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3 - La concorrenza sleale, Appunti di Diritto Industriale

3 - La concorrenza sleale (APPUNTI)

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 09/09/2022

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Scarica 3 - La concorrenza sleale e più Appunti in PDF di Diritto Industriale solo su Docsity! Argomento 3: La concorrenza sleale Lezione 1 – Evoluzione storica della disciplina e presupposti applicativi Ratio della disciplina sulla concorrenza sleale Per quale ragione il legislatore introduce regole di comportamento cui devono sottostare gli imprenditori nello svolgimento della concorrenza? La libertà economica comporta la presenza di numerosi operatori economici che mirano ad ottenere un maggiore potere economico sul mercato, adottando tecniche e strategia che ritiene più proficue sia per conquistare nuova clientela sia per sottrarla ai concorrenti. La concorrenza può essere pesante, ma in un sistema come il nostro non è tutelato il diritto a conservare la clientela acquisita (il danno che un imprenditore sostiene per il fatto di aver perso della clientela non è considerato ingiusto e quindi risarcibile) Il legislatore introduce regole affinché possano essere distinte pratiche concorrenziali lecite e illecite. Capitolo 1 – dagli inizi alla situazione attuale La moderna disciplina della concorrenza nasce in una fase già evoluta della rivoluzione industriale; vale a dire in una concezione che vede nella libertà di accesso al mercato e nel regime di concorrenza la migliore garanzia del raggiungimento di livelli ottimali di qualità e di prezzi e perciò una promozione del benessere economico generale. Dopo un primo periodo di concorrenza selvaggia e senza regole, che ha consentito l'affermazione e il consolidamento dei primi forti nuclei imprenditoriali, si comincia ad avvertire l'esigenza di sottoporre comportamenti concorrenziali ad una disciplina non solo per proteggere le posizioni acquisite, ma anche per la consapevolezza che il regime concorrenziale può dare buoni frutti solo a condizione che ad essere premiato dal mercato sia a chi realmente vi opera al meglio. La disciplina della concorrenza viene quindi concepita come salvaguardia del libero mercato. Il presupposto perché la concorrenza possa svolgersi nel rispetto degli operatori meritevoli, è la presenza di un sistema di tutela dei segni distintivi. Le prime discipline nascono quindi in Francia. Attribuendo all'imprenditore il diritto esclusivo di valersi del suo segno, si vuole che egli sia riconosciuto e riconoscibile sul mercato per quello che è e si può renderlo responsabile del suo comportamento e nel contempo si vuole che altri non possano trarne profitto dal suo credito. Si tutela così la personalità dell'imprenditore sul mercato. Si crea quindi intorno all'imprenditore una sfera di protezione che tende a far sì che i frutti del suo lavoro non gli vengano sottratti con azioni il cui carattere comune e la falsità, intesa anzitutto come decisività e quindi attitudine trarre in inganno i consumatori. Decettivo è infatti l’appropriarsi del segno distintivo altrui, lo screditare infondatamente il concorrente, vantarsi di pregi che sono altrui o semplicemente inesistenti. Traducendo in termini di moralità l'inganno e il suo contrario, secondo la cultura e il costume del tempo, si viene a parlare dell'esigenza di buona fede, onestà, lealtà della concorrenza. La necessità di vietare e reprimere i comportamenti disonesti nella concorrenza non ebbe però un riscontro legislativo. Fu necessaria quindi una tipizzazione di una serie di fattispecie qualificate come concorrenziali illecite. Cosicché, quando si giunse alla emanazione di norme speciali, questa era già notevolmente elaborata e matura, specialmente in paesi come la Francia. Le leggi specificatamente destinate alla repressione della concorrenza disonesta, peraltro, non ebbero alla fine struttura analitica, limitandosi generalmente a menzionare due o tre fattispecie fondamentali come la concorrenza confusoria, decettiva e denigratoria. E basandosi poi su di una clausola generale che richiamava di volta in volta i concetti di onestà, lealtà e buon costume. Per quanto riguarda l'Italia, l'avvento di una legge speciale repressiva della sleale concorrenza si ebbe piuttosto tardi e nella forma singolare dell'estensione anche ai rapporti interni fra i cittadini italiani di una norma introdotta nel 1925 nella Convenzione di Unione. Per la tutela della proprietà industriale questa convinzione internazionale è la più importante della nostra materia ed è stato originariamente stipulato a Parigi il 20 Marzo del 1883. Essa è stata poi oggetto di numerose revisioni e integrazioni fra le quali quella dell'Aia del 6 novembre del 1925. Nel corso della quale vi venne inserita la norma che a noi è più interessante, vale a dire l'articolo 10 bis. Questa norma fu estesa a disciplinare anche i rapporti interni fra cittadini italiani con una legge del 1926 e costituì la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino all'entrata in vigore del codice civile del 1942 con l’articolo 2598. Le due formule non coincidono tuttavia completamente, cosicché si pone il problema se la norma codicistica abbia sostituito quella della Convenzione o se entrambe debbano ritenersi contemporaneamente in vigore. Quest'ultima soluzione è ritenuta preferibile e poiché l'articolo 10 bis è stato modificato in maniera rilevante, si conclude che oggi siano congiuntamente in vigore nel nostro paese le definizioni legislative della fattispecie di concorrenza sleale dell'articolo 2598 e la più recente versione dell'articolo 10 bis. A partire dagli anni 80 si è assistito in sede comunitaria internazionale, a una vasta produzione legislativa che ha riguardato anche la disciplina della concorrenza sleale. Punto si è trattato in particolare di una serie di direttive comunitarie e via via attuate nel nostro paese dei cosiddetti accordi TRIPs stipulati nell'ambito dell'Organizzazione mondiale per il commercio, pure attuati da noi e infine della unificazione in un codice della proprietà industriale. La disciplina della concorrenza sleale si manifesta su alcuni temi precisi: quello della concorrenza confusoria, quello della sottrazione di segreti, indicazioni geografiche e denominazioni d'origine. La configurazione di queste fattispecie come beni materiali in sé, non ha particolare rilievo sotto il profilo in esame. Ne ha invece in quanto le sanzioni in regime processuali, inerenti alla violazione dei relativi diritti sono in parte diversi da quelli previsti per gli illeciti inerenti alle omonime fattispecie negli articoli 2598 e seguenti. Ciò induce a chiederci se le nuove norme del codice civile non siano sostituite. Per quanto riguarda le tre fattispecie in esame, a quelle corrispondenti in tema di concorrenza sleale questa sostituzione espressamente esclusa per i segni geografici e per le informazioni segrete. Deve quindi configurarsi una coesistenza a riguardo delle due discipline. Evoluzione storica della disciplina Codice di Commercio del 1882 Non conteneva specifiche disposizioni in materia di concorrenza sleale, inducendo così la giurisprudenza a fare ricorso alla disciplina generale dell’illecito civile. Precedentemente all’emanazione di una disciplina specifica, la repressione della sleale concorrenza si riconduceva all’illecito aquiliano, ovvero all'art. 2043 c.c. (“Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”), ma si trattava di una forzatura: la concorrenza sleale è soltanto una species del genus dell'illecito civile, e di conseguenze l’idea principale era sicuramente la natura inibitoria, mentre la natura