegnato gli architetti dai tempi di Alberti: vale a dire come combinare il sistema all’antica di colonne, o paraste, e trabeazione, con la suddivi- sione in piani di un moderno palazzo, con le sue finestre e la disposizione dei corsi di pietra, in modo tale che le membrature verticali che si innalzano da terra possano sostenere la trabeazione, come accade nell’architettura classica. Nel caso in analisi, le paraste costituiscono la parte frontale dei pilastri, i cui in- tervalli corrispondono alla sequenza delle sale al piano terra. I muri divisori fra le sale si uniscono ai pilastri a formare un sistema strutturale uniforme, che ricorda il telaio dei moderni edifici in cemento armato. La struttura era a tal punto stabile da consentire a Michelangelo di realizzare sulla loggia del piano terra un soffitto piano in pietra, evitando archi e volte. Il soffitto è sostenuto da quattro colonne per ogni campata, due in facciata e due sul muro di fondo della loggia. Queste colonne for- mano, insieme ai muri divisori delle sale adiacenti, lo scheletro del piano terra; tut- tavia ogni campata della loggia costituisce un’unità strutturale praticamente indi- pendente, inserita all’interno dell’ordine gigante. È possibile leggere la funzione de- gli ordini maggiore e minore direttamente sulla facciata: le paraste e la cornice Il Cinquecento 167 sono rivestite di semplice intonaco bianco, sul quale risaltano semicolonne, paraste e archi, in grigio. La navata principale, a tre campate, è coperta da una volta a botte con lunette, mentre le navate laterali da volte a crociera. I pilastri, che sono abba- stanza solidi da costituire una chiara separazione fra le navate, ma non sembrano massicci, costituiscono un organismo abilmente composto di membrature verticali: semicolonne giganti su alti piedistalli verso la navata centrale, più basse paraste bi- nate sotto l’imposta degli archi, semicolonne fra paraste nelle navate laterali, paraste che si uniscono alle colonne giganti della crociera, oltre la quale il sistema delle na- vate si ripete per una campata. Il presbiterio, poi, prosegue la navata centrale, ma è più lungo e più largo delle campate della navata e se ne differenzia per la volta a crociera sostenuta da colonne libere scanalate. Una tipica invenzione di Palladio, destinata a una grande fortuna, è il gruppo di colonne posto fra presbiterio e coro dei monaci: solo qui le colonne, che nelle altre parti della chiesa si trovano di fronte alle pareti o incastrate in esse, sono libere da tutti i lati. Tutte le varie forme di volte e articolazioni hanno un preciso parallelo nei Quattro Libri. L’intenzione creativa che ispirò San Giorgio Maggiore era quella di una «chiesa cristiana antica», che per Palladio era naturale, non un paradosso: le forme dell’architettura antica, le più belle e maestose mai inventate, diventano e- spressione della più nobile e sublime creazione dell’architettura, la casa cristiana di Dio. Se l’interno di San Giorgio avviluppa il visitatore di oggi con la sua atmo- sfera solenne, è difficile dire se quel sentimento nasca da un’impressione imme- diata all’ingresso della chiesa o se si tratta di un condizionamento dovuto alla co- noscenza delle innumerevoli chiese derivate dagli edifici di Palladio. Non c’è bisogno di spiegare qui che, nella concezione palladiana della facciata di chiesa, il portico colonnato del tempio antico rappresenta la soluzione più ade- guata. Ma, mentre l’antico fronte di tempio è composto di elementi tridimensio- nali, autonomi, la facciata della chiesa cristiana, lato eterno del muro che racchiu- de un interno, assume, nella natura che le è propria, il carattere della superficie di un rilievo. Inoltre la sezione della basilica cristiana è del tutto differente da quella di un tempio antico, infatti la navata principale e le navate laterali di San Giorgio Maggiore differiscono in altezza. Palladio si trovò ad affrontare questo problema in tre chiese veneziane e in tutti i casi lo risolse nello stesso modo: riducendo al minimo l’innalzamento della navata centrale rispetto a quelle laterali e collocando di fronte a essa un ordine composito gigante; mentre i lati in pendenza del timpa- no corrono paralleli alla pendenza del tetto, sui lati si trova un ordine corinzio più basso e più piatto, con semitimpano. In tal modo, due sistemi all’antica sono proiettati sulla facciata della chiesa, con le membrature del sistema centrale che ri- saltano, grazie al loro rilievo più accentuato, sui lati appiattiti. Entrambi i temi presentano una trabeazione pienamente sviluppata, la minore delle quali corre ol- tre l’ordine gigante. Ci si può così anche immaginare che il centro del timpano più piccolo sia nascosto dall’ordine gigante. Si può seguire il tentativo di creare la facciata di chiesa all’antica da Alberti, at- traverso i progetti per San Pietro di Bramante e Raffaello, fino a Vignola e Cristo- foro Lombardo. Ma neppure Palladio potè annullare l’intrinseca incompatibilità. Raddoppiando il sistema, e tramite l’apparente dissimulazione del timpano mino- Il Cinquecento 168 re, egli espone il problema, non lo risolve, benché il suo approccio, pur comples- so, sia adeguato e coerente di per sé. Il che è evidente, se si considera la grande fortuna di questo tipo di facciata fino al XIX secolo. Quando la facciata di San Giorgio Maggiore fu conclusa, dopo il 1600, erano sta- te ovviamente apportate alcune trasformazioni nei dettagli. La facciata di San Fran- cesco della Vigna, costruita sotto la direzione di Palladio circa nello stesso periodo dell’interno di San Giorgio, è superiore a quella di San Giorgio nella composizione e nei dettagli: i lati e la parte centrale si trovano su un basamento comune e i semitim- pani laterali sono sostenuti da semicolonne anziché da paraste, utilizzate solo negli angoli. In questo modo il sistema minore si configura come un tempio in antis. Nel Redentore, ultima facciata di questo tipo, l’ordine maggiore è a sua volta trattato come quello di un tempio in antis. In questo caso il timpano principale cor- risponde alla sommità della volta; al di sopra si innalza un alto attico e il tetto della navata principale, mentre sui semitimpani si trovano i contrafforti, e la trabeazione dell’ordine minore corrisponde alla trabeazione principale all’interno. In questo ca- so, quindi, la facciata riflette il sistema strutturale dell’interno e sopra di essa sono visibili i tetti. Così, la facciata diventa, in modo del tutto senza precedenti, parte in- tegrale dell’edificio. Visti a distanza, facciata, cupola, campanili e tetti si uniscono in una composizione mirabilmente equilibrata; d’altra parte, la stratificazione della facciata è comprensibile solo collocandosi direttamente di fronte alla chiesa. Il Redentore fu fondato dalla Repubblica di Venezia, durante la peste del 1576, quando il doge fece voto di costruire una chiesa in onore del Redentore. Dopo che il Senato ebbe votato a favore di una chiesa a pianta longitudinale e contro una a pianta centrale e dopo l’approvazione del progetto che Palladio aveva pre- sentato conformandosi a questa decisione, la prima pietra fu posata nella prima- vera del 1577. Dalla fine della peste, nell’estate del 1577, una processione di rin- graziamento ha luogo ogni anno, attraversando il canale della Giudecca su un ponte di barche provvisorio. I partecipanti alla processione, quindi, vedono la facciata della chiesa di fronte a loro, mentre la cupola, al centro dell’immagines si innalza sopra l’altare sul quale il doge deponeva le offerte di ringraziamento. La funzione della chiesa è espressa anche dalla conformazione dell’impianto. Entrando, il visitatore si trova in un ambiente oblungo, moderatamente alto, cir- condato da semicolonne. Di fronte all’ingresso un grande arco si apre sull’altare principale e sulla zona sotto la cupola. Osservate dalla crociera, le porzioni mura- rie che reggono l’arco sembrano essere i pilastri della cupola; in questo modo lo spazio cupolato sembra più ampio della navata, mentre in effetti entrambi sono della stessa larghezza. Come a San Giorgio, presbiterio e coro sono separati da uno schermo di colonne, che nel Redentore però sono sistemate a semicerchio, con la loro trabeazione che regge il catino di un’abside. Il cuore liturgico della chiesa, la crociera, è dominato dal cerchio del tamburo e della cupola e dai semicerchi degli archi della crociera e delle absidi, la navata dall’orizzontale ininterrotta della trabeazione e dalle verticali delle colonne; nella pianta e negli alzati delle cappelle laterali il semicerchio è ancora la nota dominante. La Basilica palladiana di Vicenza accoglieva la sede medievale del senato, in- torno alla quale Palladio costruì una loggia su due piani. Al primo livello, il nume- Il Cinquecento 169 ro degli archi fu determinato dalla di posizione del vecchio edificio; inoltre, nel decidere la dimensione delle campate, si dovette tenere conto di tre grandi anditi, di ampiezza variabile, che corrono rettilinei attraverso l’edificio, sotto la grande aula. Su ogni pilastro della loggia, si trova una semicolonna, in corri pondenza della quale la trabeazione sul muro fa risalto. Colonne libere, più piccole, sono in- serite all’interno dell’ordine maggiore e il loro architrave serve da imposta agli ar- chi a tutto sesto. Una forma simile a questo motivo “palladiano” era già camparsa dieci anni prima nel Libro Quarto di Serlio e nel piano superiore della Libreria di Sansovino. Nella basilica il motivo ha uno scopo pratico: separando gli elementi dell’ordine minore dal pilastro, Palladio riuscì a integrare le vecchie campate, di ampiezza variabile, in un sistema di arcate apparentemente regolare. Allo stesso tempo, a ogni membratura del pilastro è conferita la propria funzione strutturale; funzione che, a differenza del sistema di Sansovino che si dispiega su un piano, è comprensibile solo se lo spettatore si muove attorno a esso. C’è tuttavia un’altra differenza fra la basilica e la Libreria: nella prima la decorazione cultorea è confi- nata alle chiavi d’arco e alle statue sull’attico; inoltre l’effetto della Libreria è de- terminato dalla ricchezza dello ionico del secondo ordine, mentre nella basilica si fonda sul dorico “maschile” del primo ordine. [liberamente tratto da W. LOTZ, Architettura in Italia 1500-1600, Milano 1997, pp. 148-153]. Un cantiere lungo un secolo. La fabbrica di San Pietro Le premesse Nel corso del medioevo la basilica di San Pietro aveva assunto il ruolo di ful- cro centrale dell’Occidente. Nata originariamente come chiesa sepolcrale per il principe degli apostoli Pietro e come chiesa cimiteriale della parrocchia romana, essa divenne sempre più la meta per antonomasia dei pellegrini europei e, a parti- re dal XIII secolo in poi, la cornice più importante delle grandi cerimonie pontifi- cie. La navata centrale della basilica costantiniana tuttavia, con la sua larghezza in- solita di oltre 23 metri e le sue mura sottili, andò sostenendo sempre meno il peso del tetto ligneo. Con il suo diametro di 18 metri l’abside, nel cui centro si svolge- vano le grandi messe pontificie e nella cui testata sedeva in trono il papa, rispon- deva sempre meno alle esigenze della crescente corte papale, e l’altare maggiore era parzialmente nascosto da una specie di iconostasi. Il capitolo di San Pietro poi, che nel corso del Quattrocento era aumentato fino a comprendere 92 mem- bri, ebbe fino al 1478 la sua sede proprio nella parte terminale della navata centra- le, costituendo così un’ulteriore barriera tra i fedeli e le cerimonie nel presbiterio. Entrambe le fiancate della basilica erano occupate da cappelle e oratori e altari si trovavano pure in alcuni intercolumni della navata centrale; divenne pertanto sempre più difficile sia per i papi che per gli altri dignitari, trovare un luogo di rappresentanza per le loro cappelle sepolcrali. Le messe funebri, lette dai canonici su tutti questi altari, rappresentavano una delle fonti di guadagno più importanti. Il Cinquecento 172 Alcuni schizzi, forse autografi di Bramante, prolungano lo spazio della cupola in un corpo longitudinale che, con le sue cinque campate, si sarebbe spinto più o meno fino al vecchio pronao. Là Bramante non si accontentò della semplice con- tinuazione dei bracci della croce, ma tentò di allargare la navata centrale riferen- dosi al modello della basilica di Massenzio. […] Tuttavia nei mesi successivi si re- gistra una spinta del papa verso un’ulteriore monumentalizzazione. Bramante sfruttò probabilmente l’occasione per convincerlo dei vantaggi di una costruzione centralizzata. Nel grande piano di pergamena che egli elaborò […] la pianta com- pletata a formare un edificio centralizzato avrebbe superato di per sé la superficie del progetto di Niccolò V. L’aggiunta di un corpo longitudinale veniva esclusa già per il fatto che qui i centri secondari sono difficilmente collegabili con delle nava- te laterali. Analogamente problematico risulta il collegamento del braccio orienta- le della croce con un frammento della vecchia basilica. Come nel progetto di Niccolò V e poi nel progetto definitivo del 1506 i singoli spazi crescono insieme grazie al principio della similitudine, in quanto il rapporto di 1:2 ritorna in misura sempre più grande dalle arcate fino alla sezione trasversale dei bracci della croce e dell’area della cupola […]. Grazie all’ampliamento del tamburo e della lanterna e al presunto raddoppio delle finestre