Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

A. Galloway, Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica, Sintesi del corso di Comunicazione Audiovisiva

Riassunto esaustivo e dettagliato del libro Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica di Galloway, propedeutico all'esame Digital Storytelling (INCOM) tenuto dal professore Mauro Salvador.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 12/06/2024

Lorenzo.cavazzini
Lorenzo.cavazzini 🇮🇹

4.5

(68)

22 documenti

1 / 26

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica A. Galloway, Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Audiovisiva solo su Docsity! A. R. Galloway, Gaming – Saggi sulla cultura algoritmica Capitolo 1 – Azione di gioco (Gaming action), quattro fasi Un gioco, inteso come struttura ludica (game) è un'attività caratterizzata da regole in cui dei giocatori tentano di realizzare qualche tipo di scopo. Un videogame è un oggetto culturale, definito dalla storia e dalla materialità: consiste in un dispositivo (device) elettronico computazionale e in un'idea/struttura di gioco, ossia un game, simulata in un software. Il dispositivo elettronico computazionale può presentarsi in numerosi modi: può essere un PC, una macchina arcade, una console, un dispositivo portatile o un qualsiasi altro tipo di costruzione elettronica. Detta macchina, di solito, è dotata di un dispositivo di ingresso (input), come una tastiera o un controller. Inoltre è dotata di una superficie leggibile che funge da uscita (output): uno schermo, per esempio. Il software del gioco è caricato nella memoria della macchina. Un software sono dei dati: i dati forniscono le istruzioni all'hardware della macchina che via via esegue queste istruzioni a livello materiale. Il software induce la macchina a simulare le regole del gioco, per mezzo di azioni significative. Il giocatore (operatore) è qualcuno che agisce individualmente comunicando con il software e con l'hardware della macchina: manda messaggi codificati grazie ai dispositivi di ingresso e riceve messaggi codificati attraverso i dispositivi in uscita . Sommando tutti questi elementi, ecco ciò che chiamo gaming, ovvero l'intero apparato del videogame. Partiamo da qui: se le fotografie sono immagini e i film sono immagini in movimento, allora i videogiochi sono azioni. Facciamo che questa è la parola numero uno per una teoria sul videogame. Senza l'azione, i giochi restano confinati nelle pagine di un libro di regole astratte. Senza la partecipazione attiva dei giocatori e delle macchine, i videogame esistono solo in qualità di codici inerti da computer. Dunque i videogiochi sono azioni. Con i videogiochi l’opera in sé è un'azione materiale: uno agisce, per l'appunto gioca a un videogame. Il software gira. L'operatore e la macchina giocano insieme a videogame, passo dopo passo, mossa dopo mossa. Insomma, per capire i videogiochi bisogna comprendere in che modo l'azione stia dentro un processo di gioco, un gameplay, facendo attenzione alle sue molteplici varianti e gradi di intensità. Bisogna resistere alla tentazione di equiparare l'azione di gioco (gamic action) a una teoria dell'interattività o una teoria dei media sul pubblico attivo. La teoria del pubblico attivo rivendica il fatto che i pubblici producano sempre le loro interpretazioni e ricezioni dell'opera. Invece un medium è attivo se la materialità in senso stretto lo movimenta o lo struttura: i pixel che si accendono e si spengono. In ragione di questa possibile confusione, qui eviterò la parola interattivo, piuttosto preferisco. Definire il videogame un medium basato sull’azione (action- based), come il computer. In altre parole, mentre media di massa come il cinema, la letteratura, la televisione e simili continuano a generare varie discussioni su rappresentazione, testualità e soggettività, è nel frattempo emerso un medium del tutto nuovo: i computer, e nello specifico i videogame, che si fondano non sullo sguardo o sulla lettura, ma sul sollecitare dei mutamenti materiali attraverso l'azione. Iniziamo intanto a distinguere due tipologie di azioni di base:  Azioni della macchina: sono atti eseguiti dal software e dall'hardware del computer di gioco  Azioni dell'operatore: sono atti eseguiti dai giocatori. La divisione è del tutto teorica, perché la macchina e l'operatore vanno avanti insieme in una relazione cibernetica finalizzata a realizzare le variazioni del gioco nella sua totalità. Sfrutto le parole operatore/macchina non per sminuire il valore del gioco divertente e significativo, ma per sottolineare che nella sfera dei media elettronici le strutture del gioco sono fondamentalmente sistemi software cibernetici che coinvolgono degli agenti sia organici, sia non organici. Come ha scritto Friederich Kittler, un codice è l'unico linguaggio che fa ciò che dice. Un codice qui non è solamente un linguaggio con una sintassi e una semantica, ma è pure il linguaggio macchina. Durante una sessione il codice si muove e genera mutamenti materiali in senso letterale. Si, i videogame sono giochi, ma più ancora sono sistemi di software. Questo deve essere ben impresso nella mente di chi li analizza. Dunque è dalla prospettiva di un software informatico, degli oggetti culturali algoritmici, che questo libro ha qualcosa da dire. L'azione di gioco è in genere descritta come ciò che avviene in uno spazio separato, semiautonomo, comunque estraneo alla vita normale. Ora, in aggiunta alla precedente distinzione tra macchina e operatore, bisognerebbe proporre una seconda possibile divisione, sempre per necessità di studio: nei videogame ci sono azioni che avvengono in spazi diegetici e azioni che accadono in spazi non diegetici. Uso i termini diegetico e non diegetico, a partire dalla teoria letteraria dei film: - La diegesi di un videogame è la totalità del mondo giocabile proprio dell'azione narrata. Come per il cinema, dunque, la diegesi dei videogame include sia elementi scenici visibili, che extra scenici, invisibili: include infatti i personaggi e gli eventi mostrati, ma pure le cose che vengono meramente citate o che si presume esistano nella situazione di gioco data. Certo, alcuni videogame possono non avere narrazioni elaborate, ma c'è sempre un minimo, la cosiddetta seconda realtà di Caillois, che funziona da diegesi per la struttura di gioco. - Al contrario, elementi di gioco non-diegetici, sono quegli elementi dell'apparato di gioco esterni al mondo proprio dell'azione narrata nella teoria dei film. il non diegetico si riferisce a tutta una serie di tecniche formali che fanno parte dell'apparato filmico pur restando fuori dal suo universo narrativo. Per esempio i crediti o i titoli. Dicendo non diegetico, vorrei evocare lo stesso ambito per i videogame, ovvero gli elementi di gioco che sono dentro l'intero apparato di gioco ma fuori da quella porzione dell'apparato che costruisce il mondo simulato dei personaggi e della storia. In poche parole, gli elementi non diegetici sono spesso connessi in modo centrale all'atto del giocare, per cui il loro essere non diegetici non vuol dire necessariamente estranei al gioco (nongaminc). Talvolta gli elementi non diegetici sono ben inseriti nel mondo di gioco, altre volte invece sono del tutto esterni. In Berzerk, premere start è un atto non diegetico, mentre ai il robot è un atto diegetico. Allo stesso modo, attivare il pulsante pausa è un atto non diegetico, ma attivare l'effetto di slow motion durante una sparatoria è un atto diegetico. Come risulterà evidente, il non diegetico è ben più comune