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1 storia dei consumi e dei modelli di marketing file unico, Sintesi del corso di Storia Economica

Riassunto in italiano dei seguenti libri: - Michelle O’Malley and Evelyn Welch (2007), editors, The Material Renaissance, chapters 1, 3, 6, 7, 10 -  Marcello Carmagnani (2010), Le isole del lusso: Prodotti esotici, nuovi consume e cultura economica europea, 1650-1800. - Giorgio Riello (2012), La moda: Una storia dal Medioevo a oggi - Susan Strasser (1999), Satisfaction Guaranteed: The Making of the American Mass Market - Victoria de Grazia (2005), Irresistible Empire: America’s Advance thr

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 12/01/2016

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Scarica 1 storia dei consumi e dei modelli di marketing file unico e più Sintesi del corso in PDF di Storia Economica solo su Docsity! Consumption in Western Society: 1450-2000 1. Introduction  David Lane, (2011), Complexity and innovation dynamics, Ch. 2 of C. Antonelli, ed., Handbook on the Economic Complexity of Technological Change.  David Lane (2013), Towards an agenda for social innovation, unpublished manuscript. 2. Secondary Sources  Michelle O’Malley and Evelyn Welch (2007), editors, The Material Renaissance, chapters 1, 3, 6, 7, 10, 11  Marcello Carmagnani (2010), Le isole del lusso: Prodotti esotici, nuovi consume e cultura economica europea, 1650-1800.  Giorgio Riello (2012), La moda: Una storia dal Medioevo a oggi  Susan Strasser (1999), Satisfaction Guaranteed: The Making of the American Mass Market  Victoria de Grazia (2005), Irresistible Empire: America’s Advance through Twentieth Century Europe 3. Primary Sources  Bernard Mandeville, The Fable of the Bees  Simon Patten, The New Basis of Civilization  Thorstein Veblen, The Theory of the Leisure Class  Edward Bernays, Propaganda  Jean Baudrillard, The Consumer Society Secondary Sources: The material renaissance (Michelle O’Malley and Evelyn Welch) 1. Consuming problems: worldly goods in renaissance Venice Dato che il consumismo viene da sempre considerato come caratteristica distintiva della società occidentale, l’identificazione del punto di partenza storico-cronologico di questo fenomeno socio-economico rappresenta oltre che una sfida, un tema molto interessante da studiare per gli storici del consumo che, proprio approcciandosi a questo tipo di ricerca, sottolineano come vi sia stata una transizione da una società di tipo tradizionale a una di tipo moderno nel modo di concepire e comportarsi nei confronti dei beni di consumo. In questo senso possiamo pensare al consumismo come al motore dello sviluppo culturale rinascimentale. Tuttavia dovremmo essere molto diffidenti riguardo a questo processo di datazione che colloca l’inizio del consumismo in un passato così lontano. Infatti possiamo affermare di non poter definire il consumismo, nella maniera in cui viene sopra definito, come una caratteristica interseca del rinascimento. Tuttavia dobbiamo riconoscere grande valore al tentativo di collocare storicamente l’inizio del consumismo in questo periodo, poiché rivela che la definizione tradizionale usata dagli storici di consumismo potrebbe non essere del tutto appropriata. Questo primo capitolo vuole spiegare le idee collegate all’uso dei beni materiali nella penisola italica in particolare a Venezia negli anni tra il 1450 al 1650. Questo periodo storico, chiamato anche il lungo sedicesimo secolo, vide una grande espansione demografica ed economica della città. In quel tempo infatti Venezia era considerata un vero e proprio emporio nel quale si potevano trovare svariati tipi di oggetti ed artefatti. La serenissima rappresentava in quegli anni il fulcro del commercio all’ingrosso in Italia. In città era possibile trovare praticamente qualsiasi cosa, perle, gemme, gioielli, tappeti libri antichi, dipinti… tutto era sul mercato. Tuttavia i modi in cui i veneziani del tempo si approcciavano al commercio dei beni non erano del tutto simili ai nostri. Gli artefatti circolavano attraverso numerosi mezzi e canali, non solo quindi attraverso il semplice scambio denaro-bene. Manufatti venivano infatti scambiati con altri manufatti dando vita ad un sistema fondato anche sul baratto. Questo sistema non era presente solo a Venezia ma in tutto il continente. Questo però non esclude i veneziani dal non essere considerati “consumatori”, con tutte le accezioni che attribuiamo al termine oggi, ma ci pone nella condizione di considerare molto attentamente cosa il consumo significasse all’epoca per loro. Questo capitolo vuole far emergere 3 insiemi di idee correlati tra loro che riguardano l’acquisizione e l’utilizzo dei beni categorizzandoli come: intellettuali, religiosi e sociopolitici. Il capitolo porrà poi l’attenzione sulle controversie che potrebbero generarsi dal rapporto di questi sets of ideas. L’interesse mostrato dalla società rinascimentale per gli studi classici e per i beni antichi ha avuto un effetto eclettico sul modo di pensare delle persone. Per esempio la riscoperta dei testi classici diede vita a nuove teorie filosofiche tra cui il neoplatonismo. Una testimonianza delle idee neoplatoniche la possiamo trovare nell’idea di bellezza e nell’attenzione per le decorazioni e per dettagli che presentano gli artefatti rinascimentali. In aggiunta a questo, il neoplatonismo prevede anche l’idea della proprietà comune dei beni, idea che ha innescato un aspro dibattito tra gli intellettuali di questo periodo. [Mi sono accorto in questo pezzo di non aver espresso molto chiaramente il concetto… il neoplatonismo rappresenta un esempio di come l’intrecciarsi dei 3 diversi sets of ideas (scusate la non-traduzione ma credo che si capisca di più in inglese) ovvero: 1 set: intellettuale (facente riferimento in questo caso alla natura filosofica del neoplatonismo) 2 set : religioso (facente riferimento ai rapporti tra neoplatonismo e cristianesimo nello specifico) 3set : sociopolitico (facente riferimento alle ripercussioni sociali e politiche della teoria filosofica) possa in effetti incidere sull’idea che le persone si fanno in un determinato periodo storico del consumismo e dell’ utilizzo dei beni (in questo esempio specifico del neoplatonismo quest’idea è rappresentata dalla proprietà comune delle cose). Sia chiaro, non è che fossero comunisti però probabilmente avrà inciso sul modo di vedere le cose in quest’ambito. Almeno così l’ho intesa io…] In questo periodo assistiamo alla nascita di altre due credenze tradizionali, contrastanti tra loro, riguardanti il modo di vedere il consumismo e la compravendita di beni. Possiamo infatti vedere come gli artefatti antichi fossero visti in questo particolare periodo storico in due modi. O come effimeri portatori dell’idea di caducità, poiché rappresentanti di un mondo la cui esistenza è legata indissolubilmente ad un passato ormai tramontato, o come portatori dell’idea di eternità, vista e considerata la loro capacità di rappresentare una testimonianza di mondi ormai scomparsi. In particolare quest’ultimo modo di concepire gli artefatti antichi è proprio di quelle persone ispirate in questo periodo da particolari fervori religiosi (es. Savonarola). Parlando dei cristiani possiamo vedere come oggetti particolari, specialmente abiti ed accessori, fossero paradossalmente usati ed intesi come testimonianza di fede da parte di alcuni di quest’ultimi. Questo paradosso fa parte del complicato background socio-economico del tempo, poiché era presente un’altra parte della comunità cristiana che riteneva che il possesso dei beni materiali impedisse di raggiungere il paradiso portando le persone sulla via per l’inferno. Infatti le persone che seguiranno e serviranno i propri sensi sulla terra saranno poi punite attraverso castighi sensoriali all’inferno (classico contrappasso). Sono stati ritrovati degli schizzi fatti da sarti che fanno dedurre che l’ispirazione per nuovi stili veniva proprio dai sarti stessi. Con l’introduzione di queste novità stilistiche e con l’aumento degli elementi decorativi ognuno con un prezzo particolare, si dovevano registrare tutti all’interno del biglietto/lista. Questo portò anche ad identificare stili diversi. Primi i vari stili venivano identificati soltanto all’interno delle leggi suntuarie. I nuovi vestiti che seguivano il nuovo stile, venivano chiamati ‘all’usanza’ precursore del termine ‘alla moda’. Anche il termine ‘disegnatura’ comparse nei resoconti dei sarti; alcune volte questi è riferito alla costruzione del vestito, altre è legato al design della superficie. Questo termine inoltre elevò i sarti alla pari degli artisti. Vista come una attività distinta la ‘disegnatura’ portava anche a benefici economici, come l’aggiunta di un 10% sulla tariffa. La fine del sedicesimo secolo e il diciassettesimo secolo rappresentano un periodo critico per l’industria tessile fiorentina, che si trovò ad essere in competizione con i paesi del nord Europa. Lo spostamento verso la produzione di una seta più economica fu anche un tentativo di supportare la posizione di Firenze in Italia e all’estero. I sarti furono centrali in questo processo cosi come i tessuti che vennero creati per soddisfare i gusti più ampi e per vestiti più leggeri, decorati e pieni di ornamenti. Nonostante le resistenze e l’opposizione fatta dalla corporazione della seta, i sarti riuscirono ad emergere anche come gruppo di mercanti, anche se in posizione minore. Il costo degli indumenti quindi non dipendeva più solo dal valore dei materiali utilizzati, come nella prima parte del sedicesimo secolo, ma anche dalla manodopera sartoriale, dal design del vestito e dall’uso di ornamenti. I sarti potevano inventare nuovi stili, proporli e godere di molta stima da parte delle famiglie per cui lavoravano e i cui rapporti potevano durare per generazioni. 10. Credito e credibilità: i beni usati e le relazioni sociali nella Firenze del sedicesimo secolo I beni materiali come i tessuti, i mobili e gli oggetti decorativi continuavano ad essere un importante risorsa di ricchezza nell’epoca pre industriale dove si interconnettevano diversi metodi di scambio ma la domanda è: perché persisteva il sistema di scambio informale (baratto) se c’era già la possibilità di pagare in denaro? Gli oggetti passavano di mano in mano più volte e tornavano sul mercato altrettante. La pratica di rivendita di oggetti pagati con altri tipi di oggetti era una pratica utilizzata da tutte le classi sociali.  Il credito locale a Firenze: nei registri degli artigiani, specialmente dei produttori di scarpe e vestiti, c’era una lunga lista di debitori che rivelava nomi di patrizi cosi come di popolani. Estendere il credito ai clienti era visto come una possibilità per continuare gli affari, le persone in più contavano su le risorse locali di soldi pronti. I banchi dei pegni ebrei erano presenti nella città dal 1437, da quando il governo permise a loro di prestare moneta con garanzia di interessi. Questa pratica di prestare denaro non era effettuata solo dai banchi dei pegni ebrei; anche le botteghe prestavano denaro senza sicurezza prendere nulla in pegno a seconda della credibilità della persona a cui lo prestavano. Tali pratiche erano diffuse in tutta Firenze. Tale pratica era cosi pervasiva che la gilda ‘arte dei rigattieri’ divenne ufficialmente coinvolta in questo sistema. Questa corporazione nominava quattro stimatori che dovevano valutare gli oggetti, specialmente quelli lasciati in pegno. Gli individui cercavano una valutazione ufficiale degli oggetti e il giusto reclamo di proprietà per vendere legalmente o beni e recuperare la perdita. L’arbitrato era cruciale poiché il pegno non rappresentava il valore attuale del debito. A partire dalla metà del sedicesimo secolo i divieti scomparirono dagli statuti facilitando l’usura e tollerandola. La primaria differenza tra le attività di prestatori su pegno e di commerciante di beni usati è che i prestatori su pegno avevano una pratica esplicita nel far pagare gli interessi. Gli intermediari ebrei promossero la fondazione di una più legittima fonte di prestito, chiamata monte di pietà, una banca-banco dei pegni civica stabilita nei centri urbani che aveva lo scopo di cancellare i prestiti su pegni che sfruttavano e alleviare i bisogni dei poveri offrendo un interesse basso con un modesto pegno. Il monte di pietà stabiliva una cifra limitata di denaro che doveva essere prestato e la natura del bene che veniva preso come pegno. I prestiti non dovevano eccedere 1 fiorino e alcuni oggetti popolari erano proibiti. I depostiti non erano necessariamente atti anonimi, gli individui venivano giudicati in base a se fossero degni di credito oppure no, e gli scambi venivano cosi molto personalizzati. I proprietari venivano identificati con i nomi e gli oggetti che venivano usati come pegno venivano identificati con il proprietario. L’estensione del credito dipendeva non solo dal valore dell’oggetto preso in pegno, ma anche dalle relazioni economiche e sociali che entravano nello scambio dei beni materiali. Vennero anche ingaggiati dei garanti (mallevatori) che si occupavano si assicurare il credito in cambio del pegno e registravano lo scambio in registri perché se il debito non veniva pagato, poteva essere tracciato. Il credito poteva essere trasferito anche ad una terza, quarta parte attraverso un ordine scritto di pagamento o attraverso un trasferimento del credito da una fonte ad un’altra.  La bottega di Domenico del Commandatore: egli era un commerciante di beni usati. Nei suoi registri di pagamento Domenico ci mostra come si sviluppavano le relazioni di credito. Questi libri servivano a tracciare la merce sia del venditore che del compratore, gi acquisti singoli e le relazioni che si estendevano negli anni. Nei suoi registri, Domenico teneva aggiornati i dati di ogni cliente e annotava le varie transazioni e i termini di pagamento. Inoltre il materiale dettagliato riguardante l’attività di credito fa luce sul lato pratico riguardante le operazioni giornaliere della bottega e registra quanto frequente i clienti e i venditori entrano in contatto e come questi ricorrano allo scambio di beni materiali. La bottega di Domenico era situata a Firenze, forse vicino Mercato Vecchio, e vendeva soprattutto vestiti usati e altri tessuti ma anche altri generi di beni. La sua clientela era vasta: andava dai poveri, agli artigiani e alle maggiori corporazioni fino ai cittadini con il titolo di Ser e Messer. Occupandosi di beni usati, egli non solo li vendeva ma anche gli acquistava dai clienti. Alcune delle transazioni erano molto simili a quelle effettuate dalle banche locali, mentre era comune per i mercanti locali di accettare e fare pagamenti per conto dei clienti attraverso un trasferimento del credito, Domenico era anche impegnato in vari servizi finanziari. Egli estendeva prestiti di denaro e supportava i flussi in entrata e la spesa dei suoi clienti collezionando il denaro che doveva essere dato a loro, vendendo i loro oggetti e facendo acquisti per loro conto. Domenico serviva sia come deposito di investimenti sia come tramite nei loro trasferimenti; si ha l’impressione che egli potesse fare tutto ciò perché era conosciuto e tutti avevano fiducia in lui. Nella sua bottega i pagamenti andavano dagli 8 giorni ai due mesi e se alcuni estendevano la durata oltre i termini dell’accordo, molti altri pagavano prima dello scadere di questo e le dispute sui debiti irrisolti erano molto scarse. Usando oggetti materiali per assicurarsi i prestiti, le persone non solo aumentavano la loro abilità di consumare ma anche partecipavano ad un sistema che dava a loro più flessibilità. Una volta che l’oggetto era lasciato in deposito poteva essere scambiato per un altro prima che il conto fosse stabilito o usato per rinegoziare i termini di pagamento. Questi metodi di scambio sembravano essere particolarmente utili per le donne che avevano oggetti da vendere ma che a causa dei limiti dovuti alla condotta, avevano delle ristrettezze nel discutere di affari. Alcune donne detenevano un conto separato da quello del marito e compravano e vendevano oggetti per loro conto. Il profitto di Domenico invece poteva essere aumentato dalle reciproche pratiche. Quando il pagamento dei clienti era ritardato di diversi mesi, egli beneficiava dall’uso dei beni lasciati in pegno. Diversamente dal monte di pietà, la bottega di domenico non aveva restrizione sui tipi di beni che si potessero dare in pegno. Gli individui potevano pagare i loro debiti in diverse maniere: con il denaro, trasferimento di credito o pagamento in natura. Il valore degli oggetti era molto variabile e i prezzi non venivano dati. Quando si usava un oggetto come mezzo di scambio, c’era una certa discrezione in come sarebbe stata applicato il valore e in quanto sarebbero contate le associazioni personali. In questo contesto, il significato degli oggetti era racchiuso non solo nel loro valore di scambio ma anche nella credibilità del venditore. Dai registri emerge l’importanza delle relazioni sociali nello scambio dei beni e nello stabilimento e mantenimento del credito. Lontano dall’essere un mercato impersonale, la diffusa pratica di far circolare i beni usati portò le persone a mettersi in contatto con commercianti come Domenico in maniera regolare. 11. I beni dell’oste: l’uso e l’acquisizione di una proprietà famigliare nella Siena del sedicesimo sec Questo capitolo si focalizza sulla distribuzione dei beni tra le persone appartenenti agli strati sociali bassi e capacità economica limitata nella Siena del sedicesimo secolo.  Documenti e risorse: gli inventari delle proprietà famigliari post- mortem servivano per proteggere i discendenti dagli abusi e per questo motivo tali documenti erano molto dettagliati. Oltre ad elencare il numero e il tipo e la tipologia di ogni oggetto, gli inventari indicavano la condizione dell’artefatto, le sue caratteristiche e il materiale con cui era fatto. Gli inventari venivano fatto dai membri di tutte le classi sociali e pertanto sono uno strumento importante per capire gli oggetti che circondavano le persone della maggior parte delle categorie sociali ed economiche. Il valore dei beni era un’indicazione dello stato del proprietario ma cercare di capire tale valore da un inventario è problematico poiché l’assegnazione del valore dipendeva dall’interesse personale del notaio a riconoscere e a categorizzare il valore di ciascun oggetto. Identificare il proprietario e la sua classe economica e sociale era particolarmente problematico se questo apparteneva ai livelli bassi poiché coloro che erano fuori dalle famiglie di elites raramente avevano cognomi. Anche se la professione del proprietario era nota e le circostanze chiare, non era detto che se ne poteva dedurre lo status ad es il termine lanaiolo poteva indicare sia l’imprenditore che l’operaio al suo servizio. Un modo per ampliare le informazioni è guardare alla documentazione fiscale. A Siena il principale registro delle tasse era conosciuto come Lira in cui venivano registrati il capo della famiglia, il loro indirizzo di residenza e una stima della sua ricchezza. Se non era presente il cognome, allora veniva registrata la professione. La famiglia dunque doveva riportare la ricchezza tassabile includendo gli investimenti fatti nella proprietà e negli affari cosi come i debiti e i crediti. Spesso registravano anche i componenti della famiglia cosi come le responsabilità finanziarie e sociali che potevano abbassare la somma tassabile.  L’oste: dirigere una foresteria nel sedicesimo secolo poteva essere profittevole ma non era una facile occupazione poiché non attraeva soltanto gente del luogo, pellegrini e viaggiatori, ma anche prostitute, truffatori, ladri e criminali che portavano disordine e violenza. Le liti erano comuni e nemmeno la salvezza dell’oste era garantita. Per questo motivo le locande venivano viste come un rischio per l’ordine pubblico e perciò erano controllate e regolate dal governo, per es era vietato dare ospitalità a prostitute e criminali. Dall’inventario di un oste sono emersi numerosi e più svariati oggetti per la casa e un vasto corredo di oggetti anche per gli ospiti, cosi come un ampio numero di vestiti per se e per la famiglia; ciò fa nascere una domanda sullo status economico: era egli considerato come un ricco? Nonostante la quantità di oggetti posseduti, la sua ricchezza stimata non era altrettanto alta e per questo egli era considerato alla stregua di barbieri, calzolai e banchieri che la Lira classificava come categoria leggermente sopra alla media rispetto ai servi e tessitori. Il prezzo che un oste poteva chiedere per una camera era deciso dal governo in base al numero e alla qualità dei mobili presenti nelle camere per gli ospiti. Una camera ben arredata ci si aspettava che avesse almeno un letto con materasso cuscino e coperta, un tavolo, una panca, un forziere e un tappeto. Gli osti inoltre guadagnavano vendendo cibo e bevande. Tolti i costi di mantenimento cosi come le numerose tasse a cui gli osti erano soggetti, il loro profitto non era poi così alto. Ma se il loro profitto era cosi modesto, come avevano potuto affrontare le spese per la varietà e la qualità degli oggetti che si sono trovati negli inventari? Un modo attraverso cui le persone potevano aumentare la loro capacità economica per poter acquisire beni materiali era un profitto complementare che deriva da attività parallele a quella ufficiale. Una attività da affiancare a quella dell’oste era quella del prestatore su pegno. Nell’inventario di certuni si sono trovati oggetti distinti con la voce ‘pegno’, seguiti dal valore monetario assegnato. Fonti rivelano che era abbastanza comune organizzare aste all’interno della locanda dove venivano venduti i beni lasciati e dimenticati da ospiti. Cosi come a Firenze, anche a Siena era molto comune comprare su credito e questa pratica aiutò gli osti ad accumulare beni. Altri beni presenti nell’inventario potevano provenire dalle doti delle mogli. L’oste, grazie al suo mestiere, era privilegiato poiché le locande erano uno dei luoghi privilegiati per lo scambio e la circolazione dei beni. Questi registri mostrano che il modesto stato economico e sociale non era necessariamente una barriera per possedere beni eleganti e di alta qualità. Se da una parte la Lira classifica una persona come appartenente alla classe con un profitto limitato, dall’altra gli inventari mostravano che la stessa persona possedeva beni di alto livello. La rivoluzione commerciale favorì anche una maggiore articolazione tra la produzione, il commercio e la circolazione dei metalli preziosi e dei nuovi strumenti di credito, favorendo la nascita dell’economia politica e della cosiddetta “prima rivoluzione industriale”. L’espansione dell’economia finanziaria dipende dall’incremento del commercio a lunga distanza, che genera maggiori profitti mercantili e favorisce non solo innovazioni finanziarie e assicurative ma anche tecnologiche. Nel corso del 18º, facendo ricorso alle nuove forme di credito, sia la Compagnia delle Indie orientali olandese sia quella inglese riuscirono a minimizzare l’utilizzo dell’argento fisico nei loro commerci e nei pagamenti dei loro dipendenti in Asia. Il sistema di pagamento sviluppatosi nel corso della rivoluzione commerciale si organizza a partire da tre centri, Amsterdam, Londra e Parigi, che sono in grado di regolare lo sconto delle cambiali provenienti dai centri mercantili dell’Europa orientale, del Baltico, dell’Europa mediterranea, del Levante, e dai porti delle Americhe e dell’Asia. Il nuovo commercio internazionale (Olanda, Inghilterra, Francia ) si fonda sulla riesportazione, una forma mercantile che assegna ad alcune città-porto il ruolo centrale nell’organizzazione dei flussi dei prodotti. Un ultimo aspetto della rivoluzione commerciale è il contributo dei beni extraeuropei all’evoluzione verso il multilaterismo commerciale. Infatti, tra la seconda metà del 17º secolo e la prima metà del secolo successivo, le importazioni delle merci extraeuropee si moltiplicano di sei volte, portando la partecipazione dell’Asia e delle Americhe nel commercio mondiale a circa un terzo del valore totale. Capitolo 2: Dal lusso al consumo La crisi della concezione mercantilista e la depenalizzazione del lusso scatenano una vastissima riflessione sul commercio, sulla concorrenza e sulla gelosia economica tra le nazioni. 2.1. Il “dolce commercio” Il motore della ricchezza della nazione è, secondo Melon, il commercio, lo strumento principale per soddisfare le necessità della popolazione. La stretta correlazione che si manifesta tra i bisogni e la produzione, di cui il commercio non è altro che il mediatore, è il vero fondamento della potenza e della ricchezza di uno Stato. Gli uomini sono animati da passioni e il loro obiettivo ultimo è di raggiungere il massimo di soddisfazione, con il risultato che “il lusso diventa un nuovo motore di lavoro”. Le idee di Melon sono anche influenzate da Pierre Bayle secondo il quale il consumo dei beni di lusso ha la stessa origine degli altri consumi, ossia le passioni umane, potendo distinguere tra consumi di “necessità assoluta”, come il pane; di “seconda necessità”, come i tessuti di lana; e, infine “di lusso”, come il pane bianco e i tessuti fini. Anche Charles Dutot rielabora il pensiero di Melon, ritenendo che l’agricoltura e l’industria sono l’origine di tutte le ricchezze di cui godono gli uomini e, quindi, sono le due fonti del commercio. Lo scopo del commercio è, secondo Dutot, di rendere possibile, per la popolazione, il consumo delle derrate alimentari e dei beni non alimentari, sgravare lo Stato dai beni superflui che produce e che gli abitanti fabbricano oltre il necessario al loro consumo, ottenere dall’estero le cose che mancano e che sono necessarie, arricchire lo Stato e allo stesso tempo il privato. Il principio generale per entrambi gli autori è che tutti i beni eccedenti le necessità di un paese devono muoversi verso i paesi che ne hanno scarsità, indipendentemente dal fatto che siano di prima necessità o di lusso. Anche per Montesquieu il consumo è in rapporto con la libertà politica ed economica degli individui. La convergenza degli interessi si manifesta a livello economico nella molteplicità di rapporti e di collegamenti presenti nella dimensione commerciale, con il risultato che gli scambi modificano anche i modi e le abitudini, e quindi affinano i gusti (società del “dolce commercio”). I tre autori, Melon, Dutot, Montesquieu, concordano sul rapporto che intercorre tra la libertà di commercio e la libertà di consumo che stimolano l’interdipendenza tra gli Stati e tra gli uomini consentendo una comunicazione tra le nazioni, in termini economici e politici, che favorisca la pace. Il principale esponente del nuovo commercio Vincent de Gournay ritiene che la ricchezza della nazione ha i suoi fondamenti eterni nell’agricoltura e nella pesca, ma anche nell’industria. Perciò, i governi non devono inibire la libertà commerciale, devono invece mettere a coltura nuovi terreni, ridurre i tassi di interesse, incoraggiare la navigazione, favorire il commercio interno ed esterno dei grani e permettere agli attori economici di partecipare liberamente alla produzione e alla circolazione delle merci. Francois de Veron de Forbonnais, appartenente al circolo di Gournay, ritiene che il consumo dipenderà dal reddito disponibile suscettibile di essere utilizzato tanto nell’acquisto immediato di beni di sussistenza quanto nell’acquisto differito di beni strumentali, ovvero di beni che espandono le produzioni esistenti o ne attivano delle nuove. Nel 1751 anche l’abate Galiani, influenzato da Melon, scrive che la società commerciale permette un progresso della natura umana, sviluppa lo strumento monetario, incentiva gli scambi e moltiplica i commerci. Tuttavia Galiani, a differenza di Melon, comincia a riconoscere l’esistenza del “gusto del consumatore che si fonda sul buon mercato e sulla moda”. In sintesi, con la massiccia diffusione delle idee sul “dolce commercio” tanto in Francia quanto in tutta l’Europa si afferma il principio che alla base di qualsiasi attività economica non vi siano altro che le necessità, i bisogni degli attori sociali, i quali sono il motore dell’intero processo economico, poiché raccordano la produzione e il consumo che s’intrecciano con la mediazione del commercio. 2.2. Il contributo della fisiocrazia e dell’economia politica sensista La fisiocrazia e la scuola commerciale hanno numerosi punti di contatto. La fisiocrazia assegna una grande importanza all’interesse degli attori sociali per la libertà di commercio e di consumo ma, a differenza del dolce commercio, argomenta che la libertà economica porterà alla felicità di tutti i ceti sociali solo se non altererà l’ordine naturale, un ordine che si fonda sull’agricoltura quale sola attività creatrice di prodotto netto, mentre le altre attività, come l’industria, non creano una vera ricchezza. Inoltre, a differenza della scuola commerciale che riconosce l’utilità di tutti gli operatori economici, i fisiocratici danno un’importanza maggiore ai produttori agricoli, ai coltivatori. Il contributo della filosofia sensista di Etienne Bonnot de Condillac ha permesso di stabilire uno stretto collegamento tra la libertà commerciale e la libertà di consumo. L’intera vita, e non solo quell’economica, ha il suo fondamento nella libertà, nella sicurezza e nella proprietà. L’economia, infatti, ha una teoria del valore basata sull’idea che un oggetto, un prodotto, ha valore perché si può usare per soddisfare una necessità, e la necessità ha un marcato carattere psicologico, come peraltro hanno tutti bisogni. Nel suo saggio Traitè des sensations Condillac sostiene che tutta la conoscenza dell’attività umana si costruisce a partire dall’io come soggetto di bisogni che gli procurano piacere o dolore o sensazioni gradevoli o sgradevoli. L’Io è duplice, poiché esiste l’io delle abitudini che presiede le facoltà animali, ossia tutto ciò che è istintivo, e l’io riflessivo che è il motore del progresso e il moltiplicatore delle necessità che vanno oltre i bisogni minimi o fondamentali. Fisiocratici come Mercier de la Riviere, e critici della fisiocrazia come Turgot, sono accomunati dalla questione dell’importanza dei diritti naturali nella vita economica e dei beni pubblici, come l’istruzione e la salute. Il diritto di proprietà è ritenuto parte integrante del diritto naturale alla libertà, e dunque si associa alla libertà economica di commerciare e consumare. Anche Louis Graslin stampa un saggio in cui evidenzia che la ricchezza di una nazione si accresce nella misura in cui si espandono continuamente i bisogni, che vengono soddisfatti in proporzione al reddito personale disponibile; la comparsa di nuovi bisogni comprime bisogni preesistenti per dare spazio alle nuove necessità. Con queste idee Graslin elabora un modello stazionario del reddito, secondo il quale, anche in assenza di una crescita del reddito individuale o familiare, la continua manifestazione di nuovi bisogni modifica la struttura dei consumi. Nello stesso anno in cui Graslin pubblica il suo saggio, Nicolas Baudeau sostiene che le decisioni riguardanti il consumo spettano in ultima istanza al consumatore, poiché gli interventi dei governi provocano una violazione dei diritti naturali e quindi ledono la “mia libertà, la mia proprietà, impedendo o limitando la soddisfazione dei miei bisogni”. Tuttavia, la libertà d’azione dei consumatori non può essere totale poiché il consumo non incide sul reddito totale ma sul reddito disponibile, ossia su quello che rimane una volta prelevata la quota del reddito necessaria per la riproduzione del processo produttivo. 2.3.Hume e l’Europa Negli anni che vedono la nascita della scuola commerciale, si sviluppa in Scozia una riflessione sulla natura umana. David Hume nel suo Trattato sulla natura umana (1739-1740) considera il concetto di passione come irriducibile e non soggetto a correzioni dettate dalla ragione, sostenendo invece che la ragione è al servizio delle passioni. Le passioni (violente o virtuose) motivano le azioni degli uomini sino al punto di diventare causa tanto del lavoro quanto dei desideri di eccellere nella società, nella politica o nell’economia. Per Hume ciò che favorisce le azioni virtuose è la propensione psicologica della ricerca del bello e della volontà di interagire con i nostri simili. E’ nel lavoro e negli affari che l’intensità dell’attività umana raggiunge il massimo livello attraverso l’amore per il guadagno, il piacere e la comodità della vita che si raggiungono mediante l’incremento del reddito personale con cui possiamo ottenere i beni che ci soddisfano. In questo modo Hume supera il pensiero fisiocratico: attraverso il lavoro gli uomini riescono a superare le costrizioni imposte dalla natura e questo favorisce il superamento dell’arretratezza abituando gli esseri umani alla virtù quotidiana e a superare i pregiudizi. La divisione del lavoro permette l’organizzazione, il coordinamento e la collaborazione tra le persone che danno vita a un ordine sociale stabile e garantiscono lo sviluppo dell’industria, del commercio e delle arti, aumentando così tanto il potere del sovrano quanto la felicità dei sudditi. Inoltre, il lavoro è anche il fondamento della ricchezza poiché con il suo prodotto si possono acquistare e scambiare i beni. Il commercio, l’industria e l’agricoltura non sono altro che il prodotto del lavoro, ovvero ciò che permette la soddisfazione dei bisogni delle persone e dell’utilità pubblica: a nessuno deve essere quindi negata la possibilità di godere del “frutto del proprio lavoro”. Perciò la produzione e il consumo dei beni di lusso, oltre a creare occupazione, ridurre l’oziosità, soddisfare i nostri desideri e a favorire la virtù, accrescono e diffondono le arti e le scienze, ed espandono le risorse dello Stato. In tal senso tanto il commercio d’importazione quanto quello di esportazione hanno la capacità di stimolare la produzione industriale permettendo alla popolazione di disporre dei piaceri che offrono i beni di lusso. La propensione al consumo creerà effetti positivi al livello della monetizzazione dell’economia e dell’espansione del mercato. Hume disegna così una nuova economia che seppellisce il proibizionismo e il mercantilismo, e supera gli economisti del suo tempo. Sostiene, infatti, che più aumenta l’esportazione delle merci, più aumentano non solo le importazioni, ma anche i consumi dei beni nazionali ed esteri. Senza il consumo l’industria non potrebbe svilupparsi; si isolerebbe così dal contesto internazionale e perderebbe l’opportunità di beneficiare dei progressi che avvengono in altri paesi. Come per Hume, anche per Antonio Genovesi, nelle sue opere, il punto di partenza dell’analisi è l’importanza del lavoro: tutti gli uomini hanno diritto di lavorare e di ricevere una retribuzione. Secondo Genovesi, la libertà di commercio e di consumo favorisce l’attività dei privati e la convergenza degli interesse, favorendo l’innalzamento generale della società. Sampere precisa che il governo può tutt’al più cercare di scoraggiare il consumo dei beni di lusso importati e fomentare invece il consumo dei beni di lusso prodotti all’interno del paese. Anche per lui il consumo, in generale, e quello di lusso, in particolare, stimola l’industria, incrementa l’occupazione e il reddito e accelera la circolazione della moneta. Tuttavia, gli effetti positivi dei nuovi consumi possono essere ostacolati dalle politiche dei governi che potrebbero aggravare la disuguaglianza della ricchezza, o frenare la libertà di azione degli imprenditori, o anche limitare la libertà del consumo gravandolo di tasse eccessive. Dunque, la libertà di consumo è un dato acquisito sin dagli anni 60 del Settecento e il percorso analizzato in questo capitolo ci aiuta a comprendere la progressiva autoconsapevolezza acquisita dalla nuova società commerciale nel corso del 18º secolo. Questa infatti riconosce la piena capacità degli uomini di rivendicare i loro diritti, e anche di elaborare nuove complesse strategie in grado di diffondere il benessere e di creare nuovi stili di vita, per avvicinarsi non alla felicità eterna ma quella terrena. Capitolo 3: La teoria del consumo della società commerciale Nel corso degli anni 70 del Settecento tre novità ci permettono di capire la formulazione della teoria del consumo della società commerciale che ritroviamo nella Ricchezza delle nazioni di Adams Smith: la definizione dell’economia politica; il concetto dell’anticipazione necessaria per la riproduzione dell’attività economica, la rappresentazione della divisione del lavoro. 