delle lunette nei bracci della croce, Bramante avrebbe potuto aumentare considerevolmente la luce, creando così un contrasto efficace con le zone d’ombra delle cappelle, delle esedre e delle nicchie. Se l’altare di Pietro e il trono pontificio, che probabilmente avrebbe dovuto es- sere nuovamente collocato nella nicchia del pilastro sudoccidentale della cupola, avessero costituito i punti focali della zona della cupola, il braccio occidentale del coro sarebbe rimasto a disposizione per la cappella Giulia. […] Questa gerarchia, che va crescendo dai centri secondari verso la cupola, sarebbe stata valorizzata in modo ancora più accentuato sull’esterno dell’edificio. […] Il flusso dei visitatori veniva agevolato non solo dai portali in tre dei quattro bracci della croce, ma anche da otto vestiboli anticheggianti. Questi avrebbero condotto nei bracci dei centri secondari, che due colonne avrebbero dovuto dividere dalle vere e proprie zone delle cupole piccole sullo stile delle antiche terme. I loro altari che ci si può immaginare forse perfino sistemati nel centro, potrebbero essere stati destinati al culto dei quattro evangelisti oppure delle reliquie più importanti, cioè il velo della Veronica, la testa di Andrea, la sacra lancia e il chiodo della croce. Da qui si sarebbero raggiunti anche gli ottagoni d’angolo, che avrebbero dovuto accogliere le sacrestie e forse anche un battistero. Dai portali principali il visitatore sarebbe stato attratto subito verso il centro inondato di luce di questo universo gerarchico e da lì avrebbe conosciuto la forza irradiante dell’imponente area della cupola, men- tre entrando attraverso i vestiboli avrebbe ammirato il graduale crescendo e il ri- schiararsi di questo organismo ampiamente ramificato. Benché Bramante fosse andato oltre i limiti del progetto di Niccolò V e avesse abbandonato la rispettabile tradizione di una basilica a cinque navate, dovette in un primo momento aver convinto il papa del progetto; altrimenti Giulio II diffi- cilmente avrebbe fatto coniare diverse medaglie di fondazione per una costruzio- ne centralizzata così anticonvenzionale, presentandola al mondo cristiano occi- dentale. Anzi dopo aver rinunciato fino ad allora a ogni lavoro di costruzione nel- Il Cinquecento 173 la zona della basilica, egli dovette ora avere idee così chiare sulla futura forma del palazzo e della basilica, da incaricare Bramante all’inizio del settembre del 1505 di prolungare la Loggia delle Benedizioni di Pio II lungo tutto il lato occidentale del- la piazza San Pietro […]. La metà meridionale del palazzo con la Sala Regia a- vrebbe dovuto lasciar posto a un nuovo atrio sostanzialmente più largo e più pro- fondo, dal quale sarebbe stata visibile per la prima volta la facciata a due torri in tutta la sua totalità, mentre la completa centralità del corpo della basilica sarebbe stata chiara solo dai colli circostanti. Giulio II quindi contava allora ancora su un ampio rinnovamento del palazzo pontificio, anche se non nel radicalismo anti- cheggiante, come Bramante lo aveva abbozzato. Al più tardi nell’autunno del 1505, quando il papa stava preparando il finanzia- mento dell’imponente progetto, riflessioni di ordine religioso, funzionale e forse anche economico dovettero indurlo a un cambiamento fondamentale del progetto. […] Bramante fu così nuovamente costretto a fare riferimento non solo alla forma della basilica costantiniana, ma anche ai suoi elementi materiali. […] Quasi con- temporaneamente Giuliano da Sangallo dovette presentare al papa il suo “contro- progetto”. Qui Giuliano seguì nel tipo e nel programma spaziale il progetto della medaglia, dando peso però non tanto all’estensione degli spazi e al suo crescendo gerarchico, bensì alla struttura massiccia dei pilastri e alla solidità dei quattro archi della cupola. In questo si attenne ancora più di Bramante al duomo di Firenze. Questa chiamata di Giuliano alla costruzione fino ad allora più studiata, forse an- che lo scetticismo degli altri esperti, dovettero convincere il papa della fragilità del sistema bramantesco. Da parte sua Bramante dovette accorgersi, nel corso di un colloquio, quanto fosse in pericolo il suo progetto, tant’è che egli abbozzò sul ver- so del disegno di Giuliano una controproposta. È vero che lì egli riprese la croce la- tina e i colonnati, ma li collegò sia al sistema a pilastri più solido e scavato dalle e- normi nicchie di Giuliano, che allo spazioso sistema a quincunx del suo progetto sulla medaglia. In questa operazione ingegnosa egli si ispirò anche ai prototipi mi- lanesi a lui familiari, come il duomo e San Lorenzo, le cui piante riprodusse sullo stesso foglio, ai progetti milanesi di Leonardo, e forse anche alla “opinione” che Fra’ Giocondo proprio in quelle stesse settimane autunnali potrebbe aver sottopo- sto al papa. L’enorme corpo di quest’ultimo progetto lungo circa 350 metri, le sue sette cupole, le sue torri laterali, il suo nartece sul quale era certamente prevista una loggia delle benedizioni, con il deambulatorio del coro sullo stile delle cattedrali francesi e le presunte gallerie, era stato così approfondito, sia dal punto di vista sta- tico che da quello funzionale, che dovette aver rafforzato ancora di più i dubbi del papa proprio su questi due aspetti del progetto della medaglia. Tutte queste idee e riflessioni confluirono poi nel disegno più ricco di in- formazioni di tutti quelli di Bramante che si sono conservati. […] Prima di giun- gere tuttavia a un’ulteriore rielaborazione di questa versione, egli dovette essersi accordato con il papa sulle innovazioni, che sviluppò più dettagliatamente. In essa egli sacrificò ai deambulatori le campate inserite davanti alle absidi e ridusse le a- ree delle cupole secondarie. […] Resta indefinita la collocazione degli stalli del co- ro e delle tribune dei cantori. Le funzioni della cappella Giulia passarono quindi in seconda linea – motivo questo già di per sé sufficiente per provocare una sfa- Il Cinquecento 174 vorevole reazione del papa. È significativo che Bramante volgesse nuovamente la massima attenzione all’area della cupola con il trono pontificio, alle colonne gi- ganti e ai tre bracci della croce, mentre nel corpo longitudinale non giungesse a una soluzione del tutto completa sia dal punto di vista statico che da quello for- male. Il suo rispetto per l’obelisco e la cappella Sistina rivela tuttavia il suo intento di creare qui un progetto concreto e quindi effettivamente realizzabile. L’ampliamento dei pilastri, delle arcate e dell’ordine ebbe notevoli conseguen- ze anche per l’alzato. Poiché Bramante aumentò il diametro della cupola solo leg- germente e mantenne la larghezza della navata centrale, e con ciò certamente an- che lo stesso sistema di proporzioni, queste modifiche avrebbero riguardato so- prattutto le pareti della navata centrale, la penetrazione della luce e la forma del tamburo e della cupola. La decisione finale di adottare un ordine con una lar- ghezza dei fusti di 12 palmi venne presa già per via delle arcate ampliate a 60 palmi, permettendo anche di proporzionare le paraste in modo più conforme ai canoni. Separando inoltre le paraste anche sui lati dei pilastri della cupola per mezzo di nicchie, Bramante raddoppiò a circa 45 palmi lo spessore degli archi di volta, creando così anche le premesse per una cupola più solida. […] L’attenzione di Bramante era rivolta più ai problemi costruttivi che non alla forma finale. La luce sarebbe penetrata indirettamente attraverso i deambulatori, e direttamente solo dall’alto – anche questa una novità di ispirazione antica. Non da ultimo grazie alla sfida del progetto a pianta centrale di Giuliano, Bra- mante acquisì qui una comprensione per le imponenti masse murarie, andata per- sa dall’età tardoantica. […] Il progetto definitivo di Bramante per Giulio II Al più tardi a partire dall’inizio del 1506 Bramante preparò il progetto definiti- vo, e il 18 aprile 1506 il papa pose la prima pietra. Anche Bramante ridusse allora i pilastri della cupola rispetto alle ultime versioni, e tornò a una cupola con circa 185 palmi di diametro, rinunciando ora però alle controventature diagonali accan- to al braccio del coro. Isolandolo completamente egli consentì di raggiungere al suo interno un’intensa luminosità […]. Lo spessore dei muri rosselliniani gli con- sentì di aprire nelle pareti laterali finestre giganti di circa 6,70 metri, ampiezza questa che egli originariamente aveva previsto anche per le tre finestre delle absidi nel modello in legno. In queste cinque arcate avrebbero dovuto essere collocate rispettivamente due file di colonne provenienti dalle navate laterali dell’antica ba- silica. Alla fin fine Bramante trasformò quindi i deambulatori in un monumentale finestrato anch’esso caratteristico delle cattedrali gotiche. Si aggiunsero poi le grandi finestre con arco a due centri nella volta a botte, attraverso le cui bocche di lupo egli consentì alla luce di penetrare diagonalmente fin giù nella zona del monumento funebre. Forse per motivi statici egli ridusse poi durante la realizza- zione le tre finestre dell’abside rispettivamente di 10 palmi. […] Il principio longitudinale indusse Bramante anche a sostituire le volte a crocie- ra, che nei precedenti progetti avrebbero illustrato la compenetrazione dei bracci principali con quelli secondari del sistema a quincunx, con volte a botte, i cui cas- settoni anticheggianti nella realizzazione ebbero addirittura un andamento ancora Il Cinquecento 177 1507 problemi di assestamento aggravati da crepe. Questi lavori non coinvolsero ancora l’antica basilica. Solo nell’aprile del 1507, quando l’impaziente papa fece cominciare anche la costruzione dei due pilastri orientali, sarebbe stato demolito gran parte dell’antico sagrato. Nel maggio del 1507 venne spianata per il braccio del coro l’area circondata dal coro di Niccolò V, nella quale si era conservata an- cora una parte del cimitero paleocristiano. Alla fine di maggio del 1507 si aprì una grande crepa – forse perché i pilastri occidentali poggiavano in parte sulle fonda- menta di Rossellino. Nel 1511 erano già terminati i quattro archi della cupola. […] Ancora durante il pontificato di Giulio II ci si accinse alla progettazione concreta della cupola e probabilmente si preparò la volta della cappella Giulia, appena terminata nell’aprile del 1514, quando Bramante morì. Durante i com- plessivi sette anni di attività edilizia sotto Giulio II, Bramante preparò dapprima assieme ad Antonio di Pellegrino e dal 1510 poi anche con Antonio da Sangallo il Giovane, le rispettive fasi di costruzione. […] Tutto ciò venne improvvisamente interrotto dalla morte di Giulio II nel febbraio del 1513 e dall’elezione di Leone X, papa di indole completamente diversa. Il progetto di Bramante per Leone X (1513-1514) Nel marzo del 1513 il trentasettenne Leone X successe a Giulio II. Figlio di Lorenzo il Magnifico, gli fu familiare fin dall’infanzia il costruire all’antica, ed era sufficientemente giovane e ottimista per voler superare progetti più monumentali di quelli di Giulio II triplicandone i costi. Bramante rimase durante i primi otto mesi l’unico architetto responsabile e quando Leone X gli affiancò due illustri consiglieri, lo fece mosso forse da riflessioni sia personali che anche tecnico-co- struttive, prima di tutto però per riguardo verso Bramante, le cui forze lo andava- no lentamente abbandonando. Fra’ Giocando, che egli chiamò il primo novem- bre 1513, aveva già ottant’anni e non solo era noto come teorico e ottimo cono- scitore dell’antico grazie alle sue edizioni di Vitruvio, ma era anche uno dei primi ingegneri d’Europa e quindi indispensabile per l’imminente voltatura della cupola. Giuliano da Sangallo venne nominato solo il primo gennaio 1514, quando Bra- mante era ormai vicino alla morte. […] Per quel che si sa, nessuno dei due acquisì influsso notevole sulla progettazione finché Bramante rimase in vita. Il nuovo progetto di questi potrebbe risalire già al periodo immediatamente successivo al- l’elezione di Leone X, così che si poté riprendere i lavori già nel corso del 1513. Al più tardi nell’ottobre del 1513 a ogni modo il papa incaricò Bramante di rive- stire il vecchio presbiterio, esposto sin dal 1507 alle intemperie – forse perché prevedeva tempi di costruzione molto più lunghi del suo predecessore. Fin dall’inizio in effetti Leone X diede maggior importanza all’ampliamento del pro- getto e alla realizzazione della costruzione esterna in costoso travertino, che non alla tutela dell’identità della vecchia basilica. Il progetto della cupola, che Serlio at- tribuì al periodo finale della vita di Bramante, le varianti di pianta di Giuliano da Sangallo e di Raffaello e le vedute di Heemskerck, forniscono un’idea dell’ultimo progetto bramantesco. Quello del 1506 aveva sofferto soprattutto per una man- canza di grandi cappelle e di spazi secondari facilmente accessibili. Ampliando a cinque campate il corpo longitudinale, chiudendo per mezzo di cappelle semicir- Il Cinquecento 178 colari le navate laterali interne fin troppo strette e facendo proseguire quelle e- sterne in cappelle a pianta centrale, Bramante ridusse sì a tre navate il corpo lon- gitudinale, ma lo allargò contemporaneamente di circa 33,50 metri – così tanto che egli avrebbe dovuto demolire la Sala Regia e spostare l’obelisco: si sarebbe salvata solo la cappella Sistina. Il nuovo atrio si sarebbe spinto fin quasi al filo dell’ala