nel gaming che nei film o in letteratura. Sovrapporre questi due assi ortogonali, macchina e operatore, diegetico e non diegetico, risponde al voluto tentativo di riunire in un unico insieme una vasta teoria dell'azione del gioco. Secondo questo modello, premere pausa vale tanto quanto sparare con un'arma. I trucchi sono significativi tanto quanto le strategie. I quattro quadranti generati dall'incrocio dei due assi forniranno la struttura per il proseguo del capitolo. Così posso proporre quattro fasi relative all'azione di gioco. Ognuna svelerà una prospettiva diversa intorno alle qualità formali del videogame. Puro processo – Prima fase Il primo quadrante riguarda il phylum del dispositivo e la vitalità della pura materia. Quando un gioco come Shenmue viene lasciato a se stesso, di solito si adagia in una specie di momento di equilibrio. Non va in loop come un nastro, né si incanta su una battuta: crea uno stato di riposo. Il gioco continua a procedere, ma in stasi.. Il gioco è in uno stato ambientale, anzi è un atto assi dello schema di classificazione, mettendo diegetico opposto a non diegetico e macchina opposta a operatore. Il dromenon – Terza fase Ho atteso un po' prima di affrontare direttamente le due facce complementari del concetto di gioco, una da intendersi come dinamica, o atto ludico (play), e una come meccanica, o struttura ludica (game). Un gioco, in quanto struttura ludica, è un'attività definita da regole nella quale dei giocatori cercano di realizzare qualche sorta di obiettivo. Esattamente come per l'atto ludico, il concetto di struttura ludica è stato teorizzato solo recentemente, nonostante sia qualcosa di assai fondamentale per l'attività umana. Questa definizione è di Huizinga ed è la sintesi delle sue osservazioni sulla natura del gioco: qualcosa di libero, di estraneo alla vita ordinaria, di circoscritto nel tempo e in un luogo; qualcosa che genera un ordine e che promuove la nascita di comunità di giocatori. Il gioco è un'attività libera, separata, incerta, improduttiva e regolata, fittizia. In altre parole Huizinga avvia il discorso sul gioco come parte della vita umana nei suoi diversi aspetti. Suggerisce una diretta connessione tra gioco e cultura, perché il gioco non è semplicemente qualcosa che esiste dentro la cultura, ma, al contrario, la cultura sorge dentro e attraverso il gioco. Tuttavia, allo stesso tempo, Huizinga riserva poca attenzione agli aspetti materiali dei singoli momenti di gioco. Se Huizinga e Caillois in genere concordano sulla questione del gioco, ecco ciò che li divide: il secondo va oltre la definizione formale secondo cui il gioco si contrappone al resto della realtà e si trova più a suo agio in un'ottica prettamente materialista. Procede infatti, mappando quattro tipologie base di gioco: competitivi, di fortuna, di mimica, di panico o vertigine. Diversamente Huizinga, Caillois non esita a citare i giochi veri e propri, così come delle attività ludiche, in modo da creare gli insiemi a seconda delle diverse peculiarità. Tuttavia, ciò che accomuna Huizinga e Caillois è il fatto che entrambi si concentrino più sull'esperienza dell'individuo che gioca: il gioco è un'occupazione o un'attività degli esseri umani. Ecco spiegato perché non ho iniziato questo libro citando Huizinga e Caillois: ho preferito richiamarli qui discutendo di questa terza fase, perché ora ci troviamo al punto di intersezione tra l’agente di gioco e lo spazio diegetico in cui avviene il processo del gioco: il gameplay. La terza fase assume l’azione nel modo in cui è convenzionalmente definita, ossia come la serie dei deliberati movimenti di un individuo. A tal proposito, rivelatrice è la concezione di Huizinga dell'elemento ludico presente nella performance sacra: l'azione sacra è un dromenon, cioè qualche cosa che si fa. Quello che si rappresenta è un dramma, cioè un'azione che si compie sia nella forma di rappresentazione sia in quella di una gara. Il dromenon, ossia l'atto rituale, aiuta comprendere questa terza fase dell'azione di gioco: l'atto diegetico dell'operatore. È la fase che interessa l'azione diretta di un operatore all'interno del mondo possibile, nonché la parte del mio schema che più coincide con Huizinga e Caillois. Gli atti diegetici dell'operatore sono diegetici perché hanno luogo all'interno del mondo di gioco; sono atti dell'operatore che vengono realizzati da chi gioca e non dal software del videogame o da qualche altra forza esterna. Gli atti diegetici dell'operatore appaiono sia come: - Atti di movimento: considerati in sé, gli atti di movimento cambiano la posizione fisica o l'orientamento dell'ambiente di gioco e sono di solito la conseguenza dell'uso di un joystick o di un comando analogico, oppure di un qualunque mossa effettuata con un controller. - Atti espressivi: parallelamente c'è un tipo di azione durante il gameplay di un operatore che riguarda solo l'espressione del gamer. Può bastare anche solo un click del mouse e si tratta di azioni come selezionare, prendere, aprire, parlare, potenziare, attaccare, , applicare e digitare. Gli altri espressivi possono essere monodimensionali, in certi generi ludici, o altamente complessi, come nel caso delle sezioni e combinazioni di oggetti in videogame di strategia o di avventura. In un videogame non è tutto disponibile per un atto espressivo. Ci sono infatti oggetti non azionabili. Inoltre, gli oggetti possono cambiare il loro stesso lato stato di agibilità. Gli oggetti non azionabili si possono presentare nella forma di pulsanti, blocchi, ostacoli, porte, parole, personaggi non giocati, e sono scenari inerti. Nessuno sforzo di qualsivoglia entità darà risultati a partire dagli oggetti non azionabili. L'agibilità degli oggetti viene decisa quando i livelli di gioco sono in progettazione. Questa disquisizione intorno agli atti diegetici dell'operatore si potrebbe poi documentare dando un rapido sguardo archeologico alla progettazione dei controller. I controller di un videogame, come pulsanti e altri dispositivi di ingresso, semplificano queste due tipologie di atti. In un gioco per PC, gli atti dell'operatore sono letteralmente iscritti nelle diverse parti della tastiera del mouse. Allo stesso modo certi pulsanti della tastiera servono per atti di movimento, altri per quelli espressivi. Mentre certi pulsanti del controller, come quelli di Start e Select della playstation, vengono utilizzati quasi esclusivamente per gli atti non diegetici dell'operatore, i restanti spesso assolvono a un doppio compito, assumendo una funzione durante alcune logiche di gioco e un’altra in logiche diverse. Il gioco della struttura – Quarta fase Derrida non dice molto su cosa sia il gioco, ma usa il concetto di gioco per spiegare la natura di qualcos'altro, ossia la forma del linguaggio. In La disseminazione il concetto di gioco viene descritto così a grandi linee e così tanto in prossimità all'idea di scrittura stessa che i due termini si possono facilmente scambiare. Il gioco è cruciale sia per il linguaggio sia per la significazione, nonostante il gioco stesso si autocancelli proprio con l'atto che fa esistere entrambi. Con Huizinga il gioco era tenuto in alto come un concetto del tutto assiomatico, irriducibile a un qualcosa di più primitivo, fenomenologico. Con Geertz, invece, il puro concetto veniva messo alla prova di una lettura attenta, come dovrebbe essere per una qualsiasi altra forma testuale. Ora con Derrida si torna al concetto di gioco come pura positività. Però se per Geertz l'obiettivo è l'interpretazione del gioco, per Derrida è il gioco dell'interpretazione. Secondo l'autore il gioco tira fuori una carica di agitazione o ambiguità, un avanzare con gioia senza subire i limiti delle strutture retrograde della perdita o dell'assenza. Ora siamo pronti per affrontare la quarta tipologia dell'azione di gioco, ossia gli atti non diegetici della macchina. Si tratta di azioni eseguite dalla macchina e integrate all'interno dell'esperienza del videogame, seppure non considerate parte del mondo di gioco in senso stretto. È la categoria più interessante. Ci rientrano le forze interne come potenziamenti, obiettivi, statistiche e punteggi. Il più emblematico atto non diegetico della macchina è il Game over, quando il gameplay si arresta, seppure in parte determinato dalla performance dell'operatore o dalla sua mancanza. Gli atti di arresto vengono fondamentalmente imposti dal videogame stesso come risposta ad un input e a seguito di una contestazione dell'operatore. Un atto di arresto avviene nell'istante in cui il controller smette di accettare le indicazioni di gioco dell'utente e sostanzialmente smette di funzionare. Questo istante di solito coincide con la morte del personaggio giocato dall'operatore. È chiaro che il game over di un gioco non è affermativo, per usare la terminologia nietzschana di Derrida, ma è sicuramente destabilizzante, perché mette il giocatore in uno stato temporaneo di disabilità e sottomissione. Un atto di arresto va collocato correttamente tra i primi tipi di atti non diegetici della macchina che potrei definire atti disabilitanti. Si tratta di qualsiasi tipo di aggressione o di mancanza di gioco che provenga dall'esterno del mondo del videogame e abbia in qualche misura un impatto negativo sul gioco stesso. Possono essere atti fatali o temporanei, necessari o non necessari. Il secondo tipo di atti non diegetici della macchina comprende gli atti che la macchina mette a disposizione per arricchire anziché degradare, l'esperienza di gioco dell'operatore. Bisognerebbe chiamarli atti abilitanti. Sono l'essenza stessa di una pratica di gioco che scorre liscia. Con un atto abilitante la macchina del gioco garantisce qualcosa all'operatore: una crescita in velocità, un invulnerabilità temporanea, una vita extra, una salute aumentata, un portale di teletrasporto. La funzionalità degli oggetti o la loro agibilità deve essere valutata quando si considera lo status degli atti abilitanti. Gli oggetti inerti, per esempio, non si possono includere. Sebbene molti di questi atti abilitanti siano al centro della maggioranza dei giochi, è bene forse sottolineare che si trovano in una relazione non facile con il mondo diegetico del gioco stesso. Difatti molti oggetti abilitanti sono integrati in modo impercettibile nel mondo di gioco, utilizzando dei trucchi o dei mascheramenti. Ciò rivela una tensione spesso presente nei videogame, per cui gli oggetti diegetici sono usati come una maschera che offusca delle funzioni di gioco non diegetiche, ma necessarie. Oltre agli atti abilitanti e disabilitanti, c'è un'ulteriore categoria di atti non diegetici della macchina importanti da menzionare: si tratta di tutte quelle personificazioni della macchina che emergono in un videogame per esercitare la loro logica sulla forma del gioco. La forma e la grandezza di Mario nella versione di Super Mario Bros è determinata non solo da un'intenzione artistica e da una logica narrativa, ma pure dalla specifica di design del microchip a 8 bit che sta alla base del software di quel videogame. Ci sono pure altre influenze della logica di informatica che incidono sul naturalizzazioni del gioco. Un esempio è dato dalla programmazione orientata agli oggetti e al multithreading, che crea nel gioco le condizioni possibili per certi risultati formali. Pure altre trasformazioni della cultura materiale possono riapparire nei videogame come emanazioni non diegetiche. Si consideri la differenza tra i giochi arcade e quelli per PC o console: - Gli arcade sono generalmente delle macchine installate in spazi pubblici che richiedono un pagamento per poter essere giocati. - I giochi per PC o console sono anzitutto presenti a casa e, salvo eccezioni, una volta acquistati si usano gratuitamente. Questa differenza materiale ha portato a formare il flusso narrativo dei videogame in modi diversi: - Gli arcade sono spesso progettati intorno ai concetti di vite, mentre i giochi per console intorno all'idea di salute. - I videogame arcade sono caratterizzati più da penalità discrete facilmente quantificabili e da limitazioni sul gioco - un gettone, per l'appunto, equivale a un certo numero di vite. I videogame per PC e console, al contrario, offrono un gameplay più fluido e continuo, basato sull’alternarsi del rifornimento e dell'esaurimento di una risorsa qualitativa. La distinzione vite/salute o il disegno grafico dei personaggi 8 bit non andava contro le diverse narrative degli arcade e dei primi giochi domestici. In molte situazioni gli atti di macchina non diegetici sono vissuti in termini di non gioco, in particolare quando hanno a che fare con i famosi ritardi o crash. Questo non ha impedito loro di intrecciarsi del tutto con la nozione di gioco. Questo breve istante di non gioco non distrugge il videogame, ma al contrario, a volte lo eleva. La narrazione segue poi abbastanza fedelmente, spiegando la rottura della diegesi. Così, dopo la Se ci spostiamo al cinema contemporaneo, Essere John Malkovich è praticamente un saggio sulla grammatica della soggettiva. In questo caso tale inquadratura non propone sguardi intossicati, ma riproduce il senso di scoramento causato dall'effettivo abbandono del proprio corpo e dall'ingresso nella mente di un altro individuo. Le soggettive di Essere John Malkovich mostrano gli effetti di questa distorsione di identità attraverso maschere ovali che oscurano gli angoli delle inquadrature e con l'uso del grandangolo ad aggiungere un senso di vertigine. Qui, la soggettiva è metafora della marionetta, lo spettatore impotente e paralizzato, completamente soggiogato al volere fisico e psicologico del burattinaio. Nel Laureato il senso di potenza e alienazione di Dustin Hoffman nei confronti della sua famiglia è comunicato attraverso una soggettiva da dietro una maschera da sub. Anche la colonna sonora si adatta all'inquadratura, soffocando le voci degli altri personaggi e limitandosi a suoni quasi subacquei, contribuendo a una visione opprimente e decentrata Anche Hitchcock ne fa un uso simile, per esempio in Topaz: quando Juanita scende le scale per affrontare i soldati che stanno entrando in casa, il regista stacca su una rapida e instabile soggettiva che ci dice che la donna sta per morire. Subito dopo arriva l'inquadratura più importante del film, una prospettiva irreale tipica di Hitchcock: dall'alto, a piombo sul cadavere, con la trama del tessuto del vestito che si espande come una pozza di sangue. Queste due inquadrature dialogano fra di loro: l’alienante soggettiva di Juanita è già lo sguardo di una morta e prepara lo spettatore a quanto segue, portando in scena uno spaventoso distacco. Criminali e mostri Fin qui ho considerato l'uso della soggettiva per rappresentare lo sguardo di personaggi normali che, quandanche fossero alterati, spaventati o in qualche modo fuori fase, restano comuni esseri umani. Tuttavia, questi personaggi non sono i protagonisti della maggior parte delle soggettive cinematografiche, più spesso legate ad alieni, criminali, mostri o persone che i film raccontano come disumane. Non sorprende dunque che negli horror la soggettiva sia molto frequente: lo sguardo pedatorio e l'agire della macchina da presa in prima persona sono strumenti di base per questo genere di film. Un buon esempio si trova nel Silenzio degli innocenti: il serial killer Buffalo Bill indossa un paio di visori notturni nelle sequenze finali e lo sguardo soggettivo è usato per mostrare la sua ferocia criminale. In Mission impossible le frequenti soggettive dei primi venti minuti generano un enorme trauma formale, poiché praticamente prima ancora che il film inizi davvero, quasi tutti i personaggi principali sono fatti fuori uno a uno. Ancora De Palma, all'inizio di Blow out, mostra lo sguardo di un killer che impugna un coltello usando uno specchio per far vedere al pubblico il volto del folle. Questi sono momenti ovviamente molto peculiari, data la forte portata alienante di questa inquadratura: gli spettatori, che già non sono di tutto a loro agio, restano notevolmente spiazzati dai personaggi che si guardano allo specchio in soggettiva. Le sovrapposizioni fra semi-soggettiva e soggettiva sono ben illustrate da Hitchcock nella Finestra sul cortile. In molti hanno notato il grandissimo numero di semi-soggettive che caratterizzano il film e ne determinano il patto fiduciario con lo spettatore, oltre che la portata poetica basata, su vari livelli di sguardo. Se quindi da un lato le semi-soggettive sono fondamentali per il film, le soggettive si prendono la scena in precisi punti delle narrazione, come per esempio nella prima apparizione di Kelly, mostrata con una messa a fuoco soft. L'inquadratura non è predatoria né mostruosa, ma possiede un aspetto confuso, onirico, rappresentativo dello stato psicologico di Jeffrey in quel momento. Il momento in cui la soggettiva diventa mostruosa si trova invece verso la fine del film, nella scena topica in cui il killer è accecato dal flash. L'inquadratura in questo caso è costruita con un cerchio rosso luminoso che la invade e rappresenta la momentanea cecità. Una semi-soggettiva non ha nulla di sinistro, una soggettiva ha il potenziale per mostrare qualcosa di oscuro e cruento. Quindi, quando Hitchcock decide di usarne una, lavora e modifica l'immagine a livello formale in modo da renderla a tutti gli effetti lo sguardo di un assassino. Computer Finora abbiamo associato le soggettive ad esseri umani alterati e mostri assetati di sangue, ma forse l'uso più efficace che ne è stato fatto è nella rappresentazione di visioni cibernetiche computerizzate o di sguardi che simulano quelli delle macchine o che in alcuni casi appartengono alle macchine, come nei sistemi di puntamento dei droni che lanciano bombe intelligenti. In Terminator, James Cameron mette in scena quattro sequenze in cui gli occhi della macchina da presa e quelli del cyborg coincidono, evidenziando l'artificialità del suo sistema di visione. Di nuovo in Terminator, nella scena in cui il cyborg si ripara nella stanza d'albergo, vediamo finalmente il meccanismo che genera la patina visuale: occhi robotici dotati di lente, diaframma e il sistema di registrazione. Ecco che improvvisamente scopriamo come il dispositivo di visione del Terminator assomigli molto a quello che serve per girare il film di cui è protagonista: la sovrapposizione di questi sguardi non è poi così assurdo. Infine, quando il cyborg è finalmente sconfitto e il suo occhio rosso si spegne, anche il film non è più in grado di fondere la visione della macchina da presa con quella del personaggio, e finisce. Un effetto termografico si trova in Predator di John McTiernan ed è sfruttato per sovrapporre la lente della macchina da presa con la visione ottica dell'alieno. Nei momenti topici del film lo spettatore vede un'immagine sensibile al calore, con colori molto accesi e contrastati, che rappresenta l'effettiva visione del predatore. In Terminator la macchina da presa si fonde con un corpo artificiale e meccanico, molto simile a quello del dispositivo di ripresa, sia analogico o digitale. Questa affinità si rafforza grazie a protesi e meccanismi di rappresentazione che legano a doppio filo macchina da presa e occhio cibernetico. Questi film segnano un punto di svolta importante nella transizione estetica del cinema ai media digitali e dunque ai videogiochi. Come abbiamo visto fin qui, la prospettiva soggettiva è usata al cinema per rappresentare soprattutto un senso di alienazione, inadeguatezza, distacco e paura e molto spesso questo sguardo appartiene a criminali, mostri o macchine assassine. Ciò a cui siamo giunti rivela che la sovrapposizione di macchina da presa e personaggio in una soggettiva funziona meglio se il personaggio in questione è caratterizzato da una sorta di computerizzazione. Per ottenere questo effetto sono necessarie dunque tracce di un'elaborazione computerizzata dell'immagine. Azione come immagine Fin qui abbiamo parlato della soggettiva come di un'inquadratura abbastanza rara nel cinema narrativo. Vorrei a questo punto approfondire il discorso aggiungendo all'equazione altri due fattori: - Un medium completamente diverso, i videogame. - E un ulteriore elemento iconografico presente all'interno del quadro: un'arma. I videogiochi sono radicalmente diversi fra loro dal punto di vista grammaticale. Tuttavia, se osserviamo lo specifico genere dei first person shooter (FPS), possiamo riconoscere diverse convenzioni formali che ritornano di continuo. Gli FPS appaiono per la prima volta negli Anni ‘70 e sono definitivamente perfezionati dai software nei primi Anni 090 con giochi come Doom. In un FPS chi gioca osserva le azioni in soggettiva, o in prima persona, uno sguardo che è parente stesso di quello rappresentato dalle soggettive cinematografiche. Un elemento altrettanto importante e determinante per un FPS è la presenza nel quarto inferiore destro del quadro dell'arma in uso. Lasciatemi precisare che l'analisi della visione di gioco (gamic visuality) che seguirà riguarda solo i videogame di tipo shooter con una prospettiva in prima persona o in qualche caso in terza persona. Forse non sorprenderà che il linguaggio degli FPS è apparso al cinema molto prima che nel gaming. Dunque, sebbene siano stati i videogame a diffondere le inquadrature FPS, è però chiaro che formalmente è nata dal cinema (Hitchcock in Io ti salverò). Un altro esempio sono le inquadrature in terza persona, a seguire i personaggi, proposti da Gus Van Sant in Elephant, che ricordano i third person shooter (TPS). Senza alcuna pretesa di scientificità citiamo qualche altra inquadratura: Quei bravi ragazzi quando una pistola punta Ray Liotta steso sul letto. Anche lo sguardo attraverso i visori notturni nella fine del Silenzio degli innocenti, per un attimo, diventa un'inquadratura FPS quando l'assassino punta un'arma contro la sua potenziale vittima. Sguardo ludico (gamic vision) Abbiamo visto come il cinema abbia anticipato alcuni stilemi visivi che sarebbero poi diventati centrali per i videogame first person shooter. In realtà, anche il game design ha influenzato in modo molto chiaro il cinema, nonostante più spesso se ne discosti nettamente. Le scene in cui Neo si addestra in Matrix assomigliano molto ai tutorial che avviano moltissimi giochi. Oltre a questi richiami narrativi, ci sono anche molti esempi, in Matrix e altri titoli, in cui specifiche innovazioni formali videoludiche migrano e si decidono nella grammatica filmica: parliamo in questo caso di cinema ludico (gamic cinema). Ciò che il gaming può insegnare al cinema, per esempio, è che la macchina da presa può sia assumere un punto di vista soggettivo in relazione al personaggio, come abbiamo ampiamente già detto, sia un punto di vista soggettivo in relazione a uno spazio computerizzato. Se un dispositivo ha uno sguardo proprio, è esattamente quest'ultimo. Il concetto di punto di vista cinematografico si perde in favore di una sua versione elettronica, e gli shooter, gli sparatutto, insieme all'apparato che li costituisce, hanno definitivamente espanso i limiti della soggettività. Ciò accade poiché negli FPS lo sguardo in prima persona è onnipresente ed è fulcro della grammatica ludica, tanto diventarne diretta rappresentazione. Le strategie linguistiche degli FPS, infine, si ripercuotono sul cinema man mano che tutti i film diventano sempre più digitali. Tutto ciò può essere sintetizzato come segue: lo sguardo ludico richiede uno spazio completo, renderizzato e agibile. La messa in scena cinematografica invece, non richiede quasi mai la realizzazione di spazi completi. I progettisti di set e i carpentieri realizzano solo le porzioni che dovranno essere inquadrate e poco altro. Questo perché il regista mantiene sempre il completo controllo su ciò che viene registrato. Il game design, al contrario, chiede esplicitamente la costruzione di uno spazio completo ed esplorabile senza l'aiuto del montaggio. In uno shooter, dato che il designer non può limitare il movimento del gamer, l'intero spazio di gioco deve essere renderizzato in anticipo e in tempo reale. La posizione della macchina da presa non è vincolata, anzi, è chi gioca a controllarla, muovendo lo sguardo e il corpo del suo avatar. Un corollario di quanto dicevo poco fa a proposito dello spazio agibile è che il gaming ha reso il montaggio sempre più superfluo. Questa tecnica, propria del cinema, viene utilizzata meno da quando abbiamo assistito allo scivolamento estetico verso il videogame. Certo, i video di intermezzo o (cutscene) che popolano i videogiochi sono costruiti attraverso il montaggio, ma nel gameplay è praticamente del tutto assente. Sebbene dunque il montaggio rimanga presente in le qualità fenomenologiche di base del mondo, sapendo bene che queste qualità non riguardano solo la rappresentazione visiva, anche la vita vera. Per questo motivo spesso il realismo si presenta nella forma della critica sociale. Il realismo cinematografico è definito neorealismo, per distinguerlo dai suoi storici predecessori in arte e letteratura, presenta diverse regole formali: usa attori non professionisti, luoghi reali, fotografie amatoriali e una pellicola di bassa qualità. Il vincolo di congruenza I giochi discussi fin qui hanno tutti un chiaro obiettivo di realismo formale, ma il realismo sociale è molto diverso dalla mera rappresentazione realistica. Come si può dunque identificare il vero realismo nel gaming? Un realismo sociale è davvero possibile per questo medium, in cui ogni pixel è creato da una macchina? Cosa significa realismo in relazione al concetto di giocare, che porta con sé le idee di esperienza e creatività, oltre a quella più classica di trivialità infantile e politica? Di certo oggi assistiamo alla fine del gioco come attività esclusivamente progressista o politicamente neutrale. Per trovare il realismo sociale nel gaming, dunque, bisogna seguire gli indizi di critica sociale presenti nei videogiochi e a partire da quelli introdurre un’estetica del gaming realistico. Ci sono giochi definibili come protorealistici, che cominciano ad avvicinarsi a quel valore di base del realismo che andrebbe andremo a descrivere in seguito (State of Emergency di Rockstar Games e Toywar di Etoy). Tutto questo non per dire che realismo sociale nel gaming richieda una relazione di causa-effetto strumentale fra le dita del gamer sul controller e un qualche tipo di conseguenza diretta nel mondo reale, altrimenti torneremo nella trappola della Columbine Theory, il cui problema principale è, per dirla brutalmente, di direzione. Il realismo nel gaming riguarda l'estensione della vita sociale in chi gioca, mentre la teoria dice il contrario, e cioè che i videogame possano in qualche modo generale effetti realistici di chi gioca. Invece ritengo personalmente che esista una congruenza, una sorta di fedeltà al contesto che attraverso le dita si muove dalla realtà sociale del gamer al mondo di gioco e viceversa. Chiamerei tutto questo vincolo di congruenza e lo considererei una condizione fondamentale per raggiungere il realismo nel gaming. I giochi di guerra sono realistici? Con ben chiaro in mente il vincolo di congruenza, dobbiamo ora distinguere i giochi che sono stati costruiti attorno ai eventi reali e quelli che riproducono e sottolineano le difficoltà tipiche della vita effettiva, dai simulatori per l'addestramento alle fantasie politiche più utopiche. Arriviamo così a parlare di America’s Army, lo sparatutto in prima persona progettato e distribuito dall'esercito americano. La cosa più interessante non è tanto il dibattito sulla sua natura, quanto il suo evidentissimo focus sul realismo mimetico. America’s Army è letteralmente un gioco sull'esercito americano. Sviluppato dall'esercito stesso con il proposito di riprodurre l'esperienza della vita militare, questo gioco possiede un referente concreto e reale, che altri giochi militari non hanno. Uno potrebbe pensare allora che questo gioco sia il gioco realistico per eccellenza, ma se guardiamo la definizione di realismo che abbiamo dato in precedenza e il mio vincolo di congruenza, è chiaro che questo gioco non è realistico per niente. Come osserva Reichlin, un prodotto realistico richiede una critica più o meno diretta alla società e alla morale, cosa che America’s Army non fa e non vuole fare. All'opposto, ciò che il gioco propone è un'evidente e brutale rafforzamento del framework dominante nella società americana contemporanea, che implica un atteggiamento positivo verso gli interventi militari sia per combattere per il terrorismo, sia per colpire e terrorizzare in Iraq. Anche considerando il vincolo di congruenza, America’s Army non riesce a essere sufficientemente realistico: non si può proprio dire che esista una similitudine di contesti tra un'adolescente americano che spara ai suoi nemici in questo gioco e la sua vita di tutti i giorni, anche considerando tutte le differenze linguistiche e culturali che distinguono gli adolescenti negli Stati Uniti. Questi giochi di guerra, insomma, saranno anche ben progettati, saranno anche divertenti, ma di certo non sono realistici. Se prendiamo la definizione di realismo data prima, allora Special Force e Under ash sono fra i primi giochi davvero realistici ad aver visto la luce. Special Force è un first person shooter che mette in scena il movimento islamista militarizzato nel Sud del Libano. La narrazione del gioco è comunicata prevalentemente attraverso briefing testuali all'inizio di ogni livello che introducono il personaggio come un soldato di una guerra santa contro l’occupazione israeliana. Il gameplay, tuttavia, non contribuisce alla narrazione e si svolge tutto in canonici livelli di combattimento che vanno dall'attraversamento di un campo minato all'uccisione dei nemici. L'azione in questo gioco è di stampo militare e conferma quella sensazione di semplice ribaltamento di prospettiva rispetto alla controparte americana: invece di sparare i musulmani qui si spara agli israeliani. Il realismo in questo caso rimane nella premessa, nell'idea che il movimento palestinese sia stato in grado di rappresentare il proprio codice limitato in uno sparatutto. Anche Under Ash, realizzata a Damasco, mette in scena un giovane palestinese durante l'intifada e dà la possibilità di reagire all'occupazione israeliana, prima con le pietre, poi coi fucili. Se Special forces è sfacciatamente diretto nella rappresentazione della violenza anti-israeliana, Under ash ha un approccio più sobrio, quasi educativo. Se messo a confronto con questi giochi palestinesi, America’s Army raggiunge una sorta di inquietante realismo attraverso l'involontaria rappresentazione della propria ideologia. Non un’ideologia oppressa o avversata, ma un'espressione cristallina delle realtà politiche dei conflitti militari globali. Alcuni dati rivelano che l'adolescente medio americano che gioca a questo gioco legge gli eventi del mondo con un forte spirito nazionalista, indipendentemente dalle sue idee sulla guerra in sé e dalla sua volontà di diventare un militare. Il gioco articola questa prospettiva che non è realistica di per sé, ma solo in quanto metafora del vantaggio politico percepito e desiderato dalla maggioranza degli americani. Serve un gioco come Special force per vedere in primo piano l'inquietante desolazione di America’s Army. Il sentire del gamer Il vincolo di congruenza si riduce allora all'analisi del coinvolgimento emotivo di chi gioca e alla valutazione se il gioco sia un diversivo fantastico di quel sentire o se invece ne sia un'estensione figurativa. Con Special Force e Under ash emerge una reale congruenza fra la realtà politica del gamer e l'abilità del gioco di replicare ed estenderla, a volte soddisfacendo anche i desideri frustrati che la abitano. Il realismo nei videogiochi, media attivi per eccellenza, richiede quindi una speciale congruenza fra la realtà sociale rappresentata nel gioco e la realtà sociale conosciuta e vissuta dal gamer. Questo vincolo non va considerato anche per il cinema realistico: un regista hollywoodiano deve semplicemente costruire una rappresentazione verosimile della realtà, mentre il regista realista ha il compito di rappresentare in qualche misura la realtà sociale delle classi disagiate. Il vincolo di congruenza nel gaming ci dice che un game designer realista non deve solo catturare e rappresentare la realtà degli ultimi, ma deve anche ricollocare il gioco nel giusto contesto in cui sia possibile considerarlo vero. Da tutto questo si potrebbe dedurre che il realismo nel gaming riguardi la relazione fra il gioco e il gamer: non in senso casuale, come suggerisce la Columbine Theory, ma comunque una relazione. Questa è una delle principali ragioni per cui i videogiochi non possono assolutamente essere decontestualizzati rispetto alle realtà sociali in cui vengono giocati: per dirla in modo brutale, un giovane americano che gioca a Special force non sperimenta un effetto di realismo, mentre un giovane palestinese che gioca nei territori occupati probabilmente sì. Questa fedeltà al contesto è la chiave del realismo del gaming. Per concludere questo capitolo, possiamo dire che i videogiochi rappresentano il terzo lato del realismo. I primi due sono il realismo narrativo e quello visivo, e il terzo è il realismo dell'atto. Se le arti visive spingono gli spettatori a partecipare nell'atto del guardare, i videogiochi spingono ad agire. Capitolo quattro – Allegorie di controllo Giocando all'algoritmo Almeno dall'ultimo secolo in qua, con il progressivo emergere di nuove tipologie di media, si è avvia via manifestato un ritardo nella ricezione, una cosa che potremmo chiamare regola dei trent'anni: sono i trent'anni che vanno dall'invenzione di un nuovo medium al di delinearsi, nella cultura in senso ampio, della sua fruizione definita e diffusa. Lo possiamo certamente dire oggi per i videogame: ciò che è cominciato come un passatempo primitivo negli Anni ‘60 ha vissuto fino adesso una sua evoluzione, passando da una logica estetica più semplice ad una maggiormente sofisticata. Giochi come GTA 3 segnano l'inizio di un'età dell'oro. Ancora nel 2006 i videogame sono confinati in un bassofondo della società contemporanea, non ancora elevati a forma d'arte riconosciuta al pari della più alta produzione culturale. Mi sembra questo aspetto particolarmente attrattivo, perché così i videogiochi si possono, per il momento, approcciare come un'elaborazione meravigliosamente indisturbata dalla vita presente, non già rovinati dell'esegesi di stampo borghese della forma. Eppure, come si possono approcciare criticamente i videogame, questi oggetti culturali del tutto algoritmici? Di sicuro hanno qualcosa da rivelare sulla vita nelle attuali reti informatiche globali. Possono addirittura suggerire una nuova modalità per l'interpretazione critica in sé, purché sia centrata sui computer esattamente come il suo soggetto di studio. Jameson dice che il procedimento dell'interpretazione allegorica è come una sorta di scansione che, muovendo avanti e indietro attraverso il testo, riadatta i propri termini in costante trasformazione, di un tipo affatto diverso rispetto agli stereotipi legati a una certa decifrazione medievale o biblica. Scansionare è del tutto un'altra cosa rispetto a fare esegesi. Inoltre, le due diverse tecniche di interpretazione sono assai indicative di due rispettive realtà politiche sociali: il mondo computerizzato contro il mondo non computerizzato. Alcuni degli ultimi scritti di Deleuze aiutano a comprendere la divisione tra queste due realtà. L'autore individua due momenti storici: 1) Prima ci sono le società disciplinari dell'età moderna, cresciute sotto la regola del sovrano, dentro i grandi ambienti di intrattenimento, con le loro maglie sociali e modelli corporei. 2) In seconda battuta ci sono le società di controllo che si innestano alla fine del ‘900. Queste sono basate su ciò che l'autore definisce la logica della modulazione e delle forme ultrarapide di controllo all'aria aperta. Mentre le società disciplinari della tarda moderità erano caratterizzate da costruzioni più materiali (come la firma, il documento, …), le società di controllo di oggi sono definite da aspetti immateriali (come le password, il computer, …). Le società di controllo sono insomma caratterizzate da reti di computer e da reti generiche, nonché da forme di rete più convenzionale. nuove economie dell'informazione che alimentano l'innovazione di processo, la personalizzazione e altri aspetti di ciò che è noto come accumulo flessibile. Se da un lato tutto ciò può sembrare liberatorio e utopico, non bisogna però ingannarsi: la flessibilità è uno dei principi fondamentali del controllo informatico globale. Essa è per la società di controllo ciò che la disciplina è stata per le società moderne.La flessibilità è allegoricamente riproposta in Civilization per mezzo dell'uso di diversi cursori e parametri che regolano il flusso e creano un equilibrio sistemico. Tutti gli elementi dei videogame sono posti in una reciproca relazione quantitativa e dinamica, sicché una conclusione con vittoria culturale nel gioco è diversa da una vittoria di conquista solo per minime differenze nei due algoritmi che regolano i meccanismi di vincita. Il videogame è in grado di aggiustare e compensare quello che viene fuori dalle intenzioni dell'operatore. La flessibilità permette così una standardizzazione universale. Se diversi sistemi tecnici sono abbastanza flessibili da assecondare un ampio spettro di eventi, allora il risultato è un sistema ancor più robusto che può assorbire qualsiasi novità sotto la più larga maglia della continuità e dell’universalismo. In contrasto con le mie precedenti riflessioni ideologiche, il punto qui non è se l'algoritmo di Civilization incarni una particolare ideologia da razzismo velato, oppure se incarni i principi base dei nuovi media, quanto piuttosto che incarni la logica del controllo informatico in sé. Siamo così giunti a un'impasse, perché più si allegorizza il controllo informatico in Civilization, più i miei precedenti commenti sull'ideologia cominciano a sgretolarsi. E più si cerca di fissare una critica ideologica, più si vede che la critica stessa è messa in discussione dall'esistenza di qualcosa di totalmente diverso dall'ideologia, il codice informatico. Per cui, laddove la critica ideologica ha successo, al contempo fallisce. Nei videogame alla fine, una frega l'altra. Un esempio: più si pensa Civilization come a un'interpretazione ideologica della storia, oppure qualcosa che crea un effetto-storia generato al computer, più si arriva a comprendere che, in fondo, quel gioco riguarda l'assenza totale della storia. La storia è ciò che colpisce, è la lenta battaglia di negoziazioni tra tutti gli individui, gli uni con gli altri, nella loro materiale realtà. Modellizzare la storia dentro un codice di computer può essere null'altro che un esercizio riduttivo di cattura e transcodificazione. Insomma, la storia presente in Civilization è proprio l'opposto della storia. Non perché il gioco feticizzi la prospettiva imperialista, ma perché i dettagli diacronici della vita vissuta sono rimpiazzati dell'omogeneità sincronica del codice puro e semplice. È un feticcio tutto nuovo. Per essere ben chiari, questa mia argomentazione riguarda il controllo informatico, non quello ideologico. Di conseguenza, la logica dell'informatica e dell'orizzontalità prevale su quella dell'ideologia e della verticalità in un gioco come Civilization, così come probabilmente in tutti i videogame a diversi livelli. Questo discorso quindi non vale solo per Civilization: l'altro principale gioco di simulazione che è andato oltre le limitazioni di genere è The Sims, che invece di tematizzare la totalità del controllo informatico, fa l'inverso, immergendosi nella banalità della tecnologia, negli orrori smorzati di una vita condotta come un algoritmo. In poche parole, The Sims è un gioco che esprime la propria critica politica come parte del gameplay: al critico non serve spacchettare il gioco, poichè la noia, la sterilità, l’inutilità e la futilità della vita contemporanea appaiono precisamente attraverso ciò che la rappresenta al meglio. Anche il first person shooter, come genere nella sua totalità, mostra questa stessa tipologia di interpretazione allegorica dell'infopolitica. Attaccando i nemici, lo shooter - l'assassino che spara - è una piena allegoria liberatoria, sicché questo genere, per molti versi complicato, si presenta in maniera assai semplice. Sparare come genere e sparare come atto sono legati da un'intima unità. Sparare non è la controfigura di un'attività. È un'attività. Così come il videogame non è una controfigura dell'informatica, ma l'informatica. L'esperienza dello sparare è liscia, mentre le sue diverse componenti devono ancora essere stratificate e differenziate, come si differenzia un testo dalla lettura e dallo sguardo. In questo senso, l'estetica del gaming spesso manca di ogni sorta di rappresentazione profonda. Nel gaming l'allegoria è collassata su una singolarità. L'attività del gaming si realizza solamente quando il videogame è effettivamente giocato, è un atto indivisibile in cui significato e il fare traspirano dallo stesso gesto giocante (gamic gesture). Una teoria della simulazione Quest'ultimo punto si potrebbe ricontestualizzare attraverso un'osservazione fondamentale sui videogame già fatta all'inizio di questo libro, ovvero di come essi siano azioni. Ora, stando alla definizione letterale di allegoria come altro-discorso, dovrei definire l'allegoria di gioco (gamic allegory) come altro-atto. L'interpretazione degli atti di gioco (gaming acts), allora, dovrebbe essere pensata come la creazione di un discorso secondario che narra una serie di altri-atti. In ogni caso, l'interpretazione degli atti di gioco è il processo per comprendere cosa vuol dire fare qualcosa e significare qualcos'altro. È una scienza del come se. La consueta definizione di allegoria come metafora estesa dovrebbe essere cambiata per i videogame in metafora inscenata. Quando si gioca a Civilization si compie una sola azione, ma allo stesso tempo avvengono più azioni significative. Questo è il parallelismo reso necessario dall’allegoria. La prima metà del parallelismo sta nell'effettivo giocare al videogame, ma l'altra metà sta nel giocare con l'informatica. Sicché con i videogame serve una teoria della simulazione, ma solo nel senso positivo del termine, come teoria delle azioni che hanno significati multipli. Per tali ragioni, voglio suggerire che la critica ai videogame non dovrebbe concentrarsi solo sull'interpretazione linguistica dei segni: è qui possibile interpretare l'azione materiale invece che restarne nel paradiso relativamente protetto dall'analisi del testo. Allo stesso tempo il terreno critico si è ridotto nell'era del media interattivi, rispetto alla vecchia relazione a due che interessava il testo e il suo lettore. Ora c'è invece un momento unitario che coinvolge il gamer all'interno dell'atto in sé del gameplay. Per cui il videogame-testo è oggi del tutto riassunto dentro la categoria stessa del gamer, perché quello che potremmo chiamare il testo del gioco è creato da lui o da lei nel loro stesso fare. Questo spiega la tendenza nella cultura informatica ad andare verso l'allegoria di controllo. Ecco dunque due modalità allegoriche messe a confronto punto per punto. L'allegoria tradizionale, o profonda, potrebbe avere il suo centro di gravità tra l’avvio e la metà del ‘900, soprattutto per l'ambito cinematografico, mentre l'allegoria di controllo potrebbe trovare il suo compimento in rapporto ai nuovi media in generale, e ai videogiochi. I videogiochi sono allegoria della nostra vita contemporanea dentro la rete protocollare del controllo informatico continuo. Infatti, più i videogame si emancipano e prendono la forma di un medium, più in realtà stanno nascondendo la più importante trasformazione sociale dovuta all'informatica che negli ultimi decenni sta dilagando nel mondo. Nell'età moderna l'ideologia erano strumento di potere, nella post modernità l'ideologia è un'esca, come spero di aver chiarito riflettendo sul gioco Civilization. Insomma, in un gioco rivelare significa riscrivere, fare un passo di lato e non un passo avanti. La celebrazione del videogame come fine della manipolazione ideologica è null'altro che una nuova manipolazione, solo che questa volta sfrutta dei diagrammi di comando e controllo del tutti diversi. In sintesi, con la comparsa di un secondo processo informatico, inteso come testo, l’allegoria smette di riguardare soltanto dei testi, e riguarda invece dei testi inscenati e agiti. Per cui bisogna ormai dire: fare un'allegoria significa avere agire nel gioco (play act) e non scrivere un commentario. Capitolo 5 – Controgaming Le mod, modifiche fatte da artisti, non sono molto comuni nel mondo videoludico, perché sono operazioni di fatto contraddittorie: quando una mod è considerata arte e non più atto d'amore dei fan, spesso non ha più una struttura ludica e smette di essere un gioco. Prima di proseguire, proviamo a dare una definizione precisa di mod: si tratta di modifiche a videogiochi esistenti operate da utenti singoli o gruppi, che possono riguardare prevalentemente tre aspetti. 1) Il visual design, con l'integrazione di nuove mappe, nuovi artwork, nuovi modelli per i personaggi e così via. 2) Le regole del gioco, con modifica al gameplay. 3) Il software, cambiando i comportamenti dei personaggi, le leggi fisiche dello spazio di gioco, l'illuminazione. Le mod artista tendono a mio avviso a considerare i videogame come semplici tecnologie e, per questa ragione, si possono facilmente associare alla terza categoria di modifiche descritte. Ritornando alle nostre categorie, le mod artista contemporanee tendono ad approcciare oil visual design del gioco (categoria uno), o il game engine, il software che si usa per creare il gioco stesso, (categoria tre), mentre le mod del gameplay (categoria due) sono meno comuni e il gameplay stesso è spesso in secondo piano o del tutto eliminato. Le mod d’artista tendono a entrare in forte conflitto con le aspettative dell'industria del gaming su come videogiochi dovrebbero essere progettati. Spesso lo fanno punto per punto, con il preciso obiettivo di distruggere il flusso del gameplay. Peter Wollen ha detto una cosa simile a proposito del controcinema. Proviamo a partire dalle 7 tesi del controcinema di questo autore, in modo da dare delle basi formali alla grammatica di quelle produzioni che hanno come obiettivo la resistenza culturale. 1. Transitività narrativa versus Intransitività narrativa: il principio di consequenzialità in cui un evento segue sempre un altro evento contrapposto a interruzioni, costruzioni episodiche 2. Identificazione versus Alienazione: empatia e coinvolgimento emotivo verso un personaggio contrapposto alla rottura del quarta parete, personaggi multipli, commenti dell'autore. 3. Trasparenza versus Esplicitazione: il linguaggio non vuole essere visto, contrapposto al mostrare allo spettatore i meccanismi di funzionamento del film. 4. Diegesi unica versus Diegesi multipla: mondo unitario e omogeneo, contrapposto a un mondo eterogeneo che si apre a diversi codici e diversi canali comunicativi. 5. Chiusura versus Apertura: un oggetto autosufficiente e armonico all'interno dei propri confini contrapposto a un intertestualità potenzialmente infinita ed eccedente. 6. Piacevolezza versus Gradevolezza: intrattenimento che vuole soddisfare lo spettatore contrapposto alla provocazione che punta a metterlo in difficoltà e a cambiarlo. 7. Finzione versus Realtà: attori truccati che recitano contrapposti alla vita vera, al collasso della rappresentazione e alla verità. In avvio di capitolo dicevo che questi videogame modificati da artisti apportano cambiamenti talmente radicali da non sembrare più giochi. Ovviamente non è del tutto vero. Restano collegamenti importanti tra il controgaming e l'industria del videogioco, fra le mod e i loro testi originali. Se il controcinema descritto da Wollen esisteva in gran parte fuori dalla macchina commerciale hollywoodiana, le mod sono invece promosse dai produttori di videogiochi. Molti giochi degli ultimi anni, infatti, sono stati pubblicati con editor di livelli e altri strumenti per creare mod, rendendo la modifica una pratica naturale tanto quanto giocare. Questo accade grazie a una distinzione molto chiara fra il Game Engine, il motore di gioco che può servire per realizzare molte I videogiochi di artisti rigettano l'idea tradizionale di narrazione funzionale in favore di situazioni reali e, aspetto molto interessante, non sono mod, ma giochi interamente nuovi. Non dimentichiamo tuttavia che l'idea di simulare situazioni realistiche è alla base del gaming commerciale (Gran Turismo). La contrapposizione Finzione versus Realtà, dunque, è forse meno utile per categorizzare i videogame, così come Transitività narrativa versus Intransitività narrativa, la prima dicotomia di Wollen, è resa inefficace dalla natura necessariamente aperta dalle narrazioni videoludiche. Giochi commerciali come GTA, infatti, hanno successo anche grazie alla forza dei loro enormi e ben visibili spazi narrativi. L'idea stessa di gioco sembra contraddire la logica consequenziale secondo cui un evento segue sempre un altro evento in modo lineare. I titoli citati prosperano invece nella ripetizione, nel riavvolgimento, nel tornare sui propri passi, con strutture narrative episodiche, digressioni in minigiochi e altre tecniche non lineari. Infine, sembra naturale scartare anche la contrapposizione Diegesi unica versus Diegesi multipla, poiché i videogame complicano parecchio il concetto stesso di diegesi. Come suggerito nel capitolo uno, il non diegetico nel gaming procede spesso a pari passo col diegetico, mentre nella narrazione cinematografica classica ciò accade molto raramente. Così i videogiochi si muovono fra codici e canali differenti, spostandosi costantemente in modo fluido dalle interfacce non diegetiche alle armi diegetiche, dai menu di configurazione al gameplay puro. Per riassumere, proviamo a elencare le differenze formali tra il gaming convenzionale e il controgaming: 1. Trasparenza versus Esplicitazione: rimuovere l'apparato dell'immagine contrapposto alle pure interazioni dell'apparato grafico o del codice, mostrate senza intenzioni figurative. 2. Gameplay versus Estetica: gameplay narrativo basato su una serie di regole coerenti, contrapposto a sperimentazioni formali moderniste. 3. Modellazione figurativa versus Artefatti visuali: modellazione mimetica di oggetti contrapposti a glitch e altri prodotti inattesi del motore grafico. 4. Fisica naturale versus Fisica inventata: leggi del moto newtoniano contrapposte a leggi di e relazioni fisiche incoerenti. 5. Interattività versus Non corrispondenza: collegamenti istantanei e prevedibili fra l'input sul controller e il gameplay contrapposti a barriere fra il controller e il gameplay. Guardando questa lista si potrebbe concludere che non esiste una vera avanguardia dell'azione di gioco. In altre parole, il controgaming è essenzialmente progressista dal punto di vista visuale e reazionario per quanto riguarda l'azione: non evolve il gameplay, anzi lo intralcia. Servirebbe dunque un'avanguardia nel gaming, non solo nella sua forma visuale, ma anche nella sua azione. Servirebbe un gameplay radicale, non solo una grafica radicale. Ecco dunque un altro principio che spero possa sviluppare ulteriormente il potenziale inespressivo dei video game: 6. Azioni di gioco versus Azione radicale: poetiche del gameplay convenzionale contrapposte a modalità di gameplay alternative. Per azione radicale intendo una critica al gameplay stesso, poiché non sono le immagini a rendere i videogame unici, e tutte le mod che si concentrano sul ritoccare l'aspetto visivo di un gioco mancano completamente il punto in relazione al gaming e alla sua definizione. Gli artisti dovrebbero creare nuove grammatiche dell'azione, non nuove grammatiche della visione. Il controgaming è dunque un progetto incompiuto ed è chiaro che nel gaming un reale movimento indipendente deve ancora nascere, cosa normale se pensiamo che nel cinema ci ha messo diversi decenni. Quando lo farà emergerà un linguaggio del gioco completamente nuovo, radicale, che trasformerà il controgaming. Ancora più importante, i giochi prodotti dagli artisti saranno in grado di risolvere le contraddizioni legate alla loro esistenza fin qui: il tentativo di rimuovere il gameplay per tornare a grandi passi verso altre forme di comunicazione come l'animazione, il video e la pittura. Assisteremo dunque alla realizzazione del controgaming come gaming. Il movimento del controgaming dovrebbe avere un obiettivo simile, ridefinire il gaming e realizzare il suo vero potenziale di avanguardia politica e culturale.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved