Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

AFRICA. LA STORIA RITROVATA - G. P. Calchi Novati, P. Valsecchi, Schemi e mappe concettuali di Storia dell'Africa

Riassunto completo del volume di Calchi Novati e Valsecchi, in cui i due autori offrono una ricostruzione complessiva della storia africana, dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2020/2021

Caricato il 27/02/2022

Lenta84
Lenta84 🇮🇹

4.5

(207)

16 documenti

1 / 50

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica AFRICA. LA STORIA RITROVATA - G. P. Calchi Novati, P. Valsecchi e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia dell'Africa solo su Docsity! AFRICA: LA STORIA RITROVATA Dalle prime forme politiche agli Stati nazionali Gian Paolo Calchi Novati, Pierluigi Valsecchi Carocci Editore – Roma 2016 1. I tempi della storia 1.1 Fonti scritte e tradizione orale Alla ricostruzione della storia dell’Africa fa da ostacolo la scarsità delle fonti e soprattutto di fonti scritte e di fonti elaborate dagli stessi africani. In molte parti dell’Africa a sud del Sahara i primi scritti fanno la loro apparizione solamente con gli arabi. I documenti, e quindi le fonti per la storia, si moltiplicano poi con l’incremento dei rapporti con l’Europa. In mancanza di documenti affidati alla scrittura, soccorre in Africa la cultura o tradizione orale, spesso anonima o collettiva. Con la diffusione dell’Islam, a partire dall’VIII-IX secolo, l’arabo si propagò fra molte popolazioni nella fascia fra il Mediterraneo e la foresta, e divenne strumento linguistico degli strati letterati un po’ ovunque, favorendo una produzione scritta. Le fonti in arabo diventano più abbondanti e dettagliate nei secoli successivi, con la fioritura di opere e resoconti di viaggiatori, geografi e studiosi. Accanto al Corano e ai testi giuridici dell’Islam, spesso corredati da interessanti opere di commento che aprono squarci sulla realtà locale, non mancano fonti che riguardano la geografia, la vita e i sistemi di governo delle diverse società e soprattutto i traffici. Grazie alla dovizia delle fonti arabe disponibili, la parte dell’Africa più conosciuta per tutti i secoli corrispondenti al nostro medioevo è la regione tropicale immediatamente a sud del Sahara, soprattutto il Sudan occidentale fra Senegal, Niger e bacino del Ciad, dove fra il X e il XVI secolo si dispiegarono i regni di Tekrur, Ghana, Mali e Songhay. Si è soliti far risalire al XV secolo l’arrivo degli europei, anche se racconti non documentabili riferiscono di esplorazioni e circumnavigazioni del continente in tempi più remoti. Nel XVII e nel XVIII secolo dell’Africa e degli africani riferirono le relazioni, spesso ricche e dettagliate, dei missionari cappuccini, presenti soprattutto nella regione congolese. Con il XIX secolo si intensifica la redazione di documenti europei e turco-ottomani. Sono i viaggiatori, i missionari, i militari e i primi nuclei di europei stanziati sulle coste a far conoscere l’Africa al mondo, sottraendole però sempre più la sua storia e le sue fonti storiche. 1.2 Nomi, luoghi e date Le informazioni sull’Africa sono rimaste a lungo inficiate da categorie messe a punto da altri popoli e poi, con l’epoca coloniale, soprattutto dagli amministratori europei e dai missionari. Gli schemi interpretativi si sono ispirati a una concezione razziale o ai principi di un evoluzionismo scandito dall’organizzazione e dalla tecnologia occidentale. E anche questo ribadisce l’impressione di un continente che nella sua manifestazione esterna si è formato attraverso l’immagine e le parole degli altri e che ha dovuto accettarsi così come lo hanno descritto gli altri. I nomi con cui sono conosciute le sue terre e le sue genti hanno cominciato ad essere conosciute in Europa, le relative etimologie e molti dei nomi che sono entrati nella sua toponomastica sono di origine straniera: Africa (come i romani chiamavano la fascia costiera fra Tunisia e Algeria dove Roma aveva una sua provincia), Etiopia (come i greci chiamavano la regione abitata da popoli di pelle scura o con la “faccia bruciata”), Sudan o Guinea (come arabi e berberi chiamavano le parti del continente a sud del Sahara popolate da neri). Nelle raffigurazioni dei geografi del I secolo d.C., l’Africa era divisa sommariamente in tre parti: Egitto, Libia ed Etiopia. Sia Libia che Etiopia sono nomi impiegati anche per descrivere il continente nella sua interezza; Etiopia in particolare per l’Africa a sud del Sahara, l’Africa nera. L’Etiopia come Madre Nera è un mito scolpito ancora oggi nell’immaginario degli africani. Il significato letterale di Etiopia in greco è un sinonimo di nero o negro. Il declino dell’uso di Etiopia per definire tutto il continente africano inizia con le esplorazioni europee del XV secolo e l’entrata in uso del termine Nigritia dal latino niger. È rivelatrice la storia del nome Niger dato al grande fiume dell’Africa occidentale: la parola originale significava fiume in una lingua sudanica o berbera e finiì per sovrapporsi – per la somiglianza fonica dei due vocaboli e dopo un opportuno adattamento – al termine e al concetto di nero di origine latina. Oltre ai nomi dei luoghi e dei popoli, anche le date dell’Africa sono da rivedere. Le fasi della storia dell’Africa, la sua cronologia, in particolare per l’Africa subsahariana, non coincidono con le periodizzazioni in cui si usa dividere la storia del mondo europeo – e occidentale in generale – e la relativa storiografia. Anche la storia dell’Africa, a grandi linee, comporta lo sviluppo di società via via più numerose e complesse che, sotto la pressione di necessità materiali e scelte culturali, estendono il proprio dominio o la propria influenza su porzioni sempre più vaste del continente. L’effetto cumulativo di questi processi si traduce nelle diverse fasi storiche. La comunità politica fondata sulle istituzioni di parentela, a cerchi sempre più larghi, ha preceduto di norma la nascita dello Stato come ordinamento eminentemente giuridico. L’antropologia evoluzionista ha voluto identificare in ciò che ha definito la chefferie (chiefdom in inglese; traducibile come capitanato) uno stadio mediano fra l’organizzazione su basi puramente gentilizie (famiglia, lignaggio, tribù) e quella su basi territoriali o legali. Il regno è invece una forma più complessa, o nel senso di un incremento formale e sostanziale dell’organizzazione che circonda e tutela il potere, ovvero nel senso dell’estensione territoriale. La storiografia colonialista, ignorando o sottovalutando realtà storiche e logiche di istituzioni che erano state comunque risposte idonee a necessità ambientali e culturali specifiche, ha costruito una sorta di luogo comune circa l’assenza di istituzioni “statali” per tutto il periodo precoloniale quale prova della presunta inferiorità della civiltà africana. L’eccezione più rilevante era l’Etiopia cristiana. 1.3 Passato, presente e futuro Come dice lo storico inglese John Lonsdale: «se l’Africa deve aver un qualche futuro allora deve avere un passato diverso, sebbene sia molto probabile che questo metta sottosopra il presente». Gli africani, non diversamente dagli altri popoli colonizzati, hanno dovuto sottoporre il proprio passato a una profonda riconsiderazione critica per trovare un posto autonomo nella corrente della storia. L’indipendenza richiede una “decolonizzazione della storia”, in modo da eliminare le deformazioni con cui l’autodifesa del colonialismo ha inquinato la verità storica e le stesse forzature in cui, per reazione o per legittimare i nuovi Stati e i loro regimi, è incorsa a sua volta l’ideologia nazionalista. piovosità. Alla fascia climatica e ambientale dell’estremo settentrione mediterraneo succedono i contrafforti a ridosso della costa che vanno inaridendosi procedendo verso sud e dando luogo al deserto del Sahara. Ancora più a meridione, la fascia arida del Sahel, attraversata dal corso di fiumi come Senegal, Niger ma anche Nilo, dà luogo alle savane che quindi, nell’area compresa fra i due Tropici e tagliata in mezzo dall’Equatore, circondano a nord, est e sud una grande regione forestale. Le savane meridionali procedono poi a un progressivo inaridimento fino, di nuovo, al deserto pieno che troviamo nel Kalahari. A sud abbiamo una riproposizione di climi che, nella regione sudafricana del Capo di Buona Speranza, riproducono le caratteristiche delle coste del Mediterraneo. Si tratta di una terra molto spesso assai inospitale dal punto di vista dell’insediamento umano. A parte le condizioni estreme delle regioni desertiche, le aree di foresta e di savana di transizione consentono la sopravvivenza in condizioni tecnologicamente povere solo con grandi sforzi collettivi. La bassa densità di popolazione rende più costosa la realizzazione di infrastrutture ostacolando l’integrazione all’interno di unità politiche efficaci ed efficienti. La vita delle comunità umane è stata costantemente minacciata da tassi molto alti di morbilità e di mortalità, specialmente infantile. Un andamento demografico che rimpiazzi le perdite e garantisca una crescita tale da permettere l’ampliamento del sistema produttivo costituisce una preminenza strategica nel subconscio collettivo di gran parte delle società africane storiche. Una lunghissima fase di aridità, forse fra 28 e 14 millenni prima di Cristo, aveva determinato la concentrazione e lo sviluppo della popolazione umana in poche aree favorevoli all’insediamento, come la bassa valle del Nilo. Ma fra il decimo e il sesto millennio prima della nostra era il continente conobbe una fase eccezionalmente umida. La regione dell’attuale Sahara, specialmente le sue aree montuose e di altipiano, era relativamente ben dotata dal punto di vista idrico, mentre il livello dei laghi centrali africani era notevolmente più altro che non oggi. Queste aree – fra Niger, Nilo e gli altipiani dell’Africa orientale – mostrano per tali epoche una cospicua presenza umana. Nel terzo millennio a.C. inizia il processo di rapido inaridimento del Sahara, con la scomparsa di fiumi e laghi e un peggioramento delle condizioni di vita che spinge progressivamente ai margini dell’area interessata le comunità umane. Il movimento dei gruppi umani in fuga dalla desertificazione si dirige alla volta delle regioni a sud-ovest del Sahara, ma anche verso l’Egitto, il meridione dell’odierno Sudan, gli altipiani dell’Etiopia e quelli dell’odierno Kenya. Il movimento migratorio verso sud giunge in contatto con le comunità stabilite nella foresta o sui suoi margini. Una direttrice migratoria messasi in moto dalla regione dei Grandi Laghi interessa l’Alto Zambesi ed è attestata da ritrovamenti archeologici risalenti al IV secolo a.C. Questo movimento porta gruppi umani nelle terre di savana degli odierni Zambia, Angola, Malawi e Zimbabwe. Una direttrice più tarda sempre dalla regione dei Laghi, apertasi probabilmente intorno all’era volgare, raggiunge dapprima la costa dell’Oceano Indiano e la discende verso sud. La grande isola del Madagascar è meta, dai primi secoli dell’era cristiana, di immigrazioni di genti provenienti dagli arcipelaghi dell’Asia sud-orientale. La distribuzione delle famiglie linguistiche africane fornisce un quadro significativo delle risultanti di questo grande insieme storico di movimenti umani e di interazioni socio- economiche, culturali, politiche e conflittuali. Procedendo da nord a sud abbiamo lingue afro- asiatiche (arabo, geez, amhara, tigrino, berbere, antico egiziano, cuscitiche, cialiche), nilo- sahariane, niger-congo (hausa, yoruba, malinke, twi, bantu, kiswahili), khoisan (khoikhoi, san) e austronesiane. 2.2 Stati e società nell’Africa occidentale Le prime grandi entità politiche dell’Africa occidentale subsahariana di cui si hanno notizie certe e copiose sono i cosiddetti regni o imperi sudanesi. Sudan è un termine arabo che indica genericamente le terre a meridione del deserto abitate da neri e si applica storicamente a tutta la fascia continentale che comprende con i bacini dei fiumi Senegal, Niger e del lago Ciad – la regione a cui ci si riferisce qui in particolare – anche le terre dell’odierno Stato del Sudan nel bacino del Nilo. La storia di questa parte dell’Africa è documentabile, oltre che attraverso testimonianze archeologiche, mediante un ricchissimo patrimonio di fonti scritte in lingua araba che coprono il periodo fra il secolo X e il XVI dell’era volgare e sono opera di viaggiatori e dotti musulmani. Il processo di formazione dello Stato in queste aree è strettamente connesso allo sviluppo del commercio transahariano e al controllo acquisito dai gruppi dirigenti locali sui tratti intermedi e terminali delle vie carovaniere provenienti dall’Africa mediterranea. Collocato fra gli odierni Mauritania e Mali, a nord-ovest rispetto all’alto corso del Niger, il Ghana è il primo in ordine cronologico dei regni sudanesi di cui si hanno notizie certe; popolato probabilmente da genti mande, decade a partire dalla fine dell’XI secolo, in seguito all’invasione di berberi islamizzati provenienti dal Marocco (gli Almoravidi). A meridione del Ghana, a partire dagli inizi del XIII secolo, gruppi mande danno origine a uno Stato, il Mali, il quale prima della fine del secolo assume il controllo del regno Songhay, sull’ansa del Niger, e quindi consolida il proprio dominio a occidente, inglobando il Ghana e le sue antiche province fino al bacino del fiume Senegal. Il XIV secolo vide l’apice della dinastia del Mali, che si convertì all’Islam insieme al gruppo di potere nel suo complesso, mentre la maggioranza della popolazione mantiene la religione locale. Il Mali si pone all’attenzione del mondo mediterraneo con le sue ricchezze aurifere e le sue grandi città cosmopolite (Gao, Timbuktu), ma l’impero entra in una fase di declino nel secolo successivo, cedendo la supremazia in tutta la regione sudanese all’impero del Songhay. Assai più a est, nel bacino del lago Ciad, già nell’VIII secolo e forse prima, i nomadi zaghawa costituivano una debole confederazione nota come Kanem. Dopo la conversione all'Islam della dinastia nell’XI secolo, il Kanem acquisisce progressivamente il controllo politico sulle vie commerciali transahariane fino al Fezzan. Il commercio sulla lunga distanza è un elemento cruciale nello sviluppo dei grandi Stati sudanesi e dall’XI secolo in poi questa importanza va crescendo rapidamente. Entro la prima metà del secondo millennio dell’era cristiana, una rete di piste pienamente assestata percorre l’Africa occidentale in tutta la sua latitudine. Nell’alto bacino del fiume Volta, i gruppi mossi intraprendono verso il X secolo una rapida espansione, dando origine a diverse entità politiche guidate da sovrani con un importante ruolo religioso e dotati di ampi poteri. I gruppi hausa, stanziati in quelli che oggi sono Nigeria settentrionale e Niger, dal X secolo circa danno origine a sette Stati principali e più tardi a una serie di Stati satelliti. In zona di savana, a occidente del basso corso del Niger, si sviluppa la complessa costellazione delle città-stato yoruba. Più a oriente, nella zona forestale verso la foce del Niger, ha origine nel XIII-XIV secolo il regno del Benin. 2.3 La regione nilotica, l’Africa orientale e il centro-sud del continente La valle del Nilo, e in particolare la Nubia, regione storica attualmente compresa fra il meridione dell’Egitto e il Sudan centro-settentrionale, è un’area di produzione aurifera e ferrosa e teatro di espansione culturale e politica egiziana sicuramente già duemila anni prima di Cristo. In questa regione si affermò a partire dall’XI secolo a.C. il regno di Kush, che finirà per cristianizzarsi dal III-IV secolo dell’era volgare. La civiltà cristiano-cuscitica della Nubia cederà progressivamente all’islamizzazione e all’arabizzazione dopo la sconfitta, nel 1315, del suo re cristiano ad opera degli arabi d’Egitto. Il sud dell’odierno Sudan è l’epicentro, nella prima metà del secondo millennio, di un processo di portata epocale che interessa un’ampia sezione dell’Africa orientale: ossia l’insieme di dinamiche di spostamento, creazione di nuove società, conflitti, integrazione fra comunità, trasferimenti piccoli e grandi che è rappresentata dalla cosiddetta migrazione delle genti Iwo, gruppi anch’essi di lingua nilotica. La regione etiopica vide l’arrivo, verso l’inizio del I millennio a.C., di genti semitiche sudarabiche che si fondono con gruppi cuscitici, imponendo la propria lingua, il geez. Attivo nodo di traffici anche marini, l’Etiopia vede dal II secolo a.C. lo sviluppo del regno di Axum. Potenza egemone anche in Arabia meridionale, Axum decade a partire dal secolo successivo per la pressione del nascente potere arabo-islamico; il baricentro del regno va spostandosi verso sud. La potenza dell’Etiopia cristiana tocca l’apice nel XV secolo, quando si stabilisce una tregua con i musulmani e si promuovono contatti con l’Occidente. Le prime testimonianze della presenza di formazioni politiche organizzate in Africa orientale e centrale sono assai più tarde che non quelle riguardanti la valle del Nilo e la regione etiopica. Fra l’VIII e il IX secolo dell’era cristiana sono attestate entità politiche costituite da popolazioni di lingua bantu sulle coste dell’Africa orientale, fra gli odierni Somalia meridionale e Mozambico. A partire dall’XI secolo i porti della costa africana dell’Oceano Indiano conoscono un rapido processo di espansione dei traffici e islamizzazione, che dà origine a una civiltà urbana costiera complessa e raffinata, a base indigena e di lingua bantu. È in questo quadro che si forma il kiswahili, letteralmente “la lingua della costa”, che diventerà una lingua franca per una vasta regione dell’Africa orientale e centrale. L’assenza di fonti documentarie che non siano quelle archeologiche fa sì che ben poco si sappia della storia, cultura e organizzazione di gran parte delle antiche società del centro- sud del continente. Sappiamo, però, che lo sviluppo della rete urbana e commerciale della costa swahili ha dirette implicazioni in termino di storia della statualità nelle regioni dell’altipiano dello Zimbabwe. Le attività produttive e di traffico volte a soddisfare la crescente richiesta di oro da parte degli empori costieri sono probabilmente dietro la nascita di grandi centri di potere. Nella regione dei Grandi Laghi (odierni Uganda, Ruanda, Burundi, Tanzania nord-occidentale, Congo orientale), il contesto di insediamento di genti di lingua bantu vede, a partire probabilmente dal VII-VIII secolo d.C., l’immigrazione di comunità di origine nilotica. Molte comunità bantu sembrano organizzate politicamente in piccole entità autonome, composte da uno o più insediamenti (chiefdom). Mancano evidenze di formazioni statuali consistenti fino al secondo millennio dell’Era Cristiana. Nelle regioni del basso corso e della foce del Congo la formazione di stati è assai probabilmente un processo che prende corpo prima del XIV secolo. Nel Quattrocento esiste certamente una serie di entità strutturate, ben testimoniate dai portoghesi alla fine del secolo. Verso l’VIII secolo, una notevole crescita demografica e sociale prende piede nelle savane a nord dello Zambesi; in questa regione luba e lunda si costituiranno in Stati organizzati verso il XV secolo. Popolato originariamente dagli antenati dei khoikhoi e san, il territorio dell’odierno Sudafrica è stato spontanee, erano anche più o meno interessate, considerando i vantaggi derivanti dal diventare musulmani, inseriti a pieno titolo nel sistema dominante. I mercanti, invece, tendevano a creare basi accanto ai più importanti centri del commercio africano e a fondare città, esercitando la loro influenza culturale sulle élites urbanizzate locali, forti di una cultura scritta e di un’organizzazione complessa. 3.2 L’Islam dei guerrieri in Africa del Nord Fra i territori toccati dall’Islam sul continente, solo il Nord Africa ha subito all’epoca, insieme al processo di islamizzazione (conversione all’Islam delle popolazioni autoctone), anche un più tardo ma consistente processo di arabizzazione (trapianto di popolazioni arabe, destinate a divenire maggioritarie nei secoli successivi). All’arrivo dei primi condottieri arabi il Nord Africa era popolato essenzialmente da imazighen o berberi. In pochi anni i musulmani strapparono a Bisanzio la provincia più ricca, l’Egitto. La svolta decisiva per procedere verso ovest fu la conversione di importanti capi imazighen. Il processo di islamizzazione del Nord Africa fu molto più lento della conquista: solo alla fine del X secolo la gran parte della popolazione, nelle città e nelle campagne, era convertita all’Islam. Il cristianesimo africano ne fu travolto, come anche l’ebraismo. Solo la più importante comunità dell’antica cristianità africana, quella egiziana dei copti, pur risultando notevolmente ridimensionata riuscì a resistere. La diffusione della fede islamica ha portato con sé una certa tendenza alla formazione di un corpo organizzato di credenti, anche sul piano istituzionale. L’Islam rappresentò soprattutto un saldo riferimento identitario, fortificò i legami fra i clan e portò alcune confederazioni di tribù berbere a esprimere immensi imperi islamici. È il caso degli Almoravidi, musulmani sunniti, che nell’XI secolo, a partire dall’area marocchina, giunsero ad estendere il loro dominio dall’Africa occidentale alla penisola iberica, creando una nuova area di scambi e di grande fioritura culturale. Questo grande impero, che riconobbe l’autorità abbaside, favorì l’affermarsi in Nord Africa del sunnismo. Gli almoravidi fondarono una loro capitale, Marrakesh. L’impero che si sostituì a quello almoravide nella regione, l’impero almohade, fiorì invece fra i berberi agricoltori delle montagne dell’Atlante. Gli Almohadi conquistarono Marrakesh alla metà del XII secolo ed estesero il loro dominio a est di Algeri. Se l’islamizzazione del Nord Africa fu più lenta della conquista, l’arabizzazione dell’area fu ancora più tarda. Con la conquista islamica, l’Africa del Nord era entrata a far parte del dar al- Islam (l’insieme delle terre governate da musulmani), una nuova concezione politico religiosa dello spazio. In quanto territorio conquistato al califfato islamico, il Nord Africa fu associato alle terre imperiali dell’area mediorientale. Si sviluppò all’epoca la distinzione delle terre arabe fra Mashreq (dall’arabo sharq, oriente) e Maghreb (da gharb, occidente). Il passaggio dall’una all’altra di queste due regioni seguiva, sul suolo africano, la frattura desertica che corre fra Tripolitania e Cirenaica. Quello del dar-al Islam fu solo uno dei grandi circuiti regionali (politici, economici, culturali) all’interno del quale era inserito il Nord Africa. Da sempre, quelle coste africane furono coinvolte, con minore o maggiore intensità, nelle vicende politiche e nei traffici economici dell’Europa meridionale, sul Mediterraneo. Un altro grande circuito culturale e commerciale, proiettato verso sud, era rappresentato dal reticolo di vie carovaniere che metteva in contatto le coste africane con l’Africa nera attraverso il deserto del Sahara. 3.3 L’Islam dei mercanti in Africa orientale Espandendosi in Africa, l’Islam non si limitò a seguire la direttrice, via terra, percorsa dall’Islam guerriero in Africa del nord, ma penetrò via mare, attraverso l’Oceano Indiano, al seguito di commercianti e missionari. A partire dal VII secolo, i mercanti arabi via via convertiti all’Islam portarono oltreoceano con le loro merci anche la testimonianza della loro fede. Sulle coste dell’Africa orientale si formarono piccole colonie mercantili islamiche, agli snodi strategici dei traffici, dove gli arabi commerciavano con le popolazioni nere bantu, mentre fondavano moschee per il loro culto. I bantu della costa, che scambiavano con gli arabi i prodotti provenienti dall’interno del continente, vivevano a stretto contatto con i mercanti d’oltreoceano; acquisirono familiarità con i nuovi costumi religiosi e subirono l’attrazione del raffinato sistema islamico. I primi insediamenti musulmani sulla costa somala (ad esempio, Mogadiscio) sono del IX- X secolo. Fu l’oro prodotto nell’area del Grande Zimbabwe ad attrarre verso sud i musulmani. Fra il XII e il XIII secolo l’espansione islamica sulle coste dell’Africa orientale si intensificò con la creazione di importanti insediamenti (ad esempio, Zanzibar). Le comunità islamiche fondarono moschee e portarono il culto fra le popolazioni africane dei grandi centri urbani. Insieme alla nuova fede, si radicarono nell’area la cultura araba, la lingua scritta e i complessi sistemi di misurazione per il commercio. Con opportune strategie matrimoniali, i musulmani si allearono con le élites locali e crearono piccoli Stati islamici, le città-stato della costa. Nel XIV secolo si era formata una nuova società africana profondamente mutata dal contatto con l’Islam e nota come società swahili (da sahil, costa). I portoghesi dovettero rivaleggiare con i navigatori musulmani per il controllo del ricchissimo commercio dell’Oceano Indiano quando giunsero su queste coste, fra Quattrocento e Cinquecento. I portoghesi presero rapidamente il controllo dei grandi centri commerciali dell’Oceano Indiano e cercarono poi di penetrare lungo le vie commerciali all’interno dell’Africa offrendo in cambio dell’oro africano le richiestissime armi da fuoco. Fu anche grazie a queste ultime se la penetrazione islamica in corso nel Corno d’Africa venne contrastata. La competizione fra le terre basse della costa, islamizzate, e le terre alte dell’altipiano cristiano era prossima a un decisivo scontro militare che minacciava di far soccombere il bastione africano della cristianità e portò i cattolici portoghesi a impegnarsi in difesa dell’Etiopia: nel 1542 cristiani e musulmani si affrontarono nei pressi del lago Tana, in Etiopia, dove le forze musulmane, già indebolite da una serie di contrasti interni, furono sbaragliate. Dopo un secolo di controllo dei portoghesi sulla costa swahili, inglesi e olandesi giungeranno a contrastarne la supremazia. Anche gli arabi torneranno su queste coste, ma dopo una breve riconquista, rimarrà loro soltanto Zanzibar. 3.4 L’Islam attraversa il Sahara Fu partendo dalle roccaforti islamiche rapidamente insediate in Nord Africa che i musulmani – sia arabi che berberi, ma soprattutto berberi – si spinsero a sud non come conquistatori, ma come mercanti, lungo i tracciati di transito attraverso il Sahara. La più difficile e lenta via di penetrazione verso sud fu quella egiziana. Risalendo il fiume Nilo, i musulmani incontrarono la resistenza dei regni cristiani di Nubia. L’islamizzazione e l’arabizzazione dell’area sudanese nilotica furono quindi molto tarde, sviluppandosi fra XI e XVIII secolo. In Africa occidentale, nella fascia di savana compresa fra il deserto e la foresta tropicale, al crocevia dei commerci, si erano affermati nei secoli vasti e potenti imperi come il Ghana, il Mali e il Songhay. Questi antichi regni sudanesi mettevano in contatto il Mediterraneo con le foreste africane, fra i fiumi Senegal e Niger. Lo scambio dell’oro della savana con il sale sahariano era il fondamento del commercio che si svolgeva attraverso il deserto. Nelle regioni sudanesi dell’Africa occidentale, l’incontro con la cultura islamica fu essenzialmente pacifico. Inizialmente, fra l’800 e il 1300, le colonie di mercanti musulmani strinsero alleanze politiche con le élites locali. La nuova fede fu adottata nell’area del commercio sudanese dalla fine dell’XI secolo: l’Islam offriva misure e standard uniformi molto utili al commercio; inoltre, la cultura scritta diffusa dal nuovo credo offriva gli strumenti per un più saldo controllo politico dei vasti territori imperiali; infine, l’Islam si proponeva anche, in prospettiva, come culto unificante per gli imperi multietnici dell’area. Ciononostante, l’Islam rimase a lungo, in Africa occidentale, un culto riservato alle classi dominanti e confinato ai principali centri urbani e mercantili. La gran parte delle popolazioni degli imperi di Mali, Songhay e Bornu non si convertì. In generale, la diffusione dell’Islam in Africa occidentale diede agli africani a sud del Sahara una buona ragione per attraversare, volontariamente, il deserto. Fino ad allora, infatti, i neri erano giunti in Nord Africa in maggioranza come schiavi. Il compimento del dovere islamico dello hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, fu per le avanguardie nere una vera e propria scoperta del Mediterraneo. Questi contatti favorirono le relazioni diplomatiche fra le terre a nord e a sud del Sahara e la lingua del culto, l’arabo, diventò lingua veicolare. 3.5 Potere e istituzioni Ovunque si sia propagato, l’Islam ha favorito la creazione di comunità molto ampie rendendo possibile, in nome della comune fede religiosa, il superamento di ataviche rivalità fra clan e gruppi sociali che una volta convertiti erano spinti a ridefinirsi in termini islamici. Ciò ha favorito anche il consolidamento del potere politico in quelle aree e la formazione di articolati tessuti istituzionali. In particolare, l’affermazione di un autorevole ceto religioso, con un ruolo di eccellenza sul piano istituzionale, è un tratto comune alle varie società islamiche. La storia del potere nell’Islam è anche la storia di una continua ricerca di legittimazione islamica per espressioni di autorità politica fra le più varie. Nell’esperienza storica, alla prova dei secoli, il califfato delle origini (la forma tipicamente islamica del potere che vede al suo vertice il califfo, sostituto/vicario di Maometto) dovette cedere il passo al più terreno e di gran lunga meno virtuoso Stato patrimoniale dei sultani (le guide temporali, espressioni del potere politico e militare al servizio dell’Islam). Nonostante l’unicità della umma, la comunità islamica fu in realtà estremamente frammentata ed è necessario parlare piuttosto, al plurale, di società islamiche. Soprattutto in Africa. Così, se le istituzioni politiche dell’Africa del Nord rivelano un grado di parentela più o meno stretta con quelle sorte nel Mashreq, avendone condiviso gli sviluppi dell’ordine califfale, le istituzioni elaborate dalle società africane dell’area sudanese o della costa swahili presentano notevoli caratteri di originalità. Nel Maghreb, l’Islam offrì ai berberi e agli arabi immigrati da oriente gli strumenti per esprimere autonome formazioni statali che divennero estesi e raffinati imperi. La formula califfale fornì la cornice istituzionale coerente per la nuova appartenenza, tutta religiosamente definita, che si raccoglieva intorno all’Islam. Il lessico islamico divenne dominante non solo nell’ambito del culto, ma in larga parte delle pratiche politiche e sociali. termini di tempo, interessa comunque una porzione abbastanza ridotta del totale degli individui esportati dal continente dal XVI secolo in poi. Le destinazioni principali erano l’Impero Ottomano e più in generale il Nordafrica e il Medio Oriente. In subordine si aggiunge la domanda dei portoghesi per i loro insediamenti in India. La tratta transatlantica, iniziata dai portoghesi in seguito allo stabilimento di basi commerciali lungo la costa dell’Africa occidentale, acquisisce dimensioni sempre più rilevanti a partire dalla fine del XVI secolo, quando gli schiavi africani cominciano a essere impiegati su scala crescente nei nuovi domini coloniali nell’America tropicale ed equatoriale. Gli schiavi vengono sfruttati dapprima nella coltivazione intensiva della canna da zucchero; nel XVIII secolo, rientrato il boom dello zucchero, prevarranno altre tipologie di attività, come ad esempio l’estrazione mineraria e la produzione cotoniera. A rendere estremamente profittevole un’operazione laboriosa e rischiosa come il trasferimento transoceanico e il reinsediamento di grandi numeri di esseri umani è il costo reale dell’acquisto degli schiavi sul mercato africano. Diverse compagnie di navigazione, europee ed americane, sorgono e si specializzano in questo traffico, che tocca l’apice fra la metà del Seicento e gli ultimi decenni del Settecento. I loro interlocutori sono gli africani che procurano gli schiavi e che li convogliano verso i centri di raccolta e le coste. Lo scambio ha luogo su basi triangolari, mediante navi che viaggiano sempre a pieno carico: gli schiavi vengono solitamente acquistati pagandone il controvalore ai venditori e mediatori locali in beni manufatti acquistati in Europa e quindi, esaurito il carico di mercanzie e riempite le stive di uomini e donne, questi sono rivenduti nelle Americhe e il ricavato della transazione è reimpiegato nell’acquisto di materie prime lì prodotte e portate sul mercato europeo. Il grande boom della richiesta di schiavi nella seconda metà del Seicento si accompagna a una graduale tendenza dei prezzi a salire, causata specialmente dall’aumento della concorrenza nel settore. Nell’ultimo decennio del Settecento la riproduzione naturale della manodopera schiava americana determina una rimarchevole riduzione della domanda di rimpiazzo con nuovi elementi importati dall’Africa. La contrazione di tutto questo settore commerciale contribuisce a sveltire i tempi del superamento e quindi del graduale spegnimento della tratta negriera, interagendo con un movimento abolizionista su basi umanitarie (cristianesimo, illuminismo) ormai maturo in molti paesi europei. Fra i primi paesi ad abolire il commercio degli schiavi, nei primi anni novanta del Settecento, ci furono la Danimarca e la Francia rivoluzionaria, che tuttavia riaprì la tratta nell’epoca napoleonica, e quindi l’Inghilterra (1807), gli Stati Uniti (1808), l’Olanda (1814), la Svezia (1815) e, definitivamente, la Francia (1815-30), gradualmente, il Portogallo. La tratta atlantica ha interessato principalmente la regione del Senegambia, la Costa d’Oro, la Costa degli Schiavi – odierni Togo, Benin, Nigeria – e le regioni comprese fra Gabon e Angola, ma anche il Mozambico. Le stime più accreditate del totale degli africani deportati Atlantico si collocano fra i 9 e i 12 milioni. La tratta orientale, malgrado il suo prolungamento ben dentro il XIX secolo e forse il XX secolo, dovrebbe aver coinvolto circa 3,5 milioni di persone. La guerra è una gran produttrice di schiavi, ma solo in certe situazioni, aree ed epoche vediamo guerre mosse appositamente allo scopo di procurarsi schiavi. Molto spesso gli schiavi possono essere raccolti sotto forma di tributo. Dopo una guerra, l’eventuale surplus di prigionieri prende la via della vendita agli europei. I poteri che procacciano gli schiavi per il commercio – sia quello transatlantico che quello orientale – sono in primo luogo grandi accumulatori di schiavi per se stessi, per i propri usi interni. 4.3 Gli effetti del commercio di schiavi sull’agricoltura forestale: il caso del mondo akan Gli spostamenti di persone e di capitali messi in moto dalla tratta negriera concorrono a trasformare le istituzioni e l’economia dell’Africa e soprattutto delle regioni che partecipano più o meno attivamente alle operazioni di cattura, trasporto, impiego e smercio della manodopera coatta. Lo storico e africanista britannico Ivor Wilks ha condotto una brillante ricerca sugli effetti dello sviluppo dell’economia di tratta nel mondo akan, compreso oggi fra Ghana e Costa d’Avorio. Le società akan si dimostrarono perfettamente attrezzate per adattarsi rapidamente al nuovo sistema dell’economia atlantica, la cui messa in opera coincide con un grande processo di trasformazione socio-economica nelle regioni forestali ovest-africane. Wilks ipotizza in particolare un rapido passaggio, nel corso del XV e XVI secolo, da un’economia forestale basata principalmente su caccia e raccolta – a bassa densità di popolazione – a una precipuamente strutturata intorno a sistemi di produzione agricola atti a soddisfare le esigenze di comunità in rapida crescita numerica. Il processo di trasformazione è reso possibile da una congiuntura che si muove fra la crescente domanda d’oro sul mercato mondiale e la locale domanda di manodopera: in questa fase le aree forestali sono importatrici nette di schiavi di varia provenienza, una parte dei quali è ottenuta attraverso pagamenti in oro estratto localmente. Coloro che controllano la produzione dell’oro divengono i principali acquirenti di manodopera coatta, che reimpiegano nell’espansione delle attività minerarie e agricole. Durante la seconda metà del Seicento gli schiavi superano l’oro come merce d’esportazione più richiesta dalla regione akan: interlocutori privilegiati degli europei diventano allora sempre più alcune entità politiche – militarmente organizzate e con propensioni espansionistiche – che vanno consolidandosi nell’interno a spese della rete akani, che invece si sfalda progressivamente. La dinamica di conquista militare su vasta scala messa in atto dalle entità politiche “imperiali” dell’interno provoca uno straordinario aumento della disponibilità di prigionieri di guerra, che trovano pronta collocazione a soddisfare la crescente richiesta degli europei della costa. Nel corso del Settecento, con il consolidamento dell’Asante si afferma completamente un nuovo tipo di formazione imperiale-agraria. La parte centrale dell’Asante conosce una forte espansione economica e demografica, mentre il prospero settore rurale viene a costituire un’importante base sociale del sistema imperiale-agrario. Nello stesso tempo gli schiavi sono sempre più destinati alla produzione agricola, specialmente per soddisfare le richieste delle città, mentre decresce il loro impiego nell’estrazione aurifera, dove sono sostituiti da uomini liberi. 4.4 Panoramica continentale Il XV secolo vede sorgere un nuovo potere nella regione dell’ansa del Niger che gradualmente rimpiazza l’antica egemonia del Mali. Riorganizzato in chiave centralistica e filo-islamica, l’impero Songhay tiene sotto la sua giurisdizione l’intero Sudan centro-occidentale durante la prima metà del XVI secolo, mentre le sue metropoli (Gao, Timbuktu, Walata, Jenne) conoscono un’eccezionale fioritura urbanistica, demografica e culturale. Alla fine del XVI secolo il Songhay è dilaniato da conflittualità interna e il suo declino è determinato dal Marocco, che voleva inserirsi nei traffici di oro transahariani. Invaso dal Marocco nel 1591, rifiuta la sottomissione e continua a governare l’area fino al 1660, anno dell’inizio dello smembramento da cui emergono piccoli regni. La dinamica centrifuga che tiene dietro alla caduta del Songhay, insieme alla pressione marocchina, contribuisce sostanzialmente alla diffusione dell’Islam in Africa occidentale. Parti delle comunità fulani – diffuse storicamente nella fascia di savana dell’Africa occidentale ma presenti fino al Mar Rosso e all’Africa sudorientale – costituiscono, a partire dal Settecento, un fondamentale fattore di islamizzazione. Procedendo verso oriente, i due potenti e organizzati regni “pagani” dei bambara di Karta e Segu sorsero, nel XVII secolo, dalle ceneri dell’antico impero del Mali. A sud della grande ansa del Niger, gli Stati mossi, a lungo refrattari all’Islam, conservano la propria secolare indipendenza. Ouagadougou, lo Stato mossi più importante fino alla conquista francese, esercita attivamente la razzia schiavistica contro le deboli popolazioni circostanti, commerciando con i paesi del Niger e della costa atlantica. A est del Niger e a settentrione del Benue, le città-stato hausa, rette da dinastie almeno parzialmente islamizzate, conservano una spiccata individualità politica e commerciale. A sud della fascia saheliana, in zone di savana e perfino in piena foresta tropicale, vanno formandosi e affermandosi nuove entità statali. Seppure in modi diversi, queste sono tutte connesse con il nuovo sistema di traffici instaurato dagli europei lungo la costa guineana a partire dalla fine del XV secolo e sviluppatosi durante i tre secoli seguenti intorno al commercio aurifero e quindi all’esportazione di schiavi alla volta delle Americhe. Nato verso la fine del XVII secolo fra gli akan delle regioni forestali della Costa d’Oro, l’Asante si organizza rapidamente in un sistema politico stabile e unitario. Grazie a un sensazionale processo di espansione militare, l’Asante assurge durante il XVIII secolo a principale interlocutore dei numerosi insediamenti commerciali europei della Costa d’Oro e governa con metodi efficienti un impero più esteso dell’odierno Ghana. Non distante dal delta oceanico del Niger si trova il regno del Benin, che entra in attivi rapporti con i portoghesi, di cui resta la principale controparte commerciale nel Golfo di Guinea e con i quali scambia schiavi, avorio, olio di palma, pepe. A nord-ovest del Benin, lo stato yoruba di Oyo conosce nel XVII secolo una fase di prosperità grazie al controllo del Dahomey e del mercato negriero; dopo la sua caduta (1831-33), la metà settentrionale del mondo yoruba si islamizza. Per quanto di dimensioni limitate, il regno del Dahomey è uno degli Stati più forti e centralizzati nell’Africa del XVIII e XIX secolo. Sottomesso dal regno di Oyo nel 1738, si si emancipa e si riorganizza militarmente nella seconda metà del Settecento e per alcuni decenni, quando l’epoca della tratta è ormai al crepuscolo, diventa il maggiore Stato esportatore di schiavi nel Golfo di Guinea. In Africa orientale, fra Nilo Bianco e Nilo Blu, la seconda metà del Quattrocento vede l’organizzazione di uno Stato musulmano controllato da una confederazione di tribù arabe, il regno del Funj. Nel Seicento il Kordofan e la Nubia sono oggetto di attività espansive e di razzia schiavistica da parte del sultano funj. Il Darfur viene stabilito come sultanato dei gruppi fur nella prima metà del Seicento; questi islamizzano a fondo la regione, dove si erano stabiliti gruppi di lingua araba. Il sultanato entra in declino nei primi anni del Novecento e finirà per soccombere al potere egiziano qualche decennio più tardi. Più a sud, sul Nilo Bianco, va costituendosi entro la metà del Seicento il regno Shilluk, che non sarà sostanzialmente toccato dall’islamizzazione. Lo Stato etiopico tocca l’apice della propria potenza ed espansione nel cuore del Quattrocento, ma nel secolo successivo il potere centrale declina; nel 1527 il regno cristiano dell’altipiano viene investito da un jihad (lo storico monastero di Debra Libanos andò distrutto con tutti i suoi tesori); i portoghesi intervengono in aiuto agli etiopi, che sconfiggono l’invasore e respingono i Turchi. La successiva minaccia è rappresentata dagli oromo, nomadi provenienti da Sud che penetrano in Etiopia acquisendo un potere sempre maggiore; nella prima metà del Seicento la capitale viene spostata a Gondar. Molto più a sud, un altro gruppo di seminomadi, con istituzioni politiche deboli, i masai, occupa un ruolo cruciale sugli altipiani a est del Lago Vittoria, negli odierni Kenya e Tanzania. I masai stabiliscono la loro egemonia sui circostanti agricoltori di lingua bantu, conservando questo potere fino alla fine del XIX secolo. Nella regione dei Grandi Laghi, la grande migrazione Iwo determina la nascita di una serie di nuovi gruppi e interviene nella storia di diverse entità preesistenti, come ad esempio il regno di Bunyoro. Appena a sud-ovest, le di attori urbani e rurali in grado di mettere a coltura parte della propria terra o di procurarsi nella foresta le materie prime commerciabili. La fine della tratta non causa subito sovvertimenti rivoluzionari degli equilibri socio-politici esistenti. Questo è vero anche nei casi di quelle entità politiche per le quali la vendita di schiavi aveva costituito un importantissimo canale di accumulo: si pensi al Dahomey, all’Asante e ad altri Stati dell’Africa occidentale. Quasi tutti si dimostrano in grado di gestire con successo la ristrutturazione del proprio inserimento in un’economia mondiale capitalistica che ormai fa a meno di quella che era stata la loro specializzazione produttiva. Anche i grandi jihad che cambiano la carta politica di gran parte dell’Africa occidentale, spazzando via antiche dinastie e creando nuovi Stati islamici, non producono cambiamenti strutturali nell’ordine sociale e produttivo precedente. 5.3 Reti commerciali e dinamiche di integrazione economica e culturale L’Ottocento è il secolo in cui si realizza la saldatura fra i tre grandi sistemi commerciali del continente: quello atlantico, quello mediterraneo e quello dell’Oceano Indiano. Tale processo ha vaste ripercussioni d’ordine socio-economico per una gran parte delle società dell’Africa a sud del Sahara. Innanzitutto si accelera un processo di integrazione che coinvolge anche le reti locali di scambio, incentivando lo sviluppo di una cultura del commercio più autonoma che in passato rispetto ai condizionamenti del potere politico. In alcune aree – in particolare in Africa centrale e orientale – si affermano nuove forme di status acquisito grazie all’iniziativa individuale in concorrenza con lo status trasmesso per nascita: in pratica si sviluppano nuovi gruppi dirigenti politici di estrazione commerciale. Infine, il commercio su lunga distanza accelera esponenzialmente la diffusione di specifici tratti comportamentali e linguistici unificanti. Ad esempio, il kiswahili si estende come lingua franca in Africa centro-orientale, portando con sé una cultura peculiare e, entro certi limiti, veicolando anche forme di Islam. Nel corso del secolo anche le attività commerciali europee si espandono rapidamente; tuttavia, l’espansione è resa possibile dalle reti preesistenti di commercio regionale e locale e rimane strettamente condizionata da esse. Un’area importante di cambiamento è quella religiosa. L’Ottocento vede un’eccezionale ondata di espansione musulmana, che fa di un Islam che tradizionalmente era una religione delle élites e di gruppi urbani e mercantili la fede predominante anche in molte aree rurali, almeno in Africa occidentale e nella valle del Nilo. Una consistente diffusione di comunità musulmane è in atto anche nell’Africa orientale e giunge a lambire le regioni del bacino del Congo. Il cristianesimo conosce una notevole diffusione dopo la metà del secolo, sebbene con un impatto complessivamente minore rispetto all’Islam, con l’eccezione dell’Etiopia e di casi in Africa australe (segnatamente il Lesotho). 5.4 Il rafforzamento dello Stato L’Ottocento fa segnare in quasi tutto il continente un rafforzamento delle istituzioni politiche africane e un’estensione notevolissima delle loro capacità di controllo del territorio con una riduzione drastica dei margini di autonomia delle comunità rurali. La regione sudanese è interessata nell’Ottocento da una serie di processi che ne ristrutturano il quadro politico e che determinano anche la nascita di entità politico- territoriale nuove, alcune delle quali ad accentuata impronta islamica. Un jihad guidato dal riformatore islamico fulani Othman dan Fodio investe le città-stato hausa, dando vita al maggiore sconvolgimento politico e religioso nella storia della regione prima della conquista coloniale: le case regali indigene della regione vengono sostituite con emirati ortodossi, soggetti all’autorità califfale che si insedia a Sokoto. Fondato nel 1804, il califfato di Sokoto è senza dubbio una delle maggiori entità territoriali, demografiche e militari dell’Africa subsahariana, con una forte struttura politica e capacità d’azione dello Stato e controllato da un gruppo dirigente letterato in hausa e arabo che dà origine a un’articolazione burocratica in senso stretto – caso quasi unico in Africa subsahariana, a parte l’Etiopia – e a un sistema giudiziario formalizzato in termini islamici, con giudici religiosi che applicano la sharia, la legge coranica. Diviso in emirati, il dominio di Sokoto si estende con conquiste militari fino agli odierni Niger e Camerun. Poco dopo il 1815 un altro dotto fulani riesce a sollevare i fulani del Macina, sull’alto corso del Niger, contro l’egemonia dello stato bambara di Segu, creando un altro califfato. Qualche decennio più tardi, una nuova ondata islamista nelle regioni fulani porterà alla sottomissione del regno bambara di Kaarta e alla fondazione dell’impero Tekrur o Tukulor. Solo in parte riconducibile al filone dei costruttori di regni e imperi che tentano di ristabilire l’antica unità sudanese intorno alle istituzioni universali dell’Islam è la figura di Samori Touré, che fra il 1874 e il 1898 fonda due grandi entità imperiali nell’area compresa tra il Futa Jalon a ovest e il fiume Volta a est. Il crollo del potere politico e militare di Oyo comporta l’islamizzazione della parte settentrionale del mondo yoruba con la definizione di una porosa ma duratura frontiera religiosa e culturale fra nord nigeriano islamizzato e sud tradizionalista, e successivamente in parte cristiano. Controllato da una forte monarchia, il Dahomey – paese piccolo ma militarmente potente – conosce un processo di concentrazione del potere e di articolazione delle funzioni dello Stato che tocca il culmine tra il 1818 e il 1858. L’Asante ha completato nell’Ottocento la costruzione della propria sfera di dominazione imperiale. Oltre che il principale interlocutore commerciale, l’Asante è anche il più temibile concorrente politico-militare per le deboli presenze europee nella linea dei forti costieri. L’Asante costituisce di gran lunga la maggiore e meglio organizzata entità politica dell’Africa forestale. Per quanto riguarda la parte nord-orientale del continente, dagli anni venti lo Stato egiziano, controllato dalla dinastia creata da Muhammad Ali, si espande progressivamente nell’alto bacino del Nilo (odierno Sudan), anche sulle spoglie di entità politiche già musulmane oltre che contro una serie di società non islamizzate. Una posizione del tutto peculiare detiene lo Stato etiopico, a forte impronta cristiana, ma con una presenza islamica più che cospicua, arroccato negli altipiani del Corno d’Africa attorno a una dinastia che pretende di discendere da Salomone. Nella regione dei Grandi Laghi troviamo Stati fortemente accentrati come il Buganda e il Bunyoro nell’odierno Uganda. Questa regione vede, nell’Ottocento, un’attiva presenza islamica. Poco a sud, il Ruanda consegue pressappoco gli attuali confini; lo Stato, assai centralizzato, vede una spiccata separatezza fra l’elemento dominante tutsi e la maggioranza di coltivatori hutu. La dinastia dell’Oman, che nel 1824 trasferisce la propria capitale nell’isola di Zanzibar, costruisce un impero commerciale e politico imperniato sulla costa swahili. La statualità ottocentesca nelle regioni forestali congolesi è profondamente segnata dallo sviluppo della rete transcontinentale promossa dai mercanti arabo-swahili. Nel corso del secolo, operatori commerciali (Msiri, Tippu Tib, Mirambo) connessi con questa rete costruiscono vasti domini personali sulle spoglie della disgregazione degli imperi luba e lunda nella regione congolese. Più a sud, all’inizio dell’Ottocento viene costituita la colonia inglese del Capo di Buona Speranza, mediante l’occupazione del precedente possedimento olandese. Nei decenni successivi, lo spostamento nell’interno di gruppi di ex sudditi olandesi, con un seguito di loro schiavi, servi e clienti meticci e neri, celebrato dalla tradizione boera come il Grande Trek, darà origine alle comunità boere di Transvaal, Orange e Natal (quest’ultimo annesso dalla Gran Bretagna nel 1843). La più poderosa entità politica indigena ottocentesca in Africa australe è costituita dal regno zulu, creato intorno al 1816 da Shaka, che lo trasformerà l’entità zulu in un’efficiente macchina bellica. In connessione con la nascita dello Stato zulu, tutta la sezione orientale dell’Africa australe è interessata da un epocale processo di migrazione di popoli indigeni noto come mfecane. Questo movimento provoca la distruzione di una serie di precedenti entità politiche e la creazione di nuove formazioni statali: in primo luogo il regno zulu, ma anche lo Swaziland, il Lesotho, il Bechuanaland (Botswana) e il regno ndebele sull’altipiano dell’odierno Zimbabwe. Accanto a questa serie di Stati e imperi più o meno vasti, organizzati, militarmente temibili, continuano a esistere ampie aree abitate da società prive di istituzioni centralizzate, con sistemi politici ad autorità debole e diffusa. 5.5 Cambiamento e politiche di riforma La seconda metà del XIX secolo è l’epoca in cui molti Stati africani tentano di completare la ristrutturazione della propria inserzione nel sistema mondiale attraverso processi definibili di “modernizzazione”. In certi casi si tratta eminentemente della volontà da parte dei gruppi dirigenti di accedere a nuove tecnologie e nuovi metodi di accumulo di risorse, e allora la modernizzazione investe principalmente il settore militare e aree produttive come il minerario e in certi casi l’agricoltura da piantagione. In altri casi ci si avvia sulla strada di tentativi più ambiziosi di trasformazione culturale, favorendo ad esempio il cambiamento religioso e la diffusione di forme di alfabetizzazione e istruzione. Si tratta di storie molto complesse ed estremamente diversificate. Nella Costa d’Oro fra gli anni sessanta e settanta si sviluppa l’esperienza della Confederazione Fante, in cui si prefigura un governo congiunto di capi e di “istruiti” che rappresentano la borghesia commerciale. Viene inoltre avviata la creazione di un esercito nazionale, l’impianto di un sistema scolastico e altre innovazioni modernizzanti. Nell’impero Asante, a partire dagli anni quaranta il gruppo dirigente comincia a discutere opzioni strategiche quali l’introduzione della scrittura e una moderata apertura all’educazione e al cristianesimo, ma alla fine prevale un rifiuto. Il breve regno di Mensa Bonsu (1874-1883) vede una politica di modernizzazione militare. Il governo asante stipula una serie di accordi con imprese europee interessate a concessioni di estrazione aurifera e attività di sfruttamento forestale. I contratti prevedono, fra l’altro, realizzazioni infrastrutturali ma anche l’inaugurazione di scuole professionali. Nella regione dei Grandi Laghi, l’esempio più articolato di riformismo “modernizzante” ottocentesco è rappresentato dal regno del Buganda, che tra il 1860 e il 1884 opera una riforma militare, attuando una politica centralizzatrice. Nello Stato etiopico la ricostruzione