delle logge e in questa zona si sarebbe offerta la possibilità di un collega- mento del nuovo pronao con il palazzo Vaticano. Intorno ai bracci del transetto del progetto del 1506 egli sistemò dei deambulatori che probabilmente sarebbero sporti oltre il corpo della costruzione solo sottoforma di segmenti. […] A queste innovazioni nel braccio del coro appena terminato si opposero tutta- via notevoli difficoltà. […] Se Leone X avesse escluso a priori una demolizione completa o parziale del coro, allora i suoi architetti non avrebbero cercato conti- nuamente di convincerlo. Le piante di Giuliano e di Bernardino della Volpaia te- stimoniano tuttavia che Bramante aveva preso in considerazione semmai il rive- stimento del coro con un terzo deambulatorio. […] Forse già Bramante seguì il modello del Pantheon nei colonnati dei deambula- tori. Forse voleva addirittura assimilarli alle finestre del coro con delle arcate. Il Pantheon gli servì come modello non soltanto per i deambulatori, ma anche per il tamburo in cui ne rispettò perfino le misure. Organizzandolo per mezzo di un si- stema completamente concordante di tutti gli assi orizzontali e verticali e circon- dando il suo cilindro con una tholos con intercolumni stretti secondo regole vitru- viane, egli sfruttò la cupola per una ricostruzione ideale del Pantheon. I deambu- latori inferiori avrebbero preparato l’osservatore al miracolo della cupola, a un Pantheon cristianizzato, la cui severità canonica, la cui spazialità e la cui luminosi- tà avrebbero dato corpo all’intento più intimo del rinascimento come nessun’altra costruzione. Non per niente questa fu l’ultima parola architettonica di Bramante, la somma delle sue immense capacità formali e forse la parte della basilica dove fu meno costretto a compromessi. Il portico di colonne giganti, che Bramante forse già nel 1506-1507 aveva pre- visto per la facciata, dovette aver significato anche per Leone X la quintessenza della vicinanza all’antico. Il prototipo fu evidentemente di nuovo il Pantheon, an- che se qui il portico avrebbe raggiunto più o meno un’altezza doppia e una lar- ghezza quadrupla. […] Probabilmente egli avrebbe sormontato l’ampio colonnato centrale e i portici laterali più stretti con frontoni, come avrebbe fatto poi Peruzzi nei suoi progetti per Paolo III. Raffaello e Antonio da Sangallo il Giovane (1514-1527) Solo tenendo conto di questo antefatto si può comprendere anche il primo pro- getto di Raffaello, ideato probabilmente nel corso dell’estate del 1514, cioè poco prima che il papa lo nominasse successore di Bramante. Nel progetto, tramandato- ci da Serlio, Raffaello ritornò per primo al sistema a quincunx e cioè al sistema dei primi progetti bramanteschi, collegandolo nel modo più armonico al corpo longi- tudinale ampliato e ai deambulatori forse già segmentiformi di Bramante. […] Fra’ Giocondo arrivò finalmente a Roma verso la fine del maggio 1514, ancora prima della nomina di Raffaello, e dovette ben presto acquisire una posizione di Il Cinquecento 179 particolare influenza sulla progettazione. Secondo Vasari, egli dispose il collega- mento delle fondamenta dei pilastri della cupola con quelle dei contropilastri ini- ziati da Bramante intorno al 1513. Nel luglio del 1514 sembra che si stesse già la- vorando alle fondamenta della cosiddetta “nicchia di Fra’ Giocondo”, e cioè alla chiusura delle cappelle sudoccidentali del transetto, seguendo forse ancora un progetto dello stesso Bramante che escludeva il sistema a quincunx. Se né questa nicchia e né le sacrestie adiacenti andarono oltre la fase iniziale, ciò dimostra che Raffaello si dovette imporre presto e forse già prima della morte di Fra’ Giocon- do, avvenuta il primo luglio 1515. A ogni modo non si sa quale progetto fosse va- lido intorno al 1515-1518. […] Antonio venne nominato successore dello zio Giuliano, deceduto da poche settimane appena, solo il primo dicembre 1516. Fi- no a oggi tuttavia non è stato possibile datare con sicurezza nel periodo prece- dente al 1519 nessun progetto di Antonio. Anzi la differenza dei suoi presumibili primi progetti da quelli di Giuliano è così notevole e le affinità con i progetti di Raffaello per Villa Madama così evidenti, che difficilmente possono essere stati eseguiti prima dell’estate del 1518. Dopo la morte di Fra’ Giocondo e la partenza di Giuliano solo poche settimane più tardi, Raffaello divenne finalmente il responsabile indiscusso del cantiere. Il suo progetto del 1518 circa rivela che in un primo momento egli si concentrò soprattutto sulla ristrutturazione dell’esterno. Come testimoniano ancora i progetti di Antonio da Sangallo del 1518-1519, fino ad allora ci si era attenuti al grande ordine dorico previ- sto da Bramante per il progetto di Giulio II, ordine che ora tuttavia si sarebbe spinto ben oltre l’altezza delle nuove cappelle del corpo longitudinale, delle cupole delle na- vate laterali, che Raffaello aveva introdotto, e dei deambulatori. E poiché Raffaello voleva riutilizzare le preziose colonne della vecchia basilica evidentemente non solo nei deambulatori, ma anche nella facciata, estese nel progetto del 1518 l’ordine di 5 palmi anche alla rimanente costruzione esterna. […] I primi progetti di Antonio da Sangallo ricordano nella loro parte occidentale con il coro di Bramante, le sacrestie poligonali, i deambulatori semicircolari o le torri isolate ancora il disegno di Giuliano. Sul progetto di facciata egli si attenne addirittura ancora al grande ordine esterno di Bramante. Le conseguenze della disputa con il progetto di Raffaello del 1518 furono subito evidenti quando poi ridusse le campate e i pilastri dei deambulatori, quando chiuse l’atrio con una parete continua, quando complicò il ritmo dell’ordine e lo ar- ricchì con colonne di 5 palmi. Il contributo personale di Sangallo sta soprattutto nell’allargamento del corpo longitudinale per mezzo dell’aggiunta di “cappelle mag- giori”, che egli voleva certamente dotare anche di propri altari. La navata centrale con la sua fila di campate uguali come le avevano previste Bramante e Raffaello gli sembrò letteralmente «lunga e stretta e alta che parera un vicolo». Se egli cercò di porre rimedio a questa «malformazione» con ulteriori centri di gravità a forma di crociera, prima di tutto lo fece ispirandosi ai prototipi veneto- bizantini come San Marco o Sant’Antonio a Padova e con ciò forse alla fin fine rifacendosi di nuovo ai suggerimenti di Fra’ Giocondo. Raffaello riuscì a evitare l’inserimento di simili cupole per il corpo longitudina- le e a spuntarla sul rivale anche nella maggior parte delle rimanenti questioni. È vero che lì Sangallo si attenne alle cupole del corpo longitudinale, ma riprese da Il Cinquecento 182 Peruzzi. Nella sua famosa prospettiva Peruzzi fece infatti un passo decisivo indie- tro verso Bramante, dotando anche i pilastri dei centri secondari di un ampio smus- so e di nicchie, e ristabilendo così di nuovo una completa analogia tra il centro e gli spazi secondari del quincunx. Lì inoltre progettò un enorme pronao composto quasi esclusivamente da colonne dell’ordine di 9 palmi, che avrebbe abbracciato in una morsa a forma di «U» il braccio orientale della croce, e i cui tre risalti, sormontati da un attico e da frontoni, avrebbero condotto nelle tre navate. Forse fu la difficoltà di collegare questi colonnati al palazzo, forse anche il consenso del papa a elevare moderatamente il pavimento, a indurlo, in un ulteriore progetto, a mantenere sì la tripartizione del pronao, ma a ritornare a un ordine di 12 palmi e a colonne di 5 palmi inserite, richiamando con ciò motivi del progetto di Raffaello. In questo mo- do la facciata riacquistò, è vero, la sua antica monumentalità, ma non la sua dinami- ca gerarchica. […] Anche Sangallo fu di per sé tutt’altro che sfavorevole a un ritor- no alla pianta centralizzata. Tuttavia già nel suo primo progetto conservato risalen- te al nuovo pontificato egli ne dimostrò gli svantaggi rispetto a una costruzione longitudinale con un pronao collegato organicamente al palazzo. […] Nel giugno del 1539 la congregazione di San Pietro lo indusse poi a costruire il modello ligneo nell’inusitata scala di 1:25 – non perché il progetto generale non fosse pronto pri- ma, ma perché voleva assicurare la sua realizzazione in ogni dettaglio. Se nel caso di questo modello si fosse trattato di una mera utopia, i finanziatori non avrebbero autorizzato dall’inizio la sua insolita grandezza e i suoi insoliti costi, e anche la con- gregazione di San Pietro, dopo la morte di Sangallo, difficilmente avrebbe insistito sulla realizzazione di questo progetto. Dopo trentaquattro anni di ripensamenti e una serie di modelli più piccoli, forse anche incompleti, si volle chiarire ogni detta- glio, e Sangallo fece appello a tutto il suo sapere, per far fronte alle esigenze del ce- rimoniale pontificio e soddisfare tutti i problemi statici, ma anche per unire i frammenti in un insieme organico. Solo Michelangelo riuscì a convincere il papa della demolizione del deambulatorio frammentario e di tante altre modifiche, già volute da Sangallo nel suo Memoriale. Anche Michelangelo previde così proporzioni più canoniche per gli ordini giganti sia dell’interno che dell’esterno, anche lui si staccò così dal corpo longitudinale a cinque navate, creò ulteriori fonti di luce, chiuse le nicchie di 40 palmi e modificò le cornici dell’imposta. Rimane tuttavia in dubbio come egli si fosse immaginato il collegamento con il palazzo pontificio, al quale proprio Sangallo aveva dedicato tanta attenzione. Quando poi Paolo V in- dusse Maderno a ritornare a un corpo longitudinale ridotto, a navate laterali interne e a un atrio strettamente collegato al palazzo pontificio, in fondo non fece altro che partire da riflessioni analoghe a quelle di Sangallo negli anni 1531-1539. [liberamente tratto da C.L. FROMMEL, San Pietro, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, a cura di H. MILLON, V. MAGNANO LAMPUGNANI, Milano 1994, pp. 399-423] Michelangelo Buonarroti e Giacomo della Porta Nell’autunno 1546 Paolo III ha forse già deciso la revisione del progetto di Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) per San Pietro che, maturato nel biennio 1538-1539, era espressione di un trionfalismo neo-antico ancora leonino Il Cinquecento 183 divenuto ormai ideologicamente superato dopo la dieta di Ratisbona (1541) e l’avvio del concilio di Trento (1545). Ciò spiegherebbe perché in un primo mo- mento si pensi a far succedere a Sangallo Giulio Romano (1499?-1546), un nome che pare troppo grande per la semplice esecuzione d’un modello già definito in ogni suo dettaglio. La morte di Giulio nel novembre 1546 spalanca a Michelange- lo le porte della fabbrica, dove il fiorentino trova un cantiere in piena attività se pure afflitto da una diffusa corruttela. Paolo III riconosce in Buonarroti non solo un maestro di forma, ma pure un intellettuale avvertito e profondo, l’unico in grado di rendere compatibile la cultura dell’Umanesimo con la riforma morale della Chiesa. Prima ancora di veder ratificato il suo incarico (gennaio 1547), Mi- chelangelo ha già iniziato a sviluppare un nuovo progetto con un modello ligneo che muta drasticamente l’impianto sangallesco. Lo scontro con i deputati, che si vedono scavalcati dal diretto rapporto del maestro col papa, si consuma tra il no- vembre 1546 e il marzo del 1547, per concludersi con l’affermazione pressoché totale del maestro. L’organizzazione del cantiere non viene modificata se non nei suoi vertici: Buonarroti è il non contestabile creatore, esterno tuttavia ai quadri operativi della fabbrica; a sostituire Sangallo è invece il suo secondo architetto, Ja- copo Meleghino (1480?