dell’art. 2043 è sicuramente sanzionatoria. L’insufficienza della disciplina aquiliana ha contribuito ad un intervento legislativo ad hoc introducendo l’Art. 10 bis.  2 l'imprenditore. Rilevante è altresì la concorrenza per interposta persona (che agisce nell’interesse dell’imprenditore) • In presenza di quali elementi gli atti compiuti dal terzo sono imputabili all’imprenditore? • In presenza di quali elementi il terzo risponde in solido con l’imprenditore? Deve esserci un rapporto che suggerisca che il terzo agisca in favore dell’imprenditore. Vi è concorrenza anche quando gli atti sono posti in essere non solo dall’imprenditore, ma anche dai dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni, o da persone che fungono da organi dell'ente quando si tratti di impresa societaria. È necessario, però, che l'atto sia posto in essere nell'interesse dell'imprenditore e ciò consapevolmente. Inoltre, è affermato in giurisprudenza il principio per il quale non è necessario che l’atto provenga direttamente dall’impresa concorrente, ma è sufficiente che esso sia volto a procurare vantaggio a quell'impresa per opera di terzo. Ci si chiede se negli atti di concorrenza sleale (posti in essere da terzi e dei quali risponde l’imprenditore), sia responsabile anche il terzo ed a che titolo. Si ritiene che quando si tratti di dipendente dell’imprenditore, la responsabilità sia solo di quest’ultimo, a meno che il dipendente non fosse investito di mansioni che gli consentivano decisioni discrezionali. In questo caso, egli sarà responsabile in solido con l'imprenditore. Legittimazione delle associazioni di categoria L’art. 2601 del c.c. accorda la possibilità di agire per la repressione della concorrenza sleale anche ad associazioni professionali ed enti, che rappresentano una categoria imprenditoriale quando si abbia a che fare con atti che pregiudicano gli interessi di tale categoria. Esse possono agire in nome proprio quando si tratti di un atto di concorrenza sleale che abbia leso gli interessi di uno o più dei loro associati o aderenti (quindi come mera sostituzione processuale), in modo da escludere la necessità di presentare una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni. Altrimenti, queste associazioni possono agire in iure proprio come associazioni di categoria: possono chiedere solo il ristoro per il danno che l'ente abbia risentito in proprio, non anche per quello risentito dagli associati Esse possono agire in nome proprio quando si tratti di un atto di concorrenza sleale che abbia leso gli interessi di uno o più dei loro associati o aderenti (quindi come mera sostituzione processuale), in modo da escludere la necessità di presentare una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni. Altrimenti, queste associazioni possono agire in iure proprio come associazioni di categoria: possono chiedere solo il ristoro per il danno che l'ente abbia risentito in proprio, non anche per quello risentito dagli associati In presenza di un pregiudizio agli interessi di una categoria professionale, la legittimazione ad agire è attribuita altresì alle associazioni di categoria (art. 2601 c.c.). Illecito concorrenziale e illecito aquiliano: differenze 1. Presupposti applicativi: • solo imprenditori concorrenti nella disciplina sulla concorrenza sleale • tutti i consociati nella disciplina sull’illecito civile ordinario 2. Danno: • anche potenziale nella disciplina sulla concorrenza sleale • solo attuale nella disciplina sull’illecito civile ordinario 3. Elemento soggettivo: Inversione dell’onere della prova nella disciplina sulla concorrenza sleale 5 L’art. 2601 del c.c. accorda la possibilità di agire per la repressione della concorrenza sleale anche ad associazioni professionali ed enti, che rappresentano una categoria imprenditoriale quando si abbia a che fare con atti che pregiudicano gli interessi di tale categoria. Esse possono agire in nome proprio quando si tratti di un atto di concorrenza sleale che abbia leso gli interessi di uno o più dei loro associati o aderenti (quindi come mera sostituzione processuale), in modo da escludere la necessità di presentare una pluralità di azioni da parte dei singoli aderenti alle associazioni. Altrimenti, queste associazioni possono agire in iure proprio come associazioni di categoria: possono chiedere solo il ristoro per il danno che l'ente abbia risentito in proprio, non anche per quello risentito dagli associati. Rapporto di concorrenza Può anzitutto trattarsi di concorrenza effettiva, in virtù della quale due o più imprenditori condividono la medesima clientela perché offrono gli stessi prodotti o prodotti affini sul medesimo mercato. Rilevante è altresì la concorrenza potenziale. Si deve così tenere conto anche della prevedibile espansione territoriale e del prevedibile sviluppo merceologico dell’attività dell’imprenditore che subisce l’atto di concorrenza sleale. Considerando quindi due profili: - Profilo merceologico (esempio abiti e maglieria intima): basta che il rapporto di concorrenza non sia attuale, ma meramente potenziale, che vi sia una probabilità concreta in un non lontano futuro, desumibile da circostanze del caso o da regole di esperienza. - Profilo territoriale: solitamente assume rilievo per le imprese di piccole dimensioni; il mercato di incidenza di un'impresa deve ritenersi coincidente con la sua sfera di notorietà. E’ ovvio che una panetteria di Enna non possa ritenersi in concorrenza con una panetteria di Bergamo. Per le imprese il cui problema sotto il profilo territoriale si pone, occorre valutare non solo l'estensione attuale, ma anche un dato di estensione potenziale (ad esempio la Barilla dovrà ritenersi in concorrenza con qualsiasi pastifico, anche piccolissimo, in quanto nazionalmente nota). Rapporto di concorrenza: il caso. Cass. Civ. 15/02/1999, n. 1259: Con atto notificato l'11 gennaio 1990, la R.C.S. Editoriale Quotidiani S.p.A., editrice del quotidiano "Corriere della Sera", conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Palermo, la S.p.A. Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica, editrice del quotidiano "Giornale di Sicilia", esponendo che nel gennaio 1989 il Corriere aveva lanciato un concorso a premi, denominato "Replay - il gioco che ti rimette in gioco", che consentiva ai possessori di biglietti non vincenti di lotterie nazionali (in particolare, della Lotteria Italia) di partecipare a successive estrazioni dei biglietti medesimi, effettuate dal quotidiano con il controllo dell'amministrazione finanziaria. La società attrice faceva, altresì, presente che il concorso aveva avuto un rilevante effetto favorevole per l'incremento delle vendite del Corriere proprio in regioni, quale la Sicilia, in cui aveva minore diffusione La S.C. ha affermato la esistenza di una effettiva situazione concorrenziale tra il quotidiano "Il Corriere della sera" ed il quotidiano "Il giornale di Sicilia”; • La S.C. ha osservato che “[…] nè la differente qualità, rilevabile dalla consistenza societaria e finanziaria e dal livello del corpo redazionale, oltre che dei collaboratori, nè la maggiore diffusione del "Corriere della sera" rispetto al "Giornale di Sicilia", nè la parziale diversità di contenuti, riferibile al maggior rilievo dato dal secondo alla cronaca locale, sono all'evidenza elementi tali da escludere una situazione di concorrenza”. Rilevante è altresì la concorrenza tra livelli economici diversi, ossia nei rapporti tra produttore-grossista- dettagliante. 6 Rientra difatti nella previsione dell’art. 2598 c.c ogni fattispecie nella quale si verifichi un conflitto d’interesse che tragga origine dalla “comunanza di clientela” fra i soggetti coinvolti nel conflitto. Rapporto di concorrenza: il caso. Cass. Civ. 30/01/1990, n. 637: il proprietario di un bar anziché vendere acqua brillante Recoaro, vendeva acqua tonica Schweppes. • “Il comportamento del commerciante al minuto, il quale consegni al cliente un prodotto proveniente da un'impresa diversa da quella espressamente indicata dal cliente medesimo (nella specie, acqua tonica Schweppes anziché acqua brillante Recoaro), può integrare concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598 n. 3 c.c., sotto il profilo dell'indebita e scorretta interferenza nella competizione fra dette imprese, solo quando […]”. Concorrenza fra imprese operanti a livelli diversi. Un ulteriore problema si ha quando due imprenditori trattìno prodotti uguali o analoghi nella stessa zona, ma a livelli economici diversi; l’esempio tipico è quello di produttore e commerciante. L’esistenza di un rapporto di concorrenza è data dal fatto che il risultato ultimo dell’attività di entrambi incide sulla medesima categoria di consumatori. Vedi situazione in cui il commerciante favorisce un altro produttore, in diretta concorrenza con quello colpito da atto sleale. Concorrenza sleale e storno di clientela Un’altra ricorrente figura di atto di concorrenza sleale atipico è lo storno di dipendenti. Posto infatti il principio di libertà di concorrenza operante anche sul mercato del lavoro, che comporta la mobilità del lavoratore e la libertà, per l’imprenditore, di operare per sottrarre ai concorrenti la manodopera migliore, offrendo migliori retribuzioni o condizioni di lavoro, questa posizione di principio viene temperata, nella prassi giurisprudenziale, dall’affermazione secondo cui lo storno può colorarsi di modalità oggettivamente illecite o essere caratterizzato danimus nocendi divenendo concorrenza sleale (Cass., 23.5.2008 n. 13424). Lezione 2 – Gli atti di confusione (art. 2598, n. 1, c.c.) Fattispecie nominate e clausola generale nell’art. 2598 c.c. L’art. 2598 c.c. presenta due parti: la prima costituita dall’indicazione di ipotesi specifiche di concorrenza sleale (le c.d. “ipotesi nominate”); la seconda parte è costituita da una clausola generale che qualifica come concorrenza sleale una pluralità di comportamenti innominati, caratterizzati dall’essere non conformi ai principi della correttezza professionale ed idonei a danneggiare l’altrui azienda. I principi della correttezza professionale. Generalmente, l’individuazione dei principi della correttezza professionale spetta all’interprete, in quanto non esiste un sistema di regole codificato in merito. Una prima posizione li indentificava negli usi in senso tecnico, cioè in comportamenti abitualmente praticati negli ambienti interessati; ma questo tipo di interpretazione è stato abbandonato in quanto in realtà queste consuetudini non esistono, e se esistessero sarebbe comunque difficile individuarle. Una seconda posizione è quella che fa riferimento ad un “principio etico” universalmente seguito dalla categoria così da diventare costume, quindi da un principio etico che unisca uso e morale; anche questa posizione è stata lentamente abbandonata. L’abbandono di queste tesi è data soprattutto dal bisogno di sottrarre il più possibile le decisioni all’arbitrio del giudice, per avere punti di riferimento il più possibile “oggettivi”, basandosi su regole di natura essenzialmente economica. Ciò, però, comporta un divario tra la morale imprenditoriale e la morale pubblica corrente: sembra perciò corretto ritenere che il giudizio di conformità ai “principi di 7 caratterizzare un prodotto e distinguerlo dagli altri analoghi di diversa provenienza presenti sul mercato. Dunque questi segni possono consistere in parole, figure, numeri, lettere, suoni, forma di prodotti o della confezione, colori, ecc… La capacità distintiva. La capacità distintiva è l’idoneità a distinguere i prodotti/attività di un imprenditore da quelli analoghi di un altro. La capacità distintiva può mancare in due ipotesi: - quando il segno è considerato dal pubblico come strutturale del prodotto, il che si verificherà soprattutto quando si tratti di segni cistituiti dalla forma del prodotto stesso, ovvero dal suo colore; - quando il segno consiste in denominazione generica o indicazione descrittiva del prodotto contrassegnato (ad esempio la parola “guanti” adottata per contraddistinguere appunto dei guanti). Alla forza di un segno distintivo corrisponde una tutela più o meno intensa: il segno forte sarà protetto contro ogni somiglianza anche solo evocatrice, mentre la protezione del segno debole sarà limitata all’ambito dei segni identici. Inoltre per tutelare un segno dovrà farsi riferimento alla sua capacità distintiva al momento in cui si verifica la supposta violazione di esso(rilevanza della variazione temporale). Uso e notorietà “qualificata nel segno. Occorre, altresì, che la notorietà di cui gode un segno sia qualificata: il segno deve essere noto al pubblico; la cerchia di soggetti a cui si fa riferimento (il “pubblico”) sono i consumatori finali e gli utenti del servizio. Limiti alla tutela. La tutela del segno è limitata da due punti di vista: - Merceologico: quando un medesimo segno sia adottato da due imprenditori merceologicamente molto lontani (per esempio uno operante nel settore delle bicilette e uno nel settore delle caramelle), sarà difficile ipotizzare una confusione sull’origine. Tuttavia sarebbe sbagliato anche escludere una possibilità di confusione ogniqualvolta i prodotti o servizi delle parti non siano i medesimi: per questo si ritiene che la tutela si estenda anche alle ipotesi in cui un segno sia imitato da un concorrente che ponga sul mercato prodotti o servizi affini a quelli del titolare del segno; la tutela varia in base alla misura della capacità distintiva del segno. - Territoriale: l'ambito della tutela dovrà coincidere con quello della notorietà qualificata raggiunta; ove infatti un segno avesse raggiunto notorietà solo in una zona del territorio italiano, non avrebbe senso estendere al di là di questo la tutela del segno stesso. Va però detto che l’aumento della mobilità e quello dei mezzi di comunicazione di massa rende sempre meno frequenti (e comunque marginali) i casi di notorietà meramente locale. 31. La novità del segno. Per godere di tutela è necessario anche il requisito della novità: la tutela è riservata a chi si sia presentato sul mercato prima di colui contro il quale si chiede la tutela e per primo in assoluto. Per i marchi registrati, nel caso di mancanza di novità, la nullità del marchio può essere fatta valere dai titolari di diritti anteriori. Questo ragionamento non si estende per analogia ai marchi non registrati. Per questi, manca la presunzione di “validità” del segno, vale a dire di una presenza dei requisiti di tutelabilità; dunque tutto si deve ricondurre al concetto di notorietà qualificata, esaminando una serie di indizi idonei a darle luogo: rilevanza quantitativa della presenza sul mercato, durata della 10 presenza, ambito territoriale e pubblicità, relazionati con forza/debolezza del segno; indagini demoscopiche nell'ambito delle cerchie interessate. Confondibilità e confusione. L’illecito di cui all’art. 2598 c.c. è definito "di pericolo", in quanto affinchè siano integrati gli estremi dell’illecito non è necessario che si siano verificati concreti episodi di confusione, bastando appunto la presenza di confondibilità, vale a dire di un ragionevole rischio di confusione. I rapporti con i segni oggetto di specifica disciplina. La tutela prevista dall’art. 2958 n. 1 c.c. riguarda ogni tipo di segno. Anche la contraffazione di ditta, insegna e marchio (segni tipici dell’imprenditore) può costituire atto di concorrenza sleale, ma le due tutele non sono cumulabili in senso tecnico; si fa valere la c.d. concorrenza sleale dipendente, cioè la concorrenza sleale confusoria consistente nella stessa contraffazione. L’imitazione dell’altrui marchio registrato. In caso d’imitazione dell'altrui marchio registrato, la disciplina della concorrenza sleale tutela la contraffazione solo quando vi sia concreta possibilità di confusione ed un rapporto di concorrenza tra le parti interessate; il che non si verifica per la contraffazione di marchio registrato, che è protetto su tutto il territorio nazionale, a prescindere(almeno per un certo periodo) dall’uso di esso, dall’estensione di quest’uso, e da qualsiasi notorietà qualificata. Conseguentemente la contraffazione di un marchio registrato non darà luogo a concorrenza sleale confusoria quando quel marchio non sia usato e quando l’uso di esso sia territorialmente limitato in modo da escludere una sovrapposizione con l’ambito di notorietà qualificata del segno non registrato. Dovrà poi escludersi la tutela concorrenziale in tutte le fattispecie in cui il marchio registrato sia protetto anche in assenza di possibilità di confusione, ed in particolare nel caso in cui venga invocata la tutela extramerceologica del marchio che gode di rinomanza. L’imitazione dell’altrui ditta. Per ciò che riguarda l'imitazione dell'altrui ditta/insegna/ragione sociale, siamo nel campo dei "segni distintivi" di cui all'art. 2598; le due azioni sono cumulabili, però l'inibitoria non pare potersi estendere oltre i limiti della disciplina speciale. L’art. 2958 c.c. tutela segni che possono essere usai in vari modi. I più importanti sono quelli usati in funzione di marchio o di ditta, allorchè si tratti di segni non registrati o che comunque si sottraggono alla disciplina specifica. Ciò si verifica per il marchio non registrato o di fatto e per la ditta irregolare. Il marchio di fatto(non registrato) non gode di tutela privilegiata rispetto agli altri segni distintivi contemplati dalla norma in esame o dal c.p.i. La ditta irregolare si tratta di quella che non contiene né la sigla né il nome dell'imprenditore, se non viola diritti di terzi(cioè è “legittimamente usata”), rientra nella tutela. Altri segni cui si può ricondurre la norma in esame sono la sigla, quando ovviamente non corrisponde alla ditta, e l’emblema dell’impresa, vale a dire il segno figurativo destinato a contraddistinguere l’intera attività di questa . La sigla, essendo priva di carattere distintivo in quanto costituita da gruppi di lettere che spesso ricorrono nel mondo imprenditoriale(si pensi a S per società, o I per Industriale o internazionale o italiana, ecc…), non è tutelabile, a meno che non acquisisca una capacità distintiva che ne determini una notorietà qualificata. L'emblema d'impresa, lo slogan, i fregi e le etichette sono invece tutelabili. Effetto confusorio. 11 Come abbiamo detto la tutela dei segni distintivi diviene effettiva nel momento in cui sorge concretamente una possibilità di confusione, cioè quando i segni, o segni con essi confondibili, sono adottati da un concorrente. Sorge confusione, infatti, anche solo con segni simili. Per aversi violazione del diritto, si ritiene che non basti la mera registrazione del marchio altrui, se poi non ne segue un concreto uso sul mercato(c.d. registrazione preventiva). La confondibilità dovrà riguardare i segni in sé considerati, e perciò le loro caratteristiche grafiche, fonetiche, la loro portata semantica(due sinonimi possono essere confondibili anche se graficamente e acusticamente diversi). Una confondibilità con l’attività del concorrente si determina anche con l’adozione di segni bensì per qualche verso simili a quelli del concorrente, ma non con essi realmente confondibili(si pensi ad un uso di segni aventi in comune il prefisso): ciò che c’è da chiedersi e se questa fattispecie confusoria rientri fra quelle vietate dalla prima parte della norma, o se piuttosto, mancando la confondibilità con i singoli segni distintivi del concorrente, non debba essere riferita all’ultima parte della norma, cioè agli “altri mezzi” idonei a provocare confusione. La prima soluzione sembra preferibile, in quanto il prefisso è da considerarsi in sé un segno distintivo. L’imitazione servile come fattispecie confusoria. Passiamo ora ad analizzare la seconda fattispecie prevista dal n. 1 dell’art. 2598 c.c., cioè l’imitazione servile. “Compie concorrenza sleale chiunque imiti servilmente i prodotti di un concorrente”: si vuole vietare qualsiasi imitazione fedele, pedissequa e completa dei prodotti del concorrente. Questa norma è oggetto di un’interpretazione sempre più restrittiva: gli elementi del prodotto oggetto della tutela sono solo le parti esterne, evidenti ed idonee a creare confusione, in quanto solo l’imitazione di esse è idonea a ingenerare confusione in chi guarda il prodotto. Per contro si esclude che possa qualificarsi come imitazione servile illecita quella delle parti interne e strutturali, data l’assenza di un effetto confusorio. Si è ribadito più volte, inoltre, che in presenza di una imitazione delle forme esterne capace di produrre confondibilità, l’illecito non è escludo da una diversità delle parti interne. L'imitazione diviene lecita quando l’imitatore aggiunge un segno tale da escludere la determinazione di confusione nel consumatore(sono da considerare, tuttavia, caso per caso le varie e differenti situazioni che vengono a determinarsi). I requisiti della forma tutelabile. L’imitazione servile viene pienamente ricondotta alla concorrenza confusoria, e quindi al tema dei segni distintivi, che in questo caso sono ricondotti alla forma esteriore del prodotto. Esistono due tipi di confondibilità: per l'acquirente e a carico di terzi (post sale confusion), che danneggia il produttore del prodotto imitato in via indiretta. I requisiti della forma/segno tri/bidimensionale tutelabile sono l'adozione preventiva da parte di chi invoca la tutela, la non banalità/standardizzazione del marchio e l'essere già noti al mercato. La prima parte dell’art. 2598, n. 1, c.c., tutela i nomi e i segni distintivi legittimamente usati da un concorrente contro la imitazione confusoria (rischio di confondibilità  legato a probabilità che consumatore venga ingannato) Perché possano essere oggetto di tale tutela, deve trattarsi di segni (numeri, parole, colori, segni grafici, ecc.) che rispondano a due requisiti: • capacità distintiva : il segno deve essere in grado di contrassegnare il prodotto da altri analoghi di diversa provenienza presenti sul mercato 12 capacità distintiva. Coordinamento con la disciplina brevettuale (VI) Ma l’art. 9 c.p.i. esclude che possano costituire oggetto di registrazione come marchio le forme del prodotto necessarie per ottenere un risultato tecnico (le cc.dd. forme funzionali) o le forme che danno un valore sostanziale al prodotto. Tra queste ultime ricorrono senz’altro le forme dotate di pregio estetico e ornamentale tale da influenzare il pubblico. Pertanto, in presenza di un modello dotato di elevato grado di ornamentalità, dovrà escludersi la sua registrabilità come marchio e, per identità di ratio, la possibilità di tutelarlo contro la imitazione servile. Il caso Lego La vicenda giudiziaria ha visto contrapposti la Lego e la Mega Blok. Quest’ultima, aveva immesso sul mercato blocchetti perfettamente compatibili con quelli realizzati dalla Lego. • In primo grado il Tribunale aveva affermato che l'oggetto del brevetto, costituito da mattoncini modulari per giochi da costruzione, una volta caduto in pubblico dominio (per la scadenza del brevetto medesimo), doveva ritenersi liberamente riproducibile in tutte le sue utilità. Restava tuttavia ferma la possibilità di tutela, per il divieto di imitazione servile, degli aspetti formali dotati di capacità distintiva e, al contempo, superflui, tecnicamente insignificanti, arbitrari o capricciosi. Nella specie il Tribunale aveva escluso come tali gli elementi capaci di consentire l'accoppiamento non solo tra di loro ma anche tra elementi appartenenti a moduli diversi dai c.d. mattoncini Lego. • La Corte di Cassazione conferma tale impostazione (Cass. Civ. 29/02/2008, n. 5437). • Si afferma che la tutela delle privative industriali è funzionale all'esigenza di incentivare la ricerca di nuove soluzioni tecniche. Tale funzione sarebbe invece negata dal riconoscimento di un diritto perpetuo di utilizzazione esclusiva di invenzioni e modelli, che anzi ingesserebbe il mercato. Da qui, allora, la previsione del carattere solo temporaneo di quella tutela, scaduta la quale i modelli e le invenzioni sono liberamente riproducibili, certo nel rispetto delle norme sulla concorrenza…. • …Sono pertanto sanzionabili – continua la Cassazione - solo le utilizzazioni confusorie, ovvero le condotte altrimenti scorrette o dannose, che in questo caso erano già state escluse. Si è così applicato il principio secondo cui, allo scadere della tutela brevettuale non residuano margini di applicazione dell'imitazione servile, in una logica pro-concorrenziale e di stimolo allo sviluppo tecnologico. Gli atti di confusione (n. 1): gli altri mezzi della concorrenza confusoria L’ultima parte dell’art. 2598, n. 1, c.c., vieta il compimento con qualsiasi mezzo di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente. Ricadono nel divieto tutte le condotte tali da favorire equivoci sul mercato in merito alla provenienza dei prodotti. In tale fattispecie può rientrare, ad esempio, l’imitazione di elementi distintivi secondari, ossia l’imitazione di elementi formali diversi dai segni distintivi o dalla forma distintiva del prodotto. La terza fattispecie dell’art. 2598 c.c. è quella degli “altri mezzi” con cui si compiono atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente. Questa è una norma di chiusura che il legislatore ha voluto aggiungere all’articolo, in modo da poter ricomprendere all’interno degli atti perseguibili il maggior numero di fattispecie possibili; secondo l’applicazione giurisprudenziale di quest’ultima parte dell’art. 2598 c.c., si tratterebbe di segni distintivi inusuali (per esempio impostazione tipografica ricalcata, copiatura di cataloghi o dèpliants…). Forme funzionali. 15 Per il brevetto come modello di utilità occorre una dose di novità: esistono forme utili che però non sono brevettabili per mancanza di originalità. Queste, se dotate di capacità distintiva, devono ritenersi tutelabili contro l’imitazione servile. Forme inderogabili. Esistono forme che consentono di conseguire una medesima utilità in svariati modi. Per contro, si pensi all’utilità che può essere conseguita con l’adozione di forme molto diverse, ma che vengono configurate in un certo modo per il fatto di corrispondere ad un general concetto di configurazione del prodotto, cui l’utilità si ricollega. In questo caso sarebbe assurdo sostenere le singole configurazioni specifiche, per quanto per definizione fra loro assolutamente fungibili per il conseguimento di una medesima utilità, non possono, ciascuna, essere tutelate contro l’imitazione servile. IMPORTANTE: In assenza di brevettazione, sono liberamente imitabili sia le forme necessarie, inderogabili per il conseguimento di un’utilità, sia quelle dotate di un proprio concetto innovativo. Per contro, non sono liberamente imitabili, e sono perciò tutelabili contro l’imitazione servile, in assenza di brevettazione le forme utili che tuttavia, oltre ad essere derogabili, fungibili, si collochino nell’ambito di un medesimo concetto innovativo, ovviamente già noto o non tutelato brevettualmente(Cassazione n. 20884/2008). Quanto appena detto trova conferma nel tenore dell’art. 82/3 c.p.i., secondo cui “gli effetti del brevetto per modelli di utilità si estendono ai modelli che conseguono pari utilità, purchè utilizzino lo stesso concetto innovativo”. Disegni e modelli. Il “carattere individuale”. La disciplina dei disegni e dei modelli è stata riformata dal d.lgs. 95/2001, in attuazione della direttiva 98/71/CE: tra le altre, la riforma ha comportato l’eliminazione di una precedente categoria brevettuale, i disegni e modelli ornamentali, sostituita appunto da quella dei disegni e dei modelli, la cui tutela non presuppone alcun carattere estetico- ornamentale. Inoltre, è stato abbandonato il termine brevettazione, sostituito dal termine registrazione. Per essere suscettibili di registrazione, i disegni e i modelli (cioè le forme dei prodotti) devono presentare un carattere individuale: “un disegno o un modello ha carattere individuale se l’impressione generale che suscita nell’utilizzatore informato differisce dall’impressione generale suscitata in tale utilizzatore da qualsiasi disegno e modello che sia stato divulgato prima della data di presentazione della domanda di registrazione o, qualora si rivendichi la priorità, prima della data di quest’ultima”; ovvero, rileva la mera percettibilità dell'utilizzatore informato (e non, come avviene di solito, del consumatore medio) della differenza della forma di quel prodotto rispetto alle forme note. Saranno tutelati anche con l’azione d’imitazione servile (a prescindere dalla loro registrazione come modelli) qualora la percettibilità della differenza si collochi al di sotto delle capacità del consumatore medio (e quindi con relativo cumulo delle tutele); altrimenti, al di sotto di questa soglia, le forme potranno essere tutelate solo in quanto registrate come modelli se la percettibilità è quella del designer esperto. Lezione 3 – Gli atti di denigrazione e di appropriazione di pregi altrui. La clausola generale dell’art. 2598, n. 3, c.c. Disciplina codicistica sull’illecito concorrenziale Art. 2598 Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 16 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Il n. 2 dell’art. 2598 c.c. ritiene che compia atti di concorrenza sleale chiunque "diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente". La norma disciplina dunque due diverse fattispecie: la denigrazione e l’appropriazione di pregi Gli atti di denigrazione (n. 2) Per denigrazione s’intende la diffusione di notizie e apprezzamenti idonei sui prodotti di un concorrente idonei a determinare il discredito (perdita della buona reputazione e della fiducia nell’impresa); comporta una difficoltà di mercato dal punto di vista di clientela, fornitori, organizzazione aziendale. Esistono due tipologie temporali di discredito: quello che si esaurisce in breve tempo e quello invece protratto nel tempo. Di solito, ci si riferisce al discredito come alla diffusione della notizia a una pluralità di soggetti; ma se la comunicazione si fa ad un singolo e ciò provoca un danno concorrenziale, si contempla anche questa fattispecie. Occorre, però, che sia fatta ad opera del concorrente, altrimenti non è da considerarsi come condotta opinabile. Deve trattarsi di notizie che abbiano un rilievo concorrenziale, che vertano su prodotti ed attività di un concorrente, ma la formula indicata dalla legge non deve essere interpretata restrittivamente, dato che un danno concorrenziale può essere determinato anche da notizie e da apprezzamenti negativi che non concernono singoli prodotti o specifiche attività ma una situazione in cui l'impresa corrente versa, poiché anche questa informazione può provocare dissesto Oggetto della denigrazione. Deve trattarsi di notizie che abbiano un rilievo concorrenziale, che vertano su prodotti ed attività di un concorrente, ma la formula indicata dalla legge non deve essere interpretata restrittivamente, dato che un danno concorrenziale può essere determinato anche da notizie e da apprezzamenti negativi che non concernono singoli prodotti o specifiche attività ma una situazione in cui l'impresa corrente versa, poiché anche questa informazione può provocare dissesto. Notizie screditanti vere e false. Bisogna ora prendere in considerazione quello che forse è il problema cruciale dell’argomento, cioè il problema della verità o falsità delle notizie divulgate; sono da ritenersi illeciti anche le notizie e gli apprezzamenti veritieri? Poiché la legge tace a riguardo, la veridicità delle informazioni diffuse non esclude l'illecito. Dottrina e giurisprudenza, però, si sono orientate nell’ammettere la liceità concorrenziale delle notizie vere, anche se il contenuto possa obiettivamente portare al discredito del concorrente; si richiede però che non solo le notizie siano pienamente vere, ma che siano anche esposte in modo obiettivo. L’exceptio veritatis da parte del convenuto, dunque, sembrerebbe escludere l’illecito, ovviamente con le relative e opportune dimostrazioni da produrre La comparazione. 17 Si dovrà ritenere quindi che appropriazione significhi piuttosto una allegazione, in una comunicazione rivolta al mercato, che la propria impresa o i propri prodotti presentano i pregi propri dell’impresa o dei prodotti di un concorrente. È chiaro però che non si può impedire ad un imprenditore di comunicare i pregi reali della propria impresa o dei propri prodotti, solo perché identici all’impresa o ai prodotti di un concorrente. Per questo si ritiene che si ha appropriazione di pregi ai sensi della legge in caso di autoattribuzione di qualità inesistenti e invece presenti nei prodotti o nell’impresa di un concorrente. Perché si abbia l'autoattribuzione di qualità in realtà inesistenti e presenti nell'impresa del concorrente, occorre un certo grado di specificità: il pregio falsamente rivendicato deve essere percepito dal mercato come appartenente in via esclusiva a uno o più soggetti determinati. Occorre, poi, mettere a confronto l’appropriazione di pregi fatta valere dal concorrente che effettivamente possiede il pregio usurpato, e il mendacio ai sensi dell’art. 2958 n. 3 c.c. lo stesso fatto quando lamentato in giudizio da un concorrente che quel pregio invece non abbia(e che sia tuttavia concorrenzialmente danneggiato a sua volta dal falso vanto del pregio stesso da parte del convenuto): il confronto, tuttavia, è solo di tipo teorico; in linea pratica, infatti, sia che la fattispecie rientri nell’appropriazione di pregi ex art. 2958 n. 2 c.c., sia che rientri nel mendacio concorrenziale ex art. 2958 n. 3 c.c., i risultati saranno medesimi, essendo medesime le sanzioni che possono essere invocate L’art. 2598, n.2, prevede poi l’illiceità della condotta di colui il quale si appropria dei pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente. • Il pregio di cui l’impresa si appropria deve essere elemento tipico di un concorrente o di una categoria di concorrenti, ricorrendo altrimenti la fattispecie della pubblicità ingannevole. • La fattispecie in esame ricorre anche nell’ipotesi del c.d. agganciamento, ossia quando si crei un rapporto di equivalenza con i prodotti di un concorrente mediante l’uso dei suoi segni distintivi. Tale uso, peraltro, deve avvenire in modo da escludere ogni possibilità di confusione, ricorrendo altrimenti la fattispecie di cui all’art. 2598, n. 1, c.c. Agganciamento L’agganciamento consiste nel proporsi al pubblico equiparandosi ad un concorrente noto o ai suoi prodotti, menzionandolo esplicitamente in modo da trarre beneficio dalla loro notorietà. Questo comportamento consiste nell’approfittare dell’accreditamento del prodotto di un concorrente, e quindi agire agganciandosi ad esso, mediante un’operazione parassitaria, sia che il prodotto associato sia realmente uguale a quello del mio concorrente, sia che non lo sia(Es.: il mio concorrente spende ingenti somme per far conoscere il suo prodotto al pubblico e per convincere i consumatori ad acquistarlo; io non posso presentarmi sul mercato dicendo “Il mio prodotto ha le stesse caratteristiche, è uguale a quello di Tizio, mio concorrente). Non è necessaria la specificità, in quanto si può fare riferimento ad una buona qualità costruita con sforzi da parte del concorrente. La fattispecie dell’agganciamento si realizza mediante il riferimento ad un altro imprenditore o ai suoi prodotti, il che è possibile solo con l’uso dei suoi segni distintivi. Deve trattarsi di un uso dei segni distintivi che non sia volto a distinguere il proprio prodotto, perché in tal caso si ricadrebbe nella fattispecie confusoria dell’art. 2958 n. 1 c.c. o nella contraffazione di marchio o di ditta, bensì deve trattarsi di un uso atipico. L’ipotesi più comune è l’utilizzo della parola “tipo” accanto al nome del prodotto del concorrente e del proprio(“Il mio prodotto X è tipo un Rolex”), oppure la presentazione del proprio prodotto mediante la stessa “forma” del prodotto del concorrente: questa fattispecie si definisce “look alike”,e si riscontra in alcuni esempi reali di prodotti conosciuti(imitazione bottiglia Amaretto Disaronno, imitazione colori e immagini pasta Barilla, ecc…). L’appropriazione di pregi altrui (n. 2) 20 • Rientrano in tale fattispecie altresì le condotte consistenti nel far apparire l’altrui prodotto come proprio, e.g. mediante l’uso di materiale pubblicitario, fotografie o simili. • Rientra altresì in tale fattispecie il c.d. look alike, ossia l’imitazione servile non confusoria delle forme del prodotto o della sua confezione. In taluni casi, è stata infatti affermata la sussistenza di un agganciamento illecito, insito nello sfruttamento della forma particolare con cui il prodotto si sia accreditato sul mercato, anche se l'imitatore abbia adottato un marchio chiaramente evidente e diverso, tale da escludere ogni rischio di confondibilità.  Il caso più ricorrente è quello delle grandi catene di supermercati che immettono sul mercato i prodotti “equivalenti” con sopra apposto il proprio marchio e oltretutto, potendo disporre della collocazione della merce sugli scaffali, si garantiscono una maggiore visibilità rispetto allo stesso prodotto “originale I casi tipici di appropriazione di pregi. La giurisprudenza ha tipizzato alcune ipotesi da ricondurre nell’ambito dell’appropriazione dei pregi. Un’ipotesi classica è quella data dalla presentazione come realizzazione propria di un manufatto realizzato invece dal concorrente: ciò si verifica di solito mediante la diffusione di cataloghi o riviste che presentano fotografie di manufatti altrui presentati appunto come propri. Ulteriore ipotesi è data dall’uso pubblicitario di tabelle comparative(c.d. tabelle di concordanza), che associano determinati prodotti ad altri di concorrenti, a prescindere dalla descrizione che se ne effettua(Es.: profumo con flagranza simile a…). Altro caso è l’indicazione della provenienza del proprio prodotto da un’area geografica, mentre questo prodotto proviene da una località diversa; oppure l’indicazione di norme cui è sottoposto o che rispetta, quando invece non presenta le dovute caratteristiche indicate dalla legge. L’appropriazione di pregi altrui (n. 2) 21 Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda. Disciplina codicistica sull’illecito concorrenziale - Rapporto tra fattispecie tipiche (nn. 1 e 2) e clausola generale (n. 3) Gli elementi indicati dalla clausola generale (non conformità ai principi di correttezza professionale e idoneità a danneggiare l’altrui azienda) sono tipici di ogni atto di concorrenza sleale, compresi quelli inquadrabili nelle fattispecie tipiche di cui ai nn. 1) e 2). Queste fattispecie vengono suddivise in due gruppi(questa classificazione, però, non ha alcun rilievo giuridico): da un lato, gli atti di concorrenza sleale che alterano il mercato senza riferimento ad uno specifico imprenditore(pubblicità menzognera, mendacio concorrenziale meglio conosciuto come comunicazione ingannevole, vendita sottocosto, violazione di norme di diritto pubblico); dall’altro lato, quelle che, al contrario, sono rivolte contro un concorrente determinato (storno di dipendenti, sottrazione di segreti aziendali, corruzione di dipendenti). Tuttavia, secondo un orientamento consolidato, le fattispecie tipiche non richiedono una specifica verifica della loro contrarietà a correttezza professionale e della loro idoneità ad arrecare pregiudizio ai concorrenti, giacché questi caratteri si presumono sempre sussistenti. Inoltre, la giurisprudenza ha precisato che una volta che si sia esclusa l’illiceità di un comportamento sulla base dei primi due numeri dell’art. 2598 c.c. resta altresì preclusa la possibilità di riqualificarlo illecito sulla base del n. 3 (così, Cass. Civ. 10/11/1994, n. 9387, secondo cui “[…] la previsione di chiusura sub n. 3 non racchiude ipotesi complementari di quelle contemplate ai nn. 1 e 2 ma casi alternativi e diversi […]”). Clausola generale (n. 3) Cosa si intende per principi di correttezza professionale? Diversi orientamenti: a) Gli usi commerciali in senso tecnico; b) Le regole deontologiche della singola categoria professionale; c) La morale sociale; d) I principi etici, universalmente seguiti dalle categorie dei commercianti, così da diventare costume; 22 Non sono illecite quando consistono in iniziative promozionali temporanee, di fine stagione, per limitare le perdite in un periodo di crisi. Illeciti sono gli sconti praticati sui prodotti "civetta", che servono ad attirare il pubblico per vendergli anche altri prodotti. Dunque, le vendite sottocosto sono lecite quando riguardano prodotti deperibili, difettati, obsoleti o siano praticate in particolari ricorrenze: occorre che vi sia trasparenza e che siano comunicate al Comune, con durata limitata. Sono illecite, invece, quando per le dimensioni dell'esercizio commerciale o del gruppo, esse possono avere riflessi di carattere monopolistico. Si tratta di concorrenza sleale anche quando praticata da un'impresa pubblica (sottocosto delle imprese della mano pubblica): il divieto è volto a impedire che un'impresa divenga monopolista mediante un comportamento antieconomico che costringa i concorrenti ad abbandonare il mercato. La determinazione unilaterale e la previsione di ribassi deve ritenersi lecita, in quanto mezzo di espressione del principio costituzionale di libertà di iniziativa economica. La scelta di ribasso dei prezzi da parte della singola impresa può costituire condotta sleale solo se si concretizza in un sistematico svolgimento antieconomico dell’attività di impresa con un abbattimento dei prezzi sotto costo, non motivato da obiettive condizioni di produzione e giustificabile solo in vista dell’eliminazione dell’avversario. Atti di boicottaggio Il boicottaggio è il comportamento di chi, attraverso il rifiuto proprio (primario) o di altri (secondario, induci altri a boicottare) di intrattenere rapporti con un determinato terzo, impedisce a questo la permanenza sul mercato. Il boicottaggio primario, consistente nel rifiuto a contrattare, è illecito se proveniente da un'impresa dominante o da una pluralità di soggetti. Sul boicottaggio secondario non vi è alcun dubbio riguardo la sua illiceità. Gli atti di boicottaggio consistono nell’ostacolare i rapporti commerciali dei concorrenti. Si distingue il boicottaggio primario, che si risolve in un rifiuto di contrattare, da quello secondario, posto in essere da chi non si limita ad una condotta omissiva ma tiene anche una condotta commissiva inducendo altri a non intrattenere relazioni economiche con il soggetto che s’intende boicottare. Copia a ricalco o a pantografo In giurisprudenza, si è talvolta ritenuto di poter individuare almeno una fattispecie caratterizzata da un alto grado di scorrettezza professionale, così da rendere spontanea l’applicazione dell’art. 2598. Si tratta dei casi in cui l’imitazione si estende ad ogni minimo dettaglio del prodotto imitato, così da giustificare che si definisca imitazione a ricalco o pantografo. Ciò si ha quando l’imitazione è tanto completa e dettagliata da permettere di escludere che sia casuale. Storno di dipendenti Significa sottrarre i dipendenti di un concorrente facendoli dimettere per poi assumerli. Si vedono due diritti: quello dell'imprenditore all'integrità della sua impresa e quello del dipendente di poter scegliere il datore di lavoro. Lo storno è illecito solo se attuato con modalità illecite, oppure solo se attuato con animus nocendi, ovvero con l'intento di disgregare o disorganizzare l'azienda del concorrente; l’animus nocendi è fondamentale, in quanto è molto difficile tracciare una linea tra volontà di danneggiare il concorrente e volontà di giovare a sé stessi. È preferibile poi individuare i comportamenti in base al loro grado di pericolosità: si guarda alla qualificazione tecnica dei dipendenti, al numero, al fatto di avvalersi di una talpa interna, alla concentrazione temporale, alla sottrazione dei segreti aziendali e all'iniziativa del 25 concorrente. L’acquisizione di dipendenti di un concorrente è di per sé lecita, in quanto espressione dei principi di libera circolazione del lavoro e di libertà di iniziativa economica. È ravvisabile una condotta scorretta solo nel caso in cui lo storno avvenga mediante mezzi di per sé riprovevoli o qualora, con il passaggio di dipendenti, l’imprenditore miri esclusivamente alla diminuzione dell’efficienza dell’altrui impresa e alla disarticolazione dell’organizzazione aziendale del concorrente. Abuso illecito di segreti aziendali A proposito della sottrazione di segreti aziendali, essa può avvenire o mediante lo storno o mediante "talpe", cioè dipendenti infedeli. Occorre stabilire quando ciò avviene: le informazioni sottratte per essere tutelabili non devono essere facilmente reperibili, devono esse circondate da particolari cautele che ne precludono l'accesso a terzi, non devono essere messe a disposizione del pubblico. Un grosso problema sorge in relazione all'ex dipendente: le capacità professionali acquisite sono patrimonio del dipendente, i segreti professionali sono quelli di natura tecnica e restano tutelabili Per segreti aziendali si intendono le sole informazioni segrete, ossia quelle specifiche conoscenze attinenti all’ambito di attività svolta in via riservata dall’impresa. Ad esempio dovranno ritenersi segrete le liste di clienti, non agevolmente accessibili, specie se complete di informazioni commerciali utili per formulare proposte commerciali ad hoc. Concorrenza parassitaria Per concorrenza parassitaria si intende l’imitazione sistematica delle iniziative imprenditoriali del concorrente (imitazione di prodotti, modalità pubblicitaria, tecniche di commercializzazione…), con annesso sfruttamento della creatività altrui. Per essere considerato un illecito deve riguardare tutte o quasi le iniziative del concorrente, a breve distanza temporale; occorre anche che si ripeta in un arco temporale consistente La concorrenza parassitaria consiste nell'imitazione sistematica, anche non integrale, delle altrui iniziative imprenditoriali (prodotti, marchi, campagne pubblicitarie, ecc.). Imitazione attuata, per un verso, con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità delle attività (e quindi non reprimibile in base alla fattispecie tipica degli atti di confusione), e, per altro verso, con un disegno complessivo che denota il pedissequo sfruttamento dell'altrui creatività. La violazione di norme di diritto pubblico. L’attività imprenditoriale si svolge in uno spazio denso di norme di diritto pubblico, che comporta dei limiti (all’attività) ma soprattutto dei costi. Generalmente nessuna violazione di norme di diritto pubblico è automaticamente atto di concorrenza sleale. Si ha concorrenza sleale solo quando la norma di diritto pubblico violata sia inerente alla concorrenza, e nel caso in cui quell'atto possa ritenersi in contrasto con i principi di correttezza professionale. Violazione di norme pubblicistiche La violazione di norme pubblicistiche come atto di concorrenza sleale. Le norme pubblicistiche violate possono essere suddivise in tre tipi: quelle che impongono limiti all’esercizio dell’attività (violazione norme sulla corruzione), quelle che impongono dei costi (violandole si ottiene più risparmio, quindi un maggior vantaggio), e quelle che impongono degli oneri. 26 La violazione di norme pubblicistiche può costituire un atto di concorrenza sleale quando tali norme, sia nazionali sia comunitarie, siano poste a tutela del sistema concorrenziale e del mercato, così che la loro violazione incida sul gioco concorrenziale producendo un vantaggio economico per l'impresa agente. Lezione 4 - Le pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori. La disciplina sulla pubblicità. Profili processualistici e sanzionatori In via generale, la disciplina del codice di p.i. si sovrappone ad una parte di quella contro la concorrenza sleale. In particolare alla concorrenza sleale confusoria, a quella per sottrazioni di segreti, a quella delle denominazioni di origine. In queste ipotesi di duplicazione ci si trova dunque di fronte ad una identica fattispecie, configurata rispettivamente come violazione di diritti di p.i. nel c.p.i. e come violazione della disciplina della concorrenza sleale ai sensi degli artt. 2598 e ss. c.c. La giurisdizione nell’azione di concorrenza sleale spetta in gran parte alle Sezioni Specializzate istituite presso un certo numero di tribunali, ed una parte residua al giudice ordinario. La sentenza che accerta il compimento di uno o più atti di concorrenza sleale può applicare le sanzioni dell’inibitoria, dell’emanazione di opportuni provvedimenti, della pubblicazione della sentenza e del risarcimento del danno. L’inibitoria è il divieto, espressamente posto dal giudice al soccombente, di continuare l’attività o ripetere l’atto dichiarati illeciti. Gli opportuni provvedimenti per la rimozione degli effetti dell’atto possono consistere in un ordine di distruzione, o di ritiro dal commercio, dei beni realizzati con l’attività illecita. La condanna al risarcimento del danno per concorrenza sleale può essere disposta solo in presenza dei presupposti generali di cui all’art. 2043 c.c., ed occorrono quindi il dolo o la colpa del convenuto, e la prova del danno sofferto. L’individuazione del giudice competente a decidere la controversia dipende a seconda che ci si trovi in presenza di: • Fattispecie “interferente” di concorrenza sleale, in cui l’atto interferisce con diritti di proprietà industriale Tribunale delle imprese • Fattispecie c.d. “pura” di illecito. “La competenza delle sezioni in materia di impresa va negata nei soli casi di concorrenza sleale c.d. pura, in cui la lesione dei diritti riservati non costituisca, in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale, tale da dover essere valutata, sia pure incidenter tantum" (Cass. 21153/2010) Giudice ordinario. La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni: • L’inibitoria. Art. 2599 c.c.: “La sentenza che accerta gli atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”. • Il risarcimento del danno. Art. 2600 c.c.: “Se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o colpa l’autore è tenuto al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”. Pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori 27 Passando ai profili di tutela, in materia di pratiche commerciali scorrette concorre la competenza dell' AGCM e del Giudice ordinario. In particolare, l' AGCM, d'ufficio o su istanza di ogni soggetto che ne abbia interesse, può avviare un procedimento amministrativo per accertare la sussistenza di una pratica commerciale scorretta, nell'ambito del quale può avvalersi di ampi poteri istruttori e investigativi al fine di identificare il soggetto responsabile e verificare le condotte poste in essere. Resta di competenza del giudice ordinario la decisione sull'azione di risarcimento eventualmente promossa dal consumatore che si assume danneggiato dalla pratica commerciale scorretta. Inoltre, resta in ogni caso ferma la giurisdizione del Giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, di pubblicità comparativa, di atti compiuti in violazione della disciplina sui segni distintivi (Art. 27 cod. cons). Pratiche commerciali scorrette: il caso Un esempio di applicazione della normativa esposta è offerto dalle cronache recenti. In data 29 settembre 2015, L’Antitrust ha sanzionato tre società, tra cui la AMA di Roma, per complessivi 210 mila euro. Il provvedimento riguarda le informazioni fornite ai consumatori sulla raccolta degli indumenti usati, poste sui cassonetti gialli e pubblicate nel sito internet della stessa Azienda municipale Ambiente. È risultato in particolare l’apposizione sui cassonetti stradali di diciture ingannevoli quali “i materiali in buono stato saranno recuperati come indumenti”, “grazie per il vostro aiuto”, aiutaci ad aiutare”, idonei ad alterare il comportamento economico del consumatore. In base a queste scritte adesive, si poteva ritenere che la raccolta venisse svolta per fini umanitari o sociali, mentre s’è accertata invece una concreta utilizzazione degli indumenti a fini commerciali. Pubblicità ingannevole e comparativa • A partire dalla metà degli anni sessanta, le imprese hanno dato vita ad un sistema di autodisciplina pubblicitaria, che le impegna a non diffondere messaggi pubblicitari che contrastino con le regole di comportamento fissate in un apposito codice privato (il codice di autodisciplina pubblicitaria), che fra l'altro espressamente vieta la pubblicità ingannevole. Un organismo di giustizia privata (il Giurì di autodisciplina), con sede a Milano, vigila sul rispetto del codice e funge da organo giudicante. L'azione dinanzi al Giurì può essere promossa da chiunque si ritenga pregiudicato da attività pubblicitarie contrarie al codice o su iniziativa del Comitato di controllo dallo stesso previso. Le decisioni del Giurì sono insindacabili. • Con il d.lgs. 74/1992, all'Autodisciplina si affianca la disciplina legislativa; al controllo privato del Giurì il controllo pubblico dell'Autorità garante. Tale decreto è stato ora sostituito dal d.lgs. 145/2007, recante disposizioni in materia di pubblicità ingannevole e comparativa. • Per pubblicità ingannevole si intende qualsiasi pubblicità che è idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente. La definizione di pubblicità è piuttosto ampia: si considera tale qualunque messaggio diffuso a scopo promozionale nell'esercizio di un'attività economica. Sono quindi pubblicità ingannevoli anche le etichette dei prodotti o i marchi decettivi. 30 • La pubblicità comparativa è lecita se confronta oggettivamente beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi in relazione ad una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative. 31
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