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5. Il Cinquecento, Sintesi del corso di Linguistica

Dal manuale di Marazzini, il quinto capitolo de La lingua italiana

Tipologia: Sintesi del corso

2011/2012

Caricato il 19/06/2012

nesquik7
nesquik7 🇮🇹

4.3

(15)

12 documenti

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Scarica 5. Il Cinquecento e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! IL CINQUECENTO Italiano e latino Nel Cinquecento il volgare raggiunse una piena maturità, ottenendo nel contempo il riconoscimento pressoché unanime dei dotti, che gli era mancato durante l’Umanesimo. Si assiste a un vero e proprio trionfo della letteratura volgare tra cui spiccano Ariosto, Tasso, Aretino, Machiavelli e Guicciardini. La storia della lingua italiana dal Cinquecento al Settecento può essere vista come una lotta al latino, acui venne tolto progressivamente spazio. Nel Rinascimento, il latino non era affatto in posizione marginale, ma resisteva saldamente al livello più alto della cultura. Si avvertiva però un clima nuovo, dove gli intellettuali iniziavano ad acquisire maggiore fiducia nella nuova lingua. Tale atteggiamento derivava dal processo di regolamentazione grammaticale allora in corso. Determinante fu la pubblicazione de Le prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Verso la metà del Cinquecento si assistette al definitivo tramonto della scrittura di koinè, tipica del Quattrocento. I lettori volevano risposte pratiche, una guida per scrivere correttamente liberandosi dagli eccessivi latinismi e dialettalismi. Attraverso questa regolamentazione normativa e attraverso il conseguente livellamento, l’italiano raggiunse uno status di lingua di cultura di altissima dignità. Per quanto riguarda il diritto e l’amministrazione della giustizia, il latino aveva ancora una netta prevalenza. La giustizia però, non consiste solo nelle disquisizioni dei teorici del diritto. Nella pratica di tutti i giorni, nelle verbalizzazioni delle inchieste, nei processi, il volgare trovò a poco a poco spazio, più o meno ufficialmente. Spesso si assiste a una mescolanza dei due codici. Quasi esclusivamente in latino si presentavano la filosofia, la medicina e la matematica. Il volgare venne usato nella scienza quando si trattava di stampare opere di divulgazione. Nel XVI secolo la percentuale più alta di libri in volgare venne stampata dall’editoria di Venezia (la quale afferma fortemente il suo primato), seguita dall’editoria di Firenze, con un tasso appena al di sotto del 75%. L’editore veneziano Aldo Manuzio, uno dei grandi maestri dell’arte tipografica italiana ed europea, scelse per le sue stampe un formato editoriale di piccole dimensioni, “tascabile”, e un carattere tipografico corsivo, detto “aldino”. Nel 1501 usciva in piccolo formato, il Petrarca volgare curato da Pietro Bembo, possessore di un autografo. Nel 1525 vennero pubblicate a Venezia Le prose della volgar lingua, un’opera divisa in tre libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica dell’italiano. Nonostante fosse poco sistematica perché in forma dialogica, emerse un chiaro profilo dell’italiano. Il dialogo è idealmente collocato nel 1502 e vi prendono parte quattro personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi diversa: Giuliano de’ Medici (terzo figlio di Lorenzo il Magnifico) rappresenta la continuità con il pensiero dell’Umanesimo volgare, Federico Fregoso espone molte delle tesi storiche presenti nella trattazione, Ercole Strozzi (umanista e poeta in latino) espone la tesi degli avversari del volgare, e infine Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro. Nelle Prose venne svolta un’ampia analisi storico-linguistica, prendendo le distanze dalla tesi pseudo-bruniana, la forma vulgata e mistificata della tesi che era stata proposta da Leonardo Bruni a proposito dell’origine del volgare. Secondo la tesi pseudo-bruniana, l’italiano era già esistito al tempo dell’antica Roma come lingua popolare. Bembo adottò invece il punto di vista di Biondo Flavio, secondo il quale il volgare nacque dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari. Quando Bembo parla di lingua volgare, intende il toscano: ma non il toscano vivente, parlato nella Firenze del XVI, bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio (in parte anche quello di Dante). La lingua non si acquisisce dal popolo, ma dalla frequentazione di modelli scritti. La teoria di Bembo voleva coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un ideale rigorosamente classicistico, la cui natura è letteraria. Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente il modella della Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso il basso. Il modello del Canzoniere invece, non presentava difetti per la sua assoluto selezione linguistico-lessicale. Qualche problema sorgeva nel Decameron in cui emergeva il parlato. Bembo si preoccupò infatti di precisare che il modello linguistico a cui si doveva far riferimento non stava nei dialoghi delle novelle, ma nello stile vero e proprio dello scrittore. L’effetto più rilevante della grammatica di Bembo, lo si ebbe sul capolavoro dell’Ariosto, L’Orlando furioso. L’autore corresse la terza e definitiva edizione del poema seguengo le indicazioni delle Prose. Delle tre edizioni, rispettivamente del 1516, 1521 e 1532, la prima risentì molto del padano illustre, benché sia già notevolemente toscanizzata. Nelle Prose Bembo parlò anche dell’opinione di Calmeta, secondo la quale il volgare migliore era quello usato nelle corti italiane e in specialmodo nella corte di Roma. Una formulazione più precisa sulla teoria di Calmeta fu data dal letterato Ludovico
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