-1549), che ha già affiancato Michelangelo in palazzo Far- nese e nell’incarico delle fortificazioni; si sancisce in tal maniera la scissione del ruolo intellettuale da quello esecutivo, un fatto a quella data eccezionale, reso possibile solo dalle particolarità del cantiere e dalle personalità coinvolte nell’ope- ra. I deputati, dal loro canto, perdono ogni sostanziale controllo sulle scelte archi- tettoniche, e si trasformano in funzionari subordinati, mentre rimane intatta l’organizzazione generale, che oltre ai soprastanti, responsabili del quotidiano controllo delle opere, prevede un finanziatore, il depositario, che anticipa i paga- menti a fornitori e maestranze per conto della fabbrica. Michelangelo interviene sul progetto di Sangallo riducendo innanzi tutto l’e- stensione del perimetro con l’eliminazione degli ambulacri absidali, ciò che com- porta non solo l’ovvio stravolgimento del volume esterno, ma anche un rivolu- zionamento delle gerarchie di luce degli interni. Come ben notato da Thoenes (1994), l’elogio di Michelangelo della “prima pianta” di Bramante, «non piena di confusione ma chiara e schietta, luminosa e isolata a torno», non è indirizzato al cosiddetto “piano di pergamena” e ai suoi ripetuti sviluppi successivi, ma a quan- to Bramante era riuscito effettivamente a costruire, ossia il coro occidentale libero da ambulacri, cappelle e torri angolari, risolto con un unico ordine e direttamente innestato sui quattro pilastri di crociera. Del resto, con l’estensione di un ordine gigante continuo per tutto il perimetro, Michelangelo abbandonerà per sempre la logica di un armonico composto di volumi, quella in sostanza del quincunx seguita da Raffaello (1483-1520), Peruzzi e Sangallo, in favore di un modernissimo corpo unitario, posto in inquieta pulsazione. All’elegante giustapposizione di spazi pro- posta in innumerevoli varianti dagli allievi di Bramante, Michelangelo oppone co- sì un vero e proprio contrapposto di membrature, cogliendo per via d’architettura i medesimi risultati raggiunti dalla sua plastica di figura: le conche absidali paiono dilatarsi irresistibilmente verso l’esterno, forzando la stretta geometrica del cubo di base che fa da plinto alla cupola, e trascinando con loro gli “smussi”, ossia quei Il Cinquecento 184 tratti di muratura obliqui posti all’attacco delle absidi stesse. Queste soluzioni formali sono perfettamente organiche al nuovo congegno statico ideato da Mi- chelangelo, maestro non meno geniale nell’arte costruttiva che in quella architet- tonica. Rinunciare ai deambulatori significa infatti riconfigurare la statica dell’in- tera crociera: vengono a mancare i presidi per le conche absidali (che con i loro 21 metri di luce erano le maggiori volte di Roma dopo il Pantheon), per l’ultimo tratto dei voltoni dei bracci, nonché per gli stessi quattro grandi pilastroni di cro- ciera. Per risolvere il deficit statico creatosi, Michelangelo ricorre proprio agli “smussi”, i cui nuclei murari sono in realtà svuotati da stanzoni e rampe a lumaca, che costituiscono i terminali dei contrafforti dell’intero organismo. La possente struttura michelangiolesca viene attraversata da corridori che intersecano i grandi vani già previsti da Sangallo, gli “ottagoni”, e sbucano nelle logge di prospetto e in cavità occulte: un fluire di ambienti, noto solo a pochi, che è tra le più fascino- se immagini dell’architettura del Cinquecento. Gli interventi sull’interno sangallesco sono assai meno vistosi, ma del pari stravolgenti. Michelangelo conserva l’ordine gigante bramantesco, ma non ne ac- cetta il ruolo formale di sostegno alla grande trabeazione che fa da imposta alle volte maggiori della basilica. Sollevata dal compito di sostenere la botte anulare del deambulatorio, la parete dell’abside può trasformarsi in un organismo radiale, dove gli spazi tra i maschi murari sottolineano col loro arretramento la verticalità dei piloni parastati. Così l’ordine gigante di paraste corinzie, che nel San Pietro di Bramante e dei suoi successori esprimeva una solenne firmitas statica, si riduce a uno scarnificato telaio di pilastrature che lascia affiorare dei convulsi finestroni dai timpani spezzati, stretti tra enigmatici frammenti di bugnato liscio e sorretti dalle coppie di colonne dei tabernacoli sangalleschi privati della cuspide. In que- sto dispositivo non c’è spazio per le possenti linee orizzontali previste dai prede- cessori, e la stessa trabeazione maggiore subisce lo slancio ascensionale spezzan- dosi in corrispondenza delle paraste per introdurre alla proiezione delle svelte co- stolature della calotta absidale a creste e vele. Nei primi anni Michelangelo concentra il cantiere sui due bracci trasversali. Quello della cappella del Re, il braccio meridionale, è voltato già nel dicembre 1547, mentre ancora si debbono demolire le opere del deambulatorio costruite sin dai tempi di Raffaello; non prima del 1555-1556 viene eretto il secondo ordine dell’abside, che verrà voltata solo nel dicembre 1557 dopo sofferti travagli che avevano portato alla demolizione di quanto erroneamente costruito e all’elabora- zione di un ennesimo modello parziale. Il braccio della cappella dell’Imperatore, il settentrionale, viene invece voltato nel novembre 1549; l’abside è in costruzione già negli anni 1553-1556, ma l’esterno verrà in gran parte completato solo nel 1560-1564, a eccezione dell’attico, appena successivo, mentre i tabernacoli interni sono in allestimento ancora nel 1567. Intanto nel dicembre 1550 era stata terminata la trabeazione circolare interna sopra i pennacchi di crociera, e nel febbraio 1552 si era concluso il massiccio a- nello murario che fa da plinto al tamburo e da contrappeso alla spinta dei sotto- stanti arconi. Il tamburo stesso deve essere stato definito, quanto meno nell’im- pianto, già alla fine del 1553, giacché nel 1554 iniziano gli appalti per le semico- Il Cinquecento 187 Della Porta modifica la cupola michelangiolesca innalzandone l’altezza di una misura sensibile ma probabilmente minore di quanto sinora ritenuto. L’aumento può essere stato ottenuto rialzando il sesto delle calotte, oppure sollevandone la quota d’imposta, o ancora in entrambi i modi. […] I rilievi attribuiti alla cerchia del Dupérac provano inoltre che le costolonature interne ed esterne del modello mi- chelangiolesco erano di dimensioni analoghe a quelle poi realizzate da Della Porta. Non è escludibile la ripresa di qualche idea michelangiolesca per la modifica delle mostre degli oculi esterni, non fosse che per la prepotente qualità plastica di quelle del secondo ordine. La variante più radicale riguarda invece il congegno strutturale, semplificato e appesantito: Della Porta costruisce l’intero primo tratto in muro pie- no, talché la cupola di San Pietro, in realtà, è una cupola a doppia calotta solo nella sezione superiore; gli speroni di base di Michelangelo vengono prolungati per sal- dare le calotte per tutto il loro sviluppo sino al serraglio. Il carico ne risulta aumen- tato, ciò che produrrà nel secolo successivo il distacco dei setti colonnati del tam- buro, che sono scarichi e di solo irrigidimento. Giacomo differenzia pure gli spes- sori delle due calotte, rendendo le meno dissimili dalla cupola fiorentina. Le varianti di Della Porta donano nondimeno al sistema molta più rigidezza. Un’ultima varian- te, notevolissima per l’immagine finale e spesso trascurata, è l’aggiunta della coper- tura a piombo, estesa anche ai costoloni (in un primo tempo realizzati in rame do- rato) che Michelangelo aveva forse inteso in travertino scorniciato a vista. La fabbrica della cupola viene tenuta separata da quella della basilica, con pro- pri deputati, depositario, maestranze e contabilità: si tratta di una scelta razionale, coerente a un’impostazione di cantiere mirata alla massima rapidità ed efficienza. Il progresso delle opere è ben documentato: tra il 18 luglio e il dicembre 1588 si completa la trabeazione del tamburo e l’attico sovrastante per un’altezza di palmi 25 1/3 e ben 40.000 scudi di spesa; nel gennaio 1589 si inizia ad allestire il cantie- re per la cupola, che comincia a voltarsi a febbraio; in marzo, quando si registra un picco dei compensi dei manovali e delle forniture di mattoni, si mura la prima catena, circa in agosto la seconda, posta nel punto di distacco delle due volte. È possibile che gli speroni meridiani vengano costruiti in parziale anticipo rispetto alle vele della calotta interna, e queste a loro volta rispetto a quelle dell’esterna, ma non trova conferma nei documenti la notizia riportata da Fontana secondo cui gli arconi sarebbero stati ultimati, quasi come un telaio, prima dell’inizio delle vele. Appare d’altro canto improbabile che sia stata montata una centina comple- ta, che avrebbe reso impossibile l’uso di traguardi per controllare la curvatura del sesto esterno. È infine possibile che Della Porta abbia realizzato un primo ordine di oculi sopra gli archetti di spicco della calotta interna, già previsti nel modello di Michelangelo, poi eliminati per far posto alla decorazione del Cavalier d’Arpino. Alla fine del 1589 si ordina il piombo per la copertura, riportata su un telaio e- sterno di legno. Nel giugno 1590, quando si smontano i ponteggi della calotta in- terna, si costruiscono le costole esterne in mattoni, che sono solo murate sopra la calotta esterna, come del resto gli scalini tra le due calotte realizzati nell’ottobre 1591. Sin dall’estate 1590 si sbozzano le colonne per la lanterna, che viene con- clusa nella parte muraria già nell’autunno 1591, mentre la croce viene eretta sopra la sfera bronzea solo nel 1593. […] Il Cinquecento 188 Il secolo si chiude emblematicamente con il rivestimento marmoreo delle ab- sidi, che non poco ne indebolisce l’evidenza plastica, anche per il riempimento delle nicchie con decori dal disegno troppo minuto (1598-1599). Non risulta che Clemente VIII e Della Porta abbiano mai seriamente affrontato il tema del pro- lungamento della basilica, lasciando così ai loro successori di decidere se la catte- drale della cattolicità dovesse essere un tempio votivo, ovvero un’aula per la con- gregazione, un dilemma che aveva del resto accompagnato la basilica sin dalla ri- fondazione bramantesca. [da F. BELLINI, I grandi cantieri: Campidoglio, San Pietro, «Studium Urbis», in Il secondo Cinquecento, a cura di C. CONFORTI, R.J. TUTTLE, Milano 2001 (Storia dell’Architettura Italiana), pp. 74-84] Le fortificazioni «alla moderna» Un’architettura di transizione: la rocca Alla situazione di stallo che, per secoli, aveva visto la difesa prevalere sul- l’offesa misero fine, come sappiamo, i perfezionamenti dell’artiglieria a polvere. Francesco di Giorgio scriveva, a questo proposito, che «al presente tempo [XV secolo] […] tutte le altre macchine [da assedio] antiche […] per cagione di questa potentissima chiamata bombarda vane e superflue si possono appellare». Così «colui adonque che a questa offensione [l’artiglieria] trovasse la defensione, più presto doveri a essere chiamato divino che umano ingegno». Gli architetti cercarono quindi di correre ai ripari studiando soluzioni che of- frissero garanzie almeno accettabili; i primi progetti non si segnalarono per origi- nalità di soluzioni e furono orientati principalmente a ottenere un rafforzamento dei vari elementi correntemente utilizzati nei circuiti difensivi, senza tuttavia pro- porre idee totalmente nuove. Tale criterio fu applicato sia nell’adeguamento di vecchie fortificazioni sia nella costruzione ex novo di altri edifici. Ne scaturì un’ar- chitettura interlocutoria, che abbracciò tutta la seconda metà del XV secolo, e produsse un tipo specifico di fortificazione: la rocca. Per rocca s’intende quell’edificio militare a pianta quadrata o rettangolare, o comunque di forma nettamente simmetrica, che reca agli angoli del perimetro grosse torri rotonde dette rondelle, di altezza pari a quella delle mura, dotate di forte scarpatura e di un apparato a sporgere (merli, beccatelli e caditoie) esteso lungo tutto il perimetro difensivo. La rocca Pia di Tivoli del 1461, può essere considerata uno dei prototipi di queste nuove costruzioni, se pure con le torri che ancora si slanciano al di sopra delle cortine; ma già a Imola (1473), sono presenti tutte le caratteristiche tipiche della rocca, che ne fanno un edificio adibito quasi esclusivamente a scopi militari, senza più alcuna funzione abitativa. Anche in questi edifici nuovi, o ricostruiti dopo radicali trasformazioni, non troviamo soluzioni architettoniche di novità assoluta; piuttosto assistiamo a un rafforzamento o potenziamento dei vecchi sistemi difensivi medievali: l’apparato a sporgere, per esempio, comune anche in passato (sebbene di solito, per gli ele- Il Cinquecento 189 vati costi di costruzione, venisse un tempo realizzato solo nei punti critici del pe- rimetro difensivo), ora trova una più vasta applicazione. Addirittura, in una delle torri della rocca di Soncino (1473), per aumentare l’efficacia della difesa piomban- te, l’apparato a sporgere aveva le caditoie raddoppiate. Evidentemente, ancora molte erano le «fortezze [che] si perdano mediante li scalamenti». Anche le torri rotonde non erano una novità assoluta: l’esperienza delle crociate pare infatti avesse già messo in evidenza i vantaggi di questa forma rispetto alle tor- ri quadrate: per gli assediati maggiore era il campo di tiro e superiore la resistenza all’impatto dei proiettili. Si è già detto in precedenza che la funzione principale della torre era essenzialmente di assicurare la difesa delle torri più prossime e del tratto di mura da esse compreso; ora la torre quadrata lasciava verso l’esterno, come si può notare dal disegno, una maggior porzione di terreno preclusa al tiro dei difen- sori (angolo morto), e dunque un’area più vasta nella quale l’aggressore doveva temere solo le “offese” che provenivano dall’alto delle mura. Inoltre, la torre rotonda van- tava un’ulteriore particolarità, apprezzata appieno proprio in seguito all’avvento del cannone: la sua maggior resistenza, grazie alla quale i soli proiettili efficaci erano quelli indirizzati sul diametro, mentre in altri punti i colpi tendevano ad essere de- viati dalla superficie sfuggente. Secondo le parole di Francesco di Giorgio: «La ro- tundità delle torri e [dei] circuiti di mura […] io confirmo essere utile e necessaria, perché più resistente (per rotundità) e meno riceve le percosse della bombarda». In un’incisione del XVI secolo di Jost Amman appare evidente la maggiore vul- nerabilità della torre quadrata; ovunque venisse colpita, essa avrebbe infatti subito dei danni, e, come osservò fra gli altri Tetti, architetto militare del XVI secolo, in un capitoletto intitolato: Di diversi modi del fortificare usati nelli tempi adietro, e dei difetti loro: «parve da poi a quelli che vennero appresso, che gli angoli nelle torri causassero de- bolezza: e così di quadrate che esse erano le mutarono in tonde, e le nominorno tor- rioni». Per ottenere risultati contro una torre rotonda, Amman suggerisce di concen- trare il tiro in un solo punto, sebbene, nell’esempio dell’incisione, i due cannoni più esterni, a causa dell’angolatura di tiro, non colpiscano esattamente nel diametro. D’altra parte Francesco di Giorgio, che di rocche si intendeva perché molte ne costruì per il duca di Urbino, raccomandava che le parti della fortificazione fosse- ro «fuggitive delle percosse delle bombarde». In altre parole, oltre alla resistenza offerta dai materiali, consigliava di ricercare una resistenza di forma, o come si di- rebbe oggi, una maggior profilatura balistica. Gli stessi merli, se costruiti alla vec- chia maniera, non offrivano più un’adeguata protezione contro le nuove armi: nel dipinto di Lorenzo Lotto: La castità di Susanna, si distingue molto bene una vec- chia torre rotonda riadattata secondo le mutate esigenze belliche, con i classici merli sostituiti da altri ripari (merloni), più spessi e sfuggenti. Gli stessi merloni ca- ratterizzano le due torri sullo sfondo nell’immagine della rocca di Sarzanello, vero gioiello dell’architettura militare del periodo di transito, dalla particolare pianta triangolare. Contemporaneamente a queste innovazioni, sparirono dalla sommità delle mura tutti i ripari in legno che avevano dato buona prova nei secoli prece- denti, ma che risultavano troppo deboli per resistere alle nuove armi da fuoco. Per maggior chiarezza, tuttavia è bene ricordare che lo sviluppo della rocca è legato, sia pure in misura secondaria, anche all’utilizzazione difensiva dell’artiglie- Il Cinquecento 192 Si consolida – e si legge appunto attraverso la trattatistica militare – un pensie- ro culturale che cerca i propri presupposti scientifici: il progetto dell’architettura fortificata si fonda sul sapere matematico e geometrico e sul valore scientifico del disegno, la forma della fortificazione – sia dell’insieme sia delle parti – si basa sul- la geometria euclidea, ovvero sulla geometria della misura. Un progetto di tale sorta deve stabilire relazioni metriche tra misure di angoli (per i baluardi e per le cortine) e misure di lunghezza (per cortine, facce, fianchi, baluardi); si viene cioè a fissare una scompartizione di base su cui si articola la struttura difensiva. Essa è codificata e presenta come invarianti la forma e le proporzioni rispetto all’insieme. Le singole parti, quali baluardi, cortine, fianchi, fossati, si concretizza- no entro un progetto generale a configurazione dinamica che si evidenzia nei di- segni, così come emergono dai trattati di architettura militare; la configurazione dinamica ha come sorgente il movimento, ovvero l’effetto cinematico della po- tenza del fuoco di artiglieria. I disegni, come codici di rappresentazione, sono altamente significativi degli o- biettivi che rappresentano. Se i disegni tipici degli architetti, nei quali il tema della città fortificata è connesso al tema della forma della città, recuperano spesso anche riferimenti estranei al dominio della ragione, nei disegni tipicamente militari si evi- denzia invece la necessità che essi siano misurabili ed esatti: saranno infatti rappre- sentazioni tipicamente in pianta, sezione, assonometria – anche estremamente complessi – quasi mai in prospettiva, in quanto il messaggio percettivo non interes- sa. Sul foglio da disegno viene verificato il progetto stesso di difesa, simulando se- condo piani ideali le traiettorie di fuoco e leggendo i caratteri materiali e la stereo- metria delle opere difensive attraverso le opportune rappresentazioni. Parametri per la lettura degli sviluppi dell’architettura fortificata Passando dal progetto alle realtà territoriali, è opportuno fare riferimento ad alcuni problemi generali: le correlazioni tra la forma dell’opera di difesa ed i pro- cedimenti di attacco, la permanenza dei principi che condizionano l’architettura fortificata in funzione dei modi di intendere la guerra per secoli (praticamente da tempi remoti al secolo XX), i legami tra gli ordinamenti politici e amministrativi delle diverse società e la distribuzione delle architetture militari sul territorio. Sul primo tema, è opportuno premettere che, in senso puramente evolutivo, le modificazioni tipologiche di questo tipo di architettura vanno lette attraverso il rapporto attacco-difesa, secondo il criterio guida già indicato dal Lorini «dalle offe- se cavare le difese», nel senso di strutturare le difese in funzione dei sistemi di at- tacco. Azioni e reazioni si perfezionano infatti reciprocamente per trarre dal rap- porto condizioni favorevoli; nello scontro si ricercano condizioni impari che met- tano l’avversario in stato di inferiorità. Un «attacco che insegna la difesa» vuol dire che all’evoluzione delle tecniche di attacco corrisponde la trasformazione degli e- lementi di difesa; quando l’offesa esprime – mediante armi, tecniche, strategie – una volontà attiva di superamento dei suoi mezzi, si viene a realizzare un fattore dinamico che rompe l’equilibrio della difesa, e quest’ultima dovrà rispondere adat- tando le sue forme a nuove strutture tese al recupero della propria superiorità. Se è vero che la fortificazione è soggetta a continui adattamenti, è anche vero Il Cinquecento 193 che sussistono principi immanenti, tanto nei procedimenti di offesa quanto nelle strutture difensive: si può dire che l’arte della guerra, per secoli e sino praticamen- te alla nostra età contemporanea, ha visto comunque come prioritaria ed essen- ziale la componente difensiva. I principi immanenti, indipendenti cioè dall’evoluzione delle armi di attacco e dalla variazione delle forme dell’architettura di difesa, prevedono una sorta di ri- tuale. L’attacco si svolge attraverso fasi diverse di assedio, breccia, assalto; la dife- sa tende a prevalere con elementi di riparo e di ostacolo per la conservazione per- sonale dei difensori, attraverso una massa coprente (che rimanda all’immagine ar- chetipa del recinto come luogo chiuso del rifugio) e mediante elementi che ten- dano a impedire o almeno a ritardare per fasi successive lo scontro fisico. Questo modo di condurre la guerra, secolare, ha come criterio direttivo in primo luogo l’assedio ad oltranza della struttura difensiva: esso può durare mesi od anni, con diverse intensità di attacco. Una seconda fase è la breccia che, per- mettendo la penetrazione delle fanterie nel sito fortificato, diviene segnale di crisi per la struttura difensiva, dopodiché lo scontro diretto delle milizie stabilirà le sorti della battaglia. Sul terzo tema dei rapporti tra ordinamenti politico-amministrativi e distribu- zione territoriale delle opere fortificate, si può, generalizzando, affermare che all’incirca sino a metà del XIX secolo le opere permanenti di difesa sono essen- zialmente di due tipi: quelle atte alla difesa della città – le mura – e quelle funzio- nali al controllo della città e dei territori. Nel tempo le prime risultano sufficientemente costanti; si modificano preva- lentemente solo le quantità di tessuto urbano da difendere e i tipi di difesa in fun- zione delle tecniche di attacco. Quelle del secondo tipo sono invece molto varia- bili: la loro distribuzione a controllo del territorio rispecchia fedelmente le condi- zioni della società nelle diverse epoche storiche. Esse sono infatti opere destinate a sbarrare le principali vie di comunicazione e a tenere con la forza le città e le terre conquistate; risultano caratterizzate dalla posizione – tale da garantire la massima resistenza – collegate in sistemi, dislocate in punti strategici. La distribu- zione delle opere fortificate sul territorio crea una rete di relazioni tanto più fitta e frammentaria quanto più è frazionato il potere sociale, politico, amministrativo. Sulla scorta dei tre parametri individuati sarebbe dunque possibile leggere tutta la storia dell’architettura fortificata, anche se in questa sede il problema viene e- saminato solo a partire dalla fase tra medioevo ed età moderna, quando nel siste- ma della guerra avviene una vera e propria rivoluzione. Sino al XV secolo, infatti, l’arma principale era costituita dall’artiglieria da lan- cio: le macchine d’attacco – da getto, da percossa, da approccio, da assalto – pro- cedevano in azione combinata tendendo alla riuscita dell’assedio, cioè alla crea- zione della fatidica breccia. L’opera fortificata doveva risultare impenetrabile, at- traverso forme articolate in nodi attrezzati, nei quali i difensori controllavano o- gni punto del recinto proteggendolo dalle armi d’attacco. La rivoluzione cui si accennava avviene dunque nel momento in cui alle armi da lancio vengono sostituite le armi da fuoco. Il Cinquecento 194 Strutture fortificate agli albori dell’età moderna I caratteri distintivi delle architetture fortificate nel basso medioevo si relazio- nano già, in parte, a una difesa attiva, a differenza dei castelli medievali preceden- ti, anche in seguito ad alcune innovazioni assunte nei confronti con l’Oriente, ef- fettuati nell’età delle crociate. Ai vertici del recinto murario del castello si innalzano le torri sovrastanti la cin- ta; il dongione, non più isolato, entra a far parte inscindibile del perimetro mura- to, come elemento principe della difesa. Il coronamento, con un sistema di cadi- toie su beccatelli che permettono i tipi piombanti, si viene integrando con il più antico sistema dei merli, che ora viene assumendo maggiori dimensioni e permet- te spazi protetti per balestrieri e arcieri, e con elementi polari quali le bertesche e le garitte; il tipo di fortezza isolata è ora configurabile come struttura prevalente- mente a pianta quadrilatera con torri angolari sporgenti, in anticipazione del si- stema bastionato cinquecentesco. Anche le cinte urbane adottano innovazioni rispetto all’assetto precedente: lo spessore delle mura è in genere abbastanza limitato, torri alte – a pianta quadra o poligonale, raramente rotonda – sovrastano le cortine, le porte urbane risultano di frequente fiancheggiate da torri e sono munite di ponti levatoi e rivellini, riba- dendo il concetto di difesa scalare e successiva. Anche qui le mura sono coronate da merli, caditoie, bertesche, così come i castelli-fortezza. L’avvento delle artiglierie da fuoco mette in crisi un tale sistema consolidato. Alle sfere di pietra lanciate dalle bombarde vengono sostituite sfere in metallo fu- so (dalla fine del XV secolo) lanciate dai cannoni in bronzo. I tiri radenti, di potenza sempre maggiore, tendono al superamento della funzione difensiva, obbligando a rimettere in discussione tutto il sistema di torri e cortine murarie. Il Quattrocento è pertanto un periodo di intensa sperimentazione progettuale e di ricca produzione di modelli sperimentali, che procede in parallelo al perfezionamento della nuova arma offensiva che, nelle prime fasi, era infatti non troppo temibile per l’imprecisione dei tiri e veniva usata ancora insieme alle tradizionali artiglierie da getto. In una prima fase del XV secolo vengono affermandosi alcuni tipi di ar- chitetture fortificate di transizione, quali la rocca e il forte, che costituiscono una prima sperimentazione per l’ormai imminente sistema bastionato. Tali tipi ven- gono realizzati secondo due principi fondamentali: quello statico della massa e quello attivo del rimbalzo dei proiettili con relativa loro deviazione dalle cortine. I risultati architettonici di tali principi sono l’ispessimento della sezione mura- ria, l’abbassamento delle torri che si modificano assumendo forme a pianta circo- lare o a puntone; la rocca o il forte hanno in genere una forma plani metrica qua- dra con torri angolari non emergenti dal livello di cortina, mura a scarpa (onde e- vitare colpi ortogonali alle mura) per circa due terzi dell’altezza, con cordolo ci- lindrico di raccordo. Il forte si differenzia dalla rocca per la sezione delle torri che, in anticipo sul baluardo più tardo, assume una forma pentagonale. Entrambi i tipi di transizione conservano le caditoie su beccatelli: sostanzialmente tale diffe- renza tipologica corrisponde alla variazione più significativa rispetto all’architettu- ra fortificata «moderna», che annullerà del tutto il tiro piombante. In questa età di transizione un altro elemento innovatore nelle strategie belliche ri- Il Cinquecento 197 cazione del numero dei lati secondo rigidi schemi geometrici. Il sistema si comples- sifica con un sempre maggior numero di opere esterne (rivellini, lunette, tenaglie, code di rondine) per una graduale difesa anticipata, onde ritardare l’avvicinamento del nemico al cuore della struttura. Alla fine del secolo le piante delle fortezze han- no assunto la forma di strutture tentacolari ad impianto planimetrico rigorosamen- te geometrico, con dimensioni sempre più notevoli, orientando il sistema in modo preferenziale contro le postazioni ritenute più vantaggiose per l’attaccante. L’architettura militare del Settecento è però lontana dai modelli di progetto «pratico» che avevano contraddistinto quella dei secoli precedenti. La progetta- zione delle opere fortificate è ora ritenuta un’arte accademica in applicazione di raffinate regole matematiche e geometriche, non più ritenute uno strumento fun- zionale al progetto ma scienze di valore dogmatico in sé. Si impongono tipi e si- stemi a priori, non strettamente legati al sito e alla realtà contingente, da scegliere tra i diversi esempi forniti dalla manualistica. La ricerca di armoniche combina- zioni di linee planimetriche che trascurano però le condizioni oggettive dei luo- ghi, riducono spesso il progetto dell’architettura fortificata a una esercitazione te- orica i cui risultati sul campo sono di qualità poco efficace. Sin dalla