3.1. Verso una teoria dell’economia politica Secondo Turgot il commercio deriva dalla disuguaglianza nella divisione della terra la cui conseguenza è la separazione della società tra produttori (coltivatori) e stipendiati (artigiani) e la suddivisione del prodotto in due parti, di cui “l’una comprende la sussistenza e i profitti del coltivato”e il rimanente è la parte che finisce nelle mani del proprietario. In modo simile, Verri ritiene che il principio dell’attività economica vada ricercato nello scambio. Per Turgot e Verri, condizioni materiali (divisione della proprietà) e condizioni immateriali (i bisogni) sono i propulsori dell’attività umana in campo economico. L’inizio del processo economico è quindi la riproduzione, che Turgot denomina “les avances”, le anticipazioni, ovvero “tutti i generi di lavoro della coltivazione, dell’industria, del commercio”. Entrambi pensavano che la ricchezza richieda l’anticipazione di risorse espresse in quantità di materie prime, di beni strumentali nuovi o preesistenti, di capitali in oro e argento, o sotto forma di crediti, e si impegnarono a spiegare come lo scambio limita la produzione individuale presente e fa nascere una divisione del lavoro organizzata (produttori-coltivatori e stipendiati-artigiani). Inoltre, le politiche di liberalizzazione, per Turgot, devono essere elaborate tenendo conto di tre condizioni: garantire ai commercianti libertà e sicurezza affinché essi possano svolgere i loro affari senza paura e le merci possano circolare senza intoppi; che la libertà di commercio si estenda a tutte le merci e siano eliminate tutte le tasse che ne impediscono la libera circolazione, favorendo la concorrenza e la riduzione dei prezzi dei beni primari (specialmente del grano e della carne); la necessità di una riorganizzazione dell’amministrazione statale che assegna ai proprietari un ruolo di primo piano e che promuova la creazione di un consiglio dell’istruzione pubblica in grado di avviare un sistema nazionale di istruzione popolare. I beni extraeuropei hanno dato origine a nuove divisioni del lavoro e nuovi progressi delle arti, e quindi a un notevole ampliamento del mercato. I risultati di questo processo sono visibili nell’incremento della produzione e della produttività del lavoro, tanto nelle aree europee quanto nelle aree extraeuropee, e con esso il reddito della ricchezza reale degli abitanti. Dunque, la nuova società commerciale si afferma grazie alla capacità dei prodotti americani e asiatici di soddisfare i desideri dei consumatori europei. Molte delle idee sull’importanza dei beni extraeuropei nello sviluppo della società commerciale e della diffusione dei consumi sono ripresi da Senac de Meilhau secondo il quale il progresso tecnologico, le “macchine ingegnose”, hanno perfezionato l’industria permettendo che i beni in precedenza privativi dei ceti privilegiati arrivassero anche ai ceti meno abbienti. Anche Senac de Meilhau, come Smith, considera le colonie come un mezzo per espandere le produzioni e i commerci della metropoli, e come produttrici di beni che favoriscono l’incremento delle riesportazioni dalle metropoli. Entrambi, infine, parlano di “lusso distruttore”, quello che non crea né lavoro né nuove industrie, e quindi non crea ricchezza. Capitolo 5: I prodotti scatenanti: cotoni indiani e tabacchi americani Sono cinque i prodotti extraeuropei che hanno un ruolo rilevante nel processo della rivoluzione commerciale: due sono asiatici, i tessuti di cotone prodotti in India, e il tè prodotto in Cina; altri due sono prodotti tanto in Asia quanto in America, lo zucchero e il caffè; il quinto, il tabacco, è coltivato sia nell’America settentrionale sia nell’America meridionale. Le importazioni di questi prodotti extraeuropei sono assai frequentemente discusse negli scritti economici del Settecento, periodo in cui questi nuovi beni danno vita ad una originale famiglia di beni, visibili nei nuovi negozi denominati “coloniali”. 5.1. I tessili Le sete cinesi ma soprattutto i cotoni indiani sono l’apripista degli altri consumi asiatici e americani in Europa. A metà del 18º secolo, l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia sono i principali paesi importatori e gli esportatori di tessuti asiatici verso l’Europa, l’Africa e le Americhe. Ricordiamo che la crisi del 17º secolo, iniziata nel secondo decennio, provocò la caduta della produzione tessile in quasi tutte le città europee però la risposta olandese e inglese alla depressione fu l’invenzione di nuovi tessuti in grado di avere un prezzo competitivo con quelli indiani. Sono tessuti che mescolano la lana con il cotone proveniente dal Levante, e danno vita a un tessuto leggero, adeguato al clima mediterraneo, che incontra un forte gradimento in Italia, Spagna e Medio Oriente. Così, le nuove produzioni laniere trasformarono i flussi commerciali: l’incremento del commercio olandese delle nuove lane favorì la crescita delle importazioni di materie prime e di beni trasformati dall’Italia, dalla Spagna, dal Portogallo e dal Levante; anche il commercio inglese vede un incremento delle esportazioni di nuove lane e lini verso il Mediterraneo. Però, dato il nuovo sistema commerciale, per poter continuare a espandere le esportazioni tessili è necessario sostituire i tessuti tradizionali con altri di prezzo inferiore, dovendo anche considerare il riorientamento delle preferenze del consumatore verso i tessuti indiani. Infatti, i cotoni indiani erano di altissima qualità, prodotti da artigiani estremamente competenti nell’uso dei coloranti e nella scelta delle materie prime, nella tessitura e rifinitura e nel disegno delle pezze di tessuto, il tutto associato al ridotto costo della pezza di cotone. Inoltre, la competitività dei cotoni indiani è anche agevolata dal buon collegamento tra i produttori e i commercianti indiani e gli esportatori europei. Alla fine del 17º secolo i cotoni più richiesti erano quelli bianchi e quelli colorati come i chintz e le mussole, consumati anche dai ricchi. In parallelo all’espansione del consumo dei cotoni indiani, nascono in Inghilterra, Olanda e Francia, le manifatture in grado di trasformare i cotoni indiani in colorati e stampati e il cotone grezzo in tessuti che imitano quelli indiani. Così, si assiste ad una diminuzione delle vendite delle compagnie privilegiate e alla crescita del contrabbando dei cotoni indiani, specialmente in Francia. La tendenza del periodo 1700-1769 vede il consolidamento delle importazioni dei tessuti di cotone nei grandi centri di Amsterdam e di Londra, ma anche in Europa in generale, grazie alla ridotta fluttuazione del loro prezzo per pezza. In questo periodo, il terzo centro di importazione dei cotoni indiani è la Francia, tramite la compagnia francese delle Indie che lo monopolizza totalmente sino alla fine degli anni 60 del Settecento, mentre a partire dal 1771 il commercio viene aperto ai privati. Da notare come, nonostante l’avanzamento delle manifatture inglesi, le riesportazioni dei tessili indiani rimangono ancora all’inizio del 19º secolo un dato fondamentale nel commercio estero britannico. Tuttavia, nell’ultimo terzo del 18º secolo in Olanda si assiste al declino del commercio dato non soltanto dalla capacità di concorrenza dell’Inghilterra, ma anche dalla ripresa del commercio estero francese. I cotonifici si sviluppano prevalentemente nelle zone marittime del Nord e del sud della Francia, ma il processo di sostituzione dei cotoni indiani e lo sviluppo delle nuove manifatture tessili avviene anche in Germania, Austria, Belgio e Spagna. Dunque, in generale nel corso del periodo 1650-1800 si sviluppò una forte concorrenza tra le tre economie atlantiche allo scopo di espandere le loro riesportazioni in Europa e fuori d’Europa. 5.2. Il tabacco: tra necessità e desiderio Il tabacco, un prodotto di origine americana, è l’altra merce significativa del passaggio verso il consumo moderno ed ha un percorso simile a quello di altri prodotti extraeuropei: il passaggio dalla condanna alla piena accettazione del suo consumo. Nelle civiltà amerindie, dove nascono la produzione e le prime forme di consumo, il tabacco si presenta con un doppio contenuto, religioso e medicinale. Infatti, ad esso si attribuisce una duplice proprietà: allontana gli spiriti maligni e cura le indigestioni, l’asma, il catarro. Il fumo di tabacco accompagna inoltre tutti i riti propiziatori della semina e del raccolto agricolo. In seguito, i primi coloni europei si appropriarono dell’uso medicinale del tabacco, dissociandolo dal rapporto con la religione. La forma di consumo più diffusa dai coloni europei fu di fumarlo bruciandolo in pipa o in foglie arrotolate, inizialmente allo scopo di lenire i dolori fisici, e più tardi anche come pratica di rilassamento. Vi fu infatti il riconoscimento farmacologico del tabacco in Europa da parte di una serie di medici influenti, come Jean Nicot e Nicolas de Monardes. Sulla base della teoria ippocratica degli umori, inizialmente il consumo del tabacco ha lo scopo di riportare l’equilibrio morale dei malati, ma, nel corso della prima metà del 17º secolo, guadagna terreno l’idea che il tabacco sia un ottimo disinfettante, e che fumato o masticato crei una barriera di protezione contro la peste. La diffusione medica del tabacco fu favorita dalla guerra dei Trent’anni, tra il 1618 e il 1648, grazie alle razioni distribuite ai soldati che poi lo diffonderanno nelle città e nelle campagne. È in questi anni che in Europa decolla l’artigianato delle pipe che, a sua volta, favorisce la crescita del consumo del tabacco. Nonostante il consumo prevalentemente medico del tabacco, già nella prima metà del 17º secolo la sua coltivazione non solo si afferma in Virginia e nelle Indie occidentali ma si diffonde anche in Europa, specialmente nella Francia del sud ovest, nell’Alsazia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. Così, il suo consumo comincia ad espandersi diffusamente a livello privato e pubblico. La diffusione del tabacco si accelera nel corso della seconda metà del 17º secolo grazie alla scoperta dei governi di poter incrementare le risorse statali tassandone il consumo. Si può così spiegare perché il tabacco sia l’unico bene di lusso il cui consumo non conosce divieti, nonostante la presenza di numerose leggi suntuarie. È in questo momento che gli Stati dell’area mediterranea, a partire dal Portogallo, introducono il monopolio regio del tabacco che si diffonderà poi in tutti gli Stati europei come Spagna e Francia, mentre solo in Gran Bretagna e in Olanda il consumo del tabacco venne colpito con un’imposta specifica. Le politiche fiscali riguardanti il tabacco ebbero l’effetto di sviluppare enormemente il suo contrabbando e le coltivazioni illegali del prodotto. Quindi, il tabacco ebbe un ruolo importantissimo nella crisi del mercantilismo e nella liberalizzazione del commercio e del consumo, poiché favorì il passaggio dalla tassazione sul commercio estero alla tassazione sul consumo interno. In sintesi, se consideriamo l’evoluzione delle importazioni europee di tabacco tra il 1650 e il 1800, si osserva tra il 1720 e il 1730 un’ascesa costante e rapida per il tabacco proveniente dalla Virginia, il primo a giungere in Europa. In seguito, all’inizio del 18º secolo, sarà la nuova produzione di tabacco brasiliano a rilanciare il flusso in arrivo dall’America meridionale. Occorre sottolineare come le migliori informazioni sull’importazione illegale di tabacco sono inglesi. Poi, con l’affermarsi della libertà di commercio tra la Spagna e le sue colonie americane si nota una riduzione del contrabbando. Bisogna tenere presente che una buona parte del tabacco che arriva in Olanda nel corso del 18º secolo è, a sua avolta, esportato verso l’Europa del Nord. In particolare, la funzione di ridistribuzione di Amsterdam riguarda i tabacchi americani provenienti dall’Inghilterra, dal Portogallo e dalla Spagna, che vengono poi spediti verso l’Europa centrale e orientale bloccando l’accesso diretto inglese nel Baltico e in Russia. Lo stesso avviene nelle aree tedesche per il controllo esercitato dagli olandesi nel commercio del tabacco di Amburgo, Brema e lungo il Reno sino Colonia. Nello stesso periodo, la Francia occupa il secondo posto nelle riesportazioni inglesi di tabacco, un buon terzo delle riesportazioni inglesi di tabacco finiscono nell’Europa del Nord, dell’est e nell’area del Mediterraneo, mentre il Brasile è il secondo fornitore di tabacco americano alla fine del 17º secolo. A differenza del tabacco della Virginia, quello brasiliano, che si ridistribuisce in Europa prevalentemente da Amsterdam e dall’Inghilterra, è un tabacco di foglia nera e dal gusto forte. Una crescente quota del tabacco sudamericano finisce direttamente in Africa senza passare per l’Europa. In Africa, infatti, convergono quindi il tabacco brasiliano e quello della Virginia, spinti dallo stesso interesse: la tratta degli schiavi. Dunque, l’espansione del consumo del tabacco nello spazio europeo a partire dal secondo terzo del 18º secolo, oltre a rafforzare le riesportazioni e a favorire l’espansione del commercio internazionale, contribuì anche a modificare l’intera organizzazione del commercio, incidendo sulle preferenze del consumatore. Nel corso del primo Seicento la diffusione dell’uso della pipa, e con esso dell’artigianato delle pipe di gesso e di radica, contribuì al maggior consumo del tabacco; nel corso del secolo successivo è la diffusione delle rapè, il tabacco da fiuto, ad avviare l’artigianato delle tabacchiere, molte delle quali sono di grandissimo pregio e di alto valore commerciale. La trasformazione del consumo del tabacco dipende quindi dal mutamento del gusto dei consumatori. Sicuramente il tabacco a foglia chiara, comunemente denominato tabacco della Virginia, è quello più apprezzato nell’Europa atlantica. Ciononostante quello brasiliano, a foglia scura con un aroma molto forte, piace ai consumatori del Mediterraneo e dell’Africa perché può essere utilizzato come tabacco da pipa. I tabacchi americani convivono e competono, sin dall’17º secolo, con quelli prodotti in Europa, poiché possono essere coltivati in tutte le regioni di clima temperato, e trovano il loro spazio nonostante le politiche repressive dei governi in difesa dei monopoli nazionali. Inoltre, il processo di trasformazione delle foglie di tabacco, ossia la raffinazione, la fermentazione, la trinciatura e la polverizzazione, avvia la nascita di manifatture in tutta l’Europa. Concludendo, il massiccio consumo di tabacco in Europa, insieme ai tessuti asiatici, anticipa la nuova struttura commerciale e finanziaria che sarà necessaria per gestire questi volumi di prodotti ancora inimmaginabili nella metà del Seicento. Capitolo 6: Dall’Asia e dalle Americhe: zucchero, tè e caffè Zucchero, caffè e tè accelerano i consumi sociali, ovvero i consumi individuali in sede collettiva rafforzando la moda scatenata dai tessuti indiani e dalle loro imitazioni europee e associandosi alla forma conviviale del consumo del tabacco. Nonostante i loro effetti sinergici, i tre prodotti di provenienza extraeuropea hanno diverse ricadute o ripercussioni indotte, a livello della produzione, della distribuzione e dell’intensità di consumo, nelle diverse aree europee. 6.1. Il nuovo dolcificante: lo zucchero Sono due i momenti che contribuiscono a rendere lo zucchero indispensabile e desiderabile per i consumatori. Il primo è il suo ingresso in Europa, nel medioevo, con la produzione proveniente dalle Azzorre e poi con la produzione siciliana. Il secondo momento di forte espansione del suo consumo avviene nel corso della rivoluzione commerciale, quando la produzione dello zucchero si sviluppa nelle aree extraeuropee e il suo consumo si estende anche ai ceti popolari. La straordinaria diffusione dello zucchero incomincia a partire dalla seconda metà del 17º secolo per effetto della sinergia con la filiera dei consumi che collegherà lo zucchero con il tabacco ed entrambi con il tè, il caffè e il cioccolato. Lo zucchero è riconosciuto come un dolcificante solo verso la fine del 17º secolo; prima, a partire dall’11º secolo, quando dall’estremo Oriente arriva in Europa, è considerato una droga simile al pepe, alla noce moscata, allo zenzero, e viene utilizzato per insaporire le vivande e per favorire la digestione dei cibi pesanti. Come avviene per tutti i nuovi beni di consumo, il vettore d’ingresso dello zucchero è la convinzione che esso abbia proprietà terapeutiche. Nei trattati medici, dalla fine del 16º secolo e sino al 18º secolo, lo zucchero, seguendo i principi della medicina ippocratica, è considerato un farmaco in grado di riequilibrare gli umori. A partire dal 1550, grazie alle prime produzioni provenienti dall’America iberica, farà la sua comparsa nella mensa dei nobili e dei grandi mercanti, e poi lentamente comincia a diffondersi, con l’incremento delle quantità importate e il dimezzamento del suo prezzo. Dalla seconda metà del 16º secolo lo zucchero comincia essere utilizzato per dolcificare il cibo e il vino. La vera fortuna dello zucchero comincerà soltanto dopo il 1650 per una serie di cause: la diffusione del suo uso come dolcificante dei nuovi beni esotici (tè, caffè e cioccolato); il progressivo declino del pregiudizio morale sul suo consumo; la comparsa dei nuovi spazi pubblici (le caffetterie) e la rapida diffusione, specialmente in Inghilterra, del suo consumo tra i ceti non nobili. Tra il 1650 e il 1700 i tradizionali importatori di zucchero, il Portogallo con la produzione brasiliana e l’Olanda con la produzione di Giava, incominciano a declinare. Nel corso della seconda metà del 17º secolo le aree centro-americane diventano le principali fornitrici dell’Europa. Informazioni sulla produzione di zucchero delle colonie francesi e inglesi sono troppo frammentate per farci individuare una tendenza sicura. L’espansione della prima metà del 18º secolo ci indica che in questo periodo si assiste a una fortissima concorrenza tra le produzioni di zucchero del sud-est asiatico e quelle americane, concorrenzialità praticamente sconosciuta per il tabacco dominato dalla produzione della Virginia. È molto probabile che la concorrenza tra le diverse produzioni di zucchero dipenda dall’impossibilità di essere sostituito con produzioni europee, sostituzione che verrà soltanto con la diffusione della barbabietola zuccherina nel 19º secolo. Ancora tra il 1750 e il 1790 le importazioni di zucchero in Europa continuano a crescere, e tanto la Gran Bretagna quanto la Francia espandono le loro importazioni. Dunque, se si riflette sui cambiamenti avvenuti nel commercio dello zucchero nell’arco di un secolo e mezzo, si può dire che nella prima fase, quella del 17º secolo, emerge la richiesta di un maggior consumo di questo bene sicuramente per la sua associazione con le bevande stimolanti, il tè, il caffè e il cioccolato. Tuttavia, solo nella seconda fase, quella della prima metà del 18º secolo, avviene l’universalizzazione del suo consumo dovuta non solo alla diffusione delle bevande stimolanti ma anche al maggior consumo dello zucchero nei dolci domestici e commerciali. È probabile che proprio in quest’ultima fase le caffetterie vedono crescere la vendita della pasticceria e nelle panetterie compaiono i pani dolcificati. D’altra parte, il successo più strepitoso è la rapidità con la quale la Francia diventa la principale potenza del caffè. Infatti, sino al 1730 le importazioni francesi di caffè provengono direttamente o indirettamente da Moka, pur essendo il caffè dello Yemen qualitativamente il migliore e anche il più costoso. Ciononostante Marsiglia continua a commerciarlo praticamente sino alla rivoluzione. Il boom delle importazioni francesi incomincia nel quinquennio 1736-1740, 10 anni più tardi dell’espansione olandese. Tuttavia, nel momento in cui la Francia era diventata la principale importatrice di caffè in Europa, la guerra dei Sette Anni (1756-1763) provocò quasi il dimezzamento dell’importazione francese; inoltre, il conflitto internazionale provocato dalla Rivoluzione Francese e dalla rivoluzione a Santo Domingo del 1791 rimescolano la geografia delle importazioni europee di caffè a favore degli inglesi. Va inoltre precisato che il successo del caffè arabico prodotto in America ha una storia comune con il successo dello zucchero prodotto nel Nuovo Mondo, in quanto tale successo dipende dalla diffusione del sistema produttivo della piantagione. A differenza del caffè di Moka e di Giava, dove viene prodotto da piccoli proprietari o da coltivatori nelle terre comunali con la supervisione dei capi villaggio, la piantagione americana si caratterizza per la crescente appropriazione di risorse naturali (terra, acqua, bosco) non utilizzate o sottoutilizzate, dallo sfruttamento della manodopera schiava, dall’organizzazione del lavoro gestita da caporali, dalla produzione, all’interno della piantagione, dei beni alimentari, del legname e della forza animale necessari per coltivare e produrre il caffè. Olanda, Gran Bretagna e Francia sono i paesi che, come avviene anche con i tessuti indiani, il tabacco, lo zucchero e il tè, assumono il ruolo di incentivare il consumo del caffè in tutte le aree europee, per mezzo delle connessioni mercantili di cui dispongono, e con il sostegno delle politiche commerciali dei loro governi che incentivano i porti franchi e garantiscono la restituzione delle imposte dei prodotti riesportati. In seguito, l’idea del porto franco e della detassazione alla riesportazione del caffè da Marsiglia è sostenuta dal controllore generale delle finanze con l’argomentazione che così si favoriranno le vendite in Italia e nel Levante, si ridurrà il prezzo di vendita e si incrementeranno le entrate statali. Dunque, i prodotti analizzati ci mostrano sino a che punto essi favorirono, incrementandola, la concorrenza tra l’Olanda, la Gran Bretagna e la Francia. La concorrenza tra i principali centri di importazione atlantici ha un duplice obiettivo: permettere che le riesportazioni verso gli altri paesi europei e del Levante possano arrivare facilmente ai consumatori; ampliare costantemente il numero di consumatori nell’Europa del Nord, del Mediterraneo e del Medio oriente. Va infine ribadito come la crescita del consumo dei beni extraeuropei offrì un contributo all’espansione della produttività che ha investito tutti i mercati europei. Ciò significa che il consumo dei beni di agio e l’estensione della loro domanda che accompagna le modificazioni dei gusti e dei desideri degli individui e delle famiglie, è un fattore fondamentale nella nascita del consumo moderno e ciò grazie anche al potenziamento dell’organizzazione del commercio a lunga distanza. Capitolo 7: Livello di vita e nuovi consumi L’itinerario analitico di quest’ultimo capitolo è stato elaborato in modo da comprendere come il nuovo consumo tiene conto delle trasformazioni che avvengono nel rapporto tra città e campagna, un rapporto che incide nella riformulazione della divisione del lavoro e nella costruzione di una nuova socialità capace di incentivare la libertà dei consumatori. Descriverò poi l’evoluzione del reddito e dei prezzi per capire sino a che punto essi ostacolino o favoriscano la propensione del consumatore verso la riduzione dei consumi di prima necessità a vantaggio del consumo di altri beni e, in special modo, dei prodotti extraeuropei. 7.1. Verso una società urbana L’evoluzione dell’urbanizzazione europea permette di percepire i cambiamenti che avvengono nei rapporti sociali, i quali hanno un ruolo importante nell’espansione del consumo dei beni non europei, e di capire l’espansione della divisione del lavoro e le sue implicazioni culturali nella conformazione del consumo moderno. Considerando l’evoluzione urbana tra il 1500 e il 1800 e il rapporto tra la dimensione delle città e il tasso di urbanizzazione, notiamo innanzitutto che i più importanti momenti di crescita delle città con più di 5000 abitanti sono due, i secoli 16º e 18°. In questo periodo si afferma l’economia monetaria e ciò consentirà non solo di subordinare la campagna alla città, ma anche il consolidarsi, lungo il 18º secolo, di una centralità e complessità urbana sconosciuta nel secolo 16º. Tra il 1600 e il 1750 la divisione del lavoro e la crescita dell’economia monetaria sono state assai più rapide nelle aree atlantiche dell’Europa, nell’area mediterranea e nell’Europa centrale. Infatti, le città che raddoppiano la loro popolazione sono 27 nell’area atlantica mentre sono appena 7 nel Mediterraneo, compresi due città francesi. La maggiore crescita urbana delle aree atlantiche favorisce la riduzione della distanza tra i diversi insediamenti, con migliori collegamenti tra le città portuali e le città continentali, e quindi con una diminuzione dei costi di trasporto. Il divario tra le aree atlantiche e le aree continentali si rafforza nel corso del 18º secolo probabilmente perché il reddito procapite è cresciuto più rapidamente nelle aree urbane atlantiche e meno in quelle continentali. Questa diversa dinamicità della popolazione urbana delle aree europee è anche visibile nel numero di viaggi marittimi, maggiori infatti quelli in partenza e in arrivo dall’Atlantico. L’espansione del commercio internazionale, con le sue ricadute positive sull’occupazione, il reddito e il consumo urbano, costituisce uno dei principali motori della rapida crescita urbana nelle aree atlantiche. Un secondo motore è l’interazione tra centri urbani e campagna, che accresce la divisione del lavoro e si manifesta nelle trasformazioni dell’agricoltura. Infatti, la crescita della produttività agricola è il fondamento della crescita della popolazione, delle città e del reddito urbano, ma anche della riduzione della popolazione rurale. Tra il 1600 il 1750, la migliore performance appartiene a due aree atlantiche, l’Inghilterra e l’Olanda, che vedono aumentare la popolazione agricola procapite e la produttività per lavoratore. Si può quindi dire che, mentre nel secolo 16º l’area mediterranea conosce un innalzamento della produzione agricola procapite e della produttività del lavoratore agricolo, nel corso della rivoluzione commerciale il primato appartiene all’area atlantica, e specialmente all’Inghilterra e all’Olanda. 7.2. Reddito e consumo Adams Smith sostiene che la città è il detonatore del consumo, poiché quando all’offerta dei prodotti della campagna si aggiunge quella dei prodotti importati, si sovverte l’ordine naturale dell’economia e si finisce col dare la precedenza agli investimenti nei settori del commercio e della manifattura. Questa idea trova riscontro nell’informazione disponibile per l’Inghilterra tra il 1695 e il 1800. Il valore totale del cibo delle bevande consumate aumentano da 21 a 144,7 milioni di lire sterline, mentre l’offerta dei beni agricoli prodotti all’interno dell’Inghilterra passa da 16,6 a 101,1 milioni di lire sterline, e quindi il rapporto tra consumo totale e offerta di beni agricoli è di 1,26 nel 1695 e di 1,43 nel 1800. L’incremento del rapporto consumo-offerta dipende tanto dalle innovazioni del trasporto e dei servizi commerciali quanto dalla comparsa di nuovi prodotti di consumo, come lo zucchero, il tè e il caffè. Ne consegue che la crescente divisione del lavoro e l’espansione del mercato si rafforzano vicendevolmente e favoriscono il consumo dei nuovi prodotti. Il caso inglese dimostra infatti l’interdipendenza tra produttività agraria, commercio internazionale e consumo. Ragionando in termini di salario reale quale indicatore del livello di vita, un altro studio recente sull’Inghilterra ci dice che i salari reali medievali si superano solo con l’incremento della produttività totale intervenuto tra il 1650 al 1800. I salari agricoli inglesi replicano quelli urbani, ma il loro livello è comunque inferiore a quello delle città. La tendenza è verosimile poiché anche nell’agricoltura i salari aumentano leggermente tra il 1650 e il 1750, e ristagnano nella seconda metà del 18º secolo. La differenza di livello tra salari rurali e urbani ci aiuta a capire la propensione all’inurbamento dei lavoratori rurali, in Inghilterra come in Francia. Negli stessi anni, in Olanda l’indice dei prezzi dei beni di consumo declina, per poi crescere fino al 1800, mentre i salari reali ristagnano fino al 1750, per poi diminuire nel mezzo secolo successivo. Ciò spiega perché i lavoratori olandesi cercarono di adattarsi alle modifiche dei prezzi relativi diversificando la domanda dei beni, ossia consumando meno pane, carne e burro e più prodotti tessili, tè e caffè. Questa tendenza è confermata anche per le Fiandre. Un recente e intelligente contributo per la comprensione del rapporto tra reddito e consumo argomenta che il reddito di sussistenza è il minimo necessario per la riproduzione e lo identifica in una dieta quasi vegetariana fondata principalmente sui grani meno costosi escludendo pane, carne, bevande alcoliche e prodotti lattei. Mentre, il paniere del consumo medio di un lavoratore con un livello di vita superiore comprende beni alimentari come pane, legumi, carne, uova, latticini e birra, e beni non alimentari come vestiti, sapone, candele, legna per il riscaldamento. In generale, l’orientamento tendenziale del rapporto tra reddito e consumo, tra il 1650 e il 1800, diminuisce sia per la pura e semplice sussistenza sia per i livelli di vita superiore a Firenze e a Vienna, invece ristagna a Amsterdam, mentre aumenta a Londra. La diffusione di nuovi consumi non è fenomeno esclusivamente economico, ma ha anche una configurazione sociale e culturale. Partendo dalle famiglie titolari di redditi medi ed elevati, questi consumi diffondono tra i ceti popolari una diversa immagine di vita urbana, specialmente diversa dall’èlite rurale tradizionale o dalla nobiltà. Per esempio, ad Amsterdam, a Londra ma anche a Bordeaux, Marsiglia, Amburgo, si diffuse l’idea che la vita urbana poteva aprire possibilità negate nelle campagne, e che l’aria della città poteva rendere gli uomini liberi. Ciò spiega l’importanza del movimento migratorio nella crescita delle città. Il predominio della città, ormai favorita dalla crescita della produttività agricola, riuscì a imporre il contenimento dell’incremento dei prezzi agricoli e una notevole ascesa dell’offerta di prodotti manifatturieri verso la campagna. Si venne così a modificare, anche grazie alla riduzione dei costi di trasporto, l’intera organizzazione degli scambi, dando avvio allo sviluppo dei servizi privati e pubblici che contribuì a incrementare i redditi medi e superiori. Le dimensioni economiche ricordate si intrecciano con quelle demografiche; ma la fertilità, la mortalità e la nuzialità non si espandono con la stessa velocità dell’economia, e alla fine danno spazio all’incremento del reddito reale. Di conseguenza, anche il processo di socializzazione riesce a modificare le decisioni individuali e familiari in sede collettiva, e quindi a trasformare il comportamento degli attori sociali. Le abitudini, pertanto, si modificano soprattutto con il consumo di quei beni extraeuropei che hanno una forte componente di socialità. Inoltre, il nuovo consumatore è chiamato a stabilire il rapporto che deve intercorrere tra l’utilizzo del proprio reddito, in termini di consumo e di investimento, e le sue preferenze di natura sociale e culturale. Nel corso della rivoluzione commerciale questa nuova connotazione del consumo fa sì che sia il consumatore a decidere quale debba essere la quantità del proprio tempo-lavoro da destinare alla conservazione e alla riproduzione del proprio capitale umano, e a decidere di assegnare il tempo rimanente alle attività in grado di produrre un reddito monetario da destinare all’acquisto di beni nel mercato, o ad altre attività economiche, sociali e culturali all’interno del nucleo familiare. Il consumo cessa di essere stazionario e diventa dinamico in quanto l’unità domestica è in grado di rendere flessibile la propria organizzazione del lavoro con lo scopo di massimizzare la quantità di beni prodotti e, specialmente nelle aree urbane, di ottenere un eccedente monetario. Si raggiungono questi obiettivi con un maggior sfruttamento della manodopera familiare (capofamiglia, moglie, figli, parenti e conviventi non parenti). In generale, la diffusione del consumo dei nuovi prodotti, e specialmente dei beni extraeuropei, avviene grazie all’incontro tra l’incremento del reddito dei ceti medi, la maggiore intensità di lavoro delle unità domestiche e delle classi lavoratrici, e l’incremento del capitale umano nelle aree urbane e rurali. 7.3. Il motore della diffusione dei beni extraeuropei: prezzi e consumi Dalla mia analisi emerge la difficoltà di stabilire una correlazione precisa tra il reddito e il consumo. La flessibilità e la variabilità del reddito sono condizionate dal ciclo demografico familiare. Il reddito tende a ridursi dopo il matrimonio con la nascita dei figli e ad espandersi quando i figli entrano nel mondo del lavoro; ma è anche condizionato dalla congiuntura economica, che espande o restringe la domanda di lavoro nei momenti di crescita o di crisi, determinando pertanto l’espansione o la diminuzione del consumo. Sulla base di queste considerazioni, si può dire che il reddito destinato al consumo di beni preesistenti e al consumo di possibili nuovi beni, come lo sono quelli extraeuropei, si riflette in costanti modifiche nel paniere dei beni di prima necessità, di agio e di lusso consumati in famiglia, come pure dei beni consumati in società nei caffè, nelle taverne, nei luoghi pubblici. Va inoltre tenuta presente la possibilità di sostituire il consumo di vecchi beni con nuovi beni, sia per ridurre la spesa sia per soddisfare le preferenze del consumatore verso prodotti di moda. Esempio: in Inghilterra la riduzione dei prezzi è sicuramente il principale elemento del processo di incorporazione di nuovi beni. Il consumo dello zucchero si generalizza cinquant’anni dopo l’inizio della riduzione del suo prezzo che incomincia nel 1650; anche il consumo del tè si generalizza dopo il 1750, mezzo secolo dopo l’inizio della riduzione del suo prezzo; altrettanto avviene per il caffè, il cui consumo si universalità cinquant’anni dopo l’inizio della riduzione del prezzo, ovvero dopo il 1800. Senza la sostituzione dei consumi, e senza la riduzione o il ristagno dei prezzi dei beni alimentari tra il 1650 e il 1750, non sarebbe stato possibile quel riorientamento delle preferenze del consumatore, e quindi la riorganizzazione del paniere dei beni di consumo. Di conseguenza, la sola riduzione dei prezzi dei beni extraeuropei non si traduce meccanicamente e immediatamente in un innalzamento del loro consumo poiché l’universalizzazione dello zucchero, del tè e del caffè avviene mezzo secolo dopo il declino dei prezzi. Le possibili spiegazioni di questo scarto diacronico sono due. La prima, di natura essenzialmente economica, riguarda la lentezza che caratterizza la sostituzione dei vecchi consumi e la lunghezza del ristagno dei prezzi alimentari, che si traducono in un altrettanto lenta generalizzazione del consumo dei nuovi prodotti. La seconda, di natura sociale e culturale, discende dalle difficoltà incontrate dalla depenalizzazione e dalla libertà di scelta del consumo ad affermarsi a livello sociale e istituzionale. Non è un caso che la libertà di consumo si consolidi soltanto nella seconda metà del 18º secolo con lo sviluppo delle forze di mercato. Anche l’evoluzione del prezzo e delle importazioni di caffè in Francia conferma che il consolidamento del suo consumo avviene nella seconda metà del 18º secolo, ancora una volta cinquant’anni dopo la forte diminuzione del prezzo. Invece, la crescita del consumo del tè e più rapida nella prima metà del secolo, sebbene la diminuzione del prezzo sia sensibilmente inferiore a quella che si rileva in Inghilterra e in Olanda. Dunque, la nascita del consumo moderno è indubbiamente resa possibile dall’azione dei consumatori che si impegnarono a rendere flessibile e variabile il reddito familiare, ossia a tener conto dell’orientamento della domanda di lavoro e del ciclo economico. La flessibilità e la variabilità del bilancio familiare ha permesso la sua riorganizzazione, a cominciare dalla sostituzione dei vecchi beni di prezzo elevato con altri di qualità simile ma di prezzo inferiore, approfittando della nuova offerta di beni e della diminuzione o del ristagno dei prezzi dei beni alimentari, che peraltro continuano a essere il consumo più rilevante. 1.7. L’uomo in nero Nel 1500 l’ostentazione diventa capacità di esibire la propria cultura e conoscenza. Una scelta sartoriale che sottolinei i valori culturali ed intellettuali si manifesta con la tendenza alla semplicità apparente ed al rifiuto dell’esagerazione; tutto ciò si esprime con l’uso del nero, per mostrare l’uomo sotto l’abito: non essendo colore di moda, il nero permette di rappresentare i principi morali guida del cortigiano. L’uomo virtuoso, per vivere una vita bilanciata, deve evitare estremi, colori sgargianti, sfarzo e decorazioni eccessive, ma evitare anche un vestiario monacale. Il nero è onnipresente, ma i tessuti sono di altissima qualità e molto costosi, poiché è un colore molto difficile da produrre, quindi nel 1500 diventa il colore delle corti europee. Pochi uomini però ambivano a diventare cortigiani, infatti il nero era usato anche per altri scopi: fu il colore della riforma protestante, ma anche della controriforma dopo gli sfarzi della chiesa; era il colore del quotidiano, funzionale e segno di rispettabilità pragmatica e commerciale; nasce il primo abito da lavoro della classe media. 1.8. Etichetta e maniere L’abbigliamento è solo una parte della cultura delle apparenze, cui si aggiungono le buone maniere dell’uomo di corte. Nel 1558 Della Casa pubblica il Galateo. Indossare il giusto abito per l’occasione non è sufficiente, sono altrettanto importanti cultura ed educazione: è con le buone maniere che si dimostra di possederle. Il gentiluomo deve saper danzare, comportarsi a tavola e nelle cerimonie e rituali; le maniere si raffinano. Le regole delle buone maniere sono parte di un processo di civilizzazione e di transizione verso una cultura basata sull’apprendimento sociale di regole ripetute in pubblico. L’uomo e la donna sono eleganti per i modi di comportarsi. Ciò porta ad un cambiamento sociale verso una società costruita, artefatta. 1.9. Le corti europee della moda Fino ai primi del 1500 l’Italia ebbe un posto di riguardo nella creazione della moda, facendo da modello al resto d’Europa; ma nel momento del trionfo della moda l’Italia entra in una fase di declino politico. Molti reali come Francesco I di Francia imposero la moda italiana nei loro regni; ma nel corso del 1500 anche Francia e Spagna diventano influenti nella moda di corte. La Spagna elabora un suo linguaggio decorativo sin da inizio secolo, un’eleganza misurata e spesso in nero; la Francia emerge solo nel 1600 con una propria moda, con Enrico 4° e Luigi 14°, portando al massimo splendore la corte come ambiente di creazione e consumo di moda. Nel 1600 Francia e Spagna diventano modelli alternativi di moda moderna in Europa: Ostentazione vs falsa modestia. L’Inghilterra protestante dei Tudor non guardava alle mode cattoliche di Francia e Spagna, gli elementi spagnoleggianti introdotti con il matrimonio fra Maria Tudor e Filippo II di Spagna furono eliminati sotto Elisabetta I, acerrima nemica della Spagna; ella oppose al nero il bianco e i colori pastello. Nel 1600 la corte diventa ancora di più luogo di creazione di moda in tutta Europa, anche in stati emergenti. Alla fine del 1600 si diffonde anche la moda urbana fra i ceti mercantili e professionali, e la moda nasce anche concettualmente, entrando nel vocabolario di molte lingue europee. Da ora moda e modernità permeeranno ogni aspetto della vita sociale ed economica europea. 