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"A occhi chiusi e spalancati. La regia secondo Kubrick" di Vito Zagarrio, Dispense di Storia Del Cinema

Riassunto per esame "Forme della messa in scena" di Vito Zagarrio

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 05/06/2023

Liz.Lemon
Liz.Lemon 🇮🇹

4.7

(19)

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Scarica "A occhi chiusi e spalancati. La regia secondo Kubrick" di Vito Zagarrio e più Dispense in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! STANLEY AND US Riflettere su Kubrick con una particolare attenzione alla sua messa in scena, al suo “stile”, alle continue lezioni di regia che i suoi film offrono. La soggettiva del cadavere In Full Metal Jacket c’è un’inquadratura in cui i cadaveri di due soldati sono stesi per terra, ripresi in plongée. La mdp gira attorno ai corpi, inquadrando dal basso, dal punto di vista dei morti, gli altri marines; e compie un macabro giro che poi si ferma, recuperando la narrazione e un montaggio più classico; ma sempre con gli occhi dei soldati puntati contro i cadaveri e indirettamente contro di noi, il pubblico. Si tratta della soggettiva di un cadavere, una scelta di angolazione e di punto di vista che dà a tutto il film il sapore di un’opera sulla morte. Una scelta simile si può già intravedere nell’opera prima di Kubrick, Paura e desiderio: dopo l’assalto della pattuglia contro i nemici sorpresi durante il pasto, l’ufficiale osserva – guardando in macchina – i cadaveri dei soldati avversari. L’idea non è nuova, basta pensare a Hitchcock: nel finale di Io ti salverò (1945), in una famosa soggettiva il dottor Murchison punta prima la pistola contro Ingrid Bergman e poi la ritorce contro se stesso, suicidandosi. La pistola, cioè, fa fuoco contro lo spettatore. Questi sono tutti esempi della cosiddetta “soggettiva del cadavere”: il punto di vista di un personaggio fuori campo che nella diegesi è votato alla morte, collegato in questo caso, tipicamente, allo sguardo in macchina. In Apocalypse Now (1979) di Coppola c’è una inquadratura molto simile a quella di Kubrick: Chief tocca il cadavere di Clean guardando in macchina, angolata dal basso, dal punto di vista del morto; lo spettatore, dunque, s’identifica con quel cadavere. Vedremo meglio, nell’analisi dedicata a Full Metal Jacket, come lo sguardo in macchina e il point of view siano presenti molto spesso nel film, spesso in momenti di morte o di ansia per un pericolo mortale: basti pensare alla soggettiva e alla semi-soggettiva della cecchina vietcong che prende la mira per ferire e uccidere i marines del plotone di Joker. Lo sguardo di Kubrick è sempre una riflessione sulla morte. Prendiamo Orizzonti di gloria, che permette di fare vari esempi: nella sequenza in cui il colonnello Dax passa in rassegna i soldati prima dell’assalto al Formicaio, si può osservare come il suo sguardo interagisca con quello dei soldati che stanno per uscire dalla trincea e andare verso il macello. I soldati, che prima rispondono timidamente a Dax guardando in macchina, poi sempre più cupamente evitano il suo sguardo. Non possono più guardare perché sono già morti, nota Pierre Sorlin. I loro sono sguardi che non si incrociano, strabici verso una realtà paradossale e surreale, quella imposta da Broulard e Mireau. Una simile analisi si può fare per altre due scene di Orizzonti di gloria. In ordine di diegesi, una è quella della scazzottata tra i due prigionieri nel finale del film: c’è un’unica soggettiva in questa scena ed è quella del soldato che sta per ricevere un pugno. Più evidente, invece, è l’insistito carrello in soggettiva dei condannati a morte, che corrisponde strutturalmente e linguisticamente ai piani sequenza in soggettiva della scena della trincea già descritta. Anche in questo caso, lo sguardo dei condannati è consapevole della morte, sguardo che viene ricambiato (in macchina) dagli astanti. In Rapina a mano armata c’è un solo vero e proprio sguardo in macchina: è quello, nel finalissimo del film, dell’impiegato delle linee aeree che indica fuori dalla porta a vetri, e poi, nel proseguimento dell’inquadratura, quello più minaccioso dei poliziotti. La soggettiva/sguardo in macchina è di Johnny, immobile, paralizzato dallo sgomento per aver perso la valigia col denaro. Chi guarda, in questo caso, e viene guardato (in macchina) forse non morirà, ma per lui non vale più la pena vivere: è morto dentro. 1 Interessanti gli sguardi in macchina ne Il bacio dell’assassino. Nella scena del match di boxe, il pugno che stende Davey arriva in macchina, come lo sguardo del suo avversario che prende la mira, e in soggettiva il pugile cade al tappeto, gli occhi che ruotano verso le luci del soffitto e poi verso l’arbitro che fa il countdown guardando verso la mdp. Ma ancora più significativo è lo sguardo in macchina di Vinnie il quale, ubriaco, guarda verso la mdp e le scaglia contro un bicchiere. Vinnie sarà presto cadavere. In 2001: Odissea nello spazio il primo sguardo in macchina del film, che poi fonderà tutto il suo ultimo capitolo proprio su questa cifra stilistica, è una soggettiva (in fish-eye) del computer HAL: una macchina destinata a essere scollegata, un futuro cadavere meccanico. E nel finale del film, la soggettiva dell’astronauta verso il vecchio che, seduto a tavola, si volta verso la mdp è un altro incrocio di sguardi di morte. Anche Lolita conclude la sua prima scena, e poi l’ultima, chiudendo circolarmente l’intero film, con un atipico sguardo in macchina di una maschera che nasconde un cadavere: è lo sguardo del quadro, dietro cui si cela, e muore, Quilty. Sul volto in primo piano, indagante, della donna raffigurata, c’è il foro di una pallottola. Quel buco nella tela è a suo modo un “occhio”, un’apertura macabra alla narrazione. In Shining, infine, lo sguardo di Wendy, nel finale, rimanda verso la mdp immagini di morte: le appaiono fantasmi, zombie, lacerti di corpi insanguinati, mentre Jack sta già inseguendo il suo bambino. Questi cadaveri che vengono da un altro tempo e da un’altra dimensione la guardano negli occhi, e anche la donna, con un pauroso “shining”, guarda in faccia la Morte. L’idea della morte è anche la grande metafora sottesa da qualsiasi riferimento autoreferenziale. Se è vero che la Storia è “congelata”, per dirla con Baudrillard, è anche vero che questa imbalsamazione viene consegnata all’eternità dalla tecnologia riproduttiva della macchina da presa. Dunque, è inevitabile mettere in gioco anche gli elementi di autoriflessività che emergono fortemente da Full Metal Jacket e da tutta l’opera di Kubrick. D’altronde, il cinema americano abbonda di citazioni metalinguistiche. L’autoriflessività è il punto di vista di tutto Full Metal Jacket: sin dalla prima sequenza il soldato Joker fa la parodia di John Wayne e ne paga le conseguenze. Una delle sequenze fondanti del film è il lungo carrello che riprende i soldati intervistati dalla troupe televisiva (una steadycam che riprende la macchina a mano del profilmico), e subito dopo arriva la lunga teoria di sguardi in macchina dei marines. Joker risponde all’intervista cui sono sottoposti tutti i suoi compagni guardando, come nelle news, in macchina, ma in chiara soggettiva della troupe (che, nel controcampo, guarda a sua volta in macchina). Come se non bastasse, dietro Joker campeggia una sala cinematografica dismessa. Simile uso del metalinguaggio aveva fatto Francis Ford Coppola in Apocalypse Now, quando la troupe riprende una messe di cadaveri. Proprio attraverso l’uso di questi elementi metalinguistici (cinema nel cinema, teoria dello sguardo, parodia dei generi), spesso spiazzanti, che costringono lo spettatore a mettersi in discussione, Full Metal Jacket diventa una sintesi di visionarismo e di classicità, di geometrie della ritualità e di esplosione postmoderna di frammenti. Film schizofrenico, diviso in 2 parti ben distinte stilisticamente: la prima, basata sul tragico addestramento del gruppo di giovani reclute da parte di Hartman; la seconda (a sua volta divisa in 3 parti), messa in scena di un Vietnam ironico e onirico, dove si mescolano mezzo caldo (il cinema) e mezzo freddo (la televisione), film di guerra e telegiornale, iperrealismo e surrealismo. Di fronte all’impossibilità di restituire una verità attendibile, è molto meglio ribaltare le convenzioni iconiche, inventare, al posto della giungla, un Vietnam “urbano”, come fa Kubrick nella sequenza finale del suo film. 2 Dunque, dopo i film degli esordi, tutta la produzione artistica di Kubrick parte da uno spunto letterario. Su questo, però, il regista costruisce delle “opere” autonome, si misura con apologhi filosofici o ideologici, con irridenti satire politiche o con esercizi sul piano dell’immaginario e della fiction. Forse il solo Barry Lyndon consente un’analisi classica dei rapporti tra testo letterario e testo filmico. Tutti gli altri “adattamenti” di Kubrick superano di gran lunga e fanno dimenticare la fonte d’origine. Kubrick può servire, dunque, per una riflessione più generale sul rapporto tra Cinema e Letteratura o su quello tra Cinema e Storia, temi che oggi propongono nuove coordinate, non solo nei casi autoriali, ma anche nelle modalità produttive dell’industria cinematografica mainstream, specie quella hollywoodiana. Questo Maestro può essere usato come (s)punto di partenza per molte riflessioni sulla storia e sulla teoria del cinema: dall’ideologia alla narrativa, dalla retorica filmica alla psicanalisi, dall’analisi della “mascolinità” ai rapporti del cinema con le altre arti; tutte le strade sembrano passare da Kubrick. Nelle pagine successive, infatti, vedremo come un’analisi della messa in scena di Kubrick apra ogni volta delle finestre su questioni complesse: lo sviluppo della tecnologia nell’elaborazione del linguaggio filmico, il tema della violenza (anche contro le donne), il tema del gender, l’emersione del cosiddetto “puzzle film”, la composizione della sceneggiatura in “atti” o in segmenti geometrici precisi. LA REGIA DI KUBRICK Attraversiamo la filmografia kubrickiana evidenziando per ogni film un elemento della messa in scena, cercando di indagare sulla sua capacità registica e sulle sue scelte stilistiche. Il doppio, il film-maker Day of the Fight (1951), Flying Padre (1951), The Seafarers (1953) Partiamo dai primi 3 cortometraggi. 3 documentari molto diversi tra loro, ma con delle costanti registiche: ad esempio la voce off, piuttosto convenzionale, di uno speaker che racconta la storia, quasi sempre commentando immagini senza suono in presa diretta. Solo in The Seafarers il film registra il suono e le voci di un’assemblea di marittimi; ma lo stile dello stesso film è un commento esterno di una voce maschile impostata che fa da tessuto connettivo delle sequenze. Un modo di fare documentario piuttosto didascalico, anche se i temi riguardano quello che oggi chiameremmo “cinema del reale”. Non bisogna dimenticare che Kubrick, in quel periodo, fa il fotografo per la rivista Look, attività che si riverbera nella sua professione di film-maker: Kubrick fotografa, oltre a dirigere e produrre, i suoi primi film. Un bianco e nero ricco di contrasti, nel primo film; un altro bianco e nero un po’ più piatto nel secondo, che assume così un po’ i toni di un cinegiornale Luce; e infine un colore non particolarmente interessante, peraltro oggi scolorito dal tempo. Day of the Fight segue la giornata di Walter Cartier, un pugile che deve combattere in serata. Lo “pedina” nei suoi gesti quotidiani: andare a messa a fare la comunione, mangiare una bistecca al ristorante, prepararsi psicologicamente all’incontro, preparare il corpo allo scontro fisico. Ma l’aspetto interessante è la presenza del gemello identico di Walter, che gli fa da manager e da assistente. Così che il film propone quello che sarà un filo costante del cinema futuro di Kubrick: il tema dell’Altro, del doppio. Ma si può già notare, anche, un gusto dell’inquadratura, come un certo uso del teleobiettivo e del rack focus. Flying Padre è un pretesto per raccontare storie reali, unite dal filo rosso dell’eccentrico prete che vola da un campo all’altro per benedire, comunicare, suggerire e confessare: si va dal funerale di gente povera ai bambini che stanno litigando e hanno bisogno di un arbitro, fino a una donna il cui bimbo ha bisogno di cure ospedaliere. Si può notare un certo “neorealismo” nella scelta dei volti 5 contadini e dei paesaggi rurali, una sorta di viaggio nella povertà in un Nord America lontano dalla civiltà del benessere. Si tratta di un approccio sociale che torna, più evidente, in The Seafarers: un documentario commissionato dal SIU (Seafarers International Union), il sindacato dei marittimi. È un documentario sociale, che prende posizione a favore del sindacato, in nome della fratellanza, della cooperazione, dell’aiuto reciproco. Con un inevitabile pizzico di retorica, il film descrive le attività laterali del sindacato, soprattutto a terra: la mensa (che viene descritta con un lungo carrello laterale sulle ricche vivande), i giochi, il supporto del sindacato ai marinai ospedalizzati o pensionati, il finanziamento alle famiglie numerose, le assemblee in cui si cimenta la solidarietà tra i marinai. Interessante, in questo senso, è la figura del narratore (anche in questo caso, una voce impostata e un po’ retorica), che appare anche in persona nell’introduzione del documentario: Don Hollenbeck, un giornalista della CBS impiegato socialmente e per questo spesso attaccato dai giornali anticomunisti in epoca di “caccia alle streghe”. La presenza di Hollenbeck, dunque, è una sorta di marchio di fabbrica dell’impegno sociale e dell’ideologia sindacale contro il dilagante anticomunismo di quegli anni; ed è un indizio dello schieramento di Kubrick, attento a “fotografare” la realtà, anche nei suoi conflitti sociali e di classe. Il collante comune, comunque, è la capacità del regista di fotografare, appunto, personalmente, i suoi soggetti, gestendo l’inquadratura con i suoi bilanciamenti interni, le sue luci e i suoi toni. Così come fa ancora per i suoi primi 2 lungometraggi, Paura e desiderio e Il bacio dell’assassino, ideati (la sceneggiatura è affidata a Howard Sackler), diretti, prodotti, fotografati e montati da Kubrick: un film-maker totale. Lo sguardo in macchina, la soggettiva Paura e desiderio (1953) In Paura e desiderio emerge il desiderio di Kubrick di sperimentare sul terreno del linguaggio cinematografico. Si tratta di un film non armonico (forse volutamente), pieno di rimandi simbolici e di messaggi ideologici: un film contro la guerra, ma anche sulla follia dell’umanità, dominata, appunto, da “paure e desideri”, da pulsioni distruttive e sessuali, da impulsi autolesionisti, sadici e masochisti. E anche da un universo tutto maschile, che diventa impotente quando incontra una figura femminile, incapace di relazionarvisi se non con la violenza. La trama del film non è lineare: è un viaggio dietro le linee nemiche di un gruppo di soldati non identificati in una guerra non dichiarata (le divise sono volutamente non filologiche). È una guerra assurda, che si svolge sulle sponde di un fiume che ricorda, anticipandolo, Apocalypse Now di Coppola. L’incipit del film è una dichiarazione “filosofica” del regista che mette le mani avanti contro una lettura del film come film “di genere”. Non si tratta infatti di un film di guerra, ma di una riflessione sull’essere “fuori della Storia”, e sulla complessità della mente umana, che si costruisce le sue paure. È dunque più un viaggio psicanalitico (come sarà Full Metal Jacket, film di guerra ma al tempo stesso indagine sull’inconscio) che un racconto bellico. Il linguaggio che Kubrick sceglie è sperimentale sin dall’inizio: ad esempio i frequenti fuori sync delle voci, che si mescolano coi pensieri dei soldati. Le riflessioni, le paure, le fantasie dei componenti della pattuglia che si accavallano. E poi gli incontri, a volte realistici, a volte surreali, come l’apparizione del cane. Ma è soprattutto la soggettiva che emerge sin dalle prime scene: la soggettiva attraverso il binocolo (il tenente osserva un aereo amico e fa capire la trama: il gruppo è precipitato con un aereo dietro le linee nemiche e deve cercare di guadagnare il campo amico attraversando un fiume che li porterebbe dall’altra parte) sarà un leitmotiv di tutto il film. Quando passa un camion nemico, 6 quando osservano i movimenti dei soldati avversari che si sentono al sicuro nei loro alloggiamenti. Questo “spiare” all’interno del campo nemico è accentuato con insistenza dalla regia. Quando avviene l’assalto al campo nemico, Kubrick gioca sui dettagli e sulle soggettive: un pugno viene verso la mdp, in soggettiva della vittima (e dello spettatore). Il montaggio è atipico: Kubrick e sceglie dei piani di ascolto strani, non armonici, non corrispondenti al flusso della narrazione. Sono frequenti le dissolvenze, i fondu di chiusura, che danno al film un ritmo fratto, rapsodico, discontinuo. Il film assume il passo di un “road movie”: la pattuglia sperduta nel suo iter lungo il fiume fa degli incontri e apre a degli episodi. Uno di questi episodi clou è l’incontro con una ragazza, in cui Kubrick può sperimentare a vari livelli: a livello di retorica filmica, con l’uso della soggettiva e sguardi in macchina, a livello di metodo di analisi (psicanalisi cinefilia), e infine a livello di messaggio sociale (femminicidio). La ragazza viene catturata e qui si apre un lungo, insistito episodio in cui la malcapitata viene lasciata sola insieme a Sidney, un soldato un po’ matto. La ragazza è legata e il giovane soldato usa tutte le sue armi di seduzione: fa la parte di un tronfio generale nemico, e qui il suo scimmiottare una recita teatrale rimanda a certe inquadrature del cinema sovietico; fa poi il mimo, e lo stile assume i toni di un film muto. Di nuovo, il montaggio non è armonico, Kubrick usa dei grandangoli deformanti per raccontare la progressiva eccitazione, al limite del parossismo, di Sidney. Intensi gli sguardi in macchina della ragazza, in soggettiva del giovane soldato, cui corrisponde uno sguardo in macchina di lui. Cresce così una dinamica sadomasochista, in cui è il maschio a condurre le danze, sino a innescare il dramma finale. La ragazza riesce a slegarsi e a scappare, ma il soldato la uccide. Si tratta di una scena disturbante, in cui affiora la follia del maschio ma anche il conflitto di una mente al limite della rottura. Nel frattempo il film ha raccontato, in montaggio alternato, la pattuglia che continua a spiare col binocolo (altre soggettive) il campo nemico. Quando torna, la ragazza è esanime. Mac guarda verso la mdp, anticipando di molti anni un escamotage retorico che sarà di Kubrick: la “soggettiva del cadavere”: l’ufficiale guarda verso la mdp ed è una “soggettiva impossibile” della ragazza morta, attraverso il suo sguardo (in cui lo spettatore si identifica), che è uno sguardo della morte. Da questo momento, il film assume i contorni di un delirio. Sempre più onirico, il viaggio continua in zattera e, con un’angolazione dal basso di tipo sovietico, diventa “epico”. In montaggio alternato Kubrick costruisce la relazione tra la pattuglia dei “nostri” e l’interno della baracca del “nemico”. La pattuglia riesce a entrare nella residenza del generale e inizia così una breve colluttazione. Anche in questo caso il montaggio è ellittico, gioca su dettagli, non descrive ma allude. Alla fine, Mac e Sydney vogano sulla zattera lungo il fiume (scena ricca di simboli di sapore coppoliano). Un’inquadratura della foresta chiude il film riportandolo all’inizio, con lo stesso movimento di panoramica sinistra-destra, in un geometrico processo circolare. Si tratta, dunque, di un film dalle ambizioni filosofiche, che usa il genere “war movie” solo come pretesto per parlare d’altro: la follia della guerra come esplicitazione della follia dell’essere umano e del vivere, che non ha un senso. Come non ha senso la gratuita violenza degli attacchi al campo nemico, o contro la ragazza. È un’umanità dolorosa, borderline, che vive in questo universo liminale fuori dal tempo e dallo spazio, “ai confini della realtà”. La geometria visiva, il voyeurismo, la messa in abisso Il bacio dell’assassino (1955) “Ai confini della realtà” è anche il secondo lungometraggio di Kubrick, Il bacio dell’assassino, anche questo prodotto, diretto, fotografato e montato da lui. L’ultimo film non tratto da una fonte letteraria. 7 riporta a terra dopo improbabili voli pindarici. Tutto questo si coglie nello sguardo vuoto finale di Johnny, sconfitto dal Fato (la corsa di un innocuo cagnolino che ha fatto deviare, con la corsa del carrello, il Destino). Se la regia dei primi due film era più “sperimentale”, qui Kubrick usa uno stile più “classico”, nella tradizione del noir e del gangster: la macchina da presa si muove dentro gli interni in carrello e con insisti long take, specialmente nell’appartamento di George; le inquadrature sono eleganti e a volte persino barocche, come quando la macchina del poliziotto corrotto arriva all’ippodromo, vista dall’interno di un finestrone che divide sapientemente gli spazi. Torna, come in Paura e desiderio e come sarà in altri film, da Orizzonti di gloria a Full Metal Jacket, uno “sguardo telescopico”: una soggettiva attraverso il binocolo che suggerisce la voglia del regista di entrare dentro la realtà, con un occhio distante ma insieme vicinissimo. Qui è Nikki che guarda al binocolo dalla sua postazione privilegiata, la corsa dei cavalli. Ma nello stile “classico” emerge anche lo sguardo stralunato dei personaggi: soprattutto in George, che spesso spalanca gli occhi per paura o per sorpresa. Il carrello, lo sguardo in macchina, l’ideologia Orizzonti di gloria (1957) Da Rapina a mano armata in poi, Kubrick si affida a testi di partenza altrui: nel caso di Orizzonti di gloria il romanzo di partenza è quello di Humphrey Cobb. Questo film è davvero di una grande lezione di regia, basti pensare al gusto dell’immagine, alla composizione dell’inquadratura, ai movimenti di macchina, funzionali alla narrazione ma al tempo stesso dichiarazioni di uno stile. Alla coscienza della retorica filmica, con l’uso consapevole dello sguardo in macchina, che “interpella” lo spettatore e al tempo stesso lo inquieta. Alla capacità di fare recitare gli attori, come dimostra la gigantesca statura di Kirk Douglas. I movimenti di macchina sono, tranne in alcuni casi eclatanti, “classici”: la mdp scompare, il montaggio “analitico” è fluido, la regia pare puntare soprattutto alla valorizzazione degli spazi (gli eleganti ambienti dei palazzi militari, o le trincee), in rapporto ai corpi (quelli eleganti dei generali o quelli fantasmatici dei soldati). Ad esempio, nella scena dell’incontro tra i generali Broulard e Mireau le riprese sono eleganti al limite del “formalismo”, con angolazioni dal basso. Poi la scena si trasferisce in trincea, con una interessante (falsa) soggettiva da un buco tra i sacchi di sabbia che fa intravedere le linee nemiche. Viene quindi presentato il protagonista Dax e i personaggi che gli stanno attorno. L’obiettivo usato in questo segmento è soprattutto il grandangolo, le luci sono effettate e la fotografia in bianco e nero (di George Krause) fortemente contrastata. Comincia a emergere la soggettiva: il colonnello, attraverso il binocolo (come avviene in Paura e desiderio) scruta i reticolati dove i soldati si dovranno avventurare. Il mattino seguente, un’altra soggettiva col binocolo del Formicaio prelude a una delle più famose sequenze del film, la già citata scena di Dax che passa in rassegna le truppe prima dell’ora fatale, in cui la mdp precede o segue Dax che cammina lungo la trincea. E siamo al momento dell’assalto, una scena memorabile, sia per il respiro epico dell’assalto stesso – tanto eroico quanto inutile –, sia per la sua messa in scena: un lungo carrello laterale da destra a sinistra segue Dax che guida i suoi. Emerge per la prima volta anche l’uso (drammatico) dello zoom, che stringe fino al primissimo piano di Kirk Douglas. Una sequenza di forte emozione. Nel frattempo, la mdp indugia sui vertici militari: il generale Mireau nei suoi locali che stizzito comanda di bombardare i suoi stessi uomini, rei di ritirarsi (qui la macchina è angolata dal basso, a inquadrare anche il soffitto, e il taglio ricorda Quarto potere di Welles). Quando più tardi Dax va a riferire dell’accaduto a Broulard, la messa in scena è particolarmente elaborata e la scenografia diventa coprotagonista della sequenza: intanto l’arredamento è ricercato e aiuta la composizione 10 dell’inquadratura; ma poi i corpi degli attori triangolano, grazie al taglio dei piani, con le geometrie, e in particolare i quadri: in un’inquadratura ricercata e complessa, troviamo un campo a 3, con Dax, Broulard e un grande quadro a, simbolicamente, dividerli. È lì, infatti, che viene comunicato al colonnello che alcuni dei suoi uomini saranno processati dalla corte marziale e probabilmente fucilati. La regia accentua il contrasto tra il salone elegante dei generali e la trincea dei soldati, che subiscono la corte marziale. Kubrick usa il grandangolo per riprendere gli imputati e la mdp indugia, in modo formalista, sulle geometrie del luogo; ma su tutti si staglia il corpo di Dax, in un epico primo piano accentuato dal teleobiettivo, come personaggio dalla forte solidità morale. Le immagini degli imputati sono invece deformate. Il grandangolo prevale anche in prigione. La mdp si muove in maniera sperimentale, come quando usa le ombre proiettate sulle pareti, o come quando riprende la soggettiva di un pugno (tirato verso la mdp e dunque verso lo spettatore). In un montaggio alternato di momenti psicologici e di situazioni di classe, la vicenda si sposta verso lo Château dove le alte sfere della gerarchia militare stanno festeggiando: un carrello destra-sinistra. E poi viceversa un sinistra-destra descrive gli astanti dell’elegante party. Poi Kubrick ci porta in un salone altrettanto elegante, dove Dax incontra Broulard, tentando l’estrema mediazione e perorando la causa dei suoi soldati. Anche in questo caso la mdp esibisce degli intensi grandangoli che accentuano l’ampiezza degli spazi, alternando però dei piani più ravvicinati su Dax. Si va quindi verso la fucilazione dei malcapitati soldati. Degli sguardi in macchina di questa scena madre abbiamo già parlato: un lungo carrello a precedere e a seguire descrive il cammino dei condannati verso il luogo dove saranno fucilati. E il muro dove saranno uccisi viene visto in soggettiva dagli uomini che stanno affrontando la morte, che sono a loro volta osservati dagli sguardi in macchina della fila di soldati e di ufficiali (Dax compreso) che fanno da coro a questa tragica processione. La paradossale esecuzione è avvenuta, c’è adesso il “redde rationem” tra Dax, Mireau e Broulard, cui si aggiunge la presenza di un quadro. La cornice del quadro si “inserta” dentro la “cornice” più grande del fotogramma, creando una interessante messa in abisso che rimanda all’idea originaria del termine “inquadratura”. Il grande quadro è sempre presente, in profondità, quarto incomodo del lungo colloquio. E qui Kubrick dimostra come il lavoro della regia debba poter orchestrare tutte le professionalità del cinema: in questo caso, al di là della sceneggiatura e della recitazione, diventano fondamentali la scenografia, l’arredamento, i costumi. E siamo al famoso finale: Dax si avvicina un locale dove una povera ragazza tedesca, presa prigioniera dai soldati francesi, è costretta a far divertire le truppe. La ragazza, impaurita e intimidita, canta una canzone; e questo canto, lungi dall’essere elemento di spensieratezza, diventa un lamento triste, che piano piano commuove e coinvolge la truppa. Kubrick descrive in insisti di primi piani le facce antiche dei francesi, uno dei quali viene ripreso con uno zoom. È una scena che costringe alla lacrima: un forte statement contro la guerra, ma al tempo stesso un inno all’antiretorica, e una dimostrazione di come si possa provocare forti emozioni con i mezzi semplici della “retorica” sì, ma nel senso del linguaggio filmico. Si tratta, dunque, di un film di grande maturità nella costruzione delle inquadrature: elegante e raffinato ai limiti del formalismo nelle scene in cui Dax incontra Mireau e Broulard, nelle scale, nelle stanze e nei palazzi del potere; plumbeo e incubico nelle scene delle trincee e nell’epica battaglia del Formicaio. 11 Ma su tutto emerge la fisicità di Kirk Douglas, su cui Kubrick insiste con alcuni primi piani epici. Si tratta di primi piani centellinati (al colloquio con Broulard, al processo, all’esecuzione), perché quando il primo piano viene scelto nel montaggio deve arrivare come un colpo nello stomaco. Il dolly, il colore, la Storia Spartacus (1960) Kirk Douglas lega il suo nome al film successivo di Kubrick, Spartacus, in cui veste i panni del rivoluzionario gladiatore Spartaco. Un film dal grande impianto spettacolare, a partire dal cast miliardario: accanto al protagonista Douglas, troviamo un giovane Tony Curtis, Lawrence Olivier, Jean Simmons, Charles Laughton, Peter Ustinov, John Gavin. Un tipico cast hollywoodiano che apparentemente stride con i progetti autoriali di Kubrick. È un film che un tempo sarebbe stato bollato come “commerciale”: in effetti la pellicola, distribuita dalla Universal, rappresenterà per lo Studio americano uno dei massimi incassi della sua storia. E si tratta di un film “di genere” molto alla moda in quel periodo: un film epico di ambientazione romana. Per di più, Kubrick non ha il controllo totale dell’opera: Douglas, infatti, è anche produttore del film e colui che lo chiama a dirigere la pellicola appena iniziata. Eppure, a ben vedere, si tratta di uno dei primi grandi esempi di film “di genere” e “commerciale” che diventa, nelle mani del regista, anche un film “d’Autore”. Non è facile individuare movimenti di macchina, obiettivi, scelte di retorica filmica tipici come nei film precedenti. Emergono i campi lunghi, necessari a raccontare le grandi scene di massa; i primi piani, utili a immortalare i grandi divi del cast; il dolly o il crane, che si alzano spesso a dare respiro epico alle sequenze ricche di comparse (battaglie, duelli, marce). Le necessità del “modo di produzione” sono troppo pressanti per consentire uno “stile” all’Autore Kubrick. Il prodotto costringe alla convenzione e allo standard. Eppure, si colgono inquadrature molto interessanti. Ad esempio, durante il duello fatale tra Spartaco e Draba la mdp inquadra Douglas in semi-soggettiva dell’avversario, da dietro la rete da reziario (il gladiatore armato di rete e di tridente). E Draba, risparmiando Spartaco, lancia il suo tridente verso la mdp, contro la tribuna dove è seduto Crasso. Verso la mdp scendono, minacciose, anche le sbarre di ferro del recinto che i gladiatori abbattono nella potente scena della rivolta. Kubrick, inoltre, dimostra una raggiunta maturità di regista completo, capace di dirigere le grandi masse: di grande bravura è la composizione dei campi lunghi e lunghissimi della scena della battaglia finale tra l’esercito dei gladiatori ribelli e le legioni romane. Ma se si indagano le ragioni delle scelte di Kubrick, la regia sta in altri fattori: il rapporto con la Letteratura, con la Storia, con l’Ideologia. Nel caso di Spartacus, le tre cose stanno insieme. Come ho già detto, quasi tutti i film di Kubrick sono adattamenti di opere letterarie: in questo caso il romanzo di partenza è quello di Howard Fast, uno scrittore che rappresenta la tipica immigrazione in America. I temi da lui trattati sono storici e ideologici; i suoi romanzi raccontano di nativi americani, di migranti, spesso storie di dolore e di riscatto sociale. Così è anche Spartacus, un romanzo sulla rivolta degli schiavi costretti a diventare gladiatori; una metafora di rivoluzioni sociali successive nella storia dell’umanità (vedi lo “spartachismo” di Rosa Luxemburg). Non a caso, Howard Fast aderirà al Partito Comunista e sarà perseguitato dal maccartismo. Come sarà sospettato e perseguitato l’autore della sceneggiatura, Dalton Trumbo. Dunque, la confezione di Spartacus nasconde in realtà una chiave che mina dall’interno il modo di produzione degli Studios. Kubrick si inserisce in questo schema Hollywood/anti-Hollywood che dà un fascino particolare a questo film. Si tratta, dunque, di un film fortemente ideologico. Da un lato c’è la possibile lettura “spartachista”, ma dall’altra una interpretazione “cristologica” molto diversa da quella in voga in quegli anni. Il film di Kubrick ha infatti una maggiore carica sociale, e la crocifissione finale dei gladiatori ha 12 incalzante e uno sguardo ironico su un mondo surreale che potrebbe benissimo essere “realistico”. Nonostante Kubrick non voglia “esibire” la macchina da presa, restano nella memoria alcune inquadrature. Soprattutto i grandangoli con cui il regista descrive la war room in cui si sviluppa il dibattito sulla guerra nucleare alle porte: Kubrick punta sulla circolarità dell’ambiente, che ricorda un po’ la circolarità degli spazi delle astronavi nel futuro 2001: Odissea nello spazio. Anche l’incipit del film, con il bombardiere che viene rifornito di carburante in volo, aleggiando sospeso sulle note musicali, fa venire in mente la famosa sequenza del valzer spaziale in 2001. In un impianto comico/grottesco come quello che propone Il dottor Stranamore, le inquadrature si soffermano sui personaggi, spesso deformati dal grandangolo o dall’angolazione dal basso: si vedano un paio di primi piani e di primissimi piani su Sterling Hayden, e si veda l’enfasi con cui Kubrick si diverte a costruire i molti personaggi e le molte maschere di Peter Sellers. Tra le scene memorabili c’è il celebre finale con il maggiore T.J. “King” Kong che cavalca personalmente la bomba atomica, scalciando e agitando il cappello da cowboy. Se ne ricorderà, di certo, Coppola quando costruirà il personaggio del colonnello Kilgore in Apocalypse Now. Poco dopo, una serie di esplosioni atomiche sono montate insieme e accompagnate dalle note di We’ll Meet Again. L’ottimismo sentimentale della canzone contrasta con il clima da olocausto nucleare che il film suggerisce. Celebre anche il monologo finale del dottor Stranamore, che, con accenti e gesti alla Hitler, pensa già al dopo-bomba e a una nuova guerra di supremazia coi russi. Continua, insomma, il viaggio di Kubrick nella Storia. La musica, il montaggio, la visionarietà 2001: Odissea nello spazio (1968) I salti temporali, oltre che nella filmografia di Kubrick, sono anche dentro la struttura di questo altro celebre film. Il testo è organizzato in 4 macro-episodi: l’alba dell’uomo; il salto al futuro fantascientifico; la missione Giove; Giove e oltre. Tutti e 4 i grandi episodi sono tenuti insieme dal filo rosso del misterioso parallelepipedo che può essere letto in molti modi: l’origine della vita? La consapevolezza dell’intelligenza umana? Un simbolo divino? Un’intelligenza aliena? Il mistero della vita e della morte? Il primo episodio racconta di un mondo pre-umano, in cui un gruppo avanzato di scimmie scopre la possibilità di un’evoluzione attraverso la violenza; il secondo ci teletrasporta a un futuribile 2001 in cui un gruppo di scienziati esplora la presenza del monolite sulla Luna; il terzo ci sposta 18 mesi dopo quell’evento e racconta la missione Giove, dove protagonisti diventano l’intelligenza artificiale del computer HAL e le sue contraddizioni; il quarto macro-segmento, quello più visionario, segue il viaggio fantastico dell’astronauta sopravvissuto verso un luogo fantastico dove vedrà se stesso invecchiare, morire e rinascere: il tramonto dell’uomo si ricollega all’alba dell’uomo, in un nuovo processo circolare della narrazione, della sceneggiatura e della vita. Di nuovo, c’è un testo letterario alle spalle: La sentinella di Arthur C. Clarke, uno dei massimi autori della fantascienza contemporanea. La musica risulta essenziale sin dai titoli di testa e dalle prime sequenze, con l’eclissi e poi la descrizione dell’alba dell’uomo. L’episodio è visto con un taglio contemplativo, che fa godere allo spettatore di campi lunghissimi, di tramonti bellissimi, di quadri fissi che colgono in maniera verosimile un mondo preistorico. È alla fine di questo episodio che il gruppo di primati scopre il monolite che dà loro lo spunto per l’intelligenza e lo scatto evolutivo. Avviene qui, anche, uno dei più celebri attacchi di montaggio della storia del cinema: l’osso che diventa la stazione spaziale 15 circolare. Lo spettatore viene lasciato abbandonarsi, per molti minuti, alla visione. Kubrick propone una contemplazione pura. Il secondo episodio comincia con una soggettiva del computer HAL 9000. Ma all’inizio anche qui allo spettatore viene suggerito di abbandonarsi alla contemplazione della tecnologia, a inquadrature fisse dove sono il profilmico e gli effetti speciali a farla da padroni. La mdp indugia sulle geometrie -> “slow cinema”. Emerge il suono. Ma non solo quello della musica. A volte c’è il silenzio, contrappuntato solo dal respiro dell’astronauta. È la premessa della svolta drammatica: David e l’altro compagno di viaggio che nel frattempo si è svegliato si accorgono che HAL ha sbagliato i calcoli; un errore imperdonabile per un computer di nuovissima generazione. Un errore che lo stesso HAL non può perdonare a se stesso e che quindi deve cancellare uccidendo i due testimoni. Il computer, dunque, spia le parole dei due astronauti: in fish eye e in soggettiva, la mdp ci fa capire che HAL sta leggendo il labiale dei due colleghi. Il tono del film slitta nell’horror. Il secondo astronauta viene ucciso dalla macchina impazzita e si sviluppa un silenzioso duello tra HAL e David, deciso a vendicare l’amico e a punire il computer. Kubrick tratta l’occhio elettronico di HAL come se fosse un volto umano: lo riprende con uno zoom mentre David recupera l’altro astronauta abbandonato nello spazio, mentre rientra nell’astronave deciso a uccidere il computer. Il duello, al contrario dei western di Leone, avviene in un assoluto, drammatico silenzio. HAL continua a guardare in soggettiva, mentre David lo uccide lentamente, disconnettendo le sue schede dati. È una vera e propria esecuzione, in cui HAL torna “bambino”, cantando un infantile girotondo. Si tratta di un’altra scena celebre della storia del cinema: lo spettatore si commuove, ha pena per questa intelligenza artificiale. Ci sono le premesse per l’ultimo episodio, “Giove e oltre”: solo adesso capiamo quale era la missione della nave spaziale spedita verso Giove; solo ora cogliamo il collegamento tra il viaggio di David, unico sopravvissuto ai suoi compagni di missione, e il misterioso monolite. E comincia un altro “viaggio allucinante”: David, ormai solo, ormai fuori dalla comfort zone della nave spaziale, viaggia con la sua navicella ovoidale verso un’ultima frontiera. È un trip anche nel gergo della droga: un viaggio come sotto acido, nell’infinito dei buchi neri che permette a Kubrick una nuova contemplazione. In una ennesima, celebre sequenza, Kubrick racconta in maniera snervante questo viaggio nel tempo, nello spazio e nell’inconscio: qui il regista propone un cinema totalmente visionario, con tutte le tecnologie e gli effetti speciali disponibili all’epoca. Il cinema di Kubrick propone qui un’allucinazione pura: colori a smalto, inquadrature vivide e a specchio, caleidoscopi colorati che creano figure amebiche, sono viste in soggettiva da David. La mini-astronave viaggia per molti minuti dentro paesaggi surreali, contrappuntati da una musica elettronica dissonante e assordante. Questo segmento di 2001 è un vero e proprio film-nel-film, il cuore della (post)moderna “Odissea” proposta dal titolo. Il trip (in acido, o col piglio dell’arte elettronica) è la premessa al filosofico finale, che potrebbe essere retorico e “pesante”, ma viene alleggerito dalla messa in scena, basata sulla soggettiva e sullo sguardo in macchina. In un gioco di sguardi speculari che rendono lo spettatore complice e lo “interpellano” impietosamente, David – prima dall’oblò e poi fuori dalla navicella – si trova in uno spazio fisico, o meglio metafisico. È una scenografia iperreale che ricorda il futuro Shining. In queste stanze eleganti ma irreali, il protagonista vede se stesso invecchiato. Tornano, dopo tanto frastuono, il silenzio e il suono del respiro. Il vecchio si alza faticosamente; cade un bicchiere, che l’alter ego anziano di David guarda con stupore, come a scoprire la gravità. Poi il vecchio rivolge un altro sguardo verso il letto, dove scopriamo lui stesso ormai morente, mentre il metaforico monolite lo guida verso la morte e contemporaneamente verso l’origine della vita: in una sovrapposizione simbolica, la Terra e un feto si mescolano, mentre cresce una musica fatta di 16 trombe e di tamburi. Alla conclusione di un viaggio allucinante ma perfettamente circolare, il regista ci riporta al punto di partenza, molto prima del “pianeta delle scimmie”, al momento stesso del concepimento della vita, al momento dell’embrione e della cellula da dove tutto inizia. Lo sguardo in macchina, la musica Arancia meccanica (1971) Sguardo in macchina e musica sono le due chiavi da cui partire anche per un’analisi di Arancia meccanica. La fonte letteraria è stavolta il romanzo omonimo del 1962 di Anthony Burgess. Anche in questo caso, come in alcuni dei film precedenti, si può annotare una struttura rapsodica, una collana di episodi collegati dal “caso” di Alex, la cui vita violenta viene seguita come farebbe un antropologo. Struttura che può essere divisa in 3 atti: atto primo, la vita violenta di Alex fino al suo arresto; atto secondo, il “trattamento” antiviolenza; atto terzo, le conseguenze della “cura Ludovico”, gli esiti drammatici e la risoluzione sarcastica, il compromesso con il “Sistema”. Al di là della perfetta struttura della sceneggiatura, Kubrick offre mille spunti di regia: a partire dal già citato sguardo in macchina, che ormai è diventato una chiara cifra stilistica. A partire dalla prima scena, che parte con un dettaglio dell’occhio di Alex, cui segue un lungo carrello indietro a scoprire il bar “del latte”. Anche nella sequenza in auto, quando i drughi sono preceduti da una camera car, gli sguardi sono diretti verso la mdp. A volte, in momenti topici, l’obiettivo della mdp verso cui si rivolge lo sguardo in macchina diventa un fish eye; come nel caso dello scrittore, costretta a osservare la violenza sulla moglie. Il fish eye tornerà, con evidenza, nella soggettiva di Alex dopo la “cura Ludovico”, e poi nel nuovo incontro con lo scrittore (il cui guardo assomiglia tanto a quello dell’altro scrittore nel finale di Shining). Sguardo in macchina e soggettiva anche nella scena del bar e durante la resa dei conti coi compagni della banda. La soggettiva viene usata spesso anche senza il pov: ad esempio, un forte pov in grandangolo quando Alex viene catturato dalla polizia; una soggettiva di Alex in fish eye subito dopo il trattamento; uno sguardo ironico sui genitori che sono venuti a trovarlo in clinica nella scena finale; una soggettiva di Alex sul ministro che sta negoziando un’intesa con lui. Ed è ovviamente tutta basata sulla soggettiva la drammatica scena della “cura Ludovico”. Si può notare anche lo zoom, uno strumento della “modernità”, che abbiamo visto usare in modo parco ma tragico in Orizzonti di gloria e che ora la regia usa con libertà assoluta: già nella prima scena del pestaggio del barbone; un lento zoom verso il palcoscenico nella scena del teatro; uno zoom sulla statua di Beethoven a casa dei genitori di Alex; uno zoom sull’esterno della casa nell’episodio della clinica per dimagrire. Qui, in particolare, lo zoom viene usato in maniera violentissima nella scena in cui Alex uccide la proprietaria di casa con un enorme oggetto artistico a forma di fallo. Un violento zoom stringere fa immaginare la morte della donna e sembra chiudere, con un velocissimo stacco di montaggio, su un quadro di tipo espressionista che rappresenta un coloratissimo volto urlante. Ancora uno zoom descrittivo sulla fiala del siero utile alla “cura Ludovico”; zoom sul primissimo piano di Alex appena libero, e zoom in soggettiva di lui sul Tamigi, poco prima della vendetta dei vecchi barboni; zoom su Alex quando scopre che i suoi ex compagni sono diventati poliziotti e zoom durante la vendetta dei drughi; zoom ad allargare dallo scrittore e poi a stringere su Alex nella scena dell’incontro con la ex vittima della violenza. Lo zoom, come si vede, è usato in abbondanza, quasi sempre evidenziando un’emozione, una sorpresa, un gesto, un primo piano. Ma tanti altri sono gli elementi della messa in scena kubrickiana in questo film centrale della maturità del regista: l’uso degli obiettivi (il grandangolo in molte scene); l’uso del colore (ad esempio il bianco latteo delle uniformi dei drughi e i colori kitsch ed elettrici a casa dei genitori); la 17 Intense anche alcune inquadrature in grandangolo, come quelle (al limite del fish eye) relative alla prima visita di Wendy e Danny al labirinto, osservati dall’alto da Jack che in realtà osserva un modellino. In plongée, come la ripresa dall’alto (con uno zoom di apertura) su Danny che, mentre gioca con delle macchinine, vede arrivare dal nulla una pallina da tennis che va a inserirsi nella precisa geometria del tappeto. Molte delle inquadrature (come quelle che riprendono l’ampio salone dove Jack scrive) sono riprese con una fotografia elegante, ai limiti del formalismo. Restano nella memoria altre inquadrature: alcune panoramiche a schiaffo, come quella da Danny a Jack nella macabra stanza; alcune angolazioni dal basso, come quella su Wendy che si accorge che il marito sta scrivendo ossessivamente sempre la stessa frase. Il carrello di regia su Jack che batte ossessivamente a macchina; il carrello diegetico, accoppiato a uno zoom, che descrive l’incontro finale del bambino con la madre. Il campo/controcampo di Jack e Wendy sulle scale del salone; le soggettive di Wendy che assiste a una serie di immagini orrorifiche. E poi la soggettiva di Danny che corre nella neve; il primissimo piano di Jack, congelato e con lo sguardo allucinato nel labirinto (del giardino e della mente). Dello sguardo in macchina in Shining abbiamo già parlato. Come accade quasi sempre, allo sguardo in macchina si associa la soggettiva. Ma non accade così nel caso dello sguardo finale di Jack, una “interpellazione” a chi guarda, uno “stra-guardare” che inchioda lo spettatore e lo inquieta. È ovvia la possibilità di interpretare questo film da un punto di vista psicoanalitico: non solo per il progressivo sprofondare di Jack nella follia, ma anche per il Perturbante che Kubrick fa emergere dalla storia. Shining è dunque anche un lungo percorso nell’inconscio collettivo occidentale, e la follia di Jack è una metonimia della pazzia della nostra società e della nostra way of life; non solo negli anni ’80, ma anche – e forse a maggior ragione – nel nuovo millennio. Jung, il Vietnam, il punto di vista Full Metal Jacket (1987) Full Metal Jacket appare un luogo centrale per un pensiero sul significato del testo filmico. Propongo alcuni percorsi di indagine: il rapporto con la letteratura e l’adattamento dal testo iniziale; la struttura della sceneggiatura; la lettura junghiana; il rapporto con la Storia (e in particolare con la guerra del Vietnam); il rapporto col genere; la messa in scena. Full Metal Jacket è tratto dal romanzo The Short-Timers, un testo parzialmente autobiografico di Gustav Hasford, un ex marine che racconta la sua esperienza di guerra nel Vietnam. La prima considerazione da fare è che l’adattamento del romanzo di Hasford conferma l’imprescindibile rapporto di Kubrick con la letteratura. Nel romanzo troviamo tutti i presupposti della denuncia della “follia collettiva” su cui insisterà Kubrick: la deriva psichica di Palla di lardo, la maturazione di Joker (che passa dall’“eutanasia” della cecchina vietnamita), i soldati che cantano la canzone di Topolino ecc. Rileggendo The Short-Timers (il termine si riferisce in genere ai soldati di leva statunitensi, ma potrebbe essere letto anche come “nonni” o come “prossimi al congedo”), si notano le forti somiglianze con il film di Kubrick. Il romanzo è diviso in 3 grandi parti. La prima sezione del libro è riprodotta assai fedelmente nel film. Vi sono solo differenze marginali: ad esempio, nel romanzo il tartassato soldato Palla di lardo non sono parla al suo M14, ma è convinto che sia sua moglie. L’uccisione del suo superiore diviene quindi un delitto passionale per gelosia. Gli altri due capitoli si fondono nella seconda parte del film. Alcuni episodi importanti del romanzo non sono riportati nell’adattamento cinematografico. Ad esempio, nel romanzo, Joker non solo giustizia la ragazza vietcong, ma dona una buona morte anche a Cowboy, trasformandosi in un giusto – ma al tempo 20 stesso spietato – “giustiziere”. Anche Rafterman muore nel romanzo, mentre invece sopravvive nel film. Dunque, in generale, l’adattamento di Kubrick è abbastanza fedele. Il romanzo di Hasford ha tutto il materiale di base, tutti gli elementi che permettono a Kubrik di partire per un progetto visionario. Tra l’altro, The Short-Timers contiene già forti elementi di critica contro la guerra del Vietnam. Quel che conta, dunque, non è il “tradimento” del romanzo, ma la sua interpretazione in termini di messa in scena; quel che conta è il modo in cui il regista si appropria di queste “found stories”, di questa “letteratura del reale” per farne “cinema del non-reale”, cinema allo stato puro. Kubrick non ha bisogno di inserire l’episodio del delirio di Joker perché tutto il film è un delirio, una visione psichedelica. Il cinema stesso è sogno, emozione allo stato puro. La sceneggiatura è firmata da Kubrick, Hasford e Michael Herr, un famoso giornalista corrispondente al fronte durante la guerra del Vietnam. Ritroviamo il suo nome tra gli sceneggiatori, insieme a Francis Ford Coppola e John Milius, di Apocalypse Now. Evidentemente, sia Coppola che Kubrick ritengono il suo libro Dispacci (1977) un repertorio di informazioni e di ispirazione importantissimo. Dispacci è infatti considerato uno dei testi più potenti sugli orrori del conflitto vietnamita e in generale sulla violenza della guerra. Inoltre, il testo di Herr aggiunge nuove riflessioni possibili alla relazione di Kubrick con la letteratura. Veniamo alla struttura del film, che appare diversa da quella del romanzo di partenza, classicamente tripartito, ma anche dalla sceneggiatura “classica” americana. Il film di Kubrick è infatti più episodico, basato su dei “quadri” centrati su un personaggio o un avvenimento. Non si assiste al classico “viaggio dell’eroe” (in questo caso Joker) che si trasforma attraverso la sua avventura narrativa. Joker è più un “collante” che cuce la matassa del racconto. Anche la sua voice over è molto diversa dalla voce narrante di Barry Lyndon: emerge a tratti, senza costituire un vero filo narrativo. Appare quindi una struttura disarmonica, come è disarmonica la realtà che racconta. Possiamo identificare tra gli 8 e i 10 episodi (quasi sempre introdotti da un brano rock ‘n’ roll o comunque da una colonna sonora importante), con dei climax principali interni: la morte di Hartman e di Palla di lardo, la morte della ragazza-cecchino. È vero che si potrebbe, con una forzatura, riportare la sceneggiatura desunta alla struttura classica in 3 atti: 1. Prologo (il rituale taglio dei capelli); presentazione dei personaggi, tra i quali il protagonista Joker, addestramento fino alla morte di Palla di lardo. 2. Attraverso la specializzazione di Joker, cronista di guerra, e del fotografo Rafterman si racconta l’attesa del fronte a Da Nang e l’arrivo in prima linea, fino alla conta dei primi morti. 3. La battaglia vera e propria, fino alla morte della cecchina vietcong e la “maturazione” di Joker. Epilogo, con i soldati che cantano la canzone di Mickey Mouse. Ma la narrazione è più complessa e meno “classica” di così. Full Metal Jacket funziona come i sogni, in maniera meno logica. Funziona per improvvise accelerazioni, “brucia” prematuramente dei personaggi, come Palla di lardo. Se il film è un sogno, è forse utile una lettura psicanalitica. In Full Metal Jacket la chiave psicoanalitica è dichiarata: quando Joker e Rafterman visitano la fossa comune, il colonnello Poge apostrofa Joker, chiedendogli perché porti il distintivo della Pace. “Per sottolineare la duplicità dell’essere umano”, risponde Joker facendo esplicito riferimento a Jung. È una battuta che non esiste nel testo di Hasford e che non può non essere un indizio importante che Kubrick dà allo spettatore mettendolo sulle tracce della sua pista teorica. Dunque Kubrick punta, molto più di Hasford, sulla doppiezza, sull’ambiguità dell’essere umano. Per questo Hartman è alla fine meno cattivo di quello che può sembrare, e così Animal. Conflittuale 21 è la cecchina vietcong, sadica guerriera ma anche fragile ragazza in preghiera, eroina dal suo punto di vista e al tempo stesso impietoso e subdolo strumento di guerra. Contraddittorio è Joker, con la sua compassione per Palla di lardo e la sua “pietas” nei confronti della guerriera vietcong, ma anche con la fierezza del soldato che alla fine diventa un “duro” che può cantare la demenziale canzone di Mickey Mouse tra le rovine. Kubrick e Jung sono due “alchimisti” delle emozioni che portano lo spettatore/paziente dentro un sogno/incubo cui sta a noi tentare di dare una interpretazione. Questo percorso psicoanalitico avviene nel “viaggio” dentro la guerra. Un Vietnam che nel romanzo di Hasford era ambientato nella giungla e che qui diventa invece la location di una guerra urbana. È un Vietnam ricostruito nei sobborghi di Londra ed è dunque un Vietnam metonimico, che assomiglia a un videogame, o meglio a un videoclip dall’ambientazione postmoderna. In queste anomale location, lontane dal Vietnam appunto, lo spettatore viene invitato a un viaggio dentro simboli dell’inconscio: le macerie, i continui attraversamenti di pareti cadenti, di buchi, di archi, di tunnel. Kubrick crea quindi una serie di “labirinti cerebrali” (quelli della camerata e dei gabinetti a Parris Island e quelli degli edifici distrutti durante la battaglia di Hue). Secondo Deleuze, se si considera l’opera di Kubrick si vede a che punto è il cervello essere messo in scena; gli atteggiamenti di corpo giungono alla massima violenza, ma dipendono dal cervello. Oggi, però, non sono più sicuro che quell’intuizione di Deleuze sia ancora valida: al cervello risponde anche il corpo, e le emozioni di fronte al cinema di Kubrick vengono anche dalla visceralità del corpo e della carne. Penso ad Arancia meccanica (la violenza di Alex), a Eyes Wide Shut (il sesso), a 2001: Odissea nello spazio (la presa di consapevolezza del proprio corpo da parte delle scimmie); penso all’esplosione dei corpi nel capitolo della cecchina nel film che stiamo analizzando. Quello di Full Metal Jacket è un viaggio dentro le viscere della psiche, ma anche del corpo, che fa inevitabilmente da pendant a quello sul fiume Lung di Apocalypse Now, film altrettanto psicanalitico. Due film sulla complessità dell’uomo (Jung) e della narrazione (Northrop Frye citato chiaramente da Coppola). Due film capisaldi del rapporto Cinema-Storia e del Vietnam movie. Come nel caso della letteratura, Kubrick pesca sempre nei generi, quelli “classici” e più riconoscibili, e quelli più ibridati e meno facilmente tangibili. Nel caso di Full Metal Jacket, tanto è importante il riferimento ai generi che Kubrick ne può fare la parodia: quando il ragazzo vietnamita ruba la macchina fotografica sfida i due amici marines con delle mosse di kung fu alla Bruce Lee. Il principale genere in gioco, nel film, è il war movie, ma in particolare quel sottogenere che è diventato dagli anni ’70 in poi il Vietnam movie. Un sottogenere, se non un genere in sé, che porta fortemente alla ribalta il rapporto tra il Cinema e la Storia. Il Baudrillard di Simulacri e impostura funziona benissimo nel caso di Full Metal Jacket, che ambisce a diventare il film sul Vietnam, ma anche sulle sue possibili declinazioni metaforiche attuali, quando il Vietnam è stato sostituito dall’Iraq e dall’Afghanistan. Il Vietnam, infatti, entrando dentro il respiro americano, ne ha costituito un modello, uno stereotipo, una narrazione ricorrente, fino a diventare “genere”. Il Vietnam diventa infatti in questi anni un enorme contenitore di trame e di personaggi per il cinema, da un lato per la metabolizzazione, l’implosione e riassunzione nell’Immaginario iconico della Storia che la società e la cultura postmoderne hanno favorito; dall’altro, per il consueto, ma più raffinato e articolato – in senso postmoderno – riappropriarsi della sua storia, che la cultura americana fa sul terreno, appunto, dei “generi”. Full Metal Jacket permette di fare un discorso sulla Storia attraverso la guerra del Vietnam, guerra controversa che ha segnato un’intera generazione di giovani americani e ha influenzato l’ideologia 22
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