metà del XVIII secolo l’ulteriore progresso balistico, ottenuto con l’aumento della gittata e con una maggiore precisione dei tiri, riduce in netta con- dizione di inferiorità la difesa nei confronti dell’offesa. Viene pertanto a prevalere un nuovo concetto tattico: l’allontanamento della linea difensiva dal nucleo cen- trale. La nuova linea di resistenza non corrisponde più ad un recinto continuo, ma ad una serie di opere collocate secondo precisi intervalli. Sì addiviene dunque al sistema di «campo trincerato a forti staccati» con truppe schierate tra la cinta continua – che costituisce il cuore del sistema – e le opere staccate. Nell’Ottocento le principali piazzeforti e le città più esposte vengono quindi dotate di una cintura di opere staccate – i forti – ubicate in punti strategici per il controllo delle vie di accesso, dei fiumi, dei passaggi obbligati, opere localizzate in modo che la loro distanza, in funzione del campo di tiro, permetta a tutto il ter- reno interposto di essere difeso e battuto dai tiri incrociati dell’artiglieria. Il trac- ciato del forte, abbandonate le complessificazioni delle superaccessoriate piazzeforti settecentesche, si riduce a una semplice linea poligonale aperta; i terrapieni fungono da masse coprenti, legati alle opere murarie dotate di rampari. te parti piane della superficie a terrapieno vengono usate per la localizzazione dell’artiglieria pesante, le caponiere centrali – elementi difensivi bassi nel fossato – per il fiancheggiamento nell’azione ravvicinata, i grandi organismi di fiancheggiamento nella gola dei forti staccati servono per battere con fuoco incrociato le grandi aree interposte. Il tracciato poligonale della linea di difesa del campo trincerato riprende nella sostanza l’ufficio tattico del baluardo del XVI secolo, riaffermando che l’arte della guerra è un’esperienza pratica legata al terreno, non condizionata soltanto da teo- rizzazioni a priori. [da M. VIGLINO DAVICO, Le fortezze: tipologie agli albori dell’età moderna e modi di trasformazione dal XVI al XIX secolo, in Cultura castellana, Atti del Corso (febbraio-maggio 1994) a cura di M. VIGLINO DAVICO, Torino 1995, pp. 43-53]. Il Cinquecento 198 Arte della guerra e arte della città L’ampliarsi continuo del raggio d’intervento della progettazione architettonica e urbana nel corso del Cinquecento si verifica in concomitanza con profonde trasformazioni strutturali, che impongono una sempre più incisiva presenza del tec- nico in tutti i campi e a tutte le scale di intervento. L’accentrarsi del potere, l’accrescersi delle tensioni e delle guerre tra stati, l’apertura di una gran parte del mondo al commercio e alla conquista europea, hanno favorito la nascita e il conso- lidamento di tecniche di intervento sul territorio, sulla città e sulle sue parti sempre più «scientificamente» programmate ed efficaci. Anche l’urbanistica – intesa, in questo periodo, come il settore di programmati interventi a scala media e grande – comincia a delinearsi come un insieme di regole e di comportamenti pratici ancor prima di diventare (ma occorreranno tre secoli perché il processo possa dirsi con- cluso) un settore autonomo e riconoscibile delle attività progettuali. Lo spazio, vastissimo, lasciato libero dalla perdita delle autonomie municipali, e reso permeabile e agibile dall’impossibilità operativa di qualsiasi resistenza «dal basso» alle più pesanti operazioni di demolizione e di sventramenti, viene rapida- mente occupato dalla sfera di interventi militari. È con la tecnologia e con il pote- re decisionale dei militari – improntato all’ideologia della necessità superiore, im- mediata e assoluta – che deve fare i conti qualsiasi grosso intervento urbanistico, almeno nella prima metà del Cinquecento, che presenti i caratteri della «moder- nità». Ed è proprio in campo militare che l’età moderna, così prontamente rece- pita nei suoi connotati di assoluta novità e di sconvolgente durezza dai contem- poranei, si affaccia dapprima timidamente, per poi nel corso dei decenni essere percepita come valore nuovo, da discutere ma che non si può ignorare, in ogni campo della ricerca e della riflessione intellettuale. Le innovazioni portate dalle ar- mi da fuoco si riassumono in un salto di qualità della gittata e del peso dei proiettili, ma soprattutto nella possibilità di trasportare i cannoni su affusti a ruo- te; è un dato ormai acquisito che, dopo la discesa in Italia di Carlo VIII, che vede aprirsi le porte delle principali città grazie alla preponderanza e alla novità di con- cezione del suo armamento e soprattutto delle sue artiglierie, comincia a mutare sempre più convulsamente l’atteggiamento dei politici e dei tecnici verso il pro- blema delle cinte fortificate. Se fino alla fine del XV secolo si poteva procedere spe- rimentalmente per singole innovazioni, già ampiamente orientate verso la solu- zione del baluardo o bastione e della sua aggregazione in un sistema che chiama in causa tutte le parti del recinto murario, d’ora in poi l’esigenza di aggiornare in brevissimo tempo le difese urbane diviene una corsa generalizzata all’investimen- to di capitali umani e finanziari nel settore delle fortificazioni. L’ingegneria mili- tare diviene così in pochi anni il settore trainante dell’attività edilizia e urbanistica, dapprima in Italia e in Francia, poi negli altri paesi europei e mediterranei e oltre Oceano. Nessun altro campo di attività progettuali possiede una paragonabile spinta innovatrice, una così alta densità di connessioni con altre discipline e con altri fenomeni economici, politici e sociali, un così alto costo di programmazione e di intervento. A questo si aggiunge che i tempi di realizzazione sono, molto spesso, estremamente ristretti; e che il rapido superamento delle tecniche e dei si- stemi di difesa porta a un altrettanto rapido consumo delle soluzioni adottate Il Cinquecento 199 pochi anni prima, con un grande spreco di risorse economiche e con un altret- tanto grande impiego di risorse intellettuali. È così che, nella prima metà del Cin- quecento, tutti i grandi architetti e moltissimi artisti sono costretti a occuparsi, in prima persona, dei problemi di ingegneria militare. Dopo Leonardo, basta citare Dürer, autore di uno dei primi trattati sull’argomento, e Michelangelo; in questi decenni sperimentali è anche massimo il coinvolgimento dei politici (Machiavelli) e dei matematici (Tartaglia). Ma già nella generazione successiva queste prime proposte, ancora in gran parte teoriche o comunque nate da meditazioni e ragionamenti al di fuori dei campi di battaglia, appaiono superate. Poco prima della metà del secolo si è ormai imposta la generazione degli spe- cialisti in architettura militare che hanno avuto la possibilità di sperimentare par- tecipando ad assedi, battaglie campali e progettando sul campo difese provvisorie e permanenti, le vere esigenze della guerra moderna. Maggi, Castriotto, de Marchi preparano le basi comuni, anche sul piano teorico, dell’ingegneria militare che, nella seconda metà del secolo, presenta ormai caratteri ampiamente internazio- nali, pur conservando quel grado di aderenza alle tradizioni culturali «nazionali» che rendono possibile la distinzione tra «scuole» italiana, francese, olandese ecc. di ingegneria militare. Da questo momento in poi questa nuova scienza procede per linee rigorosamente disciplinari, sempre più nettamente separate e distingui- bili rispetto alla progettazione architettonica, agli interventi di riassetto territoria- le; i modelli urbanistici nuovi, nati e sperimentati proprio a contatto con le espe- rienze militari nella prima metà del secolo, procedono ormai verso sviluppi auto- nomi, verso un’integrazione effettiva tra sfera dell’architettura e sfera della città e un adeguamento degli spazi progettati a nuove esigenze (più indirette e sottili ri- spetto alla sempre meno necessaria esibizione della forza armata) di autorappre- sentazione del potere costituito. Ma è nella prima metà del secolo che occorre ri- cercare i veri nessi tra gli interventi militari e la nascita di una nuova urbanistica. Innanzitutto considereremo l’aspetto più propriamente politico-culturale del pro- blema, quindi l’aspetto economico, infine quello tecnico. È difficile valutare l’im- patto dei nuovi metodi di condurre la guerra sulla mentalità politica dei primi decenni del secolo; più semplice osservare alcuni effetti non secondari prodotti dalla diffusione del fronte bastionato nelle città italiane, e, sul piano speculativo, dal rifiuto della guerra intesa e sentita come pura furia distruttrice, che serpeggia nel pensiero di molti intellettuali. Il possesso di una fortificazione aggiornata e di un buon numero di bocche da fuoco è, ormai, necessità improrogabile di ogni principe e di ogni città-stato che intenda mantenere la propria indipendenza. Se per le armi da fuoco è solo questione di disponibilità tecnica ed economica, va comunque tenuto presente il necessario rapido sviluppo di un’industria siderur- gica in grado di fondere cannoni e proiettili, e di attività industriali collaterali con- nesse con il trasporto degli armamenti e la produzione di armi leggere. Ma in campo politico quello che veramente pesa e si fa riconoscere è il potere di dispor- re a piacimento delle città strategicamente importanti, per poterle trasformare in imprendibili piazzeforti. Ciò implica un definitivo appiattimento dei poteri deci- sionali degli organismi municipali, laddove il principe o il sovrano, per interessi che si fanno coincidere con quelli dello stato, decide di intervenire; e dove lo Il Cinquecento 202 potenti: gli interessi dei privati, quelli dei militari e, in un secondo momento, quel- li della Chiesa controriformata. La relativa omogeneità del panorama urbano del Seicento, a scala mondiale, è raggiunta proprio attraverso la distruzione militare, nell’Europa mediterranea, delle ultime forti municipalità di stampo medievale, e dalla formazione, in America, di individualità municipali sul ceppo delle operazio- ni coloniali. Se sul piano generale l’impronta militare caratterizza la stragrande maggioranza delle operazioni urbanistiche del Cinquecento, estremamente più complesso è ve- rificare l’incidenza dei modelli urbani di matrice militare su quella che sarà la ri- flessione sulle tipologie civili. Il discorso deve comunque partire dal dibattutis- simo problema delle origini militari della città radiocentrica o, comunque, del mo- dello radiocentrico di città. In astratto, è evidente che lo schema ha origini molto più antiche; ma, nei fatti, le strade radiali, colleganti per linea retta le aree o la piazza centrale della città con le porte (o i principali caposaldi bastionati) nascono da precise proposte, codificate nei principali trattati (Maggi, Castriotto, de Mar- chi) e precise realizzazioni, le piazzeforti della frontiera franco-fiamminga. Che il punto di partenza della struttura urbana radiocentrica vada ricercato proprio in questa dimensione di pratica militare è dimostrato proprio dalla stretta correlazio- ne tra impianto stradale e recinto fortificato: trattatisti e realizzazioni intorno alla metà del secolo convergono nella messa a punto di un tipo completamente nuo- vo di impianto. Non esiste più alcuna preesistenza culturale della città “civile” cui far riferimento, non fosse altro che come vincolo progettuale: si riparte su basi esclusivamente tecnologiche, inventando organismi di piccola dimensione, a metà città e a metà cittadelle, dove la piazza centrale è una piazza d’armi; e le strade radiali, che conducono alle porte ma anche ai bastioni, appaiono condizionate dall’esigenza prioritaria di battere, con pezzi da fuoco situati al centro, le vie di accesso occupate da eventuali infiltrazioni nemiche, e di favorire il rapido smista- mento delle artiglierie da un punto all’altro della cinta difensiva. Radiale è infatti, innanzitutto, il criterio balistico del controllo di tutte le direzioni dello spazio; che poi questo criterio venga a coincidere con gli antichissimi vagheggiamenti della città circolare (e pertanto perfetta), situata nel centro del proprio territorio (e quindi do- tata di una rete stradale efficacemente bilanciata in relazione con le diverse direzio- ni dello spazio), è un fatto che non fa che consolidare l’incidenza determinante del- l’apporto dei militari alla formulazione del modello definitivo di città radiale. La strada rettilinea, ampia e con veduta preferenziale è, anch’essa, un prodotto della militarizzazione che investe anche modelli di intervento antichi e medievali, che ora vengono piegati alle nuove esigenze e alle nuove dimensioni. Il rettifilo è sempre una strada militare, anche se tale non appare; e così gli sventramenti, nella Roma di Paolo III come nella Palermo della fine del secolo, eseguiti con spietata determinazione, ci suggeriscono l’esistenza di precise connessioni esecutive: le e- sigenze della guerra sono le stesse di quelle del governo civile. Analoghe consi- derazioni ci potrebbero portare, infine, a considerare anche la facciata continua come un preciso portato dell’urbanistica militare: le case uniformi – quasi che la ripetizione uguale e seriale, come una divisa militare, contenesse in se stessa un positivo elemento ordinatore degli spazi e della società che li abita – sperimentate Il Cinquecento 203 proprio a partire dall’inizio del secolo in organismi stradali altamente specializzati (i ponti di Parigi, alcune strade di cittadelle e città-fortezza francesi ecc.); su questi precedenti si affermerà successivamente la grande tematica, fondamentalmente seicentesca e interamente recuperata a una sensibilità civile, moderna e borghese dello spazio urbano, della «facciata continua». Sul piano della tecnica di progettazione e di rappresentazione, l’apporto dei militari è fondamentale, proprio in quanto si inserisce in una problematica distaccata rispetto alle tradizionali esigenze speculative ed estetiche, facendo rife- rimento, almeno in via di principio, solamente a calcoli scientifici di traiettorie, re- sistenze ottimali di forme e materiali ecc. Si accentua così in modo definitivo il di- stacco tra un modo scientifico o comunque specialistico e settoriale di concepire le operazioni che si possono nel loro complesso definire urbanistiche (dal territo- rio al cosiddetto arredo urbano), e un modo artistico o comunque umanistico e artigianale di concepire globalmente e in una prospettiva di unità delle arti e dei campi della progettazione questi interventi. Ormai sempre più la prospettiva è dei pittori e degli scenografi, il rilevamento geometrico del terreno è dei militari. Ciò implica a sua volta la messa a punto, sempre con l’apporto determinante di mae- stranze militarizzate e sotto l’impulso di necessità belliche, di metodologie di rile- vamento cartografico intese, in senso moderno, a costituire un supporto il più possibile corrispondente alla realtà per i calcoli balistici e per i progetti delle for- tificazioni. E già in Leonardo, d’altra parte, si avverte la preoccupazione di far a- derire i metodi di rappresentazione della realtà urbana alle esigenze di una com- mittenza preoccupata quasi esclusivamente di stabilire scientificamente i segni del proprio potere sulla città e sul territorio. [da E. GUIDONI, A. MARINO, Storia dell’urbanistica. Il Cinquecento, Roma-Bari 1982, pp. 9-17] Palmanova La Repubblica di Venezia decise, a seguito della sconfina di Lepanto (1570) di erigere un nuovo baluardo verso Oriente, a difesa di ulteriori invasioni dei Turchi, nel 1571. Il progetto fu affidato a Bonaiuto Lorini che, nello stesso anno, ne ela- borò lo schema. Solo nel 1593 si diede però inizio ai lavori, per opera di Giulio Savorgnan e di Barbaro. Lo schema è un poligono di nove lati, lunghi 230 m cia- scuno, ai cui vertici sono collocati nove bastioni a fianchi ritirati. Al suo centro è collocata una piazza esagonale, i cui lati costituiscono il lato breve di nove spicchi trapezoidali che costituiscono i quartieri della città, spartiti da vie che collegano i bastioni alla corona esagonale della piazza: le vie che si dipartono dai bastioni non raggiungono, per motivi di sicurezza, il centro della piazza, mentre questo è rag- giunto dalle vie intermedie, tre delle quali conducono alle porte della città. Amelio Fara (1989, p. 111) ha notato come nel progetto originario di Giulio Savorgnan le porte urbane fossero ubicate vicino ai bastioni (come testimoniato da una pianta del 1602 di Niccolò Sagreda) per essere poi spostate al centro delle cortine per evidenti motivi di rappresentanza civile. Alla magnificenza civile della città sem- bra del resto abbia contribuito Scamozzi. Il Cinquecento 204 È stato invece notato come Palmanova costituisca un compromesso tra le teo- rie militari di Lorini e quelle di Savorgnan: in otto dei nove bastioni sono infatti presenti due piazze per la collocazione dei pezzi d’artiglieria (come indica Lorini), mentre in un solo bastione si trova una sola piazza (come vuole Savorgnan). Altri sostengono invece che per questo Palmanova abbia un carattere fortificatorio ispirato da Lorini, come dimostrerebbe anche il modo con cui le vie radiali si raccordano alla piazza; la stessa soluzione sopra descritta era però già stata attuata a Philippeville ed era già stata prevista nella trattatistica militare da Giovanni Tommaso Scala (cui si deve la pubblicazione, nel 1598, di un testo interpolato da Bellucci) e da Daniel Speckle. La fortuna dell’invenzione urbanistica attuata a Palmanova, l’apice dell’utopia rinascimentale incentrata sulla città di pianta circolare-stellare a percorsi interni radiali, fu enorme: se ne hanno numerosissime derivazioni sia in disegni e incisio- ni, sia in realizzazioni europee dei secoli XVII e XVIII. [liberamente tratto da P.C. MARANI, Urbanistica rinascimentale da Filarete a Palmanova, in Rinascimento da Brunelleschi a Michelangelo. La rappresentazione dell’architettura, Catalogo della mostra (Venezia, 1994), a cura di H. MILLON, V. MAGNANO LAMPUGNANI, Milano 1994, pp. 540-545] Fortificazioni e tecnica militare in area sabauda Disegni e modelli Non vi è dubbio che la rappresentazione grafica dei sistemi fortificati fornita dagli ingegneri militari – soprattutto nel secolo XVI e nel successivo – sia la fonte informativa primaria per conoscerne le strutture esistenti, le proposte di modifi- cazione, i progetti di ampliamento o di edificazione ex novo. I documenti scritti (comprese le relazioni degli stessi tecnici, se prive o separate nel tempo dai corrispettivi disegni) danno infatti notizie generiche, ove la terminolo- gia adottata è troppo vaga per suggerire riscontri materiali; essa varia inoltre a secon- da dell’estensore, del suo grado di padronanza della lingua in cui si esprime, della sua volontà di ben apparire nei confronti del potente cui si rivolge. Troveremo così che il termine “demolito” per un bastione, o un tratto di muro, o un forte, può significare il suo essere raso al suolo o – all’estremo opposto – l’essere danneggiato in modo an- che lieve; altrettanto il “rifatto” si estende dalla ricostruzione totale a partire dalle fondazioni, alla risistemazione magari epidermica del solo paramento murario. Notizie altrettanto o ancor più esaustive rispetto ai disegni si potrebbero trarre dalle riproduzioni tridimensionali in scala delle fortezze, delle quali è noto che alla corte di Torino si conservava sin dal secondo decennio del Settecento una Collec- tion des Plans en relief des fortifications des Places. Queste preziose testimonianze sulla effettiva consistenza delle antiche strutture militari sabaude soccorrono però nella ricerca solo in qualche fortunato caso sporadico in cui la maquette è sopravvissuta a vicende di dispersione, di incuria nella conservazione o di voluta distruzione di oggetti ritenuti ingombranti e invece di valore anche come opera di maestri nel- Il Cinquecento 207 Diversa situazione si riscontra quando l’atlante nasce da un progetto unico, per lo più disegnato e redatto da un unico autore: può trattarsi di tavole con poche an- notazioni, come quelle di Francesco Orologi (ante 1558) o di Michel Angelo Mo- rello, oppure di disegni corredati da relazioni scritte, come nella raccolta del 1547 di Gian Maria Olgiati o nel più noto volume Avvertimenti sopra le fortezze concluso da Carlo Morello nel 1656. In tutti i casi questi atlanti concepiti a priori nella loro interezza risultano i più ricchi di informazioni, non soltanto sullo stato delle piaz- zeforti e sui progetti per la loro miglioria ma, più in generale, sul panorama politi- co, militare, architettonico, sociale e culturale del tempo in cui risultano redatti e, soprattutto, sulle figure dei loro autori. Il taccuino di Gian Maria Olgiati Ingegnere capo del ducato di Milano, urbanista, artigliere, il principale esperto imperiale in Italia come tecnico di fortificazioni è sin dal 1520 al servizio dei du- chi di Milano, intensificando quindi la sua attività dal momento in cui, morto nel 1535 Francesco Sforza, il ducato passa sotto il diretto controllo della Spagna. I suoi interventi in Piemonte, come risultano dall’importante studio di Silvio Le- ydi (1989), iniziano comunque ancor prima per fortificare «alla moderna» il castello di Valfenera. Il suo ruolo di tecnico al seguito dell’esercito cesareo lo porta, dopo svariate esperienze in luoghi in cui veniva messa in crisi l’egemonia politico-militare dell’impero, a fortificare Asti nel 1542 e, nel periodo successivo e sino alla pace di Crépy, a provvedere a un primo riassetto delle difese ai confini tra Piemonte e Mi- lanese. Ribaltandosi quindi la situazione concordata nel 1544, e stabilito che il duca- to lombardo doveva essere saldamente difeso come avamposto italiano in mani a- sburgiche, di lì a due anni si riprendono – dando loro priorità assoluta – i lavori so- spesi alle fortificazioni di varie città di presidio. È questa l’occasione in cui viene redatto il quaderno di Gian Maria Olgiati che qui interessa. Governatore di Milano era stato nominato don Ferrante Gonzaga, già viceré di Sicilia; sua è la patente in data 9 luglio 1546 conferita al «Capitano de l’artiglieria Gio. Maria Olgiato a visitar le terre et loci di presidio nel Piemonte», ovvero quel- le piazze che gli spagnoli occupano, ufficialmente per fornire un aiuto ai duchi di Savoia. A seguito dell’ordine ricevuto l’ingegnere parte e in una serie di «cavalca- te» visita – nell’estate e probabilmente ancora nella primavera successiva – le varie località nelle quali poter apprestare le difese, ai confini delle terre saldamente oc- cupate dai francesi. La successione delle pagine del quaderno permette di individuare la logica degli itinerari percorsi. In primo luogo vengono ispezionate le piazze antemurali dello stesso ducato di Milano: Vercelli, San Germano Vercellese, Trino, Crescentino e Verrua, Ivrea. Successivamente si rilevano le potenzialità difensive di luoghi nel cir- condario di Torino – come Volpiano e Chieri – e ancora di possibili piazzeforti ai margini del marchesato di Saluzzo che, come è noto, si ritrovava sotto l’egida fran- cese; vengono quindi visitati i piccoli nuclei di Barge e Busca e le città di Cuneo, Fossano, Cherasco. L’ultima «cavalcata» si svolge in Valle d’Aosta, identificandovi come possibili punti (relativamente) forti Bard, Montjovet e il capoluogo. La rac- colta di Olgiati è particolarmente significativa perché documenta in parallelo la si- Il Cinquecento 208 tuazione di molti luoghi del Piemonte a metà Cinquecento ed è quindi la raccolta sistematica più antica che a oggi sia nota, utile non solo per chiarire quale fosse al tempo l’assetto fortificatorio di piccoli e grandi insediamenti, ma anche a chiarire i molti dubbi lasciati dai soli documenti scritti sulle strutture fisiche tardomedievali. Gli schizzi eseguiti dal vero, pur senza pretese di sottostare a regole geometri- che, selezionano e fanno emergere, attraverso note grafiche e scritte, i punti no- dali del sistema difensivo per lo più ancora quattrocentesco, arricchito a volte da qualche isolato bastione eretto durante le recenti (allora) vicende belliche, dall’uno o dall’altro contendente, entrambi desiderosi di affermare il proprio pre- dominio e di impossessarsi delle terre sabaude. Le relazioni che completano i disegni sono ricche di ulteriori informazioni. Viene valutato sempre lo stato orografico dei luoghi, annotando il posizionamen- to dei rilievi montuosi dai quali la piazza fosse eventualmente attaccabile dall’alto con 1’artiglieria, analizzando quindi la qualità del terreno: «congregato de giara grosa» a Volpiano, «de tofo rosso» a Chieri, «giara grosa et sabia» a Cuneo, «creta sabia et giara» a Fossano. Anche i corsi di fiumi e torrenti sono oggetto di un at- tento rilevamento delle proprie potenzialità, sia per derivarne l’inondazione dei fossati, sia per attingervi acqua, la preziosa fonte di sopravvivenza durante un e- ventuale assedio; non a caso una delle prescrizioni più attente per Volpiano ri- guarda la protezione della cisterna nel cortile del castello. Le indicazioni di miglio- rie per la difesa sono l’ulteriore argomento cui si fa cenno nelle relazioni. Si tratta di suggerimenti atti a installare piccoli cantieri per opere di modeste proporzioni, di costo limitato e di rapida realizzazione, anche con maestranze non specializzate e reperibili in loco, opere ben lontane dagli adeguamenti «alla moderna» che all’epoca si prescrivevano nei trattati. Per lo più Olgiati propone lavori di scarsa entità, come rinforzare i muri, creare qualche cavaliere in terra, scavare i fossi, compattare i terrapieni, e questo anche nei casi di piazzeforti importanti come Vercelli, l’unica vera città munita per la quale scrive: «Alli cinque cavalieri de terra, per esser bono terreno, farlli netar al circuito con la sapa […] et alli fianchi meter- lli delle fassine et codege de prato, aciò siano for di scalla». Non mancano, nelle relazioni, anche osservazioni che potremmo definire so- cio-economiche: Asti è «cità hopulentissima», Trino «loco fertile et in belissima marca», Cuneo «terra grasa et bene abitada», Fossano «terra popolata et fertille», Cherasco «loco fertile et in bona marca», mentre Alba è invece «città con poche vittuarie». L’approccio conoscitivo che Gian Maria Olgiati fornisce attraverso il suo quaderno si configura dunque in un quadro ad ampia prospettiva (pur se fi- nora misconosciuto) delle città fortificate piemontesi a metà Cinquecento, ancora ben lontane dall’essere adeguate ai moderni sistemi bastionati; il maggior pregio di tale quadro è quello di essere realistico, dipinto “in diretta” senza la mediazione di copie più o meno abbellite. Il trattato e l’atlante di Francesco Orologi «Prima che si venghi à piantar il dissegno de la Fortezza si deve accortamente considerare la natura del sito per conoscer tutti gli avantaggi che possono servir per diffesa», così esordisce il manoscritto Breve