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Parole di Bioetica: Aborto e Biodiritto, Appunti di Filosofia del Diritto

La controversa questione etica e giuridica dell'aborto e del biodiritto, analizzando la natura oggettiva e soggettiva di questi temi. Il documento esamina se una donna che aborta uccide realmente un essere vivente, il ruolo della comunità e della legge nella questione, e la relazione tra etica e diritto in materia di scelte bioetiche. Anche una breve introduzione al sviluppo storico della riflessione bioetica e biogiuridica.

Tipologia: Appunti

2010/2011

Caricato il 09/06/2011

ma_87
ma_87 🇮🇹

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Scarica Parole di Bioetica: Aborto e Biodiritto e più Appunti in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! PAROLE DI BIOETICA I ABORTO Tutte le polemiche sull’aborto si incentrano in una semplice questione di verità: è vero che una donna che abortisce uccide il suo bambino o è piuttosto vero, come essa risponde, che non uccide nessuno, ma soltanto rifiuta una possibilità? Nessuna riflessione etica sull’aborto può essere intellettualmente onesta, se questa non viene posta con rigore e precisione. È evidente che, che almeno in senso biologico-fattuale, l’aborto volontario uccide:esso produce la morte di un individuo vivente, accolto nel grembo della madre, ma che certamente non è in nessun modo parte del corpo materno. Quando la morte è frutto di una intenzione, è corretto linguisticamente parlare di uccisione. Se la morte è invece l’effetto di un processo biologico (come nell’aborto spontaneo) o di un evento accidentale (come un incidente della gestante) parlare di uccisione è improprio: siamo soliti in questi casi dire che la donna ha perso il bambino o, che il bambino è morto nel grembo della madre. Affermare quindi che una donna che abortisce intenzionalmente non uccide nessuno, ma semplicemente rifiuta una possibilità non è vero. Sarebbe anche scorretto parlare di omicidio per descrivere l’effetto di un aborto volontario, perché si parla di omicidio solo quando la vittima è un uomo. Questo spiega la complessità di una riflessione etica sull’aborto che da una parte deve evitare la negazione della realtà obiettiva di uccisione di vita umana, e dall’altra parte deve evitare che il problema venga troppo rapidamente risolto parlando di omicidio. L’affermazione secondo la quale “l’embrione è parte del corpo materno, inseparabile dalla sua identità fisica e psicologica” è necessario dialetticamente per poter escludere che l’aborto sia una uccisione (non si può uccidere una parte di sé), ma è infondata. È infondata già dal senso delle donne, che quando apprendono di essere rimaste incinta, possono anche percepire il bambino come una parte di sé,ma come una parte di sé straordinaria un’altra parte rispetto qualunque altra parte del loro corpo. È infondata perché falsificata non solo dall’embriologia, insiste nel sottolineare l’autonomia genetica e la biologia del nascituro rispetto alla madre, ma anche dalle nuove pratiche di fecondazione assistita in vitro, che consentono la produzione di embrioni fuori dal corpo materno. È infondata perché lo dimostra la pratica dell’abbandono dei neonati, una negazione di riconoscimento. Se hai abortito significa che le motivazioni negative, spesso inconsce, hanno prevalso su quelle positive fortemente sostenute dall’istinto. Il problema dell’aborto da etico è ridotto a problema psicologico, da giudicare su quella particolarissima unità di misura che è la condizione soggettiva della donna, subordinata dall’istinto a un desiderio di maternità, ma mossa da motivazioni inconsce negative. In tal modo si induce a pensare l’aborto come ad una dinamica autoreferenziale che la donna pone in essere sul suo stesso corpo, e non perciò che esso propriamente è, cioè una dinamica relazionale che la donna pone in essere uccidendo un altro corpo, quello del proprio figlio. Non si uccide una possibilità, ma semplicemente si rinuncia ad essa. È in questa assenza di relazionalità, o per essere più precisi in questa negazione di relazionalità che un soggetto forte (la madre) impone ad un soggetto debole (il nascituro), che si incentra la questione etica dell’aborto. Non si possiede qualità umana, se questa non ci viene riconosciuta da chi ci mette al mondo o comunque dalla comunità che è chiamata ad accoglierci. Il diventare essere umani dipenderebbe esclusivamente dall’essere considerati tali. Sopprimere un neonato (perché portatore di handicap) dovrebbe essere secondo l’opinione di Singer e di Engelhardt una opzione eticamente, socialmente e giuridicamente insindacabile. Interpretando la scelta abortiva come una scelta non relazionale, si sottrae il problema dell’aborto la sua specificità etica, dato che c’è etica solo dove si dà alterità. È chiaro che la scelta abortiva può e deve essere valutata anche secondo ulteriori parametri, psicologici, sociologici, giuridici, economici, demografici, medici, religiosi e non c’è dubbio che una seria considerazione di questi parametri può anche portare alla legalizzazione di alcune pratiche abortive. Ma è irrinunciabile che si pensi all’aborto volontariamente come ad una scelta umana individuale e responsabile, che esige di essere valutata in prima battuta secondo l’unità di misura che dà il senso fondamentale a tutte le scelte umane, quella etica. II BIODIRITTO Al significativo sviluppo conosciuto della riflessione bioetica negli ultimi decenni non è corrisposto un analogo sviluppo della riflessione biogiuridica: ciò è dovuto alla permanenza dell’idea giuspositivistica, secondo la quale il diritto verrebbe dopo e come tale possederebbe uno statuto debole e secondario: verrebbe dopo scelte politiche e/o etiche fondamentali, a cui esso dovrebbe garantire piena e rigorosa operatività sociale. In questa prospettiva spetterebbe ai soli bioeticisti operare giudizi bioetici fondamentali e spetterebbe ai giuristi, ove questi giudizi dovessero tradursi in pratiche sociali vincolanti, individuare le tecniche normative e sanzionatorie adeguate per realizzare questi obiettivi. In questa prospettiva, quindi al diritto spetterebbero nei confronti della bioetica compiti assolutamente strumentali. Pensando a diritto come puro strumento non si coglie la specificità strutturale della strumentalità. Il modo corretto di impostare la questione è quindi quello di pensare alla bioetica e al biodiritto come a due sistemi retti da due codici binari diversi, anche se interconnessi e che corrispondono puntualmente ai codici dell’etica da una parte e del diritto dall’altra: la bioetica risponde al codice bene/male, il biodiritto al codice giusto/ingiusto. Il codice bene/male ha il suo spazio nella relazionalità interpersonale, il codice giusto/ingiusto lo ha invece nella relazionalità socio-istituzionale. Da ciò consegue che non tutte le valutazioni bioetiche possono tradursi in valutazioni biogiuridiche, ma solo quelle che hanno un impatto sulla dimensione della socialità istituzionalizzabile e ci spiega perché il diritto possa rendere obbligatorie pratiche sociali di rilievo bioetico (come le vaccinazioni) nel nome di un interesse sociale collettivo. Nel biodiritto non può che essere controversa la determinazione del codice giusto/ingiusto. Sono quattro i paradigmi che si sono affermati in merito: Il paradigma liberista che riduce il giusto alla promozione dell’autonomia. Questo paradigma ritiene che il sistema giuridico debba operare per garantire a ciascun consociato la possibilità di maturare la propria autonomia e gestirla liberamente. Nel biodiritto questo modello opera secondo diverse direttrici. In primo luogo esso auspicherà la minimizzazione del diritto come pratica sociale. Il miglior diritto sarà quindi quello che potrà massimizzare l’autonomia dei consociati o minimizzare i sacrifici in termini di autonomia richiesti ad ogni consociato per garantire l’autonomia altrui. Ne segue che il fine reale del diritto non è di garantire l’autonomia dei singoli, ma garantire la possibilità generale dei singoli di convivere e di convivere in un sistema sociale giusto, che non dia ciò il potere ai più forti. Il paradigma procedurale che riduce il giusto alla corretta osservazione dei protocolli condivisi. Tale paradigma ritiene che un sistema giuridica giusto sia un sistema governato da regole conosciute e condivise da tutti e che quindi è giustificato che tutti obbligatorie mante rispettino.
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