2. Il nuovo che avanza: una rivoluzione della moda nel Settecento 2.1. Consumo e moda Nel 1700 la Rivoluzione Francese e quella Industriale portarono l’Europa verso la società industriale, la gente iniziò a consumare di più e considerare il consumo come parte della vita quotidiana, passatempo e modo per definire l’identità degli individui. La moda nel 1700 inizia a interessare larga parte della società, e si associa all’ambiente urbano: non sono più le corti a dettare moda, ma le strade, con i negozi in cui comprare. In città si mescolano persone di ceti diversi, uniti da una cultura del consumo che non coinvolge più solo i ricchi. La moda diviene parte del consumo. 2.2. Una rivoluzione dei consumi Nel 1700 prende forma il moderno consumismo, lo shopping diventa parte della vita sociale. Si parla di “rivoluzione del consumo” perché i cambiamenti del consumo della società inglese sono stati fondamentali nella vita sociale ed economica del paese: la gente consuma e compra di più, si creano i negozi, la pubblicità, il marketing, è una rivoluzione anche della distribuzione. Questo aumento del consumo riguarda tutta la popolazione in tutta Europa, oltre a beni di necessità, la gente compra beni per soddisfazione personale. Per McKendrick la moda è uno dei motori del consumo, sprona a consumare di più e comprare cose nuove, ed interessa tutti gli strati della società; ma non tutti “fanno moda”: sono nobili e ricchi a decidere cosa è di moda; poi la moda si propaga verso il basso della gerarchia sociale, con processi di imitazione. La società si basa sull’imitazione delle scelte di consumo dei leader della moda, che ne creano sempre di nuove. 2.3. L’esperienza del consumatore La società del 1700 era basata su macro classi sociali: l’elite (nobili e ricchi non nobili), il ceto medio (liberi professionisti, commercianti e bottegai), la classe lavoratrice o popolo minuto. Per l’elite l’abito di corte restava il vertice della spesa, un’uniforme da cerimonia e mezzo con cui modellare il proprio corpo e correggere i difetti, acquisendo una bellezza non naturale. La relazione fra corpo e vestiario inizia ad essere adottata però anche dalle classi medie. L’espansione del consumo interessa anche la vita di mercanti, possidenti terrieri e negozianti, propensi a dare vita a mode nuove, come l’usanza del tè delle 5. L’elite sosteneva la produzione di lusso, potendosi permettere abiti, mobili ed oggetti esotici dall’oriente, ma in pochi potevano permettersi di acquistare abiti nuovi per seguire la moda, perche i tessuti erano costosi. Più contenuti erano i prezzi degli accessori, quindi era possibile sentirsi alla moda senza dover comprare nuovi abiti. Questo principio è ancora attuale, infatti oggi la spesa per oggetti firmati si concentra sugli accessori. Non si hanno molte informazioni su cosa indossava la gente comune e cosa pensava della moda: la maggior parte delle persone non sceglieva cosa consumare, erano consumatori involontari, poiché o vivevano in camere in affitto di cui usavano la biancheria e gli oggetti, oppure i più poveri venivano vestiti dalle opere di carità o dalle autorità comunali e dovevano portare simboli per ricordare a tutti che erano in debito con la comunità. 2.4.Comprare e vendere moda nel 1700 La moda diventa moderna poiché diviene sia fenomeno di massa che passatempo: ha bisogno di luoghi dove essere mostrata e comprata, quindi ha origine la moderna distribuzione in negpzi fissi, che sostituiscono le bancarelle ambulanti. Il consumatore può guardare e provare. Ma è un cambiamento lento, a fine secolo ancora pochi si recavano nei negozi, e i venditori ambulanti ancora offrivano ogni tipo di merce trasportabile di uso quotidiano, ma erano mal visti. Il negozio emerge come nuova meccanica del consumo perpetrata fino ad oggi. È uno spazio delimitato e separato dalla strada da finestre (vetrine) che danno l’idea di entrare in uno spazio semi-privato, permette di vedere cos’è in vendita prima di entrare, se è adatto alle proprie tasche, cosa accade dentro, ed invogliare i passanti. La vetrina è una caratteristica del moderno consumo. Inizialmente i negozi vendono di tutto, ma con la crescita del consumo iniziano a crescere di numero e specializzarsi. Nascono anche negozi di grandi dimensioni (antenati dei grandi magazzini) e gli showroom in cui non si vende nulla ma servono a far mostra. Lo shopping diventa un passatempo per chi se lo può permettere, il cliente non è tenuto a comprare nulla. Ci si affida a negozianti di fiducia, lo spazio stretto del negozio permette rapporti più o meno stretti fra negoziante e cliente; ogni negozio ha un retro a cui possono accedere solo i clienti conosciuti, dove si trovano cose all’ultima moda e di alta qualità e si può comprare con più calma. 2.5.Marketing e pubblicità Nel ‘700 si cominciano ad adottare le moderne strategie pubblicitarie e di marketing. Una forma comune è quella dei “biglietti di commercio”, piccoli manifesti in cui sono presentate le merci vendute, il nome del negozio e l’indirizzo e talvolta illustrazioni del negozio o della merce. Un’altra forma di pubblicità era quella su giornale: una delle più comuni per raggiungere un vasto pubblico grazie al crescente successo dei quotidiani in tutta Europa. Mettere un annuncio sul giornale non costava molto, quindi vi ricorrevano in tanti, ma non erano illustrati. A fine secolo compaiono le prime pubblicazioni di moda con immagini disegnate o stampe, antenate delle attuali riviste. La moda viene così consumata anche attraverso rappresentazioni di se stessa, è qualcosa anche da immaginare e di cui discutere. Le prime pubblicazioni di moda sono libri tascabili con poche immagini, guide su cosa era o meno di moda; solo dal 1760 compaiono pubblicazioni più grandi con stampe sulla moda di Londra o Parigi. 2.6. Dall’usato alla moda pronta Vi erano sia negozi di vestiti usati, che altri in cui impegnare le proprie cose; ciò mostra l’alto valore materiale dell’abbigliamento per la gente comune, spesso era tutto ciò che possedeva; e la sua facile convertibilità in denaro in caso di bisogno. Vendere o impegnare abiti e comprarne di usati era una pratica abituale. L’acquisto di abiti a basso prezzo diviene ancora più comune con la comparsa degli abiti pronti o preconfezionati: abiti prodotti per un cliente generico: erano spesso abiti su misura sbagliati o non ritirati dal cliente, o prodotti durante le stagioni di poca richiesta. Compare un linguaggio della standardizzazione: compaiono le taglie, derivanti dall’uso militare, dove si vestivano molti uomini in tempi brevi e a basso costo. La taglia è basata sulla misurazione di un individuo allo scopo di trovare un oggetto pronto che gli si adatti. All’inizio l’abito pronto trovò resistenza in chi lo vedeva adatto solo ai più poveri, chi poteva permetterselo continuava ad andare dal sarto. L’idea che non si possa trovare qualcosa che calzi perfettamente, viene rimpiazzata dalla maggiore disponibilità di scelta offerta nei negozi, per cui è più facile trovare qualcosa che vada bene per taglia, gusto e prezzo. L’esperienza del consumo cambia, il consumatore può confrontare e valutare oggetti diversi. Si differenziano luogo di produzione e di vendita, e emerge l’invenzione della marca, per distinguere i prodotti migliori dalla massa di artigiani, applicando il marchio sull’oggetto stesso. 2.7. Dalla rivoluzione dei consumi alla rivoluzione industriale La rivoluzione industriale è strettamente connessa alla rivoluzione del consumo grazie al cotone. Prima si usava solo lana, seta e lino, il clima rigido dell’Europa impediva la coltivazione di cotone, quello usato era importato dall’India. I cotoni Indiani erano robusti non sbiadivano o si decoloravano, e il processo di filatura in Europa era fatto a mano, quindi richiedeva un cotone resistente. Il cotone indiano era stampato, aveva colori vivi che permeavano bene il tessuto, ricordava la seta, ma con il prezzo del lino, per questo era molto apprezzato. Fu il cotone a fare della moda un fenomeno di massa, poiché quasi tutti potevano permetterselo. L’ondata di domanda di tessuti indiani stimola la produzione in loco; il settore cotoniero diventa di punta per l’industria europea: si sviluppano macchine che permettono di filare a basso costo: il filatoio ad acqua di Arkwright, il telaio meccanico di Cartwright, rulli per la stampa dei tessuti… Nel 1700 la moda diventa industria ed entra a far parte della quotidianità attraverso negozi, pubblicità e pubblicazioni di moda. Diventa un argomento di discussione e di differenziazione sessuale. 3. La grande rinuncia: uomini senza moda nell’Ottocento Dalla metà dell’800 alla metà del ‘900 l’uomo di ogni ceto indossa abiti composti da tre pezzi in tinte scure e cappello; è un’uniforme maschile che conferisce uniformità visiva e sociale; la moda vede l’uomo indossare abiti non di moda, che non cambiano di molto in cento anni. 3.1. Eccesso e moderazione Si affermano due modelli opposti di moda maschile nel 1700: L’Inghilterra rappresentava la moderazione nei costumi, la Francia incarnava l’eccesso. Era però la Francia a detenere il controllo della moda europea, mentre gli inglesi erano sempre più influenzati dal lusso e dalla bella vita francesi. Si diffondono molte lamentele sulla fine della morigeratezza in tutta Europa, con argomentazioni morali e nazionalistiche sulla necessità di respingere le influenze straniere; ma la moda resta vistosa. Ad es la figura del “macarone”: il giovanotto vestito in modo stravagante che rappresenta una gioventù degradata con il solo scopo della ricerca del piacere. Questa è l’accusa che induce l’uomo dell’1800 ad allontanarsi dalla moda. 3.2. L’uomo in tre pezzi L’800 presenta uomini in pose serie e vestiti in tre pezzi; questo moderno vestito maschile ha origine alla corte di Carlo II d’Inghilterra nel 1660 e deriva da una variazione dei modelli francesi. Si compone di giacca, pantaloni e gilet, concepiti ed acquistati insieme, confezionati con la stessa stoffa e colore. Il completo spesso includeva un paletot di lana pesante o un impermeabile per il brutto tempo, perché l’ombrello era considerato esclusivamente femminile. Si portavano anche gemelli, spille e fermacravatta, ma molti non avevano i mezzi per accedere agli accessori, quindi l’abito quotidiano era completato con una camicia bianca con collo e polsini removibili x essere lavati. Gli abiti maschili erano in colori scuri, il nero dominava, mente i colori vivaci scomparirono anche per le èlite. L’uomo in nero è protagonista della moda dell’800. 3.3. La grande rinuncia Per Flugel l’uomo attua una Grande Rinuncia, abbandonando la pretesa di essere bello e preoccupandosi solo di essere pratico. L’adozione del completo in tre pezzi è una trasformazione di lunga durata, un caposaldo della storia della moda, nonchè una sconfitta per l’uomo, che lascia il campo della moda interamente alla donna. L’uomo rinuncia all’estetica a favore di utilità e morale: deve essere vestito in modo appropriato, secondo regole definite dai suoi contemporanei, ed aspira a valori superiori all’apparenza. Cresce il pregiudizio contro la superficialità della moda. Il vestito a tinta unita diviene simbolo di modernità, uniforme dell’uomo borghese. 4.4.Moda di massa e tempo libero Dopo la prima guerra mondiale, alcuni abiti ideati per lo sport diventano di uso quotidiano: per l’uomo si afferma una silhouette rilassata con pantaloni alla zuava, calzettoni colorati, maglioni a V con varie geometrie; moda adottata anche dal principe del Galles Edoardo VIII. Il tennis influenza l’abbigliamento degli anni 20 e 30: la tennista Suzanne Lenglen dà scandalo con le sue gonne corte a pieghe e fascia elastica nei capelli; il tennista Renè Lacoste nel 1929 inventa la polo con il suo simbolo. L’abbigliamento sportivo diventa parte di una vita quotidiana costruita attorno alle attività ricreative; si crea continuità fra lavoro e sport. A fine 1800 nelle mete di villeggiatura di alta classe si sperimenta un vestiario informale per la spiaggia e per le occasioni pomeridiane e serali. Negli anni 20 del ‘900 le località balneari diventano fenomeno di massa; in Inghilterra si ideano centri marittimi comunali, in Italia il fascismo organizza colonie estive per i bambini meno chicchi per promuovere l’idea di salute. Negli anni 30 la villeggiatura è alla portata di molte più persone. Vengono ideate le prime linee di costumi da bagno con nuove fibre elastiche sintetiche. La tintarella diventa indicatore di buona salute, la gente inizia a esporsi ai raggi solari, la pelle scura diventa simbolo di chi vive all’aria aperta e fa sport. Il corpo viene scoperto, negli anni 40 si inventa il Bikini, che permette di mostrare il ventre senza essere oscene. Poco dopo compaiono anche i primi topless. Questi cambiamenti sono fenomeni non solo sociali, ma anche economici: l’abbigliamento casual diventa uno dei settori più in crescita del secondo dopoguerra sia in Europa che in America; diventa linguaggio di tutti e uno dei maggiori settori dell’economia mondiale. 4.5. Nuovi stili di vita Sport e tempo libero hanno plasmato la moda di ‘800 e ‘900, basandosi sull’appartenenza dell’individuo a un gruppo: nascono squadre e club ispirati a analoghe istituzioni del mondo del lavoro, lo sport e la moda si legano al lavoro (colletti bianchi: impiegati che vestono con camicia bianca, cravatta e completo in tinta). Due cambiamenti influenzano la relazione fra moda e classe nel ‘900: tra le due guerre cambia il modo di vivere della popolazione urbana; si ha una massificazione della moda e l’emergere di grandi strutture industriali. Negli anni 20 vengono adottate per la prima volta politiche sociali che portano comfort anche nelle case dei meno ricchi, si costruiscono case popolari, ed inizia per le classi medie un processo di suburbanizzazione : lo spostamento dai centri a quartieri nuovi nelle prime periferie; il capofamiglia viaggia in treno o metropolitana per andare al lavoro. Nasce il profilo della casalinga: la donna sposata che non deve lavorare ma accudire i figli e prendersi cura della casa; per la classe medio alta la donna che non deve lavorare è simbolo di buona famiglia. Ma la donna del ‘900 non ha servitori, deve curare la casa da sola, infatti appaiono i moderni elettrodomestici a facilitarne i compiti, ma la trasformano in una domestica non retribuita. Si afferma una moda funzionale più pratica per la donna che lavora in casa: la gonna al ginocchio senza pizzi, i capelli dai tagli corti e semplici ed indumenti con la zip, che possono essere indossati senza bisogno di aiuto. 4.6. La massificazione della moda Negli anni 20 e 30 il consumo si estende a tutte le classi sociali, si fa strada il concetto del prodotto per tutti; anche la pubblicità diviene qualunquista, rivolgendosi a tutti i consumatori. Le grandi aziende usano cartelloni pubblicitari. nasce il marketing moderno. La moda sa bene come accendere il desiderio, ed è oggetto di un’intensa campagna promozionale. Nascono numerose riviste che comunicano gli stili di vita di personaggi ricchi e famosi, e propongono modelli per l’uomo e la donna senza distinzioni di classe. La carta stampata raggiunge il suo apice, è il mezzo di comunicazione più potente prima della televisione, presente nelle case di tutti con riviste, cataloghi, brochure …. Questi creano nuove mode, ma anche nuove idee e concetti sociali: il corpo viene rivelato, messo in mostra. Questi cambiamenti sociali modificano il costume, e la nozione di buon costume e sono sostenuti dal potere mediatico e dagli interessi di aziende del settore. Le aziende di cosmetici fanno della bellezza qualcosa che non esiste in natura ma può essere creato grazie ai loro prodotti: trucchi, tinte per capelli, creme, profumi … Ciò è possibile poiché molte imprese mettono la ricerca chimica al servizio della moda. Compaiono le prime fibre sintetiche nel 1883, che rimpiazzano pian piano le quattro fibre naturali: cotone, seta, lino, lana; dagli anni 60 sono viscosa, rayon, nylon poliestere e lycra a rinnovare i guardaroba permettendo di realizzare nuovi modelli e nuovi colori impossibili con le fibre naturali. La moda è connessa alla tecnologia e all’ideazione di nuovi prodotti e materiali. 5. Da moda ad alta moda: creatività nel “secolo della moda” 5.1: Dal sarto al couturier: l’importanza dell’alta moda Oggi gli stilisti sono delle celebrità; nel XX secolo lo stilista diventa più importante delle sue creazioni. È un artista, dimostra inventiva e genialità, e conosce il potere di stampa e media. L’alta moda dei grandi stilisti, o couturier dedicata ad un pubblico danaroso non dipende solo dai prezzi, ma anche dalla capacità di influenzare le scelte di vestiario della persona comune. Lo stilista, produttore degli abiti è anche produttore di moda, la definisce. 5.2. Charles Frederick Worth: tradizione e modernità È ritenuto padre fondatore dell’alta moda. Inglese, del 1825, migra a Parigi, dove apre la sua maison nel 1857; qui vi passano alcuni fra i nomi più importanti dell’aristocrazia europea ed americana. È questa l’epoca della rivoluzione artistica portata dall’impressionismo: una pittura espressiva, immediata e non su commissione, che segue l’ispirazione dell’artista, che poi vende l’opera ad un compratore interessato. Anche nel settore dell’alta moda la creazione artistica va a sopraffare la tecnica artigianale, il couturier è innovatore, creatore e proponitore di nuove idee e mode non limitate dai gusti di una committenza. Lo stilista propone le sue creazioni al cliente, che può accettarle o meno. Il processo di creazione dell’abito si ribalta, non si parte dalle necessità del cliente ma da un’idea del couturier. Per questo lo stilista diviene una celebrità e le sue creazioni sono conosciute attraverso il suo nome. Il teatro e le arti drammatiche ispirano la moda di Worth; le creazioni sono presentate attraverso sfilate di modelle, riservate a gruppi ristretti di clienti; al centro vi è l’abito, non la bellezza di chi lo indossa. Worth comprende però come le persone famose possano rendere noto il suo marchio semplicemente indossandolo, perché fanno parlare di sé e di ciò che indossano. Il successo di Worth deriva anche dalle sue innovazioni sartoriali: inventa una silhouette chiamata “cul de Paris”, speciali tagli come il modello principessa, in cui con un solo pezzo di stoffa crea gonna e bustino, La domanda però eccede l’offerta, e Worth comprende che l’alta moda può vestire solo poche donne, ma influenzare le scelte di molte; per evitare il problema del plagio, egli decide di vendere i propri modelli attraverso concessioni, al fine di renderli riproducibili a prezzi accessibili. Così, attraverso la riproduzione legale l’alta moda diviene fenomeno di massa, influenzando tutti gli strati sociali, ma non perde il carattere di esclusività producendo pochi pezzi e mantenendo gli standard produttivi più elevati. A fine 1800 iniziano a nascere altre case di moda. 5.3. Paul Poiret: eccesso e fama Classe 1879, generazione successiva a Worth, porta l’alta moda alla sua fioritura nel XX secolo. Personalità estrosa e geniale, incarna un nuovo tipo di couturier: è la sua figura pubblica la sua maggiore creazione, infatti è il primo designer di moda famoso per la tendenza a scandalizzare e sovvertire i canoni del buon costume; la sua moda è sfrontata. Agli inizi del 1900 produce abiti di forte ispirazione orientale, turbanti, linee dritte quasi a tunica e senza corsetti, tratta la moda come forma architettonica usando la geometria per formare strutture all’apparenza complesse ma facili da indossare. Sono le forme ad essere centrali nelle sue creazioni. Intuisce che la moda sta diventando parte dell’identità degli individui ed elemento portante della sfera culturale; la moda crea i suoi protagonisti. Poiret è un esempio di mix fra genialità e fiuto per gli affari: convince infatti il pubblico che la sua capacità non si limita alle produzioni sartoriali, è il primo creatore di moda a lanciare un proprio profumo, e successivamente firma una vesta gamma di oggetti, collaborando con altri artisti. Trasmette la propria immagine e le opere attraverso un’attenta pubblicità, impiegando illustratori di talento; queste collaborazioni creano un ponte visivo fra produzione e promozione di moda. Fu anche il primo a portare la moda in tour nel 1912, organizzando manifestazioni nelle maggiori città europee e degli USA. Le modelle che viaggiavano con lui attiravano un enorme pubblico. La riapertura della sua casa di moda dopo la guerra fu però un fiasco, ed in vista del declino si cimentò in un’autobiografia; fu lui l’ideatore di questo genere, per la necessità di creare il proprio mito. 5.4. Oltre Poiret: la moda francese ed Elsa Schiaparelli L’alta moda francese vide altre figure importanti oltre a Poiret prima della prima guerra mondiale: Madame Paquin fu la prima ad aprire succursali della sua casa di moda nelle maggiori città europee, e la prima ad usare una passerella per eventi periodici aperti a pubblici vasti. Jeanne Lanvin: prima a ideare linee separate a seconda dell’età. Tra le due guerre fu famosa Madeleine Vionnet per le linee di stampo neoclassico con effetti di dettaglio come inserti e drappeggi; inventa il taglio in sbieco per ottenere perfetta vestibilità perché modella il corpo e ne esalta le forme. Ogni suo abito era una creazione a sé stante, infatti fece una forte campagna contro la copia illegale e per il diritto di creazione; fonda l’associazione contro la copia (PAIS). Ogni suo capo aveva il suo simbolo ricamato e portava la sua impronta digitale. Elsa Schiaparelli: personalità estrosa ed irrequieta, si ispira al surrealismo con vestiti a scheletro, guanti con unghie ricamate … stringe collaborazioni con pittori e scultori, come con Dalì. 5.5. Coco Chanel e l’invenzione dello chic Diviene sinonimo dell’alta moda francese, la forgia e la fa trionfare nel XX secolo. I suoi negozi in località balneari forniscono a clienti selezionati articoli di vestiario informali da indossare in ogni momento del giorno. La sua è una moda di facile uso, che unisce informalità e semplicità dei materiali, con vestibilità e austerità. Non sa fare bozzetti, applica direttamente i tessuti sui manichini, da qui l’elementarità delle sue creazioni. Così trasforma l’alta moda in un’arte di minimale semplicità. Introduce capi maschili informali nel vestiario femminile, la silhouette diventa dritta e piatta, i materiali poveri, come il jersey. Il suo successo inaspettato è dovuto all’informalità e modernità, che vanno ad identificare gli anni 20. Chanel aborrisce la decorazione, il fronzolo, e mira a comunicare l’essenza della forma. Chanel inventa la propria immagine spacciandosi per designer, liberatrice della donna moderna e creatrice dell’abbigliamento sportivo, si mostra come la donna che ogni donna vorrebbe essere, ma in realtà non inventa nulla di nuovo, il suo merito è aver perfezionato le invenzioni altrui. Diventa una VIP, una figura pubblica, e conosce le grandi del cinema. La novità della sua visione fu di considerare la moda come un concetto, e assumere come centrale la funzionalità degli oggetti. Crea il lusso con la mancanza, come rimpiazzando i gioielli con i bijou, la moda non deve mostrare il suo valore attraverso la materialità ma con la fiducia del consumatore per essa. Ciò ha come conseguenza l’importanza della griffe, per cui la riconoscibilità non sta nei capi ma nel simbolo che Chanel e la sua impresa rappresentano. Il vantaggio della trasposizione simbolica è di poter essere riproducibile dai mass media senza ricorrere all’oggetto di moda in sé; ma lo scotto è non avere il controllo sulla riproduzione e ripetizione simbolica del proprio marchio. Chanel non è di moda, è chic: crea oggetti senza tempo, che restano sempre sofisticati, Chanel raffina le sue creazioni al punto tale da renderle dei classici. 5.6. Il secondo dopoguerra: il New Look di Dior Il mondo della moda del dopoguerra è dominato da figure di grande abilità tecnica e talento; il contesto sociale da spazio ad una visione meno ispirata all’arte e più connessa al lusso; la moda è vista come mezzo per materializzare i desideri di lusso ed eccesso di una società che non è nel benessere ma che aspira ad esserlo, dopo le privazioni della guerra, tra cui il razionamento del vestiario. Il Piano Marshall vede i consumatori come chiave per riattivare le economie nazionali, la moda diventa industria e in Francia emerge come settore di punta. L’idea di moda come benessere ed industria è incarnata da un designer freelance: Christian Dior, che rivitalizza l’alta moda e riconferma Parigi come suo centro a livello mondiale. Il look di Dior è diverso da quello della guerra, ma non nuovo: la donna di Dior è elegante e perfetta, torna al corsetto e ai molti tessuti di alta qualità, mostra benessere. Il New Look attira l’attenzione a livello internazionale e polarizza l’opinione pubblica. Inaugura anche una nuova era nel business dell’alta moda: prima il couturier era proprietario e manager della maison; ora couturier ed impresa sono concetti separati, la maison ha un proprietario, mentre il couturier riceve un salario e una percentuale sulle vendite, diventa freelance e lavora per diverse marche di proprietà di grandi imprese industriali. Cambia il modo in cui l’impresa di alta moda opera nel settore: Dior opera come una multinazionale, con negozi in tutto il mondo attraverso licenze che permettono a terzi di utilizzare il suo nome. La divisione fra persona fisica ed impresa premette a quest’ultima di sopravvivere oltre la vita del fondatore, infatti la Maison Dior, alla morte di Christian, sopravvive e passa nelle mani di Yves Saint Laurent, Ferrè, e altri stilisti di fama. 6.6. Sottoculture nelle mani della moda Le sottoculture utilizzano elementi sartoriali e decorativi per definirsi, ciò le rende adatte al dialogo con la moda, nonostante la vedano come parte di quella cultura vigente a cui opporsi. La moda però, è interessata a prendere spunto ed usare le sottoculture per fare moda, è il processo di commercializzazione delle sottoculture, che avviene con un doppio processo di soffusione e diffusione: prima si elimina dallo stile sottoculturale gli elementi percepiti dalla cultura vigente come pericolosi o di cattivo gusto, si dissocia l’oggetto dal suo significato originario; facendolo poi utilizzare in film o da personaggi famosi, lo si diffonde a livello sociale e commerciale ad di là della sottocultura, trasformandolo in oggetto di culto. La debolezza del messaggio politico e sociale di molte sottoculture, le ha rese adatte ad essere velocemente assoggettate alla moda, tuttavia esse hanno sviluppato dei meccanismi di individuazione di autenticità. Non è però sempre vero che le sottoculture si oppongono alla moda: in alcuni casi infatti, esse sono prodotti di moda, come la cultura emo. Molte sottoculture sono oggi elemento fondante dell’industria discografica. Il potere dei media di plasmare le sottoculture contribuisce a far si che con moda e consumo di massa siano in relazione e possano essere incorporati nelle scelte di consumo dei giovani di ogni strato sociale anche se privi di afferenze sottoculturali. 6.7. Giovani e moda L’emergere di una cultura della moda giovane nel secondo 900 ha cambiato le relazioni di potere all’interno dell’industria della moda, lasciando spazio a strutture flessibili che combinano produzione in serie a prezzi accessibili, innovazione e vestibilità, marca e valore sociale. Le sottoculture mostrano un processo in cui sono i giovani senza risorse o potere, a ispirare la moda, che è generata dal basso della scala sociale. Lo stile sottoculturale diventa fonte di prestigio ed è assimilato dalle classi più elevate. La moda contemporanea non è più passatempo femminile, ma emerge come fenomeno di ampia portata in grado di definire l’identità di interi gruppi ed influenzare estetica e socializzazione. 7. L’internazionalizzazione della moda d’oggi: tra lusso e moda veloce 7.1. Il sistema della moda Due cambiamenti hanno caratterizzato la moda negli ultimi anni: uno di profondità, per cui la moda non è più qualcosa di eccezionale, separato dalla vita quotidiana; e uno di estensione, perché sta diventando sempre più un fenomeno globale; ciò non significa che sia ovunque, ma l’allargamento della sua estensione comporta problemi di definizione del suo significato per i consumatori di diverse parti del mondo. Vi sono diversi tipi di moda: la moda reale si manifesta fisicamente e socialmente, ciò che indossiamo e il suo significato personale e sociale; la moda come sistema retorico è invece un mondo parallelo a quello reale, in cui essa è rappresentata attraverso i media e in forma scritta. C’è quindi una dimensione immaginata della moda, che si interseca con quella reale per creare un sistema della moda. 7.2. La nuova organizzazione della moda Gli ultimi venti anni hanno visto una ridefinizione di produzione e promozione della moda. La produzione non è più localizzata in un posto specifico per necessità: oggi la tecnologia permette la localizzazione del processo creativo ovunque; designer e stilista non devono necessariamente risiedere nello stesso luogo della produzione, che può avvenire in ogni parte del mondo. Questa struttura della moda globale è resa possibile dalla rete (network), in cui flussi produttivi, creativi e commerciali si intrecciano. Alcune grandi marche della moda, fortemente radicate sul territorio locale e importanti perché danno lavoro a intere comunità, usano forme di comunicazione globalizzate per promuovere la propria identità e prodotti sui mercati mondiali. Si usa il termine glocal: globale + locale, l’identità dell’impresa è locale, ma la sua immagine e promozione del marchio sono sempre più globali. Per la distribuzione le imprese d’abbigliamento si adattano ai differenti contesti locali: la moda si fa nei negozi. L’outsourcing, il produrre attraverso terzisti, è una pratica comune, e permette una flessibilità non possibile per le grandi fabbriche. Oggi il settore tessile-abbigliamento è in mano a grandi imprese della distribuzione che vendono attraverso catene di negozi nei centri città e nei centri commerciali. La trasformazione della distribuzione da piccolo negozio alle odierne forme distributive, è stata possibile grazie alle nuove tecnologie, come lo scanner, per monitorare i prodotti, o internet, per velocizzare la comunicazione fra punti vendita e fra produzione e distribuzione. Due fenomeni hanno cambiato il volto della moda: lo sviluppo di grandi marche dl lusso, che uniscono idee e meccanismi della couture a quelli della moda pronta, e la nascita della “moda veloce” (fast fashion). Le grandi catene offrono ad un pubblico di massa forme e concetti un tempo esclusivi di prodotti di alta classe, delocalizzando in paesi extraeuropei la produzione per ridurre i costi ed abbassare i prezzi. La moda veloce imita il lusso, prendendo idee dalle passerelle e realizzandole in versioni a basso costo. Per fare ciò spesso si ricorre allo sfruttamento della manodopera nei paesi meno sviluppati. Nonostante le numerose manifestazioni e campagne anti sfruttamento, il consumatore non ha ancora una base informativa sufficiente a fare scelte oculate; oggi esistono molte iniziative volte a guidare le scelte di consumo, ma non nel settore abbigliamento. 7.3. Da dove viene la moda? La sfera in cui il consumatore sta acquisendo familiarità è la distinzione dei prodotti mediante la loro provenienza, perché certe provenienze promettono maggior valore di altre; per questo un prodotto made in Italy può essere venduto a prezzo maggiore dello stesso prodotto made in Cina. La difficoltà sta nel comprendere il vero significato dell’etichetta, perché un prodotto apparentemente fatto in Italia spesso vi è solo rifinito o assemblato. Oggi è possibile ottenere una produzione di alto livello anche delocalizzandola in paesi extraeuropei, ciò comporta problemi di impiego in Europa, ma permette alle imprese occidentali di specializzarsi in segmenti produttivi ad alto valore aggiunto o tecnologicamente sofisticati. La delocalizzazione produttiva crea un problema di identità di marca, ma anche di pirateria di merce prodotta sottobanco negli stessi stabilimenti con materiali eccedenti, per il mercato parallelo dei falsi. L’immissione di falsi sul mercato sembra essere il prezzo da pagare per poter tenere bassi i costi di produzione. Le aziende tentano di proteggersi variando i prodotti e il logo, e l’UE ha varato politiche restrittive sulle importazioni, ma queste misure sono spesso inefficaci. 7.4. Il sistema globale della moda Per Aspers e Skov la moda oggi è organizzata su diversi livelli di produzione, vendita e consumo. Livello dei produttori di moda: comprende coloro che materialmente producono i capi, chi ne produce le componenti e i macchinari con cui si realizzano tessuti e capi. Livello creativo: costituito dal lavoro di designer e la creative industry (freelance e stilisti indipendenti). La moda è un’industria articolata e complessa, servono capitali ingenti, e una struttura con diversi livelli manageriali e figure di ogni tipo fra marketing, pubblicisti … Spesso ciò che si produce non ha nulla a che vedere con le idee di chi dà il nome all’azienda. Questo cambiamento porta la moda lontano dall’idea di creazione di un artista-artigiano, diventa il risultato di strategie multinazionali che permettono alle marche di svilupparsi in contesti culturali, economici e sociali differenti. Il mondo della moda è estremamente competitivo, ogni giorno vengono create nuove marche per catturare una fetta del mercato in espansione, e vendendo su tutti i mercati si deve saper soddisfare richieste diverse. Livello delle fiere campionarie, in cui fibre, capi ed oggettistica vengono presentati agli addetti dell’industria da analisti di trend, scuole di moda, mondo dell’arte, delle sfilate e della moda quotidiana. L’interazione fra questi gruppi permette alla moda di continuare a produrre e autoriprodursi. Oggi Parigi e Londra non sono più le due sole città della moda; anche se conservano posizioni di riguardo, sono state affiancate da New York, Milano, Tokyo, ciascuna di queste città ha una storia che le indirizza verso tipologie di moda diverse, ma restando legate da una logica di rete che le porta a creare assieme sistemi di sfilate, ideazione e vendita. 7.5. Moda globale, lusso globale Numerosi centri commerciali emergono a Dubai, con centinaia di negozi; si tratta di supermercati del lusso che si diffondono anche in Europa Cina ed Usa, dove i turisti vanno per fare shopping. Dal secondo dopoguerra i centri commerciali provvedono a soddisfare una domanda di massa e creare l’idea di shopping come attività di svago, ma è Dubai a diventare mecca mondiale dell’acquisto di prodotti e marche di lusso Oggi viviamo in una società dal lusso facile, dove l’esclusività viene venduta quasi a tutti. Molte grandi marche si sono trasformate in marche di lusso, vendendo prodotti per-à-porter ed accessori a prezzi fuori dalla portata del consumatore medio. Unendo il concetto di marca e lusso si crea un nuovo prodotto, caratterizzato da forte identità e apparente desiderabilità. Il mercato del lusso diventa globale. L’Italia copre un terzo del fatturato del settore del lusso. Le marche sanno come operare in un contesto globale; sebbene vi siano in commercio moltissime marche di lusso che vendono oggetti diversi, in realtà è un ristretto numero di multinazionali a controllare, attraverso portafogli di marche, la produzione e distribuzione di quasi tutte le marche del lusso. La presenza di marche globali non significa che esiste un consumatore medio globale, anzi si rilevano grosse differenze geografiche. 7.6. Moda e globalizzazione L’internazionalizzazione della moda è un processo di globalizzazione culturale in cui la moda diviene strumento di controllo economico e culturale da parte degli Stati ricchi su quelli Poveri. Ma esiste anche un modello globale, usato per spiegare la varietà di risposte alla globalizzazione culturale nei diversi paesi. Le strutture finanziarie, commerciali e pubblicitarie del settore rendono la moda europea in grado di imporsi nel mondo, tuttavia non cancella altre tradizioni vestimentarie: la globalizzazione non crea uniformità. L’idea che l’Europa vesta il mondo è errata dal punto di vista produttivo, a causa della delocalizzazione produttiva in aree extraeuropee; ma lo è anche dal punto di vista creativo, poiché molti stilisti orientali sono entrati nella moda mondiale portando con sé una visione diversa. Gli stessi consumatori creano forme ibride di abbigliamento combinando e modificando vestiti occidentali e locali. Le forti tensioni fra culture si sono manifestate anche a livello sartoriale, come l’uso del velo e la posizione sociale della donna tra occidente ed Islam, e le leggi occidentali in materia. La moda europea rimane una componente importante della moda globale, ma è la spesa dei consumatori di altri continenti a mantenerla in forze. 7.7. Il futuro della moda C’è chi afferma che la moda non ha futuro, che sia morta; in realtà la moda ha invaso molti ambiti della vita sociale e quotidiana; questa onnipresenza però banalizza la moda e tende a far confondere moda e stile. La moda non è immune alle nuove tecnologie che stanno variando la relazione fra individuo e società: vi sono siti web da cui poter comprare abiti ed oggetti solo vedendoli indossati da modelli virtuali; si crea una confusione fra reale, surreale e pubblicitario. Vi è però anche un problema di etica: il vestiario diventa un rivestimento che nasconde, rivela, modifica o plasma, crea ciò che il corpo non ha; quindi si passa ad una snaturalizzazione del corpo, ed all’idea che il vestiario sia un mezzo per creare identità, perché più reale del corpo stesso. La relazione fra moda e corpo però, è diventata oggetto di critica, come a causa delle modelle taglia zero, viste come eticamente e socialmente negative perché danno al consumatore un’idea deformata di come il corpo deve apparire, rendendo l’idea della magrezza impossibile qualcosa di glamour; il look malato del tossico diventa quello delle modelle. Ma il mondo della moda promette anche di riformarsi proibendo le taglie zero e promettendo di diventare etica, ma lo fa con poca convinzione. 3. L’esperienza del consumatore La società era divisa in: elite, composta da nobili e ricchi non nobili,il ceto medio formato da liberi professionisti e commercianti e la classe lavoratrice, anche chiamata popolo anche se nel corso del settecento divenne una specie di riforma da cerimonia. Gli abiti, strettissimi comprimevano i corpi con l’intento di governarli per acquisire una bellezza non naturale, considerata più attraente. Tuttavia l’espansione del consumo non interessò solo l’elite ma anche la classe media che venivano chiamati consumatori di prima generazione. Se Ancora in pochi però potevano permettersi tessuti pregiati, più contenuti erano invece i prezzi degli accessori. Quindi anche persone con mezzi più ristetti potevano apparire alla moda senza spendere cifre enormi. 4. Comprare e vendere moda nel settecento Nel settecento la moda diventa moderna: diviene cioè un fenomeno di massa e un passatempo. L’andare a fare compere e la presenza di negozi in cui acquistare cose di moda si afferma in questo periodo. Nasce il consumo moderno ma anche la moderna distribuzione in questo periodo caratterizzata da luoghi fissi che prendono il posto di bancarelle o venditori ambulanti (anche se ancora presenti poiché vendevano ogni sorta di merce) nei quali le merci sono messe in mostra e i consumatori possono guardarle e provarle prima di acquistarle. L’idea del negozio non è nuova ma nel settecento esso diviene uno spazio limitato grazie alla vetrina che ha due valenze: delimitare lo spazio di vendita e permettere di vedere cos’è in vendita e ciò che avviene all’interno del negozio. Con l’aumentare dei consumi si assiste ad una crescita numerica dei negozi e alla loro specializzazione. 5. Marketing e pubblicità Nel settecento si iniziano ad adottare moderne strategie di marketing e di pubblicità. Una forma comune era costituita dai biglietti di commercio in cui venivano presentate le mercanzie vendute, il nome del negozio, l’indirizzo e una illustrazione del negozio. Un altro mezzo era il giornale per raggiungere un pubblico più ampio. Era una forma meno cara ma non era possibile mettere illustrazioni. Solo verso la fine del secolo comparvero le prime pubblicazioni di moda con immagini che erano libri piccoli e tascabili che servivano da guida. Successivamente il formato divenne più grande. 6.Dall’usato alla moda pronta I negozi di vestiti usati mettono in luce due aspetti: il fatto che per la maggior parte della gente l’abbigliamento era qualcosa di alto valore materiale e che gli abiti erano un po’ come il denaro: potevano essere convertiti rapidamente in denaro vendendoli ad un negozio. Il mercato dell’usato offriva una varietà di prezzi ed era li che la maggioranza della popolazione acquistava i propri vestiti. Comparve anche un nuovo prodotto: l’abito pronto o preconfezionato. In questo periodo però gli abiti pronti e quelli fatti su misura sono frutto del medesimo processo produttivo poiché la comparsa di abiti pronti si deve al fatto che in alcuni casi i vestiti fatti su misura potevano essere sbagliati o non adatti oppure il cliente non gli andava a ritirare. Inoltre con l’aumento della domanda era difficile avere una produzione su misure che soddisfacesse le tempistiche. In più ci fu la novità della standardizzazione, ovvero che gli abiti si differenziassero in base a misure e che il cliente trovasse quello adatto a lui controllando la taglia. La comparsa delle taglie e il successo degli abiti pronti si devono all’uso militare poiché per l’esercito occorreva vestire migliaia di uomini in tempi brevi e a basso costo. All’inizio l’abito preconfezionato era associato alla classe povera e quindi chi se lo poteva permettere continuava a farsi il vestito su misura dal sarto. Ma con l’arrivo degli oggetti già pronti l’esperienza del consumo è stata trasformata: per la prima volta il consumatore aveva la possibilità di mettere a confronto e di valutare l’oggetto prima di acquistarlo. Lo spazio di vendita cominciò a separarsi da quello di produzione ed emerse una grande invenzione: la marca. 7. Dalla rivoluzione dei consumi alla rivoluzione industriale La rivoluzione industriale è strettamente collegata a quella del consumo e ciò che le mette in relazione è il cotone. I tessuti di cotone avevano circa lo stesso prezzo di quelli di lino ma grazie alle loro fantasie e ai colori vivaci erano in grado di imitare la bellezza della seta. Prima dell’arrivo delle stoffe indiane il vestiario era privo di cotone e di colore. Era possibile decorare il cotone a costi inferiori rispetto ad un tessuto di lana o di seta. L’enorme domanda di tessuti indiani in tutta Europa diede lo stimolo per la produzione in loco e cosi ebbe origine il cotoniero che tentava di riprodurre tessuti in puro cotone stampati come quelli indiani. Vennero sviluppati congegni meccanici che permettessero la filatura del cotone a costi modici. Nacquero cosi il filatoio ad acqua che rivoluzionò il settore tessile: non più donne e ragazze che filavano in casa ma grandi fabbriche. Poi venne inventato il telaio meccanico. Cosi nel settecento la moda diventa industria. 3. La grande rinuncia: uomini senza moda nell’Ottocento 1. Eccesso e moderazione Nel settecento la moda inglese era l’opposto di quella francese ma era quest’ultima che primeggiava poiché la moda di quel periodo era vistosa, decorata, ispirata a quella francese. È in questo periodo che emerge la figura del macarone: giovanotto vestito in maniera stravagante, bon viveur per eccellenza con il solo scopo della ricerca del piacere. 2. L’uomo in tre pezzi L’ottocento presenta non più le sete, i bottoni e le parrucche ma uomini con vestiti a tre pezzi (giacca, pantalone e gilet). Negli anni ’30 dell’ ottocento appare il pantalone moderno lungo (prima era sotto il ginocchio e chiuso con dei bottoni). I tre pezzi sono confezionati con stoffe simili o identiche dalla stessa sartoria. Gli abiti maschili sono tutti pressappoco uguali anche perché tutti di colori scuri: neri, grigi o marroni. Come nel cinquecento, è il nero a dominare la scena. Le sete e i ricami scompaiono anche per l’elites. L’uomo in nero è il protagonista della moda dell’ottocento. 3. La grande rinuncia Gli uomini rinunciarono alle varie forme di decorazione e agli sfarzi cedendoli completamente alle donne. Questa è stata la grande rinuncia del sesso maschile:abbandonare la pretesa di essere bello, preoccupandosi solo di essere pratico. L’idea di rispettabilità divenne uno dei principi guida del vestiario maschile. Il vestito a tinta unita simboleggia la uniforme dell’uomo razionale, non assoggettato alle regole della moda del passato e proiettato verso il futuro. Diviene il simbolo della modernità. 4. Produzione di massa e standardizzazione Il moderno abito maschile venne adottato da tutti, a partire dai gentleman fino al lavoratore. Ciò fu possibile grazie a grandi colossi della produzione che resero industriale la produzione del vestiario. Nell’ottocento iniziò un sistema di produzione industriale che nel novecento sfociò nella integrazione di produzione e distribuzione confezionando centinaia di migliaia di vestiti l’anno che poi venivano messi in vendita ad un prezzo accessibile per la maggior parte della popolazione. Nell’ ottocento mentre le forme di distribuzione degli abiti diventavano sempre più moderne, la produzione di abiti rimase tradizionale ma quella delle stoffe venne facilitata attraverso l’uso di grandi macchinari per la produzione. Grazie a questi la quantità di stoffe nel mercato aumentò notevolmente ed i prezzi calarono. La confezione di abiti invece per un po’ di tempo rimase manuale. La prima vera macchina da cucire venne inventata da Howe nel 1846 ne con essa cambiarono i ritmi di produzione nella confezione di abiti. La macchina da cucire divenne poi un fenomeno di massa grazie alle campagne pubblicitarie fatte. Divenne cosi un macchinario domestico, più che industriale. La macchina da cucire fece aumentare la divisione delle mansioni produttive portando alla ripetizione di specifiche azioni e rimpiazzando la manodopera esperta con una a basso prezzo. Aumentò cosi il numero di confezioni di abiti ma il sistema produttivo si basava sempre di più sullo sfruttamento intensivo di donne, bambini e immigrati sistema definito (sweating). 5. Riconsiderando la grande rinuncia Il fatto che la moda femminile fosse caratterizzata da combinazioni idiosincratiche e quella maschile fosse caratterizzata dall’abito nero a tre mezzi, non significa necessariamente che gli uomini avessero rinunciato in massa all’estetica. Lo dimostra la nascita della figura del dandy. 6. Il dandy Se il macarone settecentesco predicava l’eccesso per essere alla moda, Il dandy invece predicava la moderazione. La moda per lui era la capacità di passare inosservati. Essere ben vestito significava essere invisibile. Il dandy non è necessariamente un aristocratico o un uomo dai buoni natali, ma persegue una carriera, quella del dandy. Il dandy diviene un uomo moderno non perché incarna i principi borghesi ma perché attraverso le maniere e gli abiti decide di essere quello che vuole. Con il proprio comportamento diviene creatore di usi e costumi. È anche un uomo di moda in senso specifico: mette la forma e la perfezione estetica prima del colore, dell’ornamento e della moda stessa. quello che indossa rappresenta i principi che egli incarna, fra i quali quello della assoluta sobrietà. Come il cortigiano di secoli prima, il dandy rifiuta di apparire, di distinguersi dalle folle, trovando nella mediocritas la sua distinzione. Il dandy non è soltanto un bon viveur ma anche un uomo di cultura, perfetto non solo nell’abbigliamento ma anche nelle maniere e nell’umorismo (Honorè de Balzac, Baudelaire, Oscar Wilde). 4. La moda e l’invenzione del tempo libero tra Otto e Novecento 1. Donna e moda: una sfera a parte La donna a metà dell’Ottocento era più ingabbiata che a fine settecento: stoffe con vari supporti, gioielli, acconciature elaborate e cappelli. Questo ritorno alla moda è una sconfitta perché la donna rinuncia all’uguaglianza con l’altro sesso, ritirandosi alla vita domestica e privata. Gli uomini si occupavano di affari e politica, le donne della casa e dello shopping diventando clienti e consumatrici. È in questo periodo che nascono i grandi magazzini che diventano mete preferite delle consumatrici della classe media. 2. Riformare il vestiario La donna dell’ottocento non indossa solo il corsetto ma anche la crinolina; il tutto accompagnato da guanti, borsette, ventaglie e parasoli ecc che rendevano il movimento impossibile. Proprio per questo la crinolina divenne un simbolo visibile di classe, poiché le donne di basso rango non potevano non permettersi di essere immobili. A metà dell’ottocento in America Amelia Bloomer propose un nuovo abbigliamento femminile costituito da pantaloni larghi per garantire comfort, igiene e buona salute. Poi negli anni ’80 la riforma del vestiario da movimento dai presupposti medici, divenne simbolo di emancipazione della donna. La vera riforma del vestiario avvenne però attraverso un cambiamento sociale generato dallo sport e dalla cultura del tempo libero. 3.Sport, salute e moda lo sport è stato una delle attività che più hanno influito sullo sviluppo della moda. Nella seconda metà del secolo molte attività vengono codificate (tennis, calcio ecc) e lo sport inizia ad essere un fenomeno di massa che coinvolge le classi medie che trovano lo sport un’attività di socializzazione. Non esisteva però un guardaroba per lo sport perciò le attività erano praticate usando normali vestiti. Era quindi necessario per entrambi i sessi trovare indumenti funzionali al movimento. Nacquero impermeabili per permettere di svolgere attività da esterno cosi come indumenti per andare sulla bicicletta, mezzo di locomozione per eccellenza del novecento. Per permettere alle donne di andare in bici vennero creati gonne-pantalone a mezza gamba e i corsetti vennero sostituiti con bustini leggeri. L’andare in bici divenne quindi per loro simbolo di emancipazione. 4. Moda di massa e tempo libero Negli anni ’20 del novecento si afferma una silhouette più rilassata con calzoni corti alla zuava, calzettoni lunghi e maglioni con scollo a V. Il look del principe di Galles degli anni ’30 venne imitato in tutta Europa. È il tennis che influenza maggiormente l’abbigliamento maschile e femminile negli anni ’20 ed è in questi anni che nacquero i marchi Lacoste e Fred Perry. Tra le due guerre lo sport diventa una attività di massa e lo sport non viene più separato dalla vita quotidiana. Negli anni ’30 inizia anche il periodo della villeggiatura in località marittime: si consolida l’idea che il nuoto e che l’esposizione al sole facciano bene alla salute. Nascono i costumi da bagno creati con moderne fibre elastiche fino all’invenzione del bikini. Il corpo viene scoperto. L’abbigliamento casual diviene uno dei settori in più alta crescita alla fine della Seconda Guerra Mondiale e la California è il paese che detta questa moda. 5.Nuovi stili di vita Sono due i cambiamenti che influenzano il vestiario nel periodo tra le due guerre: la trasformazione del modo di vivere della popolazione, soprattutto quella urbana e la massificazione della moda accompagnata dalla nascita di grandi strutture industriali che vendono i loro prodotti a milioni di persone. iniziò in questo periodo il fenomeno di sub urbanizzazione , cioè lo spostamento della residenza dai centri storici verso quartieri in nuova costruzione. Nasce in contemporanea il profilo della casalinga disperata che resta a casa mentre il marito va al lavoro. La società ritiene che la donna non possa lavorare e che debba accudire i figli e prendersi cura della casa. Appaiono in questo periodo i primi elettrodomestici (lavatrice, aspirapolvere,lavastoviglie) che facilitano i compiti della casalinga ma che trasformano la padrona di casa in una domestica non retribuita. Questo cambiamento ebbe conseguenze sulla moda che divenne più funzionale (invenzione zip) per permettere alla donna di pulire casa e preparare due pasti al giorno. 6. La massificazione della moda il periodo tra le due guerre inaugura il concetto che il prodotto è per tutti. La pubblicità diventa un mezzo attraverso cui ci si rivolge a tutti i consumatori e sono proprio i prodotti di moda ad essere oggetto di una intensa campagna promozionale che propone modelli per l’uomo e la donna comuni, senza distinzioni rispetto alla classe di appartenenza. Non è solo grazie alle lotte sociali, ma è anche grazie al potere mediatico di grandi marchi e aziende di settore che si è potuto avere tale cambiamento. Le grande aziende di cosmetici fanno della bellezza un prodotto, cioè qualcosa che non esiste in natura ma che può essere creato attraverso l’uso di creme, trucchi ecc. La moda diventa collegata con la tecnologia e allo sviluppo di nuovi prodotti e materiali. 5. Le sottoculture e la moda Negli anni ’30 emerge la prima sottocultura: quella degli zoo suit caratterizzati da un vestito sproporzionato indossato dai jazzizsti ad Harlem. Tale sottocultura influenzerà l’hip hop e il rap. A Londra nacquero i ted e rocker, caratterizzati da motocicletta e giubotto di pelle e i mod che rappresentavano le classi medie in sella a lambrette e con indosso corti impermeabili. La cultura hippy invece non fu un semplice fenomeno di costume ma divenne una forma di cultura e di moda giovanile globale influenzando milioni di giovani. La cultura punk si sviluppò contemporaneamente a quella hippy e il suo stile era caratterizzato da una continuità tra il vestito e il corpo (piercing e tatuaggi). Anche la sottocultura gay negli anni ’70 ha una grande influenza ed oltre che ad essere una designazione sessuale diventa uno stile di vita con una sua moda. 6. Sottoculture nelle mani della moda La moda veniva vista da queste sottoculture come parte del progetto della cultura vigente al quale esse si oppongono. La moda veniva ritenuta da esse come parte della società moderna capitalista. Le sottoculture guardando alla moda con sdegno; la moda invece è interessata a prendere spunto o ad usare la sottocultura per fare moda tramite due processi: la diffusione e la soffusione; questo ultimo consiste in un processo di sanitizzazione dello stile, che vuole dissociare l’oggetto dal suo significato originario (lungo cappotto punk in pelle nera usato per matrix). Nei più recenti casi le sottoculture hanno preso invece spunto dalla moda (sottocultura emo). 7. L’internazionalizzazione della moda di oggi: tra lusso e moda veloce 1.Il sistema della moda Due sono i cambiamenti che hanno caratterizzato la moda negli ultimi decenni: in profondità, nel senso che non è più separata dalla vita quotidiana e in estensione, poiché sta diventando un fenomeno globale. Barthes distingue tra moda reale e moda come sistema retorico: la prima è quella che si manifesta fisicamente e socialmente, la seconda è quella rappresentata attraverso i media e in forma scritta. La moda ha quindi una dimensione immaginata che si interseca con quella reale creando il sistema della moda. 2.La nuova organizzazione della moda Oggi lo stilista non risiede necessariamente nello stesso luogo in cui avviene la produzione. Questa struttura viene chiamata moda globale caratterizzata da flussi produttivi, creativi e commerciali che si intrecciano. Si può usare anche l’aggettivo glocale ovvero l’identità dell’impresa è locale ma la sua immagine e la promozione del marchio sono globali. Tra marchio e produzione si interpone il vasto settore della distribuzione attraverso cui le grandi imprese del settore abbigliamento si adattano ai differenti contesti locali (è stato Benetton a dare inizio a questo processo).il cuore imprenditoriale del tessile-abbigliamento oggi è nelle mani di grandi imprese della distribuzione che vendono attraverso catene di negozi. È stato anche ridefinito il concetto di pret a porter attraverso due elementi:lo sviluppo dei grandi marchi di lusso, che uniscono cotoure con moda pronta, e la nascita della fast fashion che si pone l’obiettivo di offrire prezzi competitivi de localizzando la produzione nei paese extra europei prendendo idee dai brand di lusso ma realizzando capi simili a basso costo in un tempo molto breve. Secondary Sources: Satisfaction Guaranteed: The Making of the American Mass Market (Susan Strasser) Capitolo 1. La torta Americana Molti storici hanno parlato degli ultimi 40 anni del 1800 e dei primi 40 del ‘900 come di un periodo di straordinario cambiamento una fase nuova dello sviluppo economico. Durante questi anni gli usa hanno visto transitare la società da agricola ad industriale e nel contempo l’industria è stata modificata da nuovi sistemi organizzativi, nuove e avanzate tecnologie di produzione e distribuzione. Si assiste durante il sopracitato periodo alla nascita di innumerevoli nuovi prodotti, molti dei quali sono versioni confezionate di merce usata da secoli e fino ad allora venduta sfusa e senza etichetta. Via via che ci avviciniamo al ventesimo secolo sempre più americani della classe media (non per forza facoltosi) acquistano prodotti industriali. Già prima della guerra civile i tessuti fatti a macchina avevano superato in importanza economica quelli fatti in casa a mano e nel 1880 molte famiglie avevano in casa una cucina di ghisa. Tuttavia i prodotti industriali o confezionati non avevano ancora sostituito totalmente quelli in uso prima della nascita delle fabbriche, infatti ancora in molti indossavano qualche vestito fatto in casa e moltissimi cucinavano, mangiavano ancora prodotti fatti da sé o acquistati presso il produttore stesso. A cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 americani di ogni città ed estrazione sociale iniziarono a mangiare, bere, fare pulizie, indossare, sedersi ecc.. utilizzando prodotti fatti in fabbrica. Prodotti nuovi che nessuno mai aveva fatto o costruito in casa o in piccole botteghe (dentifricio, corn flakes, chewing gum, rasoi, macchine fotografiche) in quegli anni creavano le basi per nuovi consumi, abitudini, che rispecchiavano un netto cambiamento nei confronti con il passato. Tra il 1880 e il 1910 sebbene la popolazione era raddoppiata in numero l’industria americana giunse a produrre 7 volte di più ghisa, nove volte di più carta 14 volte olio di semi di cotone ecc.. perfino le persone che abitavano lontano dai negozi acquistavano la merce tramite corrispondenza attraverso ad esempio i cataloghi Sears and Montgomery Ward che riportavano l’illustrazione di quasi ogni tipo di prodotto industriale che l’America potesse offrire. La quasi totalità delle fabbriche organizzava la produzione con il metodo del “ciclo continuo” che consentiva all’industria di lavorare un grosso quantitativo di materie prime. Sia le aziende commerciali che le industrie si adoperarono per propagandare i prodotti di marca e confezionati, nacquero nuove tecniche di marketing allo scopo dapprima di vendere la nuova categoria merceologica composta da prodotti standardizzati e poi il marchio particolare. Si doveva far capire alla popolazione abituata al consumo di beni fatti in casa che i nuovi prodotti erano loro necessari pena l’esclusione dalla modernità. Pian piano si venne definendo una nuova figura quella del pubblicitario che in collaborazione con le società si prodigava ad esaminare i successi e gli insuccessi cominciando ad elaborare principi e programmi di marketing. Nacquero le prime campagne pubblicitarie e i primi piani di promozione delle vendite a tutti i livelli locali e nazionali. Venditori e venditrici mandati in ogni angolo a fare delle dimostrazioni, distribuire libri di ricette e campioncini di prodotto, organizzare corsi settimanali di cucina, articoli in riviste pubblicitarie a tiratura nazionale e annunci nei quotidiani insieme a nuovi formati della confezione del prodotto pensati per clienti specifici (quindi capacità di segmentare il mercato e di posizionamento), tutto questo con la collaborazione dei negozianti, contribuì allo strepitoso successo di Crisco un grasso di tipo vegetale della Procter and Gamble. La complessa opera di pianificazione della procter and gamble fece sì che George Frederick redattore del diffusissimo settimanale Printers’ Ink dell’industria pubblicitaria scrisse in un suo articolo intitolato pianificazione efficiente prima della pubblicità, la P&G “ha dimostrato di possedere in modo definitivo ed incontestabile un metodo di marketing della massima efficienza e la capacità di trovare nuove vie di distribuzione per un prodotto nuovo (crisco). Si veniva a creare pian piano un altro tipo di società la cui cultura stava cambiando per via dei nuovi modi di rapportarsi agli oggetti della vita quotidiana- la cultura materiale della società americana. Gli americani si trasformano da semplici clienti di botteghe e artigiani a consumatori. Sebbene le industrie non producessero prodotti di massa cercando di creare nuovi bisogni ma soltanto di vendere la merce, questa pratica influì molto sul cambiamento culturale degli americani e a loro volta le società si prodigavano al tempo stesso di capire i cambiamenti culturali per meglio aderire la loro offerta industriale. Di fronte alla massiccia produzione delle industrie che adottavano il ciclo continuo si prospettava la necessità di vendere tali enormi quantitativi di merce, diveniva essenziale la distribuzione. Al tempo la distribuzione avveniva tramite grossisti che avevano alle loro dipendenze dei commessi viaggiatori per raggiungere i dettaglianti oppure poteva succedere che le industrie contattassero direttamente i dettaglianti. Talvolta le fabbriche si integrarono costituendo società di vendita all’ingrosso oppure controllando negozi di proprietà ma tutto questo risultava più complesso. C’era un problema legato ai grossisti, e cioè che questi potevano privilegiare la vendita di prodotti concorrenti. Tutto ciò diede spinta a nuove tecniche e pratiche di marketing per fare in modo che i grossisti promuovessero i loro prodotti e non quelli dei concorrenti, si concedevano sconti sulla quantità varie promozioni. Ciò nonostante vi furono talvolta aspri contrasti tra produttori e grossisti con anche dettaglianti, l’accusa principale mossa nei confronti dei produttori che apportavano il proprio marchio sull’etichetta era che dettaglianti e grossisti non volevano essere costretti come semplici automi a vendere esclusivamente il marchio del produttore che offriva bassi margini di profitto privilegiando talvolta prodotti sfusi o senza marchio e senza reclamizzati che costavano di meno e promettevano un più alto profitto. Già alla fine del 1800 si contavano innumerevoli tipologie di rivendite al dettaglio (drogherie, rivendite generi vari , grandi catene di empori, vendite per corrispondenza, grandi magazzini, catene di negozi, negozi di generi diversi nelle zone rurali ecc..). Anche i rapporti con le merci e i venditori mutarono, soprattutto quando il prodotto di marca confezionato era venduto secondo la politica del prezzo fisso e poteva essere acquistato con il self service, precedentemente infatti il prezzo si contrattava col negoziante, si discuteva sulla qualità e così facevano i dettaglianti con i grossisti che a sua volta contrattavano con il produttore, da qui il cliente che diventa consumatore. Fino a quei tempi come ad esempio è accaduto per la P&G con Crisco non si cercava di adattare la produzione ai bisogni del consumatore ma piuttosto si cercava di adattare o ricercare i consumatori per quel tipo di prodotto, in pratica si cercava di programmare la domanda del consumatore in modo che soddisfacesse le pratiche di produzione talvolta si pensava proprio a creare una domanda di mercato, nel farlo presero sempre più piede le ricerche di mercato finalizzate alla creazione del mercato allo scopo di pianificare poi la produzione. Il prezzo diventa un elemento del mrktg mix un attributo che contraddistingue il prodotto, mentre secondo l’impostazione dell’economia classica il consumatore nella valutazione del prezzo e della qualità sceglieva tra i vari produttori concorrenti, adesso con la nuova impostazione del mercato di massa e col crescente reddito disponibile la gente avrebbe potuto permettersi di decidere i propri acquisti sulla base di considerazione che prescindevano dal prezzo. Concludendo possiamo dire che se da una parte il potere del marchio era limitato dai rapporti interpersonali tra dettaglianti e clienti dall’altra parte per favorire una chiara identificazione del marchio i produttori si servirono del proprio buon nome, della buona reputazione, favorendo i rapporti con i clienti. Capitolo 2. Il nome sull’etichetta. Già dal 1850-60 le industrie di maggior successo avevano iniziato a stampigliare sui propri prodotti il loro marchio di fabbrica, iniziavano a stabilire rapporti diretti con i propri clienti, e soprattutto per i produttori di beni costosi quali ad esempio macchine da cucire (singer) e mietitrici (McCormik) vi presentava la necessità di escogitare nuove tecniche quali il pagamento a rate e la sostituzione dell’usato. Questo tipo di produttori si occupavano direttamente della distribuzione creando distributori autorizzati, ingaggiando rappresentanti che andavano direttamente dai clienti. La politica dei marchi consentiva ai produttori di fare in modo che i consumatori surclassassero l’opinione dei dettaglianti perché attraverso la pubblicizzazione di questi marchi ormai i clienti sapevano cosa compravano e il marchio divenne sinonimo di garanzia perché i produttori se ne assumevano la responsabilità delle condizioni nelle quali venivano prodotti e in virtù di questa responsabilità i marchi costituivano la garanzia delle aspettative di qualità dei consumatori. La politica dei prodotti confezionati andava di pari passo e dipendeva molto anche dallo sviluppo tecnologico dei macchinari che creavano confezioni, le scatole o stampavano il marchio sui metalli o su alti tipi di materiale. La confezione dei prodotti apportava anche vantaggi in termine di qualità perchè consentiva di meglio conservarli nel tempo. Grazie alla confezione i vari prodotti potevano distinguersi dagli altri e i produttori invogliavano i dettaglianti a diffondere l’uso dei nuovi formati. Tuttavia c’era ancora diffidenza da parte dei consumatori verso i prodotti confezionati alimentari soprattutto perché la confezione impediva di vedere il prodotto sentirne l’odore ecc.. pertanto i fabbricanti invogliavano i dettaglianti a tenere delle dimostrazioni, degustazioni per vincere i timori legati a questi aspetti. Con lo sviluppo del concetto di marchio le società escogitarono tattiche differenti per sfruttarlo c’era chi usava lo stesso marchio per prodotti differenti anche di categoria merceologica, mentre c’era chi come P&G che ad ogni prodotto associava un marchio differente a volte in concorrenza fra loro. Le aspettative dei consumatori sulla costanza della qualità dei prodotti di marca dava inizio alla quantificazione monetaria di un nuovo concetto (intangibile) “l’avviamento d’impresa”, vale a dire la considerazione favorevole che i clienti avevano verso quel marchio, quella società e che era strettamente legata anche alla reputazione della società in questione. Nel 1870 il congresso americano approvò la prima legge sui marchi di fabbrica e già ad un anno dalla sua approvazione ne furono registrai 121. Si organizzarono anche società che avevano come scopo semplicemente quello di propagandare l’uso dei marchi, nel 1877 nacque la United States trade mark association. Nel 1898 il presidente McKinley nominò Francis Forber a capo di una commissione incaricata di modificare le leggi sui brevetti e i marchi di fabbrica. Fu stilata una relazione che comprendeva due proposte di legge e il congresso nel 1905 approvò la legislazione. La nuova legge riconosceva la registrazione del marchio di fabbrica e imponeva la distruzione delle etichette che non rispondevano ai requisiti richiesti, a differenza dei brevetti i marchi registrati non avevano scadenza, dovevano essere apportati al prodotto, essere esclusivi non adoperati da due o più persone o società e non potevano essere nomi di persona o di luoghi o parole che descrivessero il prodotto. I produttori con tutti i mezzi a loro disposizione cercarono con la pubblicità, ma non solo, di insegnare ad usare i loro prodotti di marca e di convincere che il loro uso per svariati motivi (risparmio di tempo, miglioramento dell’igiene dentaria, il poter scrivere ovunque grazie alla penna stilografica, la possibilità di immortalare momenti da ricordare con la macchina fotografica, ecc.. ecc..) a seconda del prodotto avrebbe migliorato la loro condizione. Cosi fecero gillette colgate e kodak per ricordare alcuni marchi importanti ancora oggi. L’accento era posto sulla modernità e tutti cercavano di essere moderni imitando il vicino. Alcune società esaltavano la “massa” perfino si vantavano per la quantità di pezzi venduti e per la loro enorme capacità produttiva. Altre società facevano pubblicità alle loro fabbriche pubblicando fotografie dei loro macchinari e organizzando visite in azienda, un modo per allontanare la diffidenza verso i prodotti alimentari confezionati e per creare fiducia nei consumatori che potevano finalmente toccare con mano come venivano prodotti quei beni di cui erano consumatori. C’era poi anche chi associava immagini di folletti ed elfi per dare quell’idea di magia presente nella produzione di massa. Poi ancora molte società associavano la propria immagine a personaggi reali quali poteva essere una donna anziana che incarnava la saggezza, oppure come la colgate che ricorreva a stereotipi tradizionali di olandesi del vecchio continente come le ragazze che con le loro cuffiette bianche davano quell’immagine di pulizia. Concludendo possiamo dire che lasciando in ombra le realtà del lavoro industriale e le condizioni dei lavoratori delle industrie, le immagini delle fabbriche che i produttori mettevano in circolazione e aiutavano a creare un nuovo atteggiamento verso l’industria la produzione di massa in generale. Questo atteggiamento contribuiva a creare una nuova cultura materiale: nuovi prodotti, nuovi rapporti tra i produttori di merci e la gente che le usava, e nuove consuetudini quotidiane. Le immagini positive delle merci e delle fabbriche non solo miglioravano le vendite ma contribuivano allo sviluppo di nuovi atteggiamenti verso i produttori, rafforzando le marche stesse. Capitolo 5. La programmazione dei mercati Nelle culture premoderne, i mercati erano considerati degli spazi sacri governati da divinità dotate per l’attività commerciale come ad esempio Ermes, il dio che incarnava la diffidenza e l’apprensione verso gli sconosciuti. Il confine tra mercato e società delimitava uno spazio particolare, seppur non ostile, dove avvenivano le transazioni commerciali. Il termine ha assunto i connotati dell’astrazione con l’avvento del capitalismo e la nascita dei mercati del lavoro e del denaro. Inoltre la parola veniva usate anche per identificare una particolare zona geografica (il mercato di Cleveland) o un tipo di consumatori o aziende produttrici. Nel 1900 il mercato si andò via via espandendo poiché l’obiettivo del marketing non era conquistare i segmenti ma allargare il mercato per ogni singolo prodotto a nuovi compratori. In questo clima sorse anche il problema per le aziende della distribuzione; queste capirono in fretta che c’era bisogno di rapportarsi con venditori all’ingrosso per estendere la distribuzione aldilà dei confini locali e così crearono una rete di vendita e si impegnarono in una pubblicità che aveva lo scopo finale di catturare l’attenzione dei rivenditori sui loro prodotti. Nuova distribuzione significava nel contempo anche riposizionare il prodotto rispetto alla concorrenza e ai consumatori, con nuove campagne pubblicitarie con le quali si spiegavano le diverse modalità d’utilizzo e se ne promuoveva il consumo. Tipico è il caso dell’olio d’oliva che passò da medicina e articolo di lusso a bene popolare o ancor più la storia della Coca-Cola da rimedio per il mal di testa a bevanda dal sapore gradevole. I produttori e le agenzie pubblicitarie iniziarono ad adattare prodotti e promozioni a quello che era il mercato. Le società si sforzarono dunque di suggerire continuamente ai consumatori i vari impieghi del loro prodotto estendendone talvolta anche il periodo dell'anno in cui poterlo utilizzare: il tutto attraverso la consegna di opuscoli, libri, campioni e l’organizzazione di concorsi a premi. Un altro strumento di marketing che venne utilizzato in quel periodo fu la ricerca di mercato come nel caso dell’azienda Bon Ami Company che offriva premi a chi proponesse usi migliori del suo detersivo lavorando dunque sui dati ricevuti per progettare le nuove campagne pubblicitarie. In questo stesso contesto, le imprese iniziarono a pensare alla creazione di linee o famiglie di prodotti per sfruttare sia le loro attrezzature sia le economie di scala relative alla promozione degli stessi, nonché per praticare prezzi diversi. Alcune ditte progettarono diversi prodotti destinati alle varie classi sociali, questo era uno dei principali criteri su cui molto industriali basarono la progettazione delle loro produzioni. Dovevano cercare tuttavia di non incorrere nella “cannibalizzazione” ovvero la competizione distruttiva tra beni della stessa impresa. Inoltre la situazione etnica che caratterizzava gli Stati Uniti in quegli anni fece sì che le aziende si trovassero davanti ad un bivio: “standardizzazione” o “segmentazione”? Si optò per entrambe le politiche, certo è che non era facile utilizzare ad esempio un marchio uniforme per più prodotti soprattutto per coloro che operavano su scala nazionale e mondiale. Non era semplice dal punto di vista finanziario pubblicizzare tutta la propria “artiglieria” dunque alcune imprese provvidero ad una rotazione strategica. La crescente complessità delle politiche di marketing portò all’adozione dell’analisi di mercato come strumento per preventivare e valutare la pubblicità attraverso lo studio dei dati statistici. Proprio questi permettevano di studiare le abitudini dei clienti e verificare la possibilità di creare un nuovo mercato per un nuovo prodotto. I proprietari di giornali e riviste tentavano di vendere i loro spazi per le inserzioni alle aziende offrendo documenti, relazioni, diagrammi e statistiche sui lettori così come facevano anche le numerose agenzie pubblicitarie. Si andava lentamente verso un processo di “amministrazione scientifica” della commercializzazione attraverso la programmazione dei compiti e la definizione degli standard. L’obiettivo era quello a cui puntava in quel periodo la società in generale ovvero il concetto di efficienza. La questione del marketing scientifico poggiava su un altro dibattito tipico della fine del 19 secolo: i seguaci di Adam Smith erano convinti che il mercato fosse il risultato di una serie di decisioni razionali di soggetti che operano nel loro interesse mentre altri erano convinti che il compratore fosse un essere irrazionale che non basava le sue scelte sul prezzo migliore ma che poteva essere influenzato dalla potenza del marchio. I ricercatori dunque indagavano sul ricordo dei marchi e degli slogan arrivando a chiedere direttamente al pubblico secondo modalità a premi. I nuovi principi di un marketing di successo però non si fermavano a questa distinzione ma si fondavano su un nuovo concetto di mercato come entità dinamica e malleabile in costante espansione in cui operano produttori coscienti delle possibilità di sviluppo. Capitolo 6. Vendita e promozione Verso la fine del 19 secolo erano molte le imprese che alternavano alla pubblicità diverse forme di promozione, come ad esempio le fiere internazionali che erano occasione per mostrare i propri prodotti e consegnare campioni omaggio ai clienti. Questi erano strumenti che rientravano all’interno delle “tattiche” aziendali di creazione del mercato. Ad esempio si distribuivano unitamente ai prodotti della società figurine per bambini, che sarebbero servite per persuadere la mamma, o regali da collezionare gradualmente in maniera tale da non “staccarsi” da quella marca per soddisfare il solito bisogno. Molte aziende multimarca sceglievano la strategia dei premi per i beni meno costosi affinchè si assicurassero una fetta di mercato più ampia raggiungendo coloro che altrimenti non avrebbero acquistato quel prodotto. Agli inizi del 1900 parecchie testate giornalistiche commerciali insieme ad organizzazioni di dettaglianti si opposero a questa pratica riuscendo talvolta a farla dichiarare illegale, con risultati estremamente diversificati da Stato a Stato in America. In realtà per le aziende i campioni e i premi erano l’amo che portava fior fior di gente alle fiere e alle esposizioni internazionali, strumenti promozionali che garantivano un importante ritorno in termini di vendite alle imprese. Questi eventi erano però economicamente discriminanti nel senso che i meno abbienti non potevano partecipare per via del costo d’ingresso dunque chi voleva mirare ad un pubblico più ampio virava sul semplice campione o buono omaggio come nel caso della Coca-Cola. La distribuzione di questi “regali” favoriva anche il dettagliante che otteneva una piccola percentuale oltre che premi anche per sé messi in palio dalla società per i venditori. Col passare del tempo il rapporto produttore-dettagliante si incrinò a causa dell’”invadenza” della pubblicità all’interno del punto vendita. Si iniziarono a diffondere le vetrine suggerite dalle aziende cosicchè il negoziante divenne un semplice soggetto interposto tra produttore e cliente. Un ruolo determinante era ricoperto dai venditori che ormai detenevano un certo potere contrattuale con i dettaglianti, decidevano come sistemare le esposizioni nelle vetrine e competevano tra loro per assicurarsi gli spazi nei punti vendita. Erano le stesse società ad organizzare corsi di addestramento per i loro venditori insegnando loro come comportarsi con i negozianti per suscitare interesse e persuaderli, e li stimolavano attraverso incentivi di tipo economici che poi sono alla base di molte tipologie retributive anche oggigiorno. La crescita di questa figura commerciale pian piano si frappose alla pubblicità in quanto funzione aziendale, si arrivò allo scontro dove c’era chi sosteneva l’inutilità dell’una o dell’altra funzione e chi invece credeva fermamente che dovessero collaborare in maniera alquanto stretta per un fine comune: la vendita. L’equilibrio tra queste due strumenti aziendali variava da settore a settore: i produttori di beni di largo consumo puntavano più sulla pubblicità mentre le ditte di prodotti ad acquisto meno frequente si basavano maggiormente sulle vendite. Erano due diverse strategie, chiamate ancora oggi push e pull, che il sistema moderno che si andava affermando avrebbe comunque teso a coordinare. Capitolo 7. L’evoluzione della vendita al dettaglio. Thomas Edison affermò nel 1910 che la distribuzione e la vendita erano delle macchine obsolete in quanto le ideali avrebbero dovuto consegnare in maniera tempestiva ed economica le merci ai consumatori che ne avessero bisogno. Intorno a quel periodo la distribuzione in realtà cambiò con l’avvento di 3 nuove forme di attività commerciale: il grande magazzino, la casa di vendita per corrispondenza e le catene di negozi. Queste organizzazioni riuscivano a gestire grandi quantitativi di merce e spesso combinavano produzione e distribuzione coinvolgendo nel mercato di massa i consumatori individuali. I prezzi erano stabiliti prima della vendita, in modo tale da non necessitare di abili contrattatori, e secondo un criterio di rotazione delle scorte. Altra loro peculiarità era la suddivisione del locale in reparti in maniera tale da poter a livello contabile capire quale merce tirava di più dell’altra. Questo tipo di esercizio commerciale ormai caratterizzava il centro cittadino, si facevano largo infatti le prime illuminazioni elettriche sia per le grandi città che per le piccole. Offrivano anche servizi “accessori” di contorno all’attività operativa come ad esempio sale da pranzo, toilette, poste, servizi bancari e altro così da risultare anche meta di svago per signore. Per le merci che acquisivano dai produttori riuscivano a ottenere una spartizione degli oneri pubblicitari, secondo un fenomeno che venne definito “pubblicità cooperativa”. Pur rappresentando delle grandi realtà commerciali il loro raggio d’azione rimaneva locale, in quanto finchè gli agricoltori non iniziarono a recarsi in città per le spese, entravano in contatto con la produzione di massa solo attraverso i cataloghi via posta. Il boom di queste vendite per corrispondenza fu una delle cause di protesta da parte dei commercianti locali, come già era accaduto in occasione dell’affermazione dei grandi magazzini. I negozianti delle piccole città che si riunivano in organizzazioni commerciali per spingere la società verso il progresso non volevano o non riuscivano ad ammettere a loro stessi che le nuove strade e tutte le varie nuove tecniche di commercio di massa rientravano all’interno di questo stesso concetto quale è la crescita economico-sociale. Il cosiddetto movimento per la protezione del pubblico dal grande commercio rivolse pesanti critiche alle catene di negozi affermando che la loro attività era dominata da Wall Street e gli interessi a essa collegati. Le catene avevano molti aspetti in comune con le altre due tipologie di commercializzazione in auge in quel periodo: tra questi senz’altro la manodopera a basso costo possibile grazie a metodi di lavoro standardizzati fino a schiacciare addirittura l’individualità di un dirigente. I dipendenti delle catene dovevano gestire ingenti quantità di merci e a seconda del settore o del volume d’affari variava il numero di rinnovi annuali delle scorte. Queste grandi catene ubicavano i loro punti vendita in maniera non casuale ma ponderando diverse variabili, come ad esempio l’affollamento della zona, ed acquistavano fabbricati in maniera strategica talvolta utilizzandoli unitamente anche come uffici. Occorre far notare come questi soggetti economici detenevano una potente forza contrattuale verso produttori e grossisti che li mettevano nelle condizioni di approvvigionarsi con meno costi e maggiori dilazioni di pagamento oltre a godere di vantaggi fiscali. Tutto ciò permetteva di praticare prezzi più bassi e ovviamente accaparrarsi una fetta di mercato più ampia. Il risultato era una posizione di netto vantaggio rispetto ai dettaglianti indipendenti che dovevano combattere con le loro forze. Questa facoltà di praticare prezzi inferiori urtò alla lunga anche i produttori in quanto poteva esser messa in discussione la qualità dei loro beni che divenivano in quel modo sostituibili con altre marche commerciali. Alcuni di loro si schierarono a favore della distribuzione tradizionale, altri pur riconoscendo il potere delle catene non ritenevano di preoccuparsi seriamente. La conseguenza più diretta di questo andazzo era l’eliminazione della figura del grossista il quale si schierò a difesa del piccolo negoziante talvolta rilevandolo finanziariamente per evitarne il fallimento, in altri casi istruendolo a dovere sulle nuove tecniche commerciali moderne: ad esempio l’adozione di prezzi fissi e l’esposizione degli stessi sugli scaffali che avrebbe permesso di risparmiare tempo e garantire più chiarezza e libertà al cliente. Un'altra grande pecca dei commercianti dell’epoca era la mancanza di rotazione delle scorte che causava un affollamento di magazzino e acquisti esagerati di merce da parte del dettagliante. Si iniziò così a sentir parlare di sistemi di gestione del magazzino per una rotazione più efficiente. I piccoli dettaglianti non emettevano tra l’altro né scontrini né ricevute quindi non avevano traccia delle loro transazioni e non potevano effettivamente constatare la loro posizione economico-finanziaria. Tutti iniziarono a capire l’importanza che potesse avere per loro un sistema contabile che, seppur di difficile introduzione, si fece pian piano largo nel commercio perché avrebbe portato innumerevoli vantaggi sia ai negozianti che agli istituti di credito che concedevano loro prestiti. Un’altra diatriba concerneva l’eliminazione o meno dei servizi al cliente come quello di consegna agli agricoltori nelle zone rurali e si affiancava all’interrogativo su quale fosse il metodo da utilizzare nelle vendite ai clienti tra la concessione del credito e il pagamento in contanti. I pareri di consulenti, grandi aziende ed associazioni erano in questi frangenti estremamente discordanti e lontani. Questa situazione portò al boom dei bollini che i dettaglianti iniziarono a distribuire ai clienti dando vita ad un’estenuante battaglia legale culminata con la sentenza della Corte Suprema che dava allo Stato il diritto di regolare bollini e sistemi a premio. In questi anni poi, i consulenti spostarono l’attenzione dei negozianti sull’aspetto visivo offerto dal punto vendita, in particolare delle nuove aperture. I nuovi assetti favorivano il “self-service” che permetteva di ridurre il numero di commessi e garantiva, attraverso la visione della merce, maggiori vendite e rotazione; soprattutto nel caso dei nuovi Supermarket nati in periferia con ampi parcheggi esterni per la clientela. La proliferazione della distribuzione di massa sotto diverse forme andava sempre più contro l’interesse del piccolo dettagliante che faticava ad opporsi ai prezzi più bassi praticati dalle catene di negozi ecc. Capitolo 8. La strategia dei prodotti confezionati Nei primi anni del 1900, in America si respirava aria di “progresso”. Molti erano convinti che tutto procedesse a gonfie vele e le fiere erano piene di coloro che accorrevano per apprezzare i passi avanti della tecnologia. Il mondo degli affari si sforzava di influenzare sia la collettività che le forze politiche unendosi in associazioni che esercitavano pressioni lobbistiche e fornivano servizi ai propri membri. Una delle principali questioni erano le merci confezionate e di marca: si discusse a lungo sulla responsabilità dei produttori riguardo all’idoneità dei loro beni e ai diritti di commercializzazione ad essi spettanti. Il tema scottante quanto attuale riguardava la genuinità dei cibi che venivano prodotti attraverso processi sempre meno chiari dato che lo sviluppo dell’economia andava sempre più verso la produzione di massa a scapito della casalinga. Due difficoltà importanti derivarono dai due principi base del movimento:  Sistema di classificazione: la modalità di selezione dei membri, che avveniva scegliendo il massimo esponente delle principali professioni del luogo.  Il servizio: un concetto di servizio alla comunità di difficile inquadratura, che comportava l’oculatezza nel non eccedere con l’altruismo per evitare di ledere interessi politici o privati di terzi. I progetti realizzati erano dunque piccoli interventi di edilizia civile, che non scavalcavano alcuna autorità ma che restituivano all’associazione voce in capitolo sullo spazio pubblico. 1.2 Nel 1912, i delegati dei 42 Rotary sparsi nel mondo si proclamarono Associazione Internazionale dei Rotary Club. In seguito, nel 1916, si votò per la costituzione di un club in ogni centro commerciale nel mondo. Finchè i Rotary non approdarono anche nell’Europa continentale (in precedenza solo le isole anglofone ne presero parte) a Ostenda, città costiera belga vicina al porto di Anversa e dunque facilmente collegabile., che difatti unì i continenti rotariani nel congresso del 1917 nella stessa città. I tedeschi, tuttavia, restarono a lungo esclusi dal progetto rotariano, ancora sfiduciati dopo l’esperienza della Grande Guerra nonostante tentativi di reintegrazione da parte di americani e inglesi in nome degli affari. Molti si preoccupavano della proliferazione dei Rotary qualora i tedeschi avessero cominciato ad affiliarsi, poiché noti al mondo per la loro capacità associazionista. SI cercò allora un primo approccio per includere la Germania partendo dai pareri dei paesi ad essa confinanti, per poi ammettere alla prova Amburgo, città nota per l’etica e dotata di un’aristocrazia che si pensava potesse rendersi garante dei propri concittadini. Da lì in poi, si diffusero club in tutta la Germania. Le ragioni che spinsero un popolo tanto differente dalla società americana ad accettare i valori rotariani sono diverse e profonde. In primis, la necessità di ricongiungersi con la società delle nazioni che aveva messo da parte i tedeschi a causa della guerra: rinnovare l’import-export e rivitalizzare l’economia del paese, nonché sconfiggere l’ostilità verso un popolo tacciato di esser guerrafondaio e violento. In secundis, il Rotary proponeva un concetto di élite aperta, dove a forme di riverenza si accompagnavano gesti di intimità come l’appellativo personale. Infine, la rigorosità delle procedure applicate ad ogni contesto di vita associativa e il coinvolgimento attivo dei membri richiesto conquistarono subito il cuore del popolo teutonico. In quel momento, poi, in Germania viveva una generazione nata durante la fondazione dello stato tedesco e che si ritrovava maggiorenne in un momento storico favorevole allo stato, e che sposarono la causa della lotta alla senescenza delle associazioni, composte prima solo di veterani di guerra. Insomma: i tedeschi colsero l’occasione Rotary per rimettersi in sesto, con una partecipazione attiva e fremente alle riunioni. Tuttavia, il Rotary tedesco divenne un veicolo di critica verso il dilagante americanismo che rischiava di contaminare la visione aulica ed esteta del mondo con una prospettiva troppo concreta e di bassa levatura. Inoltre, i tedeschi si sentivano diversi sia dagli americani che dagli europei stessi. Il Rotary in Germania si proponeva non di emulare, ma ad assurgere a modello con la propria compattezza, vitalità interna e profonda convinzione negli ideali: elementi che davano ai membri una classe inimitabile e che accrescevano la convinzione di essere superiori. 1.3. La forza delle procedure Il Rotary aveva proiettato gli americani in un mondo troppo eterogeneo e diverso, con modalità di socializzazione dalle dinamiche differenti . Al contempo, aveva ottenebrato la facoltà degli americani di comprendere tale diversità. Per essi, nel mondo si condividevano le stesse procedure standardizzate, ed era un bene che così si continuasse. Per gli europei, invece, ogni Rotary doveva personalizzarsi. Il Rotary cercava di dimostrarsi egualitario e trasparente, con un governo retto dal consiglio direttivo composto da 14 membri, che si riunivano due volte l’anno a Chicago. Anche se tendenzialmente favorevole alle scelte dei fondatori americani, il direttivo accoglieva suggerimenti da ogni dove e vide, dagli anni 30 in poi, la rappresentanza europea in continuo aumento. Nonostante ciò, il processo decisionale restava sempre appannaggio del segretario generale Charles Perry e dei membri del direttivo (americanofili), che perseguivano l’obiettivo dell’unificazione mondiale attraverso il club. Per far ciò, si cercava di ampliare il numero e l’estensione dei Rotary club, ma preoccupandosi di non urtare la sensibilità delle altre nazioni: la proposta avanzata da altri stati veniva accolta, spesso poi finiva nel dimenticatoio per cause intrinseche. L’ufficio europeo del Rotary venne posto in Svizzera, a Zurigo, per mostrare la distanza dalla Società delle Nazioni con sede a Ginevra e per avvicinarsi alla parte francofona dell’Europa. Il Rotary internazionale ebbe successo grazie alla burocrazia: si nominavano vari Comitati a seconda delle proposte e si faceva in modo che le conclusioni tratte, benchè uguali a quelle che avrebbero preso i piani alti, sembrassero opera delle nazioni proponenti. Praticamente, gli europei venivano supervisionati senza che essi se ne accorgessero. Il controllo dei rotary europei derivava dal carattere particolare di ogni Rotary europeo, che emergeva in maniera forte come nel Rotary Tedesco o quello Inglese (il RIBI – Rotary International of the British Isles). Lo stesso RIBI aveva ormai vita propria e indipendente di cui il Rotary americano nulla sapeva, e violava lo statuto secondo cui i distretti, le aggregazioni di club di una Nazione, non potevano coincidere con la Nazione stessa. Il modello Italiano fu una particolarità, poiché preservo un carattere fortemente aristocratico e snob, legandosi persino al regime fascista. Il problema divenne alla fine trovare una terza via tra autonomia totale e globalismo americano. 1.4. Parlare europeo con accento americano Grande problema costituì la traduzione nelle varie lingue e culture dei testi contenenti principi e informazioni importanti sul movimento. L’Inglese era già lingua dominante, ma grandissima parte del resto del mondo parlava altre lingue come il francese e lo spagnolo. In più, il nascere di nuove lingue con la nascita di nuovi stati (es:il ceco) e la comparsa di nuovi gerghi legati a nuove professioni (es: il cinema), nonché l’iniziale opposizione degli stati che non volevano vedersi superare dagli anglofoni, resero difficile la traduzione dei vocaboli più significativi. Una battaglia terminologica si ebbe sul principio di classificazione, con una lista universale di professioni (ne conteneva migliaia) che presentava ordini sfalsati tra le parole a seconda della traduzione (in inglese Building e Burials vanno assieme, in italiano i corrispettivi Edilizia e Onoranze Funebri no!), e la presenza della voce Religione che veniva vista come lavoro vero e proprio. Gli stati cercavano di ottenere deroghe alla classificazione cercando di inserire nell’elenco professionalità che rispecchiassero l’unicità del proprio territorio (es: Vichy e i chirurghi plastici, mentre in Italia i principi venivano interpretati per dar posto nel club a prìncipi e fascisti. 1.5. La Chiesa degli uomini d’affari Il Rotary si voleva ecumenico come la società americana, ma la maggior parte dei soci era protestante e il principio del servizio era infarcito di richiami religiosi. Si parlava di fede rotariana, quindi: un codice etico al quale ispirarsi negli affari intriso di morale religiosa, seppure senza elementi di fervore e fanatismo. Per vent’anni il Rotary eluse la sorveglianza della compagnia di Gesù, vigilante su casi sospetti sul piano religioso, ma nel 1927 venne denunciato in quanto circolo d’affari in preda a vizi frivoli e ipocrisia morale. Il Vaticano si pronunciò poco dopo, vietando ad ogni sacerdote l’adesione al club. Una reazione forte a causa del periodo di riforme introdotte dal Papa Pio IX che, dopo aver ottenuto il riconoscimento dello Stato del vaticano, era impegnato a legittimare il potere temporale della chiesa e la sua figura di guida spirituale. Gli americani erano visti portatori di movimenti laici dalla dubbia etica e fautori di un’espansione economica tramite lo sfruttamento della morale Gli europei chiesero agli americani di mediare con il Vaticano: inizia una trattativa per mettere in buona luce il movimento e dimostrare la loro non ingerenza sul piano religioso, citando la buona fede di alcuni illustri rotariani e appellandosi alla liberta di pensiero. Molti cattolici rotariani di rango elevato intervennero poi pubblicamente a far da testimone. 1.6. Oltre il limite Il limite che sorgeva alla diffusione dei rotary in Europa era la spinta dei governi al nazionalismo, non all’internazionalismo. Se per gli americani era scontato, per gli stati europei si doveva ribadire come la fedeltà al proprio Paese fosse premessa necessaria all’internazionalizzazione. Tale dualismo risaltò con l’ascesa di Hitler, che impose l’uscita di ogni dipendente pubblico e di ogni tesserato Nazista dal club. Da lì in poi, i Rotary persero moltissimi membri, sia per il diktat che per le leggi razziali che imposero agli ebrei di abbandonare l’associazione. Per sopravvivere al Terzo Reich, al rotarianesimo tedesco occorreva il riconoscimento del nuovo regime e abbassarsi dinanzi ad esso, nonostante l’estrazione elitaria dei membri. Si cercò di mediare col governo, dimostrando che il club non era covo di massoni e che non resisteva più alcun ebreo all’interno, salvo forse nei Rotary esteri. In più, venne chiarito lo stampo nazionalista del Rotary definito “tedesco”. Nonostante gli sforzi, tuttavia, venne infine dichiarata l’incompatibilità tra Rotary e Partito Nazista, per cui i cittadini dovevano scegliere a chi restare fedeli: il Rotary tedesco si sciolse poco dopo. Mussolini, legato al Reich e isolato dalle altre potenze mondiali, cominciò a condannare il cosmopolitismo e l’internazionalizzazione; dopodichè, con le leggi razziali che espulsero i non ariani dalle associazioni, si arrivò allo scioglimento, con l’Italia sempre più allineata alla Germania. Molti rotariani continuarono ad incontrarsi ancora, cambiando continuamente luogo dell’incontro per non incappare in controlli e destare sospetti, fino a quando la Seconda Guerra non portò distruzione e rovina. Capitolo 2 Il tema dello standard di vita era un argomento molto in voga nelle discussioni americane ed europee: dagli uomini d’affari come Hiller al capo del nazionalsocialismo Hitler, si chiedevano tutti quale il livello di sussistenza da dover garantire al cittadino. Il Furer rimase stregato dalla figura di Henry Ford, ma altrettanto preoccupato che la sua politica di salari alti e prodotti economici e di qualità potesse diffondersi anche in Germania: se l’economia tedesca ne avesse giovato, le sue previsioni nere sul futuro teutonico si sarebbero rivelate fallaci e lui sarebbe finito nel dimenticatoio. Ma il tema dello standard di vita comparve già nei primi del ‘900, quando nacque attorno ad esso una vera e propria scienza umanistica, spinta sia da ideali di giustizia che dal desiderio di stabilità economica o di sviluppo del proprio paese. Inoltre, lo standard di vita era una questione rilevante politicamente in quanto oggetto del contendersi delle grandi potenze economiche, desiderose di assurgere a modello. Se per gli USA, veri propulsori dell’argomento, uno standard di vita elevato portava conseguenze positive sia per la propria economia che per il mondo intero, Hitler vedeva nel suo diffondersi la causa di invidie verso i paesi più benestanti. Mentre in Usa si pensava che la produttività aumentata dalle tecnologie avrebbe diffuso il benessere, per il Furer invece avrebbe generato gap tra cittadini che, unito al pensiero nefasto di una crescita demografica non proporzionata all’aumento di risorse, avrebbe condannato il popolo tedesco all’estinzione. Per il capo nazista, si sarebbe scatenata una guerra per la sussistenza tra nazioni, soprattutto dopo la Grande Guerra che aveva spostato l’asse dei mercati verso il Nuovo Mondo americano. Dal canto suo, l’America mirava a definire uno standard di vita elevato per proporre una società egalitaria, in cui il rango fosse acquistabile non per diritto di sangue ma tramite il reddito e che fosse, dunque, aperto sostanzialmente a tutti. In Europa, invece, ciò veniva considerato causa di una distorsione della morale degli operai, proponendo nuovi bisogni e modelli di comportamento quotidiano. 2.1 Detroit assurge a metro per tutta l’Europa Nel 1920 venne formato a Ginevra l’OIL, Organizzazione internazionale del lavoro, per far fronte alla problematica del lavoro e dello standard di vita. Albert Thomas, socialista francese a capo dell’organizzazione, fu incaricato di procedere al primo tentativo di raffrontare sistematicamente le condizioni di vita dei lavoratori di Europa e Stati Uniti del XX secolo, nonostante le sue ritrosie iniziali. Infatti, venne incaricato dalla Ford Motor Company poiché la compagnia voleva capire come retribuire i lavoratori delle sedi nuove o in procinto di aprire sparse per l’Europa in rapporto ad un pari grado di Detroit. Il fatto che un’azienda americana avesse chiesto aiuto all’Europa era già strano, poiché gli USA si erano sempre isolati dalle organizzazioni della Società delle Nazioni (di cui la OIL era una correlata) di fatto escludendosi da numerosi accordi internazionali. In più, Thomas era preoccupato che la mole di lavoro fosse troppo gravosa, perché i dati relativi ai consumi erano frammentari quando non inesistenti, e ciò comportava fare la spola tra le varie nazioni oggetto di analisi in soli 6 mesi (termine ultimo dato dalla Ford). La Oil nutriva dubbi sull’utilità dello studio e non sembrava avere i mezzi necessari per terminarlo; tuttavia, decise di accettare la proposta poiché tale operazione venne dipinta come avanguardista dal New York Times e soprattutto perchè il magnate Edward Filene decise di patrocinare l’operazione tramite un fondo da lui capeggiato. Nonostante le possibilità offerte, la richiesta rimaneva comunque tediosa, poiché il fondo patrocinante pretendeva di dettare le condizioni di svolgimento della ricerca, in nome dell’autorevolezza. Molti europei di qualsiasi colore politico o occupazione erano timorosi per l’operazione, perché non credevano possibile replicare le tecniche di vendita americane e garantire gli stessi salari nel contesto europeo, col rischio di inimicarsi i lavoratori qualora fosse risultato il loro standard inferiore e questo non venisse ritoccato in seguito. Thomas, comunque, procedette in virtù di interesse scientifico e politico (lottava da sempre per i lavoratori). Ma da subito si capiva che nessuno sapeva con precisione quale fosse lo standard di vita dell’operaio della Ford di Detroit, nonostante le pressioni da parte dell’azienda che gli impiegati spendessero il proprio guadagno. Le scelte di consumo dipendevano ormai dalla società stessa, per cui chiesero aiuto a due istituti per la ricerca statistica americani: dapprima si cercò di determinare il budget del guadagno dedicato alla famiglia, poi in che modo gli operai spendessero il reddito. Sia i ricercatori americani che quelli sparsi in Europa ebbero però vita assai difficile, anche perché si dovevano confrontare stili di vita diversi e abitudini culinarie e nutrizionali differenti. In più, era un brutto periodo per le spedizioni internazionali, osteggiate da molti paesi. Si scoprì che l’operaio americano spendeva in maniera opulenta, mentre il corrispettivo europeo viveva arrangiandosi parsimoniosamente. Dopo due anni dall’inizio ufficiale, lo studio venne alla luce: era ormai, tuttavia, già superato, poiché l’economia americana viveva un brutto periodo e persino la Ford aveva dovuto licenziare operai e aumentare la produttività richiesta. La portata dello studio, anche per controversie interne al direttivo, venne ridimensionata molto e proposta come un contributo allo studio sul tema, mentre la crisi successiva finì per metterlo del tutto da parte. La sinistra di Blum applicò il New Deal e intraprese interventi volti a migliorare produzione agricola e stimolare l’occupazione; tuttavia, si andò incontro alla svalutazione del franco e alla crisi finanziaria con annessa caduta del governo. La destra nazista, invece, iniziò una sperimentazione sui consumi guidati, propugnando il modello ariano- tedesco come contralto di quello americano. Innanzitutto, si praticò l’autarchia, spingendo fortemente sul mercato il prodotto surrogato e proponendo l’acquisto “tedesco” piuttosto che beni importati. Il dirigismo dei consumi vedeva nelle merci innovative grande visibilità politica: il progetto Volksvagen prese vita tramite un piano di finanziamenti sottoscritti dai compratori, nonostante la Seconda Guerra gettò tali cifre stanziate alle ortiche. Inoltre, il consumo guidato razionava anche i generi di prima necessità, come i vestiti che venivano prodotti non con fibre importate, ma con nuove fibre sostitutive prodotte in Germania, o come ancora l’introduzione della tessera punti in base al quale ogni persona aveva diritto a vestiti per quanti punti aveva a disposizione. Anche il concetto di standard venne revisionato: esso divenne sinonimo di salute e dignità di razza. I beni che lo Stato si premurava di elargire ai cittadini erano dunque le cure e l’accesso alla cultura. Infine, la tremenda suddivisione del popolo rendeva facile scremare la popolazione da tutelare e quella da lasciar morire (i non ariani). Nel 1942, apogeo del nazismo, tale ideale di consumo iniziava a prendere piede anche al di fuori dello stato tedesco: la propaganda nazista prometteva che l’unione europea sotto l’ala teutonica avrebbe portato al miglioramento economico continentale e la stessa Germania avrebbe servito questa causa. Ma in realtà, lo standard di vita promulgato dai nazisti dimostrò soltanto che esso poteva abbassarsi a piacimento, senza cura per le necessità umane. Capitolo 3 Edward Filene era un facoltoso uomo d’affari americano, abilissimo nella promozione della sua immagine e proprietario di diversi empori. Quando divenne presidente a vita dei propri magazzini, quindi estromesso dalla gestione, iniziò a girare il mondo per divulgare le proprie idee sul lavoro, anche tramite il Twentieth Century Fund da lui istituito e che fu il patrocinante dello famoso studio della OIL sullo standard di vita. Era una filantropo dedito alla causa della democratizzazione dei consumi, molto eurocentrico tant’è che girando il Vecchio Continente ebbe la possibilità di provare nuove idee e promuovere i propri progetti di parificazione dello standard di vita. Aveva, tra l’altro, una rete di contatti da fare invidia a Ford in persona e che permise lui di ottenere risultati ragguardevoli. Filene era convinto che il grande problema americano fosse la necessità di una migliore distribuzione di una produzione ormai pressoché illimitata, ma al contrario delle precedenti visioni sull’argomento egli ritenne che la distribuzione fosse ormai guidata dai distributori e dai consumatori. In un’ottica di marketing, Filene riteneva che bisognava intervenire non più sulla produzione, ma su tutti gli elementi capaci di influenzare le scelte del consumatore, come il packaging. Un rovesciamento che finì per ledere la stessa immagine del fordismo, ormai non più al passo coi tempi. L’internazionalismo di Filene, che proponeva il libero scambio di prassi e tecnologie per combattere le oscillazioni economiche, e il suo modo di vedere il consumo portarono invece l’America ad un’egemonia che durò fino agli anni ’70. Ford, fu molto influenzato dal suo antisemitismo, nonostante fosse abbastanza furbo da sconfessare le sue esternazioni pubbliche in tal senso a fronte di una minaccia di boicottaggio dei consumatori. Egli fu molto inviso agli antisemiti europei che lo vedevano una figura forte, capace di non cedere agli intrallazzi della Borsa e alle manipolazioni pubblicitarie. Anche l’ebraismo di Filene influenzò le sue vedute, poiché non riuscì mai a comprendere la portata dell’antisemitismo europeo fino all’ascesa del nazionalsocialismo, ma allo stesso tempo permetteva di intrecciare una fitta rete di scambi trainati proprio dall’abbracciare la comunità ebraica. 3.1 La rivoluzione nella distribuzione La distribuzione rappresentava un problema perché il mercato non riusciva più a rendere ragione delle innumerevoli attività che si frapponevano tra produzione e consumo. In più, i produttori cercavano di eliminare gli intermediari (grossisti che gestivano le scorte), mentre i distributori puntavano a rifornirsi direttamente dal produttore e i consumatori erano messi in condizione di vendere tramite le cooperative. Tra l’altro, la distribuzione comprendeva anche altre attività oltre che quella di smercio, come la scelta delle sedi di stoccaggio, delle tecniche di commercializzazione o la scelta del packaging. Il problema distribuzione fu identificato come problema generale del capitalismo immediatamente dopo la Grande Guerra, col mercato in favore degli acquirenti e la vendita dominata da grossi trust che vendevano al dettaglio per avvicinarsi all’utente, estromettendo i grossisti e i dettaglianti locali. Con il decrescere della domanda che superava la produzione, venne poi il turno dei dettaglianti, che tuttavia avevano un problema di immagine col cliente in quanto dovevano legittimare la propria utilità e togliersi di dosso le accuse di essere responsabili dei ricarichi sul prezzo e del lento progredire della distribuzione. I dettaglianti dovevano comprendere cosa voleva il consumatore, e Filene propose tre innovazioni: razionale uso del capitale mediante economie di scala nelle vendite; migliore addestramento della forza vendita; sviluppo di una prassi commerciale. Tutti questi concetti confluirono nella catena di negozi, che riuniva sapere manageriale, capitali e decisioni in un’unica sede amministrativa ma che si esplicava in numerose attività sparse per il territorio. Ciò permise economie di approvvigionamento efficienti e a diffondere il modello distributivo americano anche in Europa. In America ciò avvenne perché il bacino di acquirenti era virtualmente inesauribile e la grande distribuzione riuscì a spuntarla anche contro altri modalità di vendita (come per corrispondenza) grazie al volume di affari che creava attorno al suo approvvigionamento. In più, sconfisse il negozio “specializzato” grazie alla competenza dei venditori e al vasto assortimento di beni. I grandi magazzini erano in concorrenza tra loro, non coi piccoli dettaglianti, che avevano più possibilità rispetto alla controparte europea. La figura del commerciante era diventata di tutto rispetto in America, in assenza anche di una cultura aristocratica che la criticasse, e acquisì una notevole influenza in politica nei primi del ‘900. Le élite commerciali acquisirono fiducia in sé, potere e risorse necessarie ad alleanze e a schierarsi a favore della tutela dei consumatori. Inoltre, il censimento sulla distribuzione raccolto nel 1930, mostrò come gli USA fossero patria di enormi società di distribuzione, e che le numerose iniziative volte a favore dei piccoli commercianti finivano spesso nel nulla. La rivoluzione distributiva creò il fenomeno della middleness, ovvero la crescita del ceto medio con cui le imprese dialogavano, quei 3/5 do popolazione che spendevano il proprio reddito in beni di consumo di massa (quando non nel lusso). Le catene di negozi erano al centro tra i negozi specializzati e quelli di lusso, e sottraevano clienti a entrambi. Molti si chiedevano se la grande distribuzione in Europa avrebbe avuto le stesse sorti. Alcuni si dimostravano ottimisti, altri evidenziavano alcune differenze (come l’assenza di grandi magazzini e dell’acquisto per posta), ma in generale si tendeva a vedere le situazioni del Vecchio e Nuovo Continente come convergenti, anche se con velocità diverse dovute alla guerra. 3.2 Il duplice volto della distribuzione al dettaglio in Europa In Europa si verificò una massiccia reazione sociale a qualsiasi cambiamento nei consumi, che si accanì contro le catene di negozi descritte prima. Le modalità di distribuzione comuni in Europa, il grande magazzino e la bottega sotto casa, rispecchiavano la stratificazione per status della società europea, in cui la prima era in cima alla piramide distributiva (attirando i borghesi), l’altra era la base della stessa piramide ed attingeva clientela dai ceti bassi. Il grande magazzino faceva affari col mondo, il piccolo commerciante non aveva idea della situazione economica e delle sue oscillazioni. L’affermarsi del grande magazzino fu agevolato dall’ascesa dei primi del ‘900, nelle città principali, della borghesia, e definirono dunque quello che venne definito stile di vita borghese. La loro ubicazione causava la ridefinizione degli spazi cittadini in quanto mobilitavano le masse e costringevano gli altri esercizi al trasferimento; in più, il grande magazzino diede vita ad un nuovo rapporto con l’acquisto, ovvero l’esposizione sontuosa dell’articolo, soprattutto del cartellino del prezzo. Ciò eliminava la contrattazione che in precedenza costituiva l’anima degli affari e ribadiva lo stile borghese dell’esperienza di consumo. Infine, il libero scambio di merci portava i responsabili degli acquisti a rifornire il magazzino di merce esotica e cianfrusaglie, che trovavano collezionisti raffinati ed altolocati pronti all’acquisto. Gli stessi americani presero esempio dall’assortimento dei grandi magazzini europei per riproporlo nei propri. Tuttavia, il grande magazzino rafforzava le distinzioni sociali all’interno della stessa borghesia. Il capo del grande magazzino si vide protagonista di una scalata sociale, mentre il proprietario di un negozio specializzato, per quanto di lusso potesse essere, rimase sempre una realtà piccolo-borghese. I rapporti tra direttore e dipendenti sfiorava la servitù a sfavore degli ultimi, che venivano anche addestrati a riconoscere l’acquirente facoltoso da quello meno abbiente in modo da tributare le giuste attenzioni a chi avesse più potere d’acquisto. In più, il commerciante era ancora visto con sfavore, considerato meno nobile del produttore in quanto vendere costituiva qualcosa di moralmente disdicevole, nonostante i magnati dei grandi magazzini fossero persone di cultura, ricche e rilevanti. La diffidenza verso i grandi magazzini, visti come covo di speculatori finanziari, si accentuò durante la I Guerra Mondiale, quando si trasformò in scontro ideologico e in Prussia si assistette ad una propaganda contro la Gran Bretagna tacciata di essere patria di mercanti. L’Inghilterra veniva dipinta come retta su logiche spietate di contratto, mentre la Germania era ancora ancorata ad ideali etici anticapitalistici. In più, la maggior parte dei teorici nazisti (ma era un sentore comune in Europa) consideravano i grandi magazzini come esercizi dove il commercio era in mano agli ebrei. C’era anche da risolvere la questione del rapporto con i piccoli dettaglianti: essi erano localizzati, incuranti dell’economia globale, variegati, ancorati a regolamenti comunali e tradizioni familiari, mostravano una resistenza sorprendente a fenomeni ritenuti inesorabili come le economia di scala. La vera forza dei dettaglianti era il rapporto umano che instauravano col cliente, decidendo il prezzo in base al giusto profitto (e non secondo le leggi di mercato) dopo averlo contrattato ed elargendo favori, regalie e sconti a clienti particolari o affezionati. In tal modo, la loro immagine era solida e affidabile. Tra le due guerre, la posizione del grande magazzino cominciò a vacillare e i piccoli esercenti spinsero per vedersi riconosciuto il loro ruolo di spina dorsale dell’economia e valida alternativa per il ceto medio. In questa contingenza, apparve la terza via sotto forma di catena di negozi. Per il grande magazzino, la Depressione portò un calo di consumi e di reddito, nonché l’impossibilità sia di cambiare target per non perdere la clientela storica rimasta, sia di aumentare i prezzi in virtù della diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori. Per il piccolo esercente, i tempi erano ancora più duri: i dettaglianti proliferavano a dismisura ed erano molto divisi all’interno, con un estremo nel negozio specializzato (che riusciva a reggere la concorrenza delle moderne forme di distribuzione) e l’altro nel minuscolo negozio del fruttivendolo o del robivecchi, che viveva di piccoli espedienti e baratto. Con l’introduzione della prima cassa automatica, rivoluzione americana che permise di tenere in modo preciso i conti, il piccolo dettagliante non poteva più affermare il ruolo di supremazia in un mercato che, oltre alle scoperte tecnologiche, si dimostrava sempre più in mano ai consumatori. 3.3 La sfida dei bazar Dall’estero arrivò una novità destinata a suscitare parecchie proteste: il negozio che vendeva un po’ di tutto, conosciuto come “negozio a prezzi fissi” nel mondo (con diverse traduzioni nazionali). Essi proponevano due fasce di prezzo, variabili a seconda dello stato, in cui rientrava ogni oggetto venduto, ed avevano una forma societaria che permetteva la gestione di parecchie filiali sparse. La caratteristica principale di questi bazar, oltre ala politica dei prezzi, era nel vasto assortimento di articoli e nell’assistenza in negozio ridotta all’osso (eliminando del tutto rese e consegne a domicilio). In Europa, essi arrivarono grazie alla catena Woolworth, considerata in America importante come lo è la Coca Cola per le bibite, che portò i suoi negozi in Inghilterra ed in seguito in Germania, nel periodo tra le due guerre. Nello stato teutonico, la diffidenza verso l’estero fu placata dal fatto che tutti i direttori di filiale fossero tedeschi, mentre cadevano anche le accuse di speculazione finanziaria grazie al pagamento in contanti dei fornitori e al rifornimento delle merci in Germania. I dettaglianti europei si erano attrezzati per difendersi dagli attacchi del bazar Woolworth quando era nell’aria la loro idea di attraversare l’oceano: cercarono di ristabilire un rapporto qualità-prezzo che soddisfasse il maggior numero possibile di clienti. Anche in Francia ci fu un proliferare di bazar dopo l’esempio tedesco, nonostante le industrie francesi non garantivano risorse sufficienti a praticare gli stessi prezzi delle catene straniere. Le nuove realtà commerciali del bazar spostavano il baricentro del commercio dalle grandi città ai centri periferici o meno popolati, trasmettendo una sensazione di mobilità ed onnipresenza e ravvivando lo scenario economico locale. Avevano anche l’effetto di rivoluzionare il panorama dei listini: la fissazione del prezzo ad uno dei limitati importi diversi trasmetteva la sensazione che il negozio offrisse la soluzione migliore in ragione della qualità dell’articolo. La fiducia dipendeva quindi da fattori esterni al prodotto, come gli spazi ampi in cui muoversi liberamente e l’assenza di disparità di trattamento riservate da commessi boriosi. In più, il cliente si educava a scegliere in virtù delle proprie disponibilità e a spendere bene il proprio denaro. L’ultima conseguenza dei bazar fu la rivoluzione sociale di cui si fecero promotori, attraendo una clientela variegata e affascinando il segmento femminile. Il piccolo dettagliante si vide superare sul piano dell’esperienza d’acquisto in virtù di una forma di compera molto più indipendente e veloce. Gli americano avevano stabilito un rapporto col denaro molto più elastico che in Europa: l’uso del credito cui erano avvezzi gli americani e l’introduzione di nuovi strumenti finanziari come i vaglia postali e le carte di credito dimostrarono come negli USA il progresso dipendesse dal dollaro ma che portava anche a nuove modalità di relazionarsi ad esso, in modo da imparare a gestirlo. 3.4 L’ultimo viaggio di Filene Filene si recò in Europa nel ’37 per scoprire come il mercato continentale fosse profondamente mutato e scosso da movimenti di protezionismo nei confronti della grande distribuzione. Molti criticavano il baratro che divideva grandi magazzini e piccoli dettaglianti, ma Filene incoraggiava gli ultimi a crescere, unendosi tra loro in catene d’acquisto e risolvendo per sempre i propri problemi. Tuttavia, egli stesso dovette osservare la radicale resistenza nei confronti di grande magazzino e bazar da parte dello stato tedesco in preda al nazismo, che guardava favorevolmente al piccolo esercente in quanto realtà largamente diffusa sul territorio. L’importazione di cotone, frumento, tabacco, lardo, pellame, rame, petrolio e legname continuava ad avvenire sulla base di una campionatura dei prodotti giunti in porto. Le merci venivano stoccate in magazzino prima di essere inviate alle manifatture locali o preparate per proseguire il viaggio alla volta di altri paesi. La destinazione finale e l’uso previsto erano irrilevanti per il produttore statunitense che non vedeva alcuna ragione di contribuire a pagare una rappresentanza all’estero al di là del minimo necessario. In compenso il consumatore europeo era sostanzialmente all’oscuro dell’origine statunitense di ciò che aveva acquistato. Le merci statunitensi stavano emergendo dall’anonimato: la quota di manufatti finiti e di generi alimentari confezionati era in rapida crescita rispetto alla materia prima non lavorata o ai prodotti semitrasformati. Il valore complessivo dei beni già pronti per essere venduti al consumatore finale all’atto dell’importazione era ormai quadruplicato. Ma ciò significava che la vendita diventava un’operazione più complicata. Tutti i problemi con i quali si erano già dovuti destreggiare i produttori statunitensi, nel tentativo di persuadere i propri compatrioti ad acquistare, si riproponevano. Per fronteggiarli, l’uomo d’affari americano o un suo incaricato dovevano essere presenti in loco. Ecco perche il numero di Statunitensi alla Fiera di Lipsia andava crescendo. Tuttavia il produttore statunitense non ricavava necessariamente un vantaggio economico dalla sua presenza alla Fiera, neppure quando esponeva i propri prodotti accanto all’equivalente europeo e neppure in quelle merceologie in cui c’era un’evidente superiorità tecnica. Nel 1930 la domanda mondiale di macchine per scrivere ad esempio era soddisfatta all’80% dagli Usa e dal 20% dalla Germania. Il motivo di questo squilibrio nella produzione di tale prodotto è individuabile nella scelta della Germania di produrre anche altro come biciclette, macchine da cucire o armi da fuoco. La diversificazione aveva impedito loro di investire nella ricerca, nel design e nel marketing, diversamente dalle società statunitensi, con il risultato di una gamma di modelli più limitati. Le politiche aggressive in voga negli Usa prevedevano un intero pacchetto di incentivi tesi a persuadere il cliente che i prodotti in vendita erano non soltanto nuovi, ma anche meritevoli di un prezzo più elevato. Ciò che, fra tutte le merci esposte, i visitatori non potevano vedere era esattamente ciò per cui andavano famosi i produttori statunitensi: i grandi prodotti di marca. Beni di consumo durevole e voluttuari- l’autovettura utilitaria, gli elettrodomestici, gli articoli di profumeria, gli alimentari in scatola. Questi nuovi beni di consumo giungevano sul mercato con il preciso intento di stabilire nuovi standard in termini di caratteristiche di prodotto e di soddisfazione del consumatore cosi da indurre quell’ampia domanda assolutamente necessaria per compensare i notevoli costi d’ideazione, produzione in serie e promozione. Esempi evidenti potrebbero essere la Gillette nella produzione delle lamette o i Corn Flakes della Kellogg’s che stabilivano un nuovo standard nella prima colazione: un alimento naturale ed istantaneo con cui iniziare la giornata all’insegna del vigore fisico. Tutti beni di consumo difficilmente incasellabili nella tassonomia merceologica della fiera mercantile di stampo borghese, non soltanto perché erano nuovi ma anche perché stabilivano nuove categorie di valori. Se ci allontaniamo dalla ressa della Fiera di Lipsia per soffermarci a pensare al mercato non come luogo ma come masse di persone distribuite nello spazio, ecco come la natura nuova del marketing basato sull’immagine di marca appaia improvvisamente più chiara. Nel Vecchio Mondo il merchandising classico mirava ad enfatizzare la natura del prodotto, mettendone in luce proprietà intrinseche o connesse all’ambiente in cui quel determinato bene era stato realizzato. Per contro nel Nuovo Mondo il marketing metteva in luce la personalità del prodotto, enfatizzandone l’aura di fascino così da controbilanciare agli occhi del consumatore lo svantaggio di non conoscere il luogo d’origine né le proprietà intrinseche. Lipsia era la sede ideale in cui esporre merci realizzate in piccoli lotti, prodotti artigianali o su misura, inoltre l’esposizione affiancata dei prodotti non li penalizzava anzi era un modo per mettere in risalto la personalità di ogni merce. Si trattava di merci affini ma tarate sulle esigenze di una particolare clientela con la rispettiva nicchia. Non erano prodotti intercambiabili, erano realizzati in piccoli quantitativi o su ordinazione; per garantire a produttori ed intermediari un margine adeguato era indispensabile prevedere un considerevole rincaro. A fronte di ciò i prodotti di marca realizzati in serie davano il meglio in assolo, o accompagnati da un costoso stuolo di venditori, esperti di marketing e pubblicitari. Insegne, cartelloni e rivenditori li presentavano come unici mentre in realtà ogni prodotto era identico a decine di migliaia di altri pezzi sfornati dalla stessa linea di produzione. Il presso elevato non era giustificato dalla rarità e dal fatto che simili articoli si ponessero come uno standard in termini di innovazione e di utilità. A differenza dei beni artigianali, i beni prodotti in serie avevano bisogno di una forza vendite aggressiva, peccavano di originalità ed autenticità. La personalità del prodotto di marca però non poteva confondersi con gli ammennicoli artigianali perché si presentava proprio come punto di svolta radicale rispetto ai canoni invalsi. La differenza emergeva chiaramente nel modo in cui venivano presentate le due diverse categorie di prodotti. La Fiera di Lipsia e la forza vendita di stampo americano svolgevano ognuno un ruolo preciso nella compravendita. La Fiera era un miracolo di compattezza e le metodiche di merchandising che metteva in campo erano riassumibili come «massimizzare gli affari e contenere al minimo spese, tempi e spazi». L’amministrazione della Fiera si presentava non solo come il fulcro dei flussi commerciali in Europa ma anche come il locus degli scambi economici mondiali. La forza vendita americana invece era rappresentata perfino sulle mappe del Dipartimento del Commercio degli Usa in cui le «aree vendita» europee erano indicate come un reticolo di linee di espansione in cerca di clientela sull’intero territorio. I punti nodali di tale spazio erano dispersi sul territorio e a determinarli erano il numero di abitanti ed i collegamenti con altri centri. Dietro la presentazione della Fiera come il punto nodale di tutti i commerci stava la ferrovia: l’imponente rete di binari dell’impero tedesco convergeva su Lipsia che divenne il più grande terminal ferroviario d’Europa. Dietro la mappa americana invece si celavano la rapidità del telefono e telegrafo, l’istantaneità delle trasmissioni radio, la capacità di copiare in copia esatta la stessa pubblicità in venti lingue diverse simultaneamente. Dietro la Fiera campionaria di Lipsia si celava il tessuto produttivo della regione europea più ricca di piccole e medie imprese, di attività artigianali e transazioni fra grossisti e dettaglianti. Dietro al merchandising di massa degli Stati Uniti si celavano invece le colossali economie di scala e di scopo della produzione in serie. Seppur ancora scarsi in rapporto ai volumi totali di merci di circolazione, i prodotti di marca americani apparivano agli occhi dell’immaginario collettivo onnipresenti; i beni di consumo prodotti in serie fissavano un nuovo standard in materia di rapporti fra merci e mercato. 4.2 La costruzione dell’immagine di marca La vasta scala su cui operano le industrie produttrici di beni di largo consumo contribuisce a spiegare la gamma di nuovi prodotti apparsi sul mercato. Nel 1910 era ormai diventato economico applicare la produzione di massa a sigarette, accendini, cereali e sapone ed a un’ampia varietà di alimenti in scatola. Risultava vantaggioso anche in altri ambiti perché consentiva di non interrompere i processi produttivi e di sfruttare al meglio la materia prima per ottenerne derivati. Ad esempio alcune aziende nella lavorazione delle carni trovarono conveniente utilizzare il suino per intero: pancetta e zampe per il consumo umano, le setole per le spazzole, i grassi per la produzione di lardo, la pelle per scarpe e guanti e le unghie per la produzione di colle. Per ammortizzare i costi generati dallo sviluppo di nuovi prodotti, le grandi aziende investivano nel marketing che divenne un’attività a sé stante in continuo sviluppo. Sorto come una forza vendite più professionalizzata, si suddivise in specializzazioni come la pubblicità, istituti di sondaggio d’opinione e agenzie di marketing vere e proprie. Ciascuna di queste funzioni aveva interessi a porsi come indispensabile alla vendita dei prodotti all’utente finale. A sua volta questo apparato di vendita specialistico intensificò la commercializzazione di nuove invenzioni; i nuovi beni sarebbero stati tuttavia inconcepibili senza nuove tendenze sociali e senza nuove abitudini alimentari, senza nuovi standard nelle dotazioni domestiche e senza nuove normative sull’igiene e bellezza e nuove attività di svago. Le invenzioni nel settore alimentare miravano a far risparmiare lavoro: basti pensare ai progressi nell’inscatolamento, congelamento e packaging. La commercializzazione in massa di articoli igienici e cosmetici faceva leva sulla possibilità di trasformazione della propria persona. Che si trattasse di prodotti nuovi o destinati a sostituire i più vecchi, il fatto che fossero di marca li faceva apparire del tutto innovativi. In linea teorica apporre il marchio ad un prodotto significa solamente esporre l’identità del produttore ed in questo senso, sotto diverse forme, i marchi sono sempre esistiti fin dall’Antichità. Il marchio era comune in tutte le forme di manifattura e, ai primi del Novecento, tutti i principali paesi si erano dati una legislazione a tutela delle denominazioni commerciali. In un mercato mobile ed in continua espansione come quello statunitense, il ruolo del marketing era fondamentale ai fini del merchandising. La promozione del marchio serviva non solo a scopo difensivo, ossia a spingere i rivenditori al dettaglio a tenersi in magazzino abbondanti scorte di quel prodotto, ma anche come arma d’attacco tesa al controllo di quote di mercato, prezzi e valore simbolico dei nuovi prodotti. Se si fosse riusciti a condensare le qualità di un determinato bene di consumo in un’unica denominazione o in modo che il pubblico lo acquistasse perché riconoscibile a prima vista, la società produttrice avrebbe instaurato un monopolio ed il prezzo non avrebbe più rappresentato l’unico criterio determinante nella scelta di acquisto del consumatore. Se invece il produttore si trovava a competere con altre ditte concorrenti aveva maggiore interesse a promuovere il marchio. Per promuovere prodotti appartenenti a categorie inedite occorreva prima di tutto promuovere la categoria stessa. Dato che i nuovi marchi rappresentavano sia un insieme di caratteristiche peculiari del prodotto, sia le qualità generali di un’intera categoria di articoli, potevano rivolgersi contemporaneamente a ceti diversi, ridefinendo la distinzione fra il genere di lusso e di prima necessità. Sono numerose le marche americane che in Europa sono diventate la denominazione generica di un tipo di prodotto come ad esempio “Singer” era sinonimo di macchina da scrivere o Gilette di lametta da barba. Negli anni Venti gli Stati Uniti avevano ormai sorpassato l’Europa nella diluizione delle denominazioni commerciali: il nome proprio di prodotti inediti diventava la denominazione generica come il grammofono o il vinile. Gli esperti di marketing statunitensi si mostravano anche più incisivi dei colleghi americani nell’introduzione di nuove categorie di articoli: il caffè solubile, i cereali per la colazione, i blue jeans, il cibo per animali. In sostanza il prodotto inedito aveva la capacità sia di definire un bisogno sia di promettere di soddisfarlo. Nel corso del tempo i marchi acquisirono un argomento decisivo a loro favore: la «reputazione commerciale» o «goodwill». Con questo concetto si intendeva rappresentare il titolare del marchio come una persona «con un dato status, agli occhi dell’opinione pubblica, derivante dal contatto con la clientela abituale o occasionale, in base alla posizione, alla celebrità o alla reputazione di cui gode». Sul piano legale tale forma di reputazione commerciale stava a significare il potere conferito anche al consumatore. In teoria chiunque poteva acquistare altri prodotti, facendo uso del libero arbitrio, ma in pratica si tendeva a scegliere quel preciso articolo in base alla propria esperienza di cliente. La reputazione commerciale era un bene immateriale, ma faceva anche parte integrante del patrimonio dell’impresa. 4.3 La vendita all’esplorazione di nuovi orizzonti La determinazione delle grandi aziende statunitensi di stabilire legami non meno intensi con la clientela di altri paesi le spinse ad andare all’estero anche a stadi relativamente prematuri del ciclo produttivo, con difetti di progetto e di esecuzione ancora da correggere. Risulta impossibile conoscere quali possano essere le decisioni strategiche inerenti all’esportazione ed alla produzione all’estero. Una delle ragioni potrebbe essere la volontà di battere la concorrenza in patria oppure la spinta a raccogliere profitti su un nuovo mercato. La fiducia di poter andare all’estero trovava conferma nei profitti accumulati fino ad allora e anche nell’idea secondo cui i prodotti americani esprimessero una civiltà materiale estendibile in tutto il pianeta. Con la scelta di andare all’estero, i produttori statunitensi stavano scommettendo sull’evoluzione dei mercati in tempi brevi, sulla spinta dei bisogni latenti nel’intero genere umano e forti di alcuni vantaggi comparativi quali la possibilità di testare i prodotti sul proprio mercato nazionale, la superiorità nelle tecniche di merchandising e le notevoli riserve di liquidità alle quali attingere. La decisione di spostare la produzione all’estero con l’apertura di stabilimenti e filiali, ed in alcuni casi con l’acquisto di aziende concorrenti estere, era più complessa e costosa che non la semplice decisione di esportare. Negli anni Venti le imprese statunitensi erano determinate a sconfiggere i concorrenti europei che facevano leva sul vantaggio rappresentato dalla prossimità geografica al loro mercato e sfruttavano la relativa debolezza della protezione dei marchi per appropriarsi delle innovazioni statunitensi adattandole ai gusti locali. Ecco che allora alcune aziende anche piccole, riuscivano a mettersi sul mercato con prezzi uguali o inferiori, sfruttando il costo della manodopera, più basso in Europa, il fatto di non dover pagare dazi e soprattutto la dimestichezza con la distribuzione all’ingrosso ed al dettaglio. I concorrenti più temibili si mostrarono i Tedeschi. Vendere il marchio divenne cosi un modo per neutralizzare il monopolio europeo sui circuiti di conoscenze locale. Poiché in Europa la clientela delle aziende era per lo più regionale, raramente nazionale e mai transfrontaliera, le imprese statunitensi potevano volgere a proprio vantaggio la realtà europea di un mercato di venditori e non ancora di consumatori. Produrre localmente comportava anche il vantaggio di aggirare le barriere non tariffarie, rappresentate dalle politiche dei governi ma anche dalle differenze culturali e di gusto tra nazioni e regioni diverse. Le ditte statunitensi potevano contare su tre grandi vantaggi comparativi:  La disponibilità di capitali, che consentiva di controbilanciare iniziali perdite attingendo ai profitti già accumulati in patria,  Trattavano un prodotto che avevano già avuto modo di perfezionare su un mercato di massa  Spesso gli imprenditori statunitensi incorrevano in una serie di ingenuità ed ignorare i propri limiti può diventare un vantaggio perché spinse a sfoderare davanti a delle difficoltà un ottimismo ed un’inventiva altrimenti impossibili. L’imprenditoria americana all’estero veniva spalleggiata dal proprio governo pronto a promuovere l’export nazionale. Nella convinzione che gli esportatori americani fossero gli ultimi arrivati e che quindi fossero svantaggiati, l’amministrazione federale di Washington, emulando le prassi europee, si sforzava di sostenere le imprese che si recavano all’estero. Fra i provvedimenti adottati ci furono anche incentivi fiscali sui redditi d’impresa prodotti all’estero e la legge Webb-Pomerene che esonerava dalle disposizioni antitrust i cartelli impegnati in attività estere. La promozione del commercio estero aveva lo scopo di abbattere tutte le barriere che si frappongono tra consumatore e merci. Altri paesi erano dotati di istituti preposti al monitoraggio dei mercati esteri ma solo gli Stati Uniti avevano la premura di rispettare le esigenze dei distributori nazionali e di integrare efficacemente fra loro interessi pubblici e privati. Una questione molto significativa è quella relativa alla nazionalità della merce in particolar modo dei prodotti «made in Usa». In primo luogo erano i produttori a determinare l’identità all’atto di dare un nome al prodotto, talvolta le società ne modificavano il nome a scopi commerciali o solo per renderlo più pronunciabile. Alcuni prodotti che recavano nel proprio nome l’aggettivo «americano» in realtà non provenivano affatto dagli Usa, c’erano poi articoli noti come «americani» non perché presentati come tali dalla pubblicità, ma in virtù delle qualità del prodotto originale di riferimento. Lo stato americano, di conseguenza riconobbe la speciale funzione ricoperta dalla pubblicità anche in politica estera. Gli USA facevano ricorso alla pubblicità, mettendo in campo mezzi sostanzialmente privati e laddove gli altri paesi propalavano ideologia, la nazione americana professava ideali. Nei dieci anni a seguire venne introdotto il concetto di “marketing sociale”, una forma pubblicitaria allo scopo di acquisire una consapevolezza durevole dell’interesse pubblico, anziché concentrarsi esclusivamente sulla soddisfazione immediata del consumatore. La pubblicità europea operava in una realtà del tutto diversa sotto il profilo delle risorse economiche, delle tradizioni culturali e dei valori estetici, anche se la pubblicità era costretta a fare i conti con i capitali a disposizione e con il fatto che la clientela fosse sostanzialmente di estrazione borghese. Questo portò ad un incremento della propensione alla pianificazione che veniva grandemente rafforzata dalle ricche risorse creative messe a disposizione della pubblicità da ambiti vicini come la grafica, le stamperie, le litografie e altre industrie che trovavano nei centri urbani un terreno ideale per la produzione di splendide copertine, etichette decorative, raffinati cartelloni delle vetrine. Fu cosi che ai primi del 900, le città erano tappezzate di manifesti ovunque. Per tenere sotto controllo la comunicazione commerciale le autorità comunali esigevano l’apposizione di una marca da bollo a conferma del fatto che l’affissione non era abusiva, che i contenuti erano stati approvati e che era stata corrisposta una tassa commisurata alle dimensioni del manifesto. In conclusione per conquistare la fiducia del consumatore, i pubblicitari fino ad allora abituati a rivolgersi esclusivamente a un ristretto pubblico borghese avrebbero dovuto prendere due iniziative distinte tra loro: conquistarsi la fiducia di altre professioni borghesi, cosi da non essere sospetti di tradimento sociale e sperimentare nuove forme di linguaggio che consentissero di raggiungere un pubblico di massa. L’abbandono dei tradizionali linguaggi commerciali mandarono in crisi il manifesto pubblicitario. La crisi ruotava attorno alla scelta se optare per uno stile editoriale già noto ai lettori della stampa americana a grande tiratura o se puntare invece sull’estetica del design, attingendo alla solida tradizione europea in materia di cartellonistica. La prima alternativa, puntare sulla comunicazione testuale, prometteva denaro e nuova dignità professionale, mentre la seconda, puntare sulla raffigurazione visiva dei beni di consumo, prometteva la salvaguardia di un’autonomia artistica e la difesa delle tradizioni locali in maniera estetica. I fautori del nuovo sostenevano che la raffigurazione visiva delle merci da pubblicizzare dovesse essere realistica, cosi da metterne in luce le caratteristiche agli occhi del consumatore, secondo la prassi già consolidata in America. I fautori di uno stile ormai collaudato da tempo, invece, sostenevano che la raffigurazione di beni di consumo in pubblicità dovesse essere simbolica, attingere a evocative tradizioni pittoriche, fare ricorso a riferimenti subliminali e alla gestione psicologica, cosi da stimolare desideri allo stato latente. A spiegare il declino del manifesto come mezzo pubblicitario venivano addotti diversi fattori. Anzitutto, era accusato di essere ormai degenerato in un’espressione di parte, dal momento che la demarcazione fra pubblicità e propaganda, mai del tutto chiara, aveva finito per sparire e i manifesti erano diventati il sistema usato dai governi per mobilitare i civili in tempo di guerra, o dai movimenti di sinistra per chiamare a raccolta i “compagni”. Il definitivo colpo di grazia al manifesto pubblicitario arrivò quando gli stessi disegnatori, messi al tappeto dalla disoccupazione e dalla spietata concorrenza che esisteva fra loro, persero ogni fiducia nella propria arte e soprattutto nella possibilità materiale di ricavarne un reddito per vivere. La crisi del manifesto divenne ancora più evidente quando lo si contrappose a quella che veniva considerata sempre più un’alternativa efficace sul piano commerciale: le inserzioni sugli organi di stampa a grande diffusione, redatte con cura e composte con gusto. L’annuncio pubblicitario mirava a spiegare le ragioni per le quali si raccomandava il tale prodotto, mettendone in luce le proprietà e illustrando al consumatore come usarlo. In quanto forma di discorso pubblico, i testi pubblicitari curati ad arte miscelavano fra loro caratteristiche dello stile pubblico-formale e di quello informale-privato, creando un linguaggio colloquiale che, sebbene ricalcasse la parlata popolare, proprio in virtù degli elementi che inglobava e di quelli che escludeva, risultava di inconfondibile origine aziendale e commerciale. Il nuovo linguaggio era contraddistinto da una sensibilità democratica propria di una lingua universale, parlata indistintamente dal promotore commerciale come dal pubblico; era questo lo stile del realismo capitalista. A giustificare la differenza riscontrabile fra lo stile testuale americano e il linguaggio pubblicitario locale, gli Europei adducevano spiegazioni del tipo che la pubblicità americana funzionasse per evocazione e quella europea per seduzione. Gli Americani veneravano la parola, leggendo i testi pubblicitari come se si trattasse della bibbia. Gli europei veneravano invece molteplici idoli, inchinandosi all’intenso potere visivo del manifesto. Il populismo capitalista consentiva alla comunicazione pubblicitaria statunitense di riempire un vuoto: l’esigenza del grande pubblico di sentirsi consigliato e guidato non soltanto riguardo alle caratteristiche dei vari prodotti, ma anche sul gusto, sull’adeguatezza sociale e sulla soddisfazione do bisogni fisiologici. Veniva usato un vocabolario abbastanza esteso da raggiungere una massa di consumatori di varia estrazione. Posti di fronte a un pubblico ben più limitato, con minori risorse a disposizione e una scarsa pressione da parte della clientela, i pubblicitari europei provarono a sperimentare i metodi giunti dall’America che li avrebbe legittimati come esperti in nuove forme di comunicazione di massa fino a quel momento inibite in Europa dalla diffidenza sociale e dall’incapacità di riconoscere una realtà emergente, quella delle comunità di consumatori, e ancor più di interloquire con essa. L’industria della pubblicità si presentò come un’invenzione salutare in un momento storico di disordine dell’economia; perché riuscì a saldarsi tanto alla nuova domanda, quanto alla vecchia offerta nell’equazione degli scambi. I numerosi enti di controllo sorti in diversi paesi occidentali esigevano dagli organi di stampa la regolare raccolta dei dati relativi alla circolazione delle testate. La pubblicità rappresentava inoltre un incentivo a migliorare la qualità della riproduzione. Anche la stampa era bendisposta verso la pubblicità, che la avrebbe permesso di controbilanciare costi in continua crescita e di rado coperti dai ricavi delle copie vendute. Il fattore più potente che spingeva a adottare lo stile testuale pubblicitario americano era però anche il più complesso: l’esigenza dell’inserzionista di stabilire una comunicazione con il pubblico. Conferire autorevolezza a un’inserzione pubblicitaria, magari sotto forma di testimonial, non era compito facile. Per garantirsi un minimo di verosimiglianza, i pubblicitari americani si limitavano a telefonare alle agenzie di casting e a spiegare di cos avevano bisogno. A fine anni trenta, la Germania nazista offriva l’ambiente più propizio, in tutta Europa, per la pubblicità di stile americano. Decisamente abile nelle tecniche di propaganda e persuasione, nonché implacabile nel porre i media sotto controllo, il nuovo regime diramò immediatamente un diktat di una pagina in cui si imponeva ai quotidiani di pubblicare dati precisi sulla loro diffusione, oltre alle tariffe per le inserzioni pubblicitarie. La Germania degli anni trenta passò da patria del manifesto sperimentale a patria della comunicazione pubblicitaria verbosa. I testi degli annunci pubblicitari parevano fare a gara negli sproloqui: la descrizione del prodotto era sempre più simile a un racconto edificante e sempre più distante dalle bieche motivazioni del commercio, soffusa di autorevolezza e ricca di consigli all’acquirente. Capitolo 6 - Lo Star System: Come lo spettacolo hollywoodiano ha sconfitto il cinema europeo In tale capitolo viene affrontata la questione dello Star System, sistema prevalentemente legato all'industria cinematografica hollywoodiana volto alla costruzione, al lancio e alla promozione delle star per provocare un fenomeno di attrazione sul pubblico e, quindi, un immediato riscontro economico per i film interpretati dai divi reclutati dalle majors e da queste prodotti. I tre anni segnati dalle riprese del film Metropolis misero fine all’illusione che potesse nascere un’interfaccia dinamica tra la cinematografia europea e quella americana. Verso la metà degli anni Venti i Tedeschi erano sicuri di possedere le risorse, il talento e la cultura cinematografica necessari a confrontarsi con i migliori film statunitensi. Tuttavia anche la cinematografia tedesca cominciò a manifestare segni evidenti di cedimento: la mancanza di capitali, la perdita di alcuni più talentuosi protagonisti la resero più vittima delle pressioni che la sollecitavano a riproporsi in veste di cinema nazionale tedesco cercando al contempo di generare un cinema europeo capace di tener testa ai flussi di capitale, alle tecniche ed ai film che scaturivano da Hollywood. In che modo Hollywood, termine con cui si intende il lungometraggio prodotto per il pubblico di massa, narrato in stile classico, realizzato nei giganteschi studi cinematografici del sud della California, hanno sfidato la civiltà commerciale europea è il tema centrale di tale capitolo. Sul piano economico i film erano di gran lunga il prodotto culturale di esportazione più remunerativo. Dal punto di vista geografico, il film americano era il bene di consumo più diffuso al mondo. Dal 1945 in avanti ci sono stati periodi di espansione e calo legati alla creatività delle produzioni cinematografiche locali, alla capacità di rinnovamento della stessa Hollywood ed alla congiuntura economica globale. Ma alla svolta del XXI secolo, le maggiori case cinematografiche di Europa non sono europee ma multinazionali americane. Come prodotto al contempo economico e culturale, il cinema americano superò i confini nazionali, sfuggì ai controlli politici, si infiltrò nelle comunità locali, si insinuò nella vita della gente e fu addirittura accusato di penetrare nell’inconscio. Il cinema americano oltrepassò i rigidi confini che in Europa ancora dividevano la cultura più elevata e accademica da quella popolare e di massa. Infatti nessun altro mezzo di espressione ha saputo articolare in modo cosi efficace il concetto che una nazione possa possedere un’industria dello spettacolo ed esprimere con essa la propria identità nazionale. Il sistema cinematografico alternativo a quello americano era quello tedesco; il merito spettava non solo alla vivacità della cultura tedesca dell’epoca o alla pressione della sua aggressiva economia di esportazione, ma anche al tentativo dei nazionalisti tedeschi di ristabilire quell’egemonia culturale perduta nella Prima guerra mondiale. Per centrare l’obiettivo era necessario cogliere l’occasione offerta dalla comparsa dei mass media visivi che sostituivano la cultura della carta stampata. Sulla scia della guerra, i nazionalisti tedeschi finirono per riconoscere nel cinema il cuore pulsante del potere nazionale. Tuttavia, concretizzare tale potenziale significava eliminare il disprezzo che le èlite provavano per un genere di intrattenimento fino a quel momento considerato «sudiciume», nonché soddisfare un altro requisito legato a fattori economici: ovvero quello di creare un cinema con un’ identità nazionale abbastanza solida da assicurare la copertura del mercato tedesco, ma non cosi chiusa da precludere l’accesso al pubblico di altri paesi. Questa necessità di produrre un bene legato ai valori culturali e nazionali in grado di esercitare un’attrazione internazionale, non interessava soltanto l’Europa, ma anche gli Stati Uniti. E fu proprio il modo in cui l’America riuscì a soddisfare tale necessità riuscendo a sancire la sua superiorità mondiale. 6.1 Il «sorriso quasi feroce» di Pearl White I film statunitensi furono riconosciuti per la prima volta come «americani» quando fecero la loro improvvisa comparsa sul fronte interno europeo. Intorno alla metà del 1916 si verificò un’impennata in Europa dell’esportazione dei film americani sfruttando la fase di ristagno della produzione locale e contando sul fatto che i corridoi di comunicazione del Nordatlantico erano ancora aperti. Due anni dopo i film americani furono proiettati un po’ dovunque, fatta eccezione della Germania. Il boom del cinema che fece seguito all’industrializzazione dello spettacolo si verifico simultaneamente su entrambe le coste dell’atlantico:  dal punto di vista dell’offerta gli esperimenti di tecnologia cinematografica trasformarono un mezzo inizialmente illimitato a spettacoli di luce ed effetti ottici in un’industria organizzata e specializzata  dal punto di vista della domanda, le popolazioni urbane di salariati erano in rapida espansione e alla costante ricerca di svago. All’inizio i film erano una forma di intrattenimento popolare il cui leader era la Francia. Nel momento in cui la domanda spiccò il volo rivestì un ruolo importante il genere, ma non la provenienza nazionale poiché le pellicole erano destinate ad un pubblico costituito principalmente da operai immigrati di etnia mista. I maggiori proventi derivanti dalle forme di svago più economiche avevano effetti profondamente degenerativi sul pubblico eterogeneo che ci si divertiva. Decisa a opporsi a qualsiasi critica la accusasse di essere responsabile di tale degrado, l’industria cinematografica intervenne per offrire il proprio sostegno alla campagna di rigenerazione morale, con l’obiettivo di coinvolgere il pubblico in un dibattito sullo stile e sul contenuto dei film. Il dominio dell’americanità nella cultura cinematografica fu consacrato con l’introduzione del genere western. Tuttavia il sistema hollywoodiano classico emerse soltanto durante la prima guerra mondiale, nel corso dei primi due anni del conflitto il film standard in programmazione diventò quello ad alto budget destinato ad un pubblico di massa. Anche lo Star System si sviluppo come una forma di marca legata agli attori più popolari. In termini di lavoro pratico il sistema hollywoodiano contemplava inoltre un’elevata specializzazione dei compiti, che si basava sulla sceneggiatura per la pianificazione del lavoro. Grazie all’uso innovativo della macchina della presa e all’invenzione dell’illuminazione artificiale i film assunsero contorni più nitidi. Al termine della guerra l’industria cinematografica americana aveva una marcia in più per espandersi all’estero. Per sostenere le società statunitensi nella competizione contro la concorrenza straniera venne varata la legge Webb-Pomerene che escludeva dalle norme antitrust gli esportatori, consentendo loro di accordarsi sui prezzi e di impegnarsi all’estero in altre iniziative anticoncorrenziali. All’inizio degli anni venti l’industria cinematografica statunitense investì molto all’estero, mettendo in atto strategie di marketing come il block booking che poneva alle sale locali la condizione di accettare l’intero pacchetto di film del distributore inclusi non solo i film adatti a questo o quel mercato ma anche i fiaschi. Il potere economico di Hollywood si basava sul controllo di un vasto mercato nazionale, una struttura integrata verticalmente sostenuta da capitali finanziari e dal governo e nuove strategie di comunicazione. 6.2 La difesa culturale In che modo potevano difendersi le industrie cinematografiche europee dall’assalto del sistema americano? Prima della nascita di Hollywood non si poteva parlare di un cinema con una vera e propria identità nazionale, né in Europa né negli Stati Uniti. Poi Hollywood si era chiaramente affermata assumendo il controllo di tutti i più importanti canali di distribuzione. Nel pieno degli anni Venti, l’èlite europee discutevano ancora se il cinema dovesse essere trattato come forma di spettacolo o come mezzo di istruzione o propaganda. Effettivamente anche l’industria cinematografica prima di consolidare il proprio primato ha dovuto affrontare degli ostacoli. La cultura europea del cinema era impregnata da movimenti artistici contemporanei come l’espressionismo o il surrealismo. Nonostante ciò il pubblico cinematografico europeo rappresentava una percentuale molto inferiore a quella statunitense. Tuttavia il pubblico aumentò negli anni Venti stimolato dal flusso dei film americani. La sensibilizzazione al tema del cinema come cultura ebbe le sue radici più profonde in Francia. Sul piano legale il cinema era ancora regolamentato da leggi generate dal panico che aveva portato l’antico regime a credere che il teatro e altre forme di spettacolo avrebbero fomentato il disordine civile. Fondendo il diritto a un tenore di vita + elevato con gli altri 2 valori fondamentali della crociata anticomunista, libertà e democrazia, la propaganda americana dichiarò che l’Unione Sovietica rappresentava il nemico non solo perché era una società totalitaria e anticapitalista, ma anche perché la mancanza di scelta di cui soffrivano i consumatori era la prova dell’assenza di libertà. La politica americana esercitava pressioni affinché le aree che l’esercito statunitense aveva occupato dopo la guerra, Giappone e Germania, diventassero vetrine della democrazia del consumo. Nel caso del Giappone si rilevò un obiettivo arduo a causa delle profonde differenze in ogni ambito della vita che rendevano il Giappone così distante dall’approccio occidentale al consumo e rendevano difficile accordarsi sui parametri del progresso materiale. Invece in Europa si aspettava con grande impazienza un miglioramento degli standard di vita. Affinché l’Europa occidentale si trasformasse in vetrina della democrazia del consumo doveva soddisfare determinate condizioni  Rinunciare alle sue tradizioni mercantilistiche aprendo i propri mercati.  I poteri imperialisti dovevano prendere le distanze dalle proprie colonie, ciò significava rinunciare a speciali legami economici e riorganizzare il commercio per favorire gli Stati Uniti. Significava rinunciare a 1 pilastro fondamentale del vecchio regime di consumo, cioè lo stile di vita coloniale. Un fattore molto importante nella crescita dell’economia europea fu la guerra di Corea, che non interessò direttamente il continente, ma grazie ad esso i produttori europei hanno avuto grossi profitti. La domanda di armamenti da parte degli USA superò la sua capacità produttiva, e l’urgenza di soddisfare questo bisogno, oltre alle richieste di beni di consumo dei paesi non impegnati nella guerra, generarono un aumento dell’occupazione che a sua volta produsse un innalzamento del valore del potere d’acquisto. In questo periodo gli USA diedero un forte impulso all’economia dell’Europa occidentale, e il maggiore beneficiario fu la Germania dell’ovest. Quest’ultima fu integrata nell’area commerciale dell’Europa occidentale. I Tedeschi dell’ovest si trasformano gradualmente in Europei benestanti che spendono molto in beni come cucine attrezzate, automobili e vacanze. 7.3. abbattere le barriere, uniformare le differenze. La ricchezza aveva cominciato a trasformare i cittadini dell’Europa occidentale. A metà anni ’60 il profilo occupazionale dell’Europa stava assumendo alcuni tratti comuni agli USA, mentre ovunque calava il numero di agricoltori, capitalisti e professionisti indipendenti a fronte dell’aumento dei dirigenti stipendiati, degli impiegati e degli operai. L’aumento della percentuale di stipendiati nella popolazione totale consentiva a un numero sempre + elevato di persone di utilizzare i propri guadagni in un vasta gamma di alternative. Con l’aumento del tempo libero, la crescita del reddito e l’intensificazione dell’esposizione ai mass media la sfera culturale- commerciale si affermò come una fonte inesauribile di nuovi modelli culturali per chi entrava a far parte della popolazione attiva. Il mercato dei consumi cominciò a formarsi, le strategie di marketing erano predisposte come se il mercato di massa esistesse. Le statistiche degli anni ’60 rilevarono un fenomeno che i mercati di consumo americano avevano vissuto negli anni 20: gli appartenenti alle fasce di reddito + alte erano i primi ad acquistare beni appena lanciati sul mercato, ma le fasce di reddito inferiori recuperavano terreno sempre + rapidamente. Per ragioni di marketing si divideva la società europea occidentale in 4 categorie di reddito, da A a D, e per ognuna di esse si costruirono adeguate strategie di mercato. La nascita di una nuova classe media sollevò particolare entusiasmo all’interno del grande movimento che portava gli appartenenti alla fascia di reddito + bassa D alla + ambiziosa fascia media C. 7.4. costruire una comunità europea incentrata sul consumo La figura del cittadino consumatore compì un ulteriore passo avanti con l’affermazione del Mercato comune nel 1957. L’art.2 del trattato di Roma dichiarava che lo scopo essenziale della CEE era il miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei loro popoli. Il modello si ispirava alla convinzione che estendere l’area del mercato avrebbe migliorato la divisione internazionale del lavoro, eliminato gli ostacoli al passaggio delle merci e si sarebbe prestata alle economie di scala, in modo tale che i consumatori traessero beneficio dall’aumento della produttività e dei redditi, da 1 più vasta gamma di scelta e dalla diminuizione dei prezzi. Con qst modello il prodotto nazionale lordo delle nazioni europee crebbe in media del 3.5% in confronto al 2,1% degli USA, e il consumo pro-capite crebbe del 4,6% contro il 2,9% americano. Inoltre il reddito di operai e impiegati raddoppiò e il volume di commercio all’interno dell’area di riferimento triplicò e produsse effetti significativi sulle abitudini di acquisto. La scoperta di abitudini comuni a tutti i consumatori si ripercosse a livello politico sul successo dell’emergente Comunità europea, considerando che il primo obiettivo di questa istituzione era motivare gli investimenti, e quindi assicurare una maggiore integrazione economica. Fino al 1958-59 le aziende americane, a meno che non fossero già fortemente radicate nel territorio (come la cocacola o la kodak) evitò l’Europa continentale a causa della normativa e delle proteste operaie. Tuttavia quando il numero di normative cominciò a ridursi e i profitti risultanti dalla vendita negli USA calarono, mentre la spesa del consumatore europeo prometteva di continuare a crescere, le aziende statunitensi adottarono strategie + aggressive di investimento nel Mercato comune. Mettendo a profitto una serie di operazioni destinate ai mercati continentali, alle reti della grande distribuzione europea, le aziende americane si trovavano nella posizione giusta per essere le prime ad offrire novità o prodotti a basso costi. Capitolo 8. Operazione supermercati. Per gli europei, ma anche per gli americani, l’approvvigionamento alimentare spiccava come tema centrale nell’ordine del giorno della ricostruzione. Era necessario distribuire con urgenza i prodotti alimentari ai civili che pativano la fame, e questo tipo di aiuti rientrava nel Piano Marshall. Tuttavia bisognava prendere provvedimenti a lungo termine per far fronte alla disparità tra la produttività agricola americana e quella europea. Gli USA si presentavano sui mercati mondiali con surplus agricoli, mentre l’Europa dipendeva dalle importazioni poiché la produzione interna era rallentata da tecniche agricole tradizionali, metodi di lavorazione antiquati, disponibilità di prodotti coloniali a basso costo e reti di distribuzione arcaiche. Se l’Europa avesse voluto recuperare il divario industriale e trasformare la propria economia per produrre beni e servizi di consumo, sarebbe stato necessario diminuire il costo dei prodotti alimentari avvicinandoli a quelli americani. Le famiglie europee spendevano molto di + di quella americana per mangiare, questa differenza si manifestava nella possibilità per i secondi di poter destinare un extra dei loro soldi per altri acquisti. 8.1. la rivoluzione del self-service Queste furono le problematiche di fondo che portarono a concentrare l’attenzione sul supermercato self- service. Nel 1950 ci fu il 1° congresso internazionale sulla distribuzione alimentare a Parigi in cui l’idea di questo nuovo progetto fu presa con entusiasmo. In America singoli imprenditori avevano preso l’iniziativa di aprire punti vendita alimentari fuori dai centri urbani. Negli anni ’40, a causa di carenza di manodopera dovuto alla guerra, l’abitudine di fare la spesa in un unico punto vendita self-service aveva compiuto rapidi progressi. Se in principio era possibile trarre cospicui profitti con un irrisorio investimento iniziale grazie alla possibilità di sfruttare fabbricati abbandonati e al deprezzamento dei terreni e all’eccedenza di prodotti agricoli, ben presto fu necessario acquistare attrezzature sempre + specializzate e costose, come grossi impianti di refrigerazione, aria condizionata, illuminazione e sistema di sicurezza. In Europa il successo di un supermercato, per quanto in scala minore rispetto a quelli che di solito sorgevano nei sobborghi statunitensi in rapida espansione, dipendeva da 1 trasformazione totale nell’ambiente della compravendita, a partire dai fornitori che avrebbero dovuto adottare tecniche agricole + avanzate e imparare a lavorare i prodotti e a confezionarli, fino ai clienti che avrebbero dovuto cambiare gli elettrodomestici e le proprie abitudini di spese e alimentazione. Da 1 parte il self-service presupponeva che prima che la merce raggiungesse il punto vendita venisse confezionata, prezzata e pubblicizzata. Pertanto il packaging richiedeva la nascita di un’apposita industria e la loro promozione differenziata presupponeva un’industria del marketing. La merce doveva essere sempre disponibile e ciò implicava rapporti stretti con il fornitore, sia che si trattasse di agricoltori locali o di importatori. D’altra parte il self-service presupponeva che il cliente fosse in grado di scegliere la merce, riconoscere i simboli e calcolare il costo totale. Per agricoltori e consumatori si profilavano nuove sfide: dalla resistenza degli agricoltori che vivevano sotto pressione per consegnare i prodotti, alla riluttanza dei consumatori che erano adattati ai vecchi sistemi e li tolleravano. Pertanto a metà anni 50 lanciare un supermercato in Europa era considerata un’impresa rischiosa. Nel 1956 fu condotta un indagine per stabilire con maggiore precisione in quale paese l’operazione supermercati avrebbe potuto funzionare. Dall’indagine risultò che i 2 paesi che avrebbero potuto essere considerati i + rischiosi, data la presenza di piccoli negozianti e di leggi antiquate, Belgio e Italia, si rilevarono i + promettenti. Il 1° offriva vantaggi quali una popolazione poco numerosa, densamente concentrata e prospera, luoghi adatti alla costruzione di locali commerciali. L’Italia sembrava decisamente meno promettente a causa della regolamentazione statale, della povertà dei consumatori e del malcontento della classe operaia, ma in compenso le leggi italiane in materia di investimenti stranieri erano le + favorevoli d’Europa per il trasferimento all’estero dei profitti. In Italia furono aperti punti vendita a Milano con il nome di supermarkets Italiani 8.2. un modello da emulare La catena di supermarkets italiani aveva prezzi molto + bassi delle botteghe delle città italiane, e dopo l’apertura dei centri di Milano furono aperti nuovi centri nelle altre città italiane. Il suo successo fu legato a 3 tendenze che resero l’influenza americana enormemente significativa nella rivoluzione commerciale:  La riuscita dell’impresa dimostrò alle banche che gli investimenti nella distribuzione alimentare avevano un altissimo potenziale di profitto  Stabilì uno standard ben definito di procedure da seguire e attrezzature da impiegare  Lavorò a favore di una nuova alleanza, quella formatasi tra grande capitale, nuova imprenditoria locale, governo e consumatori, indispensabile per rivedere le leggi e cambiare le abitudini in modo da affermare il supermercato come il principale punto di riferimento del settore alimentare. Nei primi anni ’60 i supermercati cominciarono ad acquisire una popolarità impensabile. Era in atto una vera e propria rivoluzione su + fronti: l’estendersi dell’interesse imprenditoriale nel settore alimentare insieme al consolidamento della CEE, l’ammorbidirsi degli impedimenti legali all’apertura di nuove imprese commerciali, i grandi movimenti popolari che diedero vita al fenomeno dell’urbanizzazione su larga scala, le donne che lasciavano la casa per il lavoro in fabbrica e in ufficio e la diffusione di standard alimentari + elevati. 8.3. fare la spesa all’italiana Per i supermercati le difficoltà non erano soltanto fare breccia nel sistema tradizionale, ma anche entrare a far parte della normale vita quotidiana. L’apertura dei nuovi supermercati ebbe un successo enorme anche se continuavano le proteste dei piccoli commercianti e dei manifestanti che cercavano di boicottare i supermercati. Le piccole imprese in lotta per restare a galla offrivano lavoro a tutte quelle persone che non riuscivano a trovare un’occupazione, perché appena arrivati in città, poco capaci o in cerca di 1 lavoro flessibile per adempiere ad altri doveri. I supermercati avrebbero messo in difficoltà l’attività di negozietti e la sussistenza dei cittadini che dipendevano dal loro in questi negozietti. Era vero che i supermercati offrivano alle donne che lavoravano la possibilità di fare la spesa in un unico posto, ma selezionavano anche i clienti migliori che pagavano in contanti, lasciando i meno abbienti ai piccoli negozianti, con il risultato di farli diventare ancora + poveri. Inoltre se da una parte i supermercati offrivano prezzi + economici, dall’altra dato il loro monopolio nel settore presto alzeranno i prezzi senza essere ostacolati dalla concorrenza o dai clienti. Tuttavia le statistiche nel settore alimentare del 1971 rivelarono che gli italiani destinavano solo il 2% del proprio bilancio alla spesa nei supermercati, quota molto + bassa rispetto alle altre nazioni europee. A differenza delle altre nazioni europee, dove aumentavano i supermercati e il numero dei piccoli negozi era in calo, in Italia è successo l’inverso. Anche la gente mostrava di non amare i supermercati, almeno non dopo l’iniziale calorosa accoglienza, che non riscossero successo nemmeno nelle zone in cui erano stati aperti. I supermercati, in Italia, si trovarono di fronte ad una consumatrice con abitudini ed esigenze completamente diverse da quella americana. La “signora consumatrice’’ americana, che veniva ritratta come l’amministratrice del reddito familiare, che sapeva calcolare quanto spendere in base al confronto tra le merci, che si fidava della politica dei prezzi dei grandi magazzini e sapeva dare il giusto valore economico al proprio lavoro e al proprio tempo, non aveva alcuna controparte esatta nella casalinga italiana degli anni 60. Quella italiana, la massaia, era fortemente modellata sulla sua classe di provenienza, e in Italia le classi sociali erano ancora molto diverse tra loro nelle abitudini e nelle capacità di spesa. Per le donne meno abbienti il reddito rappresentava un ostacolo ma non era l’unico che impediva loro di convertirsi ai nuovi sistemi di distribuzione. Il problema del reddito era l’irregolarità con la quale veniva percepito e per questo ricorrevano al credito presso i piccoli commercianti e saldavano mensilmente. Un altro fattore che determinava il loro attaccamento alle vecchie abitudini era la tradizione. L’attaccamento delle casalinghe italiane ai negozianti locali dipendeva non solo dalla possibilità di comprare a credito, ma anche da quella di chiedere la sostituzione della merce, ricevere dei consigli e fare un po’ di pettegolezzi. Capitolo 9. Una signora Consumatrice modello. Dalla metà degli anni 50 in poi il nuovo centro operativo della casa era la cucina dove si trovava tutto il blocco degli elettrodomestici. La regina della cucina era la padrona di casa, una Signora Consumatrice, il cui compito principale era di mediare fra le contrastanti esigenze che gravavano sul bilancio familiare. La rivoluzione del bucato ispirò 3 svolte di rilievo. In 1° luogo rappresentò un importante cambiamento delle tecnologie applicate alla pulizia dei vestiti, infatti prima il bucato era in assoluto il lavoro domestico + pesante e dispendioso. La rivoluzione del bucato inaugurò le prime lavatrici che lavavano i panni grazie all’azione dei detersivi. La svolta + importante provocata dalla rivoluzione del bucato fu di attribuire un nuovo significato alle faccende domestiche femminili, dimostrando che era possibile demandarlo alle macchine e dargli un valore diverso. Il tempo che una volta le donne dedicano al bucato potevano ora trascorrerlo al lavoro, guadagnandosi la propria indipendenza. Dovevano imparare a organizzare il proprio tempo e occuparlo in modo utile. Primary Sources: The Fable of the Bees (Bernard Mandeville) Introduzione Due concezioni della società L’attività intellettuale di Mandeville appare rivolta a scoprire gli errori e le confusioni che, combinandosi con le passioni naturali, rendono contradditoria la condotta umana e a condurre gli uomini ad una concezione più ragionevole di loro stessi, della natura e della società in cui vivono. L’errore, l’autoinganno, la confusione, nella loro interazione con le motivazioni fondamentali della natura umana, sono determinanti per il comportamento degli individui, e forniscono una chiave per la comprensione della società, delle sue regole e delle sue istituzioni. La Favola delle Api dovrebbe essere vista come una riflessione su due concezioni della società civile. Mandeville pone a confronto l’immagine della società piccola, pacifica, retta dalla virtù e dallo spirito pubblico dei cittadini, e quella di una società vasta e popolosa, commerciale e militare, priva sia della capacità che del bisogno di suscitare la dedizione dei cittadini. Il confronto di queste concezioni diventa il fulcro di una teoria sociale e morale. Il problema è che gli uomini non si rendono conto che queste concezioni sono reciprocamente esclusive. Il compito della teoria morale e politica diventa quello di articolare queste due concezioni e le loro implicazioni, favorendone la comprensione e il confronto, e imponendo una scelta fra esse. Ciò porta a individuare due diversi tipi di relazione fra bene privato e bene pubblico, impliciti nelle due concezioni della società.  Si può vedere la società come un gruppo poco numeroso, insediato su un territorio limitato. È una società chiusa, pacifica ed ugualitaria. Una società frugale, senza commercio e senza denaro, in cui i consumi sono limitati ai prodotti naturali del luogo. Una società così può essere una repubblica non espansiva, chiusa al lusso e al commercio, difesa dalle armi proprie dei cittadini e da loro amministrata. Una società così concepita può essere vista come il prodotto della conoscenza e della capacità di scelta morale dei suoi membri. Richiede l’attività degli individui in vista del bene comune, realizzato con la competenza razionale e le virtù civiche e sociali. Nella piccola società gli individui non possono perseguire la loro felicità meglio che praticando le virtù ed esercitando le loro qualità migliori. I principi della moralità sono anche le condizioni per il benessere collettivo. In questa società si hanno virtù private e pubblici benefici. Mandeville sostiene che questa disposizione morale è possibile sono entro condizioni sociali particolari e la scelta in favore di tali condizioni non è gratuita; una società piccola e virtuosa è una società incapace di sviluppo, chiusa alle arti e alle scienze, come alla prosperità materiale e alla potenza politica. Per poter essere tale deve essere priva delle motivazioni (passioni, desideri, vizi) e delle istituzioni e pratiche da cui dipendono sviluppo e prosperità (governo, commercio e denaro).  In base alla seconda concezione, la società è un corpo politico nel quale l’uomo, tolto dal suo stato selvaggio dalla persuasione, è divenuto una creatura disciplinata capace di realizzare i suoi fini lavorando per quelli altrui. È una società grande, popolosa, resa militarmente forte da un esercito permanente e professionale, controllata giuridicamente e amministrativamente da un potere politico sovrano e unitario, volta al commercio interno ed esterno. I risultati della cooperazione sono ricchezza, gloria e grandezza mondana della nazione. Il suo principio è la cooperazione interessata dei membri della comunità: ognuno realizza i suoi fini lavorando per gli altri. La grande società è una società commerciale, in cui ognuno partecipa attraverso lo scambio di beni e servizi. Lo scambio rende possibile la divisione del lavoro e quindi il progresso tecnico e scientifico, ottenuto con la specializzazione, l’accumulo e la trasmissione di esperienza, e presuppone l’istituzione del denaro come condizione per l’ordine, l’economia e la stessa esistenza della società civile. Mandeville afferma che nella grande società non vi è coincidenza fra bene privato e bene pubblico, e fra le regole in base a cui possono essere rispettivamente perseguiti. Egli sostiene che l’ostacolo alla comprensione della società commerciale è pensare che le virtù sociali e le qualità lodevoli proprie dell’individuo siano ugualmente benefiche per l’intera società. Una grande società si fonda sul principio che in essa gli effetti individuali e gli effetti sociali del comportamento degli individui sono sistematicamente divergenti. In questa società si hanno vizi privati e pubblici benefici; una grande società richiede e consente delle motivazioni e dei comportamenti non benefici per gli individui o moralmente non approvabili. La struttura mercantile e l’unità politica rendono produttive di benefici pubblici le forme di motivazione e comportamento individuale. La non coincidenza tra bene privato e bene pubblico costituisce sia il problema che la soluzione della grande società. Il problema è come siano possibili l’ordine e il benessere pubblico in assenza di virtù generalizzata e in presenza di motivazioni conflittuali. La soluzione, secondo Mandeville, è che in una grande società gli effetti socialmente benefici delle azioni individuali sono il risultato di una combinazione non prevista e non voluta dei comportamenti effettivi. L’invenzione della morale e l’evoluzione della società civile La Favola delle Api costituisce un tentativo di delineare una teoria riguardo ai fondamenti e alle origini della società civile, delle sue istituzioni e delle sue pratiche. La discussione intorno all’origine della socievolezza e della società ha conosciuto un notevole sviluppo, quantitativo e qualitativo nel corso della formazione della Favola. Ci sono dei punti fermi di questo sviluppo:  La società nasce dalla molteplicità dei desideri degli uomini e dall’opposizione continua che incontrano nel soddisfarli.  Le qualità degli uomini che rendono necessaria la società sono, insieme, quelle che la rendono loro possibile. Nei testi della prima edizione della Favola, la discussione di Mandeville di concentra sull’origine della virtù morale e viene presentata una Teoria dell’impostura: la morale è l’invenzione di politici avveduti, che hanno ingannato le passioni naturali dell’uomo, volgendole al fine del proprio dominio su una società ordinata. L’uomo nello stato naturale è l’animale meno socievole, e non può essere condotto in società solo dalla forza. I legislatori sono stati quindi indotti, per istituire la società, a far credere agli uomini che il loro maggiore beneficio consiste nel vincere e nel servire l’interesse pubblico. Lodando una presunta eccellenza razionale della natura umana, i politici riescono a far accettare i concetti di onore e infamia come il massimo bene e il massimo male, legandoli alle azioni compiute in base al piacere e in vista del bene privato. Si tratta di orientare progressivamente le valutazione degli uomini, fino a far loro accettare un linguaggio morale comune, in termini di virtù e vizio. In questa teoria dell’impostura non bisogna vedere solo dello scetticismo, ma un tentativo non soddisfacente di spiegazione delle regole morali. Bisogna sottolineare due punti di questa teoria:  La socievolezza (nella forma della moralità) si basa su passioni che sono a loro volta sociali, in quanto fanno riferimento al punto di vista di qualche osservatore. Le regole morali diventano delle ragioni per agire, o almeno per controllare la propria condotta, per l’interazione fra la loro pubblica osservanza e violazione, il giudizio sociale su chi agisce e le passioni fondamentali della natura umana.  L’antirazionalismo di Mandeville che si esprime in primo luogo nella concezione dell’uomo come composto di diverse passioni che lo governano a turno e che la ragione non è capace di controllare. Ciò significa che la capacità dell’uomo è limitata, che i suoi valori sono soggettivi e dipendono dai suoi desideri, e che non si sviluppa che dopo un lungo processo di incivilimento. L’enfasi di Mandeville sulle basi sociali dell’autostima, che costituisce la motivazione umana più importante, indica che la capacità di vivere in società è acquisita dagli individui essenzialmente partecipando a relazioni sociali. La teoria più matura di Mandeville prevede delle esplicite prescrizioni metodologiche. L’indagine sull’origine della società deve avere carattere empirico, e basarsi sull’osservazione e il ragionamento a posteriori. Si introduce un’idea di spiegazione funzionale in teoria sociale. Un compito centrale della teoria è distinguere ciò che è naturale e ciò che è acquisito nei bisogni, nelle passioni e nelle facoltà intellettuali umane, per individuare, a proposito di ciascuna istituzione e pratica sociale, la necessità e le capacità umane che le spiegano in modo non circolare. La non circolarità della spiegazione richiede che sia indicato un processo causalmente adeguato che conduce dalla funzione all’istituzione o alla pratica da spiegare. Lo sviluppo della teoria di Mandeville non è solo metodologico. Nell’ambito delle motivazioni sociali dell’uomo il ruolo centrale resta attribuito all’orgoglio e alla vergona. Però queste passioni sono ora fatte derivare da una disposizione più profonda della natura umana, una preferenza per sé (self-linking), distinta dall’amore di sé (self-love), che rappresenta una funzione biologica legata all’autoconservazione. La preferenza per sé e le sue diverse forme ed effetti, una volta diretti e controllati, conducono gli uomini alla vita sociale. Ma questo compito non viene ora attribuito ad un politico, bensì alla specie. Le regole sociali si possono formare entro ed a partire da relazioni sociali e trovano fondamento nella successione di esperienze e di tentativi della specie. Mandeville cerca di dare una spiegazione naturalistica della società, in cui il riferimento alle intenzioni di individui isolati è sostituito dallo sviluppo nel tempo delle esperienze sociali dell’umanità, in modo da definire un processo causale e non ad hoc della formazione della società stessa. La società è considerata come un artificio che deve essere spiegato a partire da degli assunti di egoismo naturale e di istinto di sovranità e senza ipotizzare un amore degli uomini gli uni per gli altri. L’idea fondamentale è che sia il bisogno sia la capacità di associarsi, si formino grazie alla partecipazione a delle forme di vita sociale. La socievolezza viene appresa. Nessuno ha meno bisogno della società di un selvaggio e nessuno ne ha più bisogno dell’uomo civile, i cui desideri si sono accresciuti e moltiplicati, con il progresso delle conoscenza, il differenziarsi dei ranghi e l’estendersi dei possessi. La capacità di partecipare ad una cooperazione in vista del proprio interesse presuppone l’esperienza della vita sociale. Il bisogno e la capacità di vivere in società sono quindi già il risultato della partecipazione degli individui a forme di vita sociale, e dell’adattamento dei loro altri bisogni e capacità a tali situazioni. L’uomo presenta delle caratteristiche naturali, su cui può esercitarsi l’artificio che forma le società composte di grandi moltitudini. La socievolezza è una disposizione umana che però non si manifesta negli individui se non dopo la loro unione sotto un governo. Perché la società si formi e si completi, deve essere presente in essa qualcosa che manca agli individui fino a che rimangono isolati, ma si aggiunge alla moltitudine una volta che sono riuniti. La società è un artificio che produce i suoi artefici. Le disposizioni sociali degli individui possono così essere a loro volta spiegate, e non devono essere assunte. In questo quadro il problema dell’origine della società perde la sua importanza. Quello che conta sono le modificazioni lungo un continuum di rapporti sociali, e l’interazione degli agenti fra loro e con l’ambiente sociale che determinano e insieme modificano tali rapporti. Virtù e utilità Il paradossi di Mandeville, vizi privati e pubblici benefici, è formulato in un linguaggio morale, e solo dal punto di vista della teoria morale che lo rende possibile si può coglierne il significato centrale. La difficoltà interpretativa fondamentale dell’etica di Mandeville è rappresentata dalla compresenza di una definizione rigorista della virtù, di una spiegazione convenzionalista dell’origine della morale, e di una concezione utilitaristica della sua funzione. L’interesse dell’etica di Mandeville consiste in quella che può sembrare una debolezza: sostenere in un contesto convenzionalista e utilitarista che la sola definizione corretta di virtù è quella rigorista, che questa definizione rende psicologicamente impossibile per gli uomini essere virtuosi, e inoltre che la virtù in certi casi non promuove il bene pubblico. In base al rigorismo, un’azione è virtuosa se tende al bene degli altri o al dominio delle proprie passioni, e viene compiuta unicamente per un desiderio razionale di tale bene o di tale dominio. Il concetto di virtù o di merito morale richiede che l’ambizione di essere buoni sia il solo motivo di azione. Il giudizio morale sulle azioni deve riguardare i loro motivi e riconosce come meritorie solo le azioni compiute in base all’intenzione del bene, indipendentemente o contro ogni passione. Il rigorismo sta alla base dell’idea che il merito morale sia possibile senza sacrificio di sé, e che la virtù sia una disposizione permanente della specie, in accordo con la sua costituzione naturale. Il rigorismo è la chiave dello scetticismo circa le virtù umane. Si possono distinguere due linee argomentative differenti in questo scetticismo:  Denuncia dell’ipocrisia e contrasto fra la teoria e la pratica degli uomini.  Contrapposizione di virtù reale e virtù simulata. Mandeville non si limita solo ad indicare la possibilità che le passioni simulino la virtù, ma egli offre una spiegazione dell’origine della morale, adeguata rispetto alla natura umana, ed in base ad essa sostiene che è impossibile che la virtù degli uomini sia reale. Secondo Mandeville, la morale trae origine da una modificazione della passione naturale dell’orgoglio che consente la cooperazione sociale degli uomini. La cooperazione richiede che gli individui controllino le loro passioni, pongano limiti al loro istinto di sovranità e alla loro partecipazione naturale, e rinuncino ad alcuni dei propri fini in cambio dell’ordine e del bene pubblico. Il vizio è tutto ciò che viene fatto senza considerazione del bene pubblico e per soddisfare un appetito, quando vi è la possibilità che tale azione sia dannosa per la società, o renda l’agente meno utile agli altri. La virtù è ogni azione con cui contro l’impulso di natura si cerca il bene degli altri, o il dominio sulle proprie passioni, per un’ambizione razionale di essere buoni. Queste definizioni conducono al rigorismo, perché in base ad esse le azioni compiute per soddisfare una qualsiasi passione non sono mai virtuose. Per la natura umana è in linea di principio impossibile soddisfare i criteri del merito morale. Per essere meritoria la condotta umana non dovrebbe essere motivata da alcuna passione. Per poter introdurre il concetto di virtù praticamente efficace bisogna accettare che le azioni umane non siano mai realmente virtuose. La teoria di Mandeville solleva qualche problema interessante. Gli uomini sono motivati dall’orgoglio prima ad accettare una certa concezione di sé e quindi ad agire in base a principi morali che esprimono tale concezione. I concetti di virtù e vizio devono essere definiti in modo coerente sia con la possibilità di una motivazione basata sull’orgoglio, sia con la soddisfazione dei requisiti funzionali della cooperazione. Ciò conduce ad una morale rigorista: il merito morale viene legato alle intenzioni e a tali intenzioni, in quanto esprimono un principio razionale. Secondo Mandeville, la morale diventa spiegabile, sia nei termini della sua istituzione che in quelli della sua funzione, solo se i suoi soggetti condividono delle credenze false circa la loro natura e le loro motivazioni. B: I furfanti Costoro erano chiamati furfanti, ma a parte il nome, i seri e gli industriosi erano uguali a loro La parola furfante viene intesa nella sua accezione più ampia, in modo che comprenda chiunque non sia sinceramente onesto faccia agli altri ciò che non vorrebbe fosse fatto a lui stesso. Tralasciando gli artifici con cui compratori e venditori si imbrogliano a vicenda, non c’è un solo mercante che riveli i difetti dei suoi beni; questi piuttosto si industria a nasconderli, a danno del compratore. Decio, un uomo distinto che aveva raccolto delle grosse ordinazioni di zucchero dall’estero, tratta una notevole partita di questa merca con Alcandro; essi non riescono però ad accordarsi. Un uomo di Alcandro porta una lettera dalle Indie Occidentali che lo informa dell’arrivo in Inghilterra di una quantità di zucchero superiore a quella attesa. Ora Alcandro desidera vendere al prezzo di Decio, ma essendo una vecchia volpe, per non sembrare precipitoso lascia cadere l’argomento e invita Decio ad accompagnarlo nella sua casa di campagna. Il giorno successivo Decio viene a sapere che la flotta delle Barbados è stata distrutta da una tempesta. Decio, spinto da quanto sapeva, conclude la trattativa al prezzo di Alcandro e guadagna cinquecento sterline con il suo zucchero. Tutto ciò è chiamato comportamento corretto, anche se nessuno dei due avrebbe desiderato di essere trattato come si sono trattati a vicenda. C: La metafora dei soldati I soldati, che erano costretti a combattere, se sopravvivevano ne ricevevano onore Il desiderio degli uomini che si pensi bene di loro è imprevedibile e essi vogliono essere stimati per ciò che se avessero potuto avrebbero evitato. Se nell’uomo la ragione avesse lo stesso peso dell’orgoglio, non potrebbe mai compiacersi di lodi che è consapevole di non meritare. Per onore si intende la buona opinione degli altri, considerata più o meno reale a seconda del maggiore o minore rumore che viene fatto per dimostrarla. L’opposto dell’onore è il disonore o ignominia, che consiste nella cattiva opinione e disprezzo degli altri. L’onore è considerato una ricompensa per le buone azioni, mentre il disonore è considerato una punizione per le cattive azioni. Il disonore viene chiamato vergogna per l’effetto che produce. La vergogna è reale in quanto indica una passione, che ha i suoi sintomi, domina la ragione, e per essere domata richiede la stessa fatica e la stessa rinuncia di qualsiasi altra passione. Per definire la passione della vergogna si fa riferimento ad una riflessione dolorosa sulla mancanza di valore, che deriva dall’apprendere che altri ci disprezzano, o che potrebbero farlo a buona ragione, se fossero ben informati. La vergogna che le persone rozza, ignoranti e maleducate manifestano senza causa apparente di fronte ai loro superiori è sempre accompagnata dalla coscienza della loro debolezza e incapacità, e deriva da essa. Anche il più modesto degli uomini non ha mai provato vergogna senza qualche colpa o sfiducia in se stesso. L’opposto della vergogna è l’orgoglio, ma nessuno può provare la prima, senza aver mai provato il secondo. Queste due passioni sono nella nostra costituzione; infatti quando un uomo è sopraffatto dalla vergogna, avverte una depressione degli spiriti, ma quando, gratificando la sua vanità, prende piede l’orgoglio, egli manifesta sintomi opposti. La vergogna è un ingrediente necessario a rendere l’uomo socievole e nessuna società potrebbe diventare civile, se gli uomini non vi fossero soggetti. Le passioni che dobbiamo nascondere per il buon andamento e il decoro della società sono la lussuria, l’orgoglio e l’egoismo. La modestia ha accezioni differenti, secondo le passioni che nasconde:  Modestia che ha come oggetto una generale pretesa alla castità, e consiste in uno sforzo delle facoltà a nascondere di fronte ad altri l’inclinazione a propagare la nostra specie. Bisogna evitare ogni nudità sconveniente, il linguaggio deve essere casto e devono essere evitati gli atteggiamenti e i gesti che possono turbare l’immaginazione.  Se l’impudenza è un vizio, non necessariamente la modestia deve essere una virtù. Essa infatti è edificata sulla vergogna e può essere buona o cattiva a seconda delle azioni compiute. È utile, secondo Mandeville, saper distinguere fra buone qualità e virtù. Il vincolo della società esige da ogni membro una certa considerazione per gli altri, da cui il più alto non è dispensato di fronte al più umile. Ma quando si è soli, la modestia e l’impudenza perdono di significato. Le buone maniere non hanno nulla a che fare con la virtù o la religione, infatti, invece di estinguere, accendono le passioni, L’uomo di buon senso ed educato non gode mai del suo orgoglio come quando lo nasconde con la maggiore abilità. D: Sincerità e autostima Infatti non c’era ape che non guadagnasse non dico più di quanto dovesse, ma più di quanto, ecc. La grande stima che abbiamo per noi stessi, e il poco valore che riconosciamo agli altri, ci rendono giudici parziali della nostra causa. Poche persone affermano di guadagnare troppo da coloro ai quali vendono. I commercianti di solito sono costretti a difendersi con bugie piuttosto che rivelare quanto ottengano veramente con le loro merci e sono attenti a nascondere il costo iniziale di ciò che vendono. E: Guadagno e autoconservazione come i nostri giocatori che, anche se non barano, non dicono mai di fronte ai perdenti quanto hanno vinto. Il fatto che i giocatori cerchino di nascondere i loro guadagni ai perdenti deriva da una mistura di gratitudine, pietà e autoconservazione. Tutti gli uomini sono per natura grati quando ricevono un beneficio. Il nostro essere compiaciuti verso coloro cui abbiamo vinto del denaro deriva da un principio di gratitudine. Il secondo motivo è la pietà, che deriva dalla consapevolezza dell’afflizione che si prova quando si perde. Infine, si teme l’invidia per perdenti, e quindi l’autoconservazione spinge a ridurre, in primo luogo, il favore che si deve loro e, di conseguenza, la ragione per cui si sente pietà, nella speranza che in questo modo si avrà mano malevolenza e invidia da parte dei perdenti. Quando tutte le passioni sono cessate e le cure dell’autoconservazione non occupano più i pensieri del vincitore, costui non solo non si farà più scrupolo di ammettere quanto ha vinto, ma se si intromette la sua vanità, si vanterà dei suoi guadagni. F: Virtù e vizi e la virtù, che dalla politica aveva appreso mille trucchi astuti grazie alla sua felice influenza, aveva stretto amicizia con il vizio La virtù si lega al vizio quando della gente buona e laboriosa, che è utile alla società, ricava la sua sussistenza da qualcosa che dipende in modo determinante da vizi di altri, senza però con questo rendersi complice di tali vizi se non per via del commercio. G: Ladri e ubriaconi anche il peggiore dell’intera moltitudine faceva qualcosa per il bene comune Mandeville riconosce che ladri e scassinatori sono molto dannosi alla società e che ogni governo dovrebbe prendere misure. Ma se tutti fossero completamente onesti, metà dei fabbri della nazione sarebbe senza lavoro Il lavoro di milioni finirebbe presto se non vi fossero altri milioni che si dedicavano a consumare i loro manufatti. Gli uomini non devono essere giudicati dalle conseguenze che le loro azioni possono avere, ma dai fatti stessi e dai motivi in base a cui risulta che abbiano agito. La gente comune, di vista corta, di rado riesce a vedere oltre un anello della catena delle cause; ma quelli che sanno allargare la loro visuale, e sono capaci di osservare l’insieme dei fatti concatenati, possono vedere il bene scaturire e germogliare dal male. Un uomo pieno di gratitudine non può dare maggior prova di rinuncia che mettersi a tormentare e perseguitare proprio la classe di uomini cui deve la sua fortuna; e ciò per l’avversione all’oziosità e per cura della religione e del benessere pubblico. H: La prostituzione e la donna Le parti direttamente opposte si aiutavano a vicenda, come per dispetto La Riforma ho risvegliato il clero dalla pigrizia e dall’ignoranza in cui era caduto. Secondo Mandeville, le donne virtuose, senza saperlo, promuovono le prostitute, così l’incontinenza aiuta a difendere la castità. Le passioni di alcuni sono troppo violente per essere piegate da una legge o da un comando, e in tutti i governi è saggio sopportare inconvenienti minori, per evitarne di maggiori. I saggi governanti di una città ben ordinata tollerano un certo numero di case in cui si possono pubblicamente prendere in affitto delle donne. Queste case sono consentite nella parte più sudicia della città, sono luoghi dove ci si limita ad incontrarsi e trattare e non viene tollerata nessuna forma di comportamento lascivo. Le donne di questi luoghi durante il giorno, solitamente, portano frutta e verdura sui carretti. In Italia la tolleranza delle prostitute è ancora più sfacciata. La ragione per cui buoni politici tollerano queste case non è l’irreligiosità, ma l’intento di prevenire un male peggiore e di provvedere alla sicurezza delle donne onorate. È necessario sacrificare una parte delle donne per salvare l’altra e prevenire un’indecenza di natura ancora più odiosa della prostituzione. La castità, secondo Mandeville, può trovare sostegno nell’incontinenza e, quindi, la miglior virtù (castità) può aver bisogno del peggiore dei vizi (prostituzione). I: Avarizia La radice del male, l’avarizia, Vizio dannato, meschino, pernicioso, Era schiava della prodigalità L’avarizia è un vizio che produce disgrazie. Gli uomini non lo sopportano perché quasi tutti ne sono stati danneggiati. Infatti, quanto più denaro viene ammassato da alcuni, tanto meno se ne deve accumulare presso gli altri, quindi quando gli uomini insultano gli avari di solito sono mossi da interessi personali. Coloro che sono sprovvisti di denaro sono costretti a prestare qualche servizio alla società per poterlo ottenere. Ma ognuno stima il suo lavoro come stima se stesso, cioè non al di sotto del suo valore. Quindi molti pensano di doversi dare troppo da fare per ottenerlo. Gli uomini cercano di ottenere ciò di cui hanno bisogno con la maggior facilità possibile. Di conseguenza, gli uomini fanno fatica per procurarsi denaro e di conseguenza di indignano contro l’avidità in generale, perché li costringe a rinunciare e ciò di cui hanno bisogno o a sostenere fatiche maggiori di quanto vorrebbero. L’avaria è necessaria alla società per raccogliere ciò che è stato buttato dalla prodigalità, la quale senza l’avarizia rimarrebbe senza risorse. Questi due vizi, nonostante sembrino opposti, si aiutano l’un l’altro. Vi è una specie di avaria che consiste nel desiderare avidamente la ricchezza, per poterla spendere, e che spesso si incontra nella stessa persona che ha anche prodigalità. K: Prodigalità e frugalità Il nobile peccato La prodigalità è il nobile peccato e non è la stessa che va insieme all’avarizia. In questo caso il nobile peccato (prodigalità) è un vizio amabile, è quello di uomini educati nell’abbondanza che hanno orrore per il vile pensiero del lucro e dissipano solo ciò che altri si sono affaticati ad accumulare. L’avaro non fa del bene a se stesso e per gli altri, ma non per il suo erede. Il prodigo, invece, è una benedizione per la società e non danneggia altri che se stesso. Molti uomini moderati, nemici degli eccessi, diranno che la frugalità potrebbe prendere il posto di avarizia e prodigalità; che se gli uomini dissipassero in tanti modi la ricchezza, non sarebbero indotti a tante pratiche cattive per metterla insieme; e quindi che evitando entrambi gli eccessi, gli uomini sarebbero più felici e meno viziosi. La frugalità, come l’onestà, è una virtù mediocre, adatta solo a piccole società di uomini buoni e pacifici, ma in una nazione grande e indaffarata non si saprebbe che farsene. Mandeville considera l’avarizia e la prodigalità nella società, come due veleni opposti, di cui si sa che una volta corrette in entrambi le qualità nocive tramite l’annullamento reciproco, possono aiutarsi e formare un buon farmaco. N L’invidia è quella caratteristica ignobile della nostra natura che ci fa stare male a causa di ciò che consideriamo essere una felicità per gli altri. Non credo vi sia una persona che non ne sia stata colpita, e tuttavia non ho mai incontrato nessuno che ammettesse di essere consapevole. È impossibile che un uomo voglia il bene di un altro più del bene proprio a meno che non supponga di non potere egli stesso conseguire i suoi desideri. Quando veniamo a sapere che altri godono o godranno di ciò che riteniamo non meritino, ci affliggiamo e ci adiriamo contro la causa di questa afflizione. Inoltre desideriamo sempre il nostro bene e quando vediamo qualcosa che ci piace e di cui siamo privi in possesso di altri, proviamo dolore per essere senza la cosa che ci piace. Questa sofferenza può essere alleviata con l’ira contro quelli che possiedono ciò che stimiamo e che ci manca. Quest’ultima passione viene curata e coltivata per alleviare almeno in parte il disagio che sentiamo a causa della prima. L’invidia quindi è un composto di ira e dolore. I suoi sintomi sono difficili da identificare e numerosi. Nella moltitudine rozza e ineducata questa passione si presenta a viso aperto, insultando quelli che stanno meglio, cercando di gettare cattiva luce anche sulle loro azioni più lodevoli. Gli uomini di lettere che soffrono di tale disturbo invece quando invidiano qualcuno per talento ed erudizione, si preoccupano di nasconderlo, negando e sminuendo le stesse buone qualità che invidiano. Cecano soltanto errori, sono severi nelle loro critiche, fanno una montagna di una pietra. L’invidia si manifesta anche negli animali, ad esempio i cavalli la mostrano nel loro sforzo di superarsi tanto è che possono correre fino alla morte per non vedere un altro cavallo davanti a loro. Se l’invidia non fosse inseparabile dalla natura umana non sarebbe così comune fra i bambini e i giovani non sarebbero cosi spronati all’emulazione. L’emulazione richiede lavoro, fatica, è chiaro che chi agisce in base a tale disposizione compie una rinuncia, ma se guardiamo con attenzione troveremo che questo sacrificio dell’agio e del piacere è fatto solo di invidia e per amore della gloria. Il ragazzo che riceve un premio per avere avuto migliori risultati è consapevole di quale afflizione sarebbe stata per lui il non riceverlo. Questo pensiero lo induce ad impegnarsi per non essere superato da quelli che ora considera inferiori e quanto maggiore è il suo orgoglio tanto maggiori saranno le rinunce che affronterà per difendere la sua vittoria. L’altro che nonostante le pene che si è dato per avere buoni risultati ha mancato il premio, se ne dispiace e quindi prova ira per colui che deve considerare come la causa del suo dolore. Ma manifestare la sua ira sarebbe ridicolo e non gli servirebbe a nulla, quindi deve adattarsi ad essere stimato meno dell’altro ragazzo, oppure aumentando gli sforzi deve cercare di ottenere risultati migliori dei suoi. Scommetto che il ragazzo disinteressato e di buon carattere sceglierà la prima strada e diventerà apatico e indolente, mentre il mascalzone ambizioso permaloso e litigioso sottoporrà se stesso a grandi pene pur di vincere. L’invidia è molto comune anche fra i pittori ed è utile per far compiere loro dei progressi. Se un pittore con l’impegno giunge non solo ad eguagliare ma a superare l’uomo che invidiava la sua sofferenza è finita e la sua ira placata, e es prima lo odiava ora è lieto di esserne amico. Poiché ognuno se potesse essere felice vorrebbe godere dei piaceri ed evitare i dolori, l’amore di sé ci spinge a considerare ogni creatura che appare contenta come un rivale in felicità. In che modo strano ci governano le passioni, invidiamo un uomo perché è ricco e lo odiamo, ma se diventiamo suoi uguali ci calmiamo e alla sua minima apertura ne diventiamo amici e se poi finiamo con l’essere superiori a lui, possiamo avere pietà delle sue disgrazie. L’ostracismo dei greci era il sacrificio di uomini di valore all’invidia epidemica e spesso veniva impiegato come rimedio infallibile per curare e prevenire i ma li del malumore e del rancore popolare. Una vittima di stato spesso placa il malcontento di una intera nazione. Noi crediamo di volere la giustizia e che il merito sia premiato, me se degli uomini occupano a lungo i posti più importanti e di onore, metà di noi si stanca di loro, cerchiamo le loro colpe e se non ne troviamo crediamo le nascondano. Quanto più una passione è un composto di altre più difficile è definirla. Nulla è più dannoso della gelosia che è fatta di amore, speranza e molta invidia. Sperare significa desiderare con una certa fiducia che la cosa desiderata si realizzi. La forza o la debolezza della nostra speranza dipende dal maggiore o minore grado della nostra fiducia ed ogni speranza implica il dubbio: quando la nostra fiducia è tale da escludere ogni dubbio diviene certezza. Amore significa in primo luogo affetto, quello che gli amici provano fra loro e che consiste nell’inclinazione per la persona amata e nel volere il suo bene, tanto da simpatizzare con i suoi dolori oltre che con le sue gioie. Quando siamo sinceri nel partecipare alle disgrazie di un altro, l’amore di sé ci fa credere che le sofferenze che priviamo debbano alleviare e ridurre quelle del nostro amico. In secondo luogo intendiamo per amore una forte inclinazione che le persone di sesso diverso nutrono le une per le altre, se si piacciono. È in questo significato che l’amore entra nella composizione della gelosia. Ma poiché la pace e la felicità della società civile richiedono che l’impulso verso un altro essere sia mantenuto segreto e che non se ne parli mai in pubblico, fra la gente ben educata è considerato delittuoso menzionare chiaramente qualsiasi cosa abbia a che fare con la procreazione. Rileviamo la differenza fra l’uomo allo stato selvaggio e la stessa creatura nella società civile. Nel primo uomini e donne rozzi e ignari delle buone maniere troverebbero subito la causa del disturbo e vi troverebbero pronto rimedio come gli altri animali. Per i secondi che devono obbedire le regole della religione, della decenza prima che i dettami della natura, i giovani di entrambi i sessi devono essere fortificati contro tale impulso e fin dall’infanzia sono indotti s temerne anche i primi segni. È interesse della società difendere la decenza e le buone maniere. I veri amanti platonici sono pallidi e deboli, un temperamento robusto e bilioso non consentirebbero mai un amore così spirituale da escludere ogni pensiero e desiderio riferito al corpo. Il curioso, osserverà che più questo amore è elevato e libero da ogni pensiero sensuale, più esso è falso e degenere rispetto alla sua origine e semplicità primitiva. Adulando il nostro orgoglio e accrescendo la buona opinione che abbiamo di noi stessi da una parte e ispirandoci un timore immenso dall’altra, i moralisti ci hanno insegnato a combattere con noi stessi e se non a vincere almeno a nascondere e mascherare la nostra passione. Quelli che immaginano che vi possa essere gelosia senza amore non capiscono questa passione. Gli uomini possono non provare il minimo affetto per le mogli ma adirarsi comunque per la loro condotta. In questi casi però sono mossi dall’orgoglio, dalla preoccupazione per la loro reputazione. Le odiano senza rimorso, le picchiano ma dormono tranquilli. Le loro ricerche non sono approfondite, non provano nel cuore l’ansia di una scoperta. Quando l’amore di lui finisce o sospetta un tradimento, egli la lascia e non la pensa più. Invece anche per l’uomo più ragionevole una delle cose più difficile è lasciare una amante che ancora si ama, quali che siano le sue colpe. Se nell’ira la colpisce, se ne dispiace. L’amore gli fa pensare al male che le ha fatto e vuole fare pace con lei. Potrà odiarla ma se non si libera completamente dalla sua debolezza non riesce a separarsi da lei. Che il sommo bene sia il piacere era dottrina di Epicuro che pur visse in modo sobrio e virtuoso. Tanto da far generare discrepanze nella concezione di piacere. Per taluni il piacere di Epicuro si esprimeva nell’essere virtuosi (Erasmo afferma che i cristiani sono i più grandi epicurei), altri sostenevano che il piacere fosse soddisfare le nostre passioni. L’uomo mondano, ambizioso pur essendo privo di meriti, vuole sempre la precedenza e desidera essere onorato più di quelli che gli sono superiori. D’altra parte molti degli antichi filosofi, soprattutto gli stoici, e moralisti non riconoscevano come vero bene nulla che ci potesse essere sottratto da altri. Essi consideravano saggiamente l’instabilità della fortuna, la vanità dell’onore e l’applauso del popolo; la precarietà delle ricchezze e quindi ponevano la vera felicità nella calma serena di una mente soddisfatta libera da colpe e da ambizioni, una mente che avendo vinto ogni appetito dei sensi non si cura del sorriso della fortuna. Una mente che ha imparato a sostenere le più gravi perdite senza turbarsi. Molti hanno affermato di essere giunti a questo culmine della rinuncia tanto da elevarsi al di sopra dei comuni mortali. Fra gli antichi costoro ebbero sempre il maggiore prestigio. Tuttavia altri respinsero questi precetti come impraticabili, definirono fantastiche le loro idee e cercarono di provare che quanto gli stoici dicevano di loro era al di fuori di ogni possibilità umana. Nonostante queste critiche, le persone serie e la maggioranza dei saggi si trovava d’accordo con gli stoici sui punti più importanti come che la pace interiore è la più grande fortuna e nessuna vittoria vale più di quella sulle passioni, che solo l’uomo buono può essere felice. In teoria è tutto semplice ma in pratica tutto è complesso. se mi togliete il cibo quando ho fame, o se mi sputate in faccia non so fino a quanto resterò filosofico nel mio comportamento. Confesso di non aver trovato in alcun luogo maggiore austerità di costumi o disprezzo per i piaceri mondani che nelle comunità monastiche, ovvero nelle persone che volontariamente rinunciano o si ritirano dal mondo per combattere se stessi. Eppure sono stato messo in guardia su questo perché mi è stato detto che è tutta farsa ed ipocrisia e che per quanto costoro facciano mostra di amore angelico fra loro c’è discordia: tra le donne se si scavasse nell’intimità si verrebbero a scoprire figli, tra gli uomini si troverebbe invidia, ubriachezza, cattiveria. In verità essi sono fatti con lo stesso stampo e la stessa natura corrotta degli altri uomini, sono nati con le stesse debolezze, soggetti alle stese passioni, quindi se sono scrupolosi nella loro vocazione, e possono astenersi almeno dall’omicidio, dall’adulterio, , dalla bestemmiala loro vita è considerata inappuntabile, e la loro reputazione intatta. So che mi verrà detto che la ragione per cui il clero si risente così tanto alla minima offesa è la grande preoccupazione di difendere la sua vocazione. È la stessa ragione per cui sono solleciti nei comodi e conforti della vita, perché se accettassero di essere insultati, si accontentassero un pasto più povero e di vestiti più rozzi. La moltitudine che giudica dalle apparenze, penserebbe che il clero non gode delle cure della provvidenza più del resto della gente e quindi non solo avrebbe poca stima delle loro persone ma non si curerebbero dei loro rimproveri. La povertà getta disprezzo sul clero. Chi predica il disprezzo delle ricchezze e la vanità dei piaceri terreni in una veste vecchia, soltanto perché non ne possiede un’altra, chi beve a casa sua di cattivo umore una birra leggera, ma fuori si getta su un bicchiere di vino quando se lo riesce a procurare, chi mangia con poco piacere il suo povero pasto, ma divora con avidità ciò che piace al suo palato, verrà disprezzato perché è povero ma non sa esserlo con la rassegnazione e tranquillità che predica agli altri e in questo modo rivela che le sue inclinazioni sono contrarie alla sua dottrina. Ma quando un uomo per grandezza d’animo decide sul serio di vincere i suoi appetiti, rifiuta tutte le offerte di agio e di lusso che gli possono essere fatte e respinge tutto ciò che può soddisfare i sensi, allora la gente ordinaria lungi dal disprezzarlo sarà pronta a divinizzarlo e adorarlo. Gli uomini sono ben disposti a credere gli uni alle parole degli altri, quando vedono che le circostanze corroborano ciò che viene loro detto, ma quando le nostre azioni contraddicono direttamente ciò che diciamo, è impudente credere di essere creduti. Se c’è un clero sulla terra che vuole si pensi sia libero delle cure del mondo e dia valore maggiore all’anima che al corpo, non deve fare altro che evitare di mostrare interesse per i piaceri dei sensi maggiore di quello che di solito mostra per i piaceri dello spirito e potrà star sicuro che la povertà finché la sopporta con forza non lo farà disprezzare per quanto misere siano le sue condizioni. Non vale obiettare che poiché gli uomini non sono governati dai loro eguali con la stessa facilità con cui lo sono dai loro superiori, è necessario che coloro che governano per tenere in soggezione la moltitudine siano superiori agli altri per l’aspetto esterno e di conseguenza che quelli che occupano le posizioni più alte abbiano dei segni d’onore e dei simboli di potere che li distinguono dal volgo. In primo luogo i principi poveri e i governi deboli che non sono capaci di mantenere nei fatti la pace pubblica sono costretti a sostituire con l’ostentazione dello sfarzo ciò che manca loro come potere reale. Ma i grandi principi e gli stati forti non hanno bisogno di questi stratagemmi perché ciò che li rende temibili all’estero non mancherà di dare loro sicurezza anche all’interno. In secondo luogo la società va protetta attraverso le leggi e una giusta amministrazione. Non saranno le belle toghe o le catene d’oro degli sceriffi a prevenire rapine, omicidi. Ammettiamo pure che gli occhi della plebe debbano essere abbagliati con uno sfarzo esteriore, se la virtù fosse il massimo diletto dei grandi uomini perché dovrebbero dissipare anche per cose che il volgo non comprende e che sono sottratte allo sguardo del pubblico, come i loro divertimenti privati, il lusso della sala da pranzo? È evidente che il tenere in soggezione la moltitudine grazie ad un elevato tono di vita non è che una maschera e un pretesto usato dai grandi uomini per nascondere la loro vanità e soddisfare ogni appetito senza essere rimproverati. Ho cosi provato che i piaceri reali di tutti gli uomini in natura sono terreni e sensuali. Interrogate non solo i religiosi e i moralisti di ogni condizione, ma i ricchi e i potenti circa il piacere reale ed essi vi diranno con gli stoici che non vi può essere vera felicità nelle cose mondane e corruttibili, ma poi guardate alla loro vita e troverete che non si dilettano di nient’altro. Cosa dobbiamo fare in questo dilemma? Dobbiamo essere così spietati da giudicar in base alle azioni degli uomini e dire che tutti mentono? Oppure saremo così sciocchi da fidarci di quello che dicono, pensare che siano sinceri in ciò che affermano e non credere ai nostri occhi?. L’uomo è una creatura che agisce in modo incoerente rispetto ai propri principi. Questa contraddizione nella struttura dell’uomo è la ragione per cui la teoria della virtù è tanto ben compresa e la pratica di essa tanto rara. Se mi chiedete dove cercare le splendide qualità di ministri, di principi ben descritte in dediche, epitaffi, vi rispondo: solo lì. O Se segui le nazioni più fiorenti fin dalla loro prima origine troveremo che nei lontani inizi di ogni società, gli uomini più ricchi ed importanti mancarono per lungo tempo di moltissime di quelle comodità della vita di cui ora godono gli ultimi e i più umili; molte cose che un tempo erano considerate dei ritrovati di lusso, oggi sono considerate tanto necessarie che nessuna creatura umana dovrebbe esserne priva. L’uomo ha appreso con l’esperienza che nulla è più soffice delle piume e ha scoperto che ammucchiate esse resistono grazie alla loro elasticità ad un peso che vi si pone sopra e si risollevano da sole non appena la pressione termina. Non c’è dubbio che l’usarle per dormire fu dapprima una soddisfazione della vanità e un agio esclusivo dei ricchi e dei potenti ma poi sono divenute comuni che quasi tutti dormono su letti di piume. Un altro lusso di cui godono i poveri che non è considerato tale e a cui senza dubbio si sarebbero astenuti i più ricchi nell’età dell’oro, è l’uso della carne degli animali come cibo. Gli uomini non si chiedono del reale valore e causa dei costumi e delle mode della loro età. Non giudicano in base alla ragione ma all’abitudine. Spesso ho pensato che è per questa tirannide esercitata su di noi dal costume che uomini appena di buon carattere si sono riconciliati con l’idea di uccidere tanti animali per cibarsene, nonostante la terra fornisce loro tanti vegetali. E non è strano se il dolore non influisce sulla nostra intelligenza, perché creature come gamberi, ostriche sono mute, dalla costituzione molto diversa dalla nostra, quindi non ci fanno compassione. Ma nel caso di animali perfetti come pecore e buoi che hanno cuore cervello e nervi, non riesco a capire l’uomo possa vederne la morte senza turbamento. In risposta molti mi diranno che tutte le cose sono fatte per servire l’uomo, quindi non vi è alcun crudeltà. Ma credo che fra tutti i mestieri non ci sarebbe un uomo su dieci che ammetterebbe di aver voluto fare il macellaio; non credo ci sia un uomo che ha provato riluttanza la prima volta che ha ucciso un pollo. Ci sarà chi si rifiuterà di mangiare i polli che ha allevato, ma tutti mangeranno contenti e senza rimorsi il manzo, il pollo che hanno comprato al mercato sembra quasi che sentendosi in colpa, gli uomini vogliano eliminare la causa del loro crimine. È impossibile che un appetito naturale ci possa spingere a fare qualcosa per cui proviamo avversione come uccidere. o fare loro superare la paura; ma questo è un difetto nel principio dei fluidi. Questi non si adirano mai del tutto se c’è qualche pericolo e il bere li rende più audaci ma di rado sono così risoluti da attaccare qualcuno a meno che non si tratti di bambini o donne o di chi sanno non oserà resistere. Non c’è nulla più che della pratica che sviluppi l’utile coraggio e allo stesso modo dimostri che è artificiale. Infatti quando gli uomini vengono tenuti disciplinati e fanno conoscenza degli strumenti della morte e urla, gemiti, ferite morti iniziano a divenire per loro familiari, le paure diminuiscono in fretta. Abituandosi a vedere così spesso gli stessi pericoli, iniziano ad avere meno apprensione per la loro realtà. La paura della vergogna cresce con il decrescere dell’apprensione per il pericolo e quindi non bisogna stupirsi se molti di loro imparano ad avere poca o nessuna paura. L’uomo è una creatura così sciocca che riempito dei fumi ella vanità, può rallegrarsi al pensiero delle lodi che saranno tributate alla sua memoria in periodo futuro, fino al punto di trascurare la vita presente e anzi anelare la morte. Vi sono stati uomini che sostenendo le cause peggiori con il solo aiuto del loro orgoglio e della loro costituzione, hanno affrontato la morte e le torture con la stessa serenità con cui i migliori degli uomini animati da pietà e devozione hanno fatto lo stesso per la vera religione. L’avarizia, la vendetta, l’ambizione quando sono molto forti possono superare la paura, prendere nell’uomo il posto del valore ed essere scambiate per valore da lui stesso. Senza l’onore non si potrebbe vivere in una grande nazione: non c’è virtù che sia stata utile la metà al fine della civilizzazione. Per quella parte dell’onore riferita ai duelli, dire che chi duella segue delle regole false o ha una nozione sbagliata d’onore è sbagliato. Infatti o l’onore non esiste affatto o insegna agli uomini a risentirsi delle offese e ad accettare le sfide. Eliminare i duelli sarebbe sbagliato in quanto rendono la società più civile. Nulla rende civile un uomo come la paura. Il timore di essere chiamati a rendere conto delle proprie azioni mette molti in soggezione. Inoltre se non fosse di moda chiedere soddisfazione per le offese che la legge non prende in considerazione, si commetterebbero venti volte i torti commessi adesso, oppure si dovrebbero impiegare venti volte le guardie che ora mantengono la calma. L’atto in se stesso è privo di carità. La sola cosa che può essere detta contro l’onore moderno è che è direttamente opposto alla religione. Questa ci comanda di sopportare le offese con pazienza, quello ci dice che se non ci risentiamo per esse non siamo degni di stare al mondo. La religione ci ordina di lascare a Dio la vendetta, l’onore di affidarla soltanto a noi stessi; la religione proibisce l’assassinio, l’onore lo giustifica. La religione si fonda sull’umiltà, l’onore sull’orgoglio. L’onore fa parecchie concessioni, la virtù nessuna. Un uomo d’onore non deve barare o dire bugie, deve pagare puntualmente i debiti di gioco, ma può bere, bestemmiare; un uomo d’onore deve essere leale verso principe e paese per tutto il tempo del suo sevizio, ma se si sente trattato male può lasciare il servizio e fare loro il male che vuole. R Visto che la natura umana continua ad essere identica nel corso dei secoli, non credo che cambierà in futuro. Non vi vedo nulla di male nel mostrare all’uomo l’origine e il potere delle passioni che lo distolgono dalla ragione, che male faccio nel metterlo in guardia da se stesso? Siamo così disperatamente innamorati dell’adulazione che non riusciamo ad apprezzare una verità umiliante. A tutti piace sentire parlare bene delle cose in cui hanno parte, persino il boia vorrebbe che si avesse una buona opinione di ciò che fa. Se volete bandire la frode e il lusso, l’empietà e rendere gli uomini caritatevoli distruggete le macchine da stampa, bruciate i libri eccetto che quelli universitari, non lasciate in mano ai privati altro testo che la bibbia, distruggete il commercio estero, proibite ogni traffico con gli stranieri, costruite nuove chiese, erigete monasteri per i poveri, abituate i giovani alla privazione. Grazie a questi sforzi la maggior parte degli avidi, dei furfanti lascerebbe la città e si disperderebbe in campagna. In questo modo non ci sarebbe sovraffollamento ed ogni cosa necessaria per la sussistenza dell’uomo sarebbe abbondante. Mentre il denaro radice di tanti mali sarebbe scarso e poco desideroso se ogni uomo godesse dei frutti del suo lavoro. S La pigrizia è una avversione al lavoro di solito accompagnata da una irragionevole desiderio di restare inattivi. È pigro chiunque rifiuti o rinvii un lavoro che deve fare per sé o altri senza esservi costretto da un’altra legittima occupazione. Bisogna distinguere coloro che non lavorano per mancanza di opportunità di impegnarsi vantaggiosamente con quelli che si cullano nell’ozio per mancanza di spirito. Diligenza e industria sono parole usate spesso come sinonimi eppure non lo sono. Un povero disgraziato può non mancare di diligenza e di capacità, essere laborioso e risparmiatore e contentarsi della sua posizione senza voler migliorare le sue condizioni economiche. L’industria invece richiede una sete di guadagno e un profondo desiderio di migliorare la propria condizione. Se un commerciante si cura che il suo negozio sia ben fornito e tratti bene i suoi clienti, è un uomo diligente, ma se oltre a questo cerca di vendere con lo stesso profitto una merce migliore del suo vicino e fa tutti gli sforzi possibili per attrarre altri clienti allora lo si può definire industrioso. T Si può rendere onesto un grande alveare se la gente si accontenta di una vita povera e dura, ma se si vuole godere dell’agio ed essere opulenti e potenti ciò diventa impossibile. Per riassumere: i poveri devono lavorare e i loro bisogni possono essere alleviati ma non vano eliminati; agricoltura e pesca devono essere favorite in ogni ramo; la proprietà deve essere garantita, l’amministrazione ben gestita; le importazioni annue non devono superare mai le esportazioni. Chiunque vive al di sopra del suo reddito è uno stupido. Avarizia e prodigalità sono ugualmente necessarie alla società. Tasse pesanti, scarsità di mezzi di sussistenza, laboriosità, industria, cattiva natura, vecchiaia dispongono all’avarizia. Indolenza, appagamento, buona natura, temperamento gioviale rendono gli uomini prodighi. Primary Sources: The New Basis of Civilization (Simon Patten) Le base nelle Risorse Non ci sono dubbi sul fatto che esista una vera differenza di opportunità tra quelli più prosperi e tra i poveri. La povertà è un fatto, così come la prosperità. Le divergenze di opinione emergono da un’interpretazione diversa del passato, che porta a conclusioni drasticamente diverse riguardo le conseguenze di quello accade nel presente. Si può ragionare seguendo due diversi metodi:  Metodo storico: fare previsioni sul futuro partendo dalle conoscenze ottenute dall’analisi della realtà attuale e la nostra comprensione di ciò che è accaduto nel passato;  Metodo economico: cercare di capire qual è il corso logico degli eventi a partire da episodi del passato; fare un’analisi del presente e definire momenti nel futuro dove nuovi episodi come quelli già accaduti possano nuovamente emergere. Secondo l’autore la ragione per la quale tante persone hanno ancora una visione catastrofica del futuro è dovuta al fatto che le premesse sulle quali ci basiamo per formulare conclusioni sul nostro futuro non prendono in considerazione tutti i cambiamenti sociali e tecnologici attuali. A titolo di esempio, se in passato milioni di persone morivano di fame a causa della mancanza di cibo, oggi, grazie agli sviluppi tecnologici, una società con buoni mezzi di trasporto non corre più questo rischio. Inoltre, secondo alcune teorie, non occorreranno più carestie, poichè gli sviluppi di nuove metodologie hanno reso i raccolti più nutritivi e addirittura resistenti agli effetti dell’ambiente. La conoscenze raccolte dagli scienziati su questi argomenti ci forniscono gli strumenti per arrestare fenomeni come carestie e peste, permettendo oltretutto di evitare situazioni di panico dovute dalla repentina assenza di un qualche tipo di prodotto dai mercati. “Condizioni migliori creano uomini migliori, e uomini migliori sono in grado di creare condizioni ancora più favorevoli”. Imporre miseria e degradazione a vaste popolazioni per assicurare il benessere di pochi non è più necessario. Il benessere può essere assicurato a tutti, senza la necessità di eccessivo lavoro da parte di alcuni. Alcuni esempi dei cambiamenti avvenuti:  Accesso della popolazione a nuovi e vari alimenti a prezzi significativamente ridotti: pomodori, zucchero, grano, pesce;  La possibilità di irrigare gli alimenti in modo costante ha donato loro un sapore più ricco;  La possibilità di inscatolare i prodotti ha facilitato la preservazione e il trasporto di alimenti altrimenti inaccessibili alle popolazioni meno benestanti;  La costruzione di linee ferroviarie ha permesso il trasporto di alimenti laddove questi non sarebbero normalmente accessibili (fragole a Philadelphia, latte a New York) Tuttavia, non tutti questi cambiamenti ebbero un impatto positivo: con un maggior accesso a alimenti come zuccheri, prodotti adulterati, etc. si è verificata anche una disorganizzazione delle abitudini alimentari, che ha causato una serie di eccessi per famiglie non abituate alle “cose di lusso”. Attualmente si sta facendo molto per correggere questi problemi ed istruire le persone sulla nutrizione: scuole e istituzioni offrono lezioni di cucina per genitori e bambini, nelle quali vengono introdotti degli alimenti sostitutivi della carne calcolando il loro impatto sull’economia familiare. La base nell’eredità Intro: Se da una parte dobbiamo ammettere che abbiamo ampie risorse per un rapido sviluppo dell’umanità, dall’altra dobbiamo criticare il fatto che gli uomini abbiano fatto così pochi e incerti passi avanti. Spesso abbiamo cercato le ragioni di questo fallimento in un ambito troppo ristretto, incolpando delle errate tradizioni educative. Inoltre, a causa dei risultati economici scoraggianti avvenuti dopo il tentativo di erigere civilizzazioni permanenti, gli uomini hanno concluso che le ragioni dei disastri erano di tipo economico. Eredità Sociale: rappresenta l’esperienza trasmessa dalle generazioni passate, ed influenza gli uomini indipendentemente dal contesto economico. Infatti, l’interpretazione di un nuovo ambiente è più spesso dovuta alla mentalità collettiva creata dai retaggi dell’ eredità sociale, più che dalle reali condizioni fisiche dell’ambiente stesso. Il lento accumularsi di abitudini, modi e maniere di ragionare, spesso ha un peso più forte nel predire il successo o l’insuccesso nel progresso dell’uomo rispetto alle forze che derivano direttamente dalle sue interazioni dirette con l’ambiente.
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