ragioni del fortificare di Francesco Horo- Il Cinquecento 209 loggi vicentino, un libretto di ottantatre pagine nel quale viene anzitutto esposta una serie di considerazioni sul miglior modo di edificare le fortezze bastionate: si e- saminano le varie fasi costruttive in capitoletti che vanno dalle Fondamenta al Riempimento fra gli speroni, alle Casamatte, ai Pozzi, alle Porte, concludendo con un capitolo a sé, Ragioni del fortificar di terra, una interessante sintesi degli accorgimenti tecnici da adottarsi nel caso in cui per ragioni di tempo o di costo si debba prov- vedere a fortificare rinunciando a più robuste strutture in pietra o in laterizio, in situazioni di emergenza molto frequenti nelle terre dei Savoia. In questa analisi, più del testo teorico, interessa però essenzialmente la seconda parte del mano- scritto, quella in cui vengono rappresentate trentacinque piazze piemontesi, erette o riqualificate dall’ingegnere vicentino, la cui figura è illustrata da Carlo Promis nel suo tuttora valido studio del 1871. L’attività di tecnico militare di Orologi si svolge dapprima seguendo le sorti della repubblica di Venezia, quindi in Piemonte nell’esercito del de Brissac, al ser- vizio del re di Francia durante la guerra contro gli spagnoli; proprio a Enrico II – come ipotizza Promis sulla scorta di una esauriente documentazione – il Codice Magliabechiano doveva essere consegnato nei primi mesi del 1559, alla vigilia della morte del sovrano. Al periodo della guerra con il de Brissac risalgono dunque le rappresentazioni delle piazze piemontesi, utili anche se nella versione “messa in bella” a corredo del trattato perdono di quella immediatezza comunicativa riscontrabile invece in disegni a schizzo effettuati sul posto: si veda quello – firmato Horologi – relativo ai bastioni di Montechiaro d’Asti aggiunti dal vicentino nel 1557 per costituire, in- sieme a Moncalvo, un doppio presidio contro Volpiano, piazzaforte in mano al- l’esercito imperiale che di lì organizzava frequenti sortite. Altrettanto significativi risultano altri piccoli schizzi su foglietti di taccuino a lui attribuiti da Claudia Bo- nardi (2003) e contenuti nella raccolta dell’Architettura Militare, concernenti i rilievi di Chivasso, Santhià, San Damiano d’Asti; suo è certamente anche lo schizzo di Villanova d’Asti ove all’interno del nuovo perimetro bastionato è identificata an- che la cinta dell’insediamento difeso medievale. Della fase postbellica non risultano disegni di Orologi riguardanti le strutture fortificate che qui trattiamo, anche se uno almeno (pur redatto intorno al 1550) è da considerarsi fondamentale nella fase in cui il vicentino è al servizio dei Savoia. Si tratta del biennio 1560-1561 in cui il celebre ingegnere, su richiesta esplicita al doge di Venezia di Emanuele Filiberto ne diviene consulente, anche in relazione all’erigenda cittadella di Torino. Durante le trattative per la pace di Cateau Cambré- sis era stata infatti consegnata al duca la Proposta di una cittadella da farsi a Torino fuori di Porta Susa, ovvero – come diceva la lettera di accompagnamento – «un petit di- scours qui fut faict sur le moyen qu’il y auroit de rendre ceste citè inexpugnable». L’interesse di Emanuele Filiberto a discutere personalmente con uno dei mag- giori esperti militari dell’epoca sulle potenzialità difensive dei suoi territori nasce certamente dall’aver apprezzato la modernità della proposta di un manufatto che gli avrebbe permesso di presidiare militarmente Torino sia contro nemici esterni sia contro eventuali disordini popolari, secondo quelle aggiornate regole di con- trollo urbano apprese durante le sue precedenti esperienze presso le più impor- Il Cinquecento 212 con proprio accesso diretto. Il disegno è da leggersi in parallelo con quello a firma del chivassese Pietro Angelo Pelloia, un ingegnere al servizio dei francesi e aiutante di Orologi stesso, che ipotizza la modernizzazione difensiva della città con bastioni e tenaglie, inserendo il castello in una cittadella pentagonale. Uno dei più importan- ti capisaldi militari del marchesato di Saluzzo, Revello, è anch’esso rappresentato in una delle tavole “anomale” della raccolta qui esaminata. La «rocca fortissima», cele- brata nei disegni e come inespugnabile dalle cronache cinquecentesche, era il sim- bolo stesso del potere esercitato dalla dinastia su una regione storica strategicamen- te importante, incuneata tra i domini sabaudi. Qui la vediamo ergersi in posizione sommitale, mentre ai suoi piedi si sviluppa l’insediamento, con il borgo più antico intorno alla chiesa e la più ampia cinta muraria tardoquattrocentesca con torre- porta e bastioni angolari a pianta circolare che si inerpica lungo la dorsale sino al castello; in primo piano spicca il “moderno” palazzo marchionale. L’anomalia nella rappresentazione di Saluzzo e Revello, in quanto entrambe piazze saluzzesi, potrebbe dunque essere ascritta ad una logica di specifica perti- nenza politica cui dare rilievo, però tale logica non pare emergere in relazione agli altri due luoghi visti in prospettiva: Ormea e Cisterna d’Asti. Rimangono quindi ir- risolti due quesiti, sia sul perché in un documento unitario siano state fatte scelte rappresentative così diversificate, sia se gli schizzi in loco da cui sono state ricavate le immagini del codice siano di mano di Orologi stesso. Sulla paternità delle immagini in proiezione geometrica non sussistono dubbi, avendone ritrovato altrove gli ori- ginali, mentre su quelle ora esaminate si può solo affermare che l’autore del rileva- mento di La Cisterna e di Hormea è lo stesso delle due piazzeforti dei marchesi di Sa- luzzo, essendone identici l’inquadramento prospettico d’insieme, la cura del detta- glio nell’impianto urbano e nell’architettura, nonché la minuzia grafica. L’insedia- mento nell’Astigiano si presenta “armato” con barriere di «balloni» ovunque, a sbarrare le brecce nella cortina scarpata perimetrale e il più antico nucleo centrale intorno al dongione; Ormea è invece un robusto castrum con corpo pluriarmato centrale e torri angolari tonde, dominante sul dirupo scosceso, sua effettiva difesa ben più efficace della barriera sottostante, confermando (come del resto tutti gli al- tri documenti prodotti da Orologi) l’arretratezza dei sistemi difensivi nelle torri piemontesi, tuttora medievali, alla metà di un secolo in cui in altre regioni storiche la fortificazione bastionata aveva ormai raggiunta una generale diffusione. […] Gli «Avvertimenti sopra le fortezze» di Carlo Morello L’atlante dall’elegante frontespizio, intitolato Avvertimenti sopra le fortezze di S.R.A. del Capitano Carlo Morello primo ingegnier et logotenente generale di sua artiglieria MDCLVI è piuttosto noto, pur se ne manca tuttora un inquadramento generale nel contesto culturale di metà Seicento. Non sono infatti esaustive le brevi note mie e di Aurora Scotti (1990, pp. 176-179), e anche la sua recente pubblicazione a cura della Biblioteca Reale di Torino, un utilissimo strumento di consultazione e di studio in quanto completa di tavole e di relazioni, risulta priva di valutazioni critiche, dell’atlante nel suo insieme e delle singole fortificazioni illustrate. Ingegnere militare e comandante di artiglieria, appartenente ad una famiglia impegnata con molti suoi membri negli eserciti dei duchi di Savoia, Carlo Morello Il Cinquecento 213 è attivo nella prima metà del secolo in campagne di guerra che lo portano anche in territori lontani, e nella fortificazione di una cinquantina di piazze, come lui stesso puntualizza nelle pagine conclusive dell’opera. Alla fine della carriera rac- coglie nel volume, dedicato al generale Carlo di Simiana marchese di Pianezza, i documenti stilati nella precedente carriera (o comunque pervenuti in suo posses- so), con l’intento – come specifica nel proemio – «di esporre come in un Teatro tutte le Fortezze dello Stato di S.R.A. […] non solo le Fortezze dello Stato della medesima A.R. ma de’ vicini ancora, girando l’occhio curioso atorno a’ confini di quello, per far conoscere che pregiudicio, che ostacoli, che opportunità l’une al- l’altre Città apportino, dando insieme […] brevi osservationi per assedii, per soc- corsi, per espugnatione, per diffese delle delineate Fortezze». In coerenza con gli obiettivi esposti, i documenti prodotti riguardano le cono- scenze utili alle strategie militari alle diverse scale. Di rado si tratta di carte geografi- che, redatte ancora secondo il metodo cinquecentesco “a cocuzzoli”, come nel ca- so del contado di Nizza. Numerose risultano le piante di città complete, entro la cinta armata, dell’assetto urbanistico, talora dettagliato come a Torino, più spesso risolto a campi indicativi di isole edilizie come negli esempi di Savigliano o di Chi- vasso. In molti casi – non solo di città minori visto che nel novero rientra l’ex capi- tale Chambéry che Morello onora con la posizione iniziale – la rappresentazione si riduce al circuito delle mura, eventualmente con proposte di miglioria alla for- tificazione, quali la cittadella quadra a Cuneo. Numerosi risultano anche i docu- menti riguardanti in dettaglio singole strutture con potenzialità difensive o fortezze «alla moderna», anche qui con ampia varietà nella rappresentazione, che spazia dal- le piante particolareggiate del monastero di San Michele della Chiusa e del castello di Gaglianico, o ancora delle fortezze di Nizza e di Sant’Elmo, all’immagine ap- prossimativa del forte della Consolata a Demonte. Criteri rappresentativi ancora di- versi presiedono alla redazione di altre tavole in cui degli insediamenti si forniscono vedute, per lo più a volo d’uccello, o frontali come a Saluzzo; non si tratta, come aveva ipotizzato Aurora Scotti nel tentativo di trovare una logica in scelte di comu- nicazione visiva così differenziate, di un’apposita rappresentazione per «borghi di difficile o inutile potenziamento difensivo, soprattutto se di particolare collocazio- ne orografica», bensì dell’utilizzo di materiali prodotti in originale da altri ingegneri militari, copiati in modo acritico e a volte con errori. Sul fatto che molti disegni negli Avvertimenti non derivassero da rilievi del loro au- tore, già avevo avuto modo di esprimere delle perplessità, non suffragate però da dati certi ma basate sulla constatazione di una varietà di strumenti comunicativi non congruente né apparentabile con il tipo di oggetto documentato. Il recente ritrova- mento di una raccolta finora sconosciuta di tavole autografe risalenti agli anni no- vanta del XVI secolo permette ora di comprovare quanto da tempo intuito. La rac- colta è conservata a Parigi, opera di tre ingegneri militari dell’esercito di Carlo Ema- nuele I, due con posizioni di grande prestigio (Ercole Negro e Ascanio Vitozzi) e uno all’inizio della carriera (Carlo Vanello), durante la campagna di Provenza. […] Senza incertezze è dunque possibile affermare che la totalità dei disegni “a vo- lo d’uccello” nelle tavole del Morello è la integrale riproposizione di rilievi esegui- ti, questi sì dal vero, intorno al 1590 e conservati nella raccolta parigina. Il Losetto Il Cinquecento 214 è assunto dallo schizzo del Vitozzi durante il suo sopralluogo nella valle di Barce- lonnette, con parecchie imprecisioni; Tenda, Eze, Monaco sono in originale ope- ra del Vanello, che nel caso della città monegasca si autoritrae mentre dalla collina retrostante la sta disegnando. Non soltanto le vedute, ma anche altre tavole sono derivate dalla citata raccolta: ad esempio la bella carta disegnata dal Vitozzi – negli Avvertimenti riproposta in toto – del settore fortificato da Nizza a Villefranche, o ancora le piante, più o meno dettagliate, dei vari castelli o delle fortezze che pre- sidiavano, in un sistema per poli, la contea transalpina. Secondo le puntualizzazioni che ho prospettato, Carlo Morello copia dunque in parecchi casi disegni più antichi, talvolta completandoli con annotazioni perso- nali, più spesso assumendoli senza alcuna variazione. Gran parte dei disegni nasce però dai suoi sopralluoghi, come molti relativi a piazzeforti in Piemonte e Savoia, o quello delle mura di Genova, rilevate durante una segreta missione di spio- naggio nel 1625 e misurate «a passi andanti», annotando poi quanto visto nel buio di una canonica che fungeva da compiacente rifugio. In ogni caso (fosse o no proprio il rilevamento iniziale), la documentazione grafica fornita dall’ingegnere risale a decine di anni anteriori alla data della raccolta, fin qui sopravvalutata nel suo essere attestazione iconografica dello stato delle difese a metà Seicento, men- tre sotto questo aspetto va retrodatata, anche di una sessantina d’anni come nei casi evidenziati per i territori al di là delle Alpi. A una precisa sezione storica – il 1656 – può invece essere ascritta la lettura critica comparata delle potenzialità difensive e delle migliorie opportune per le varie fortificazioni che Morello presenta nelle relazioni redatte in occasione della stesura dell’atlante, in un’ottica omogenea e aggiornata. Agli scritti, dunque, spes- so sottostimati a fronte del “bel disegno” va perciò dato, a mio parere, il merito maggiore del contributo fornito dalla ricca raccolta della Biblioteca Reale. […] [da M. VIGLINO DAVICO, L’iconografia per le fortezze, in Fortezze «alla moderna» e ingegneri militari del ducato sabaudo, a cura di M. VIGLINO DAVICO, Torino 2005, pp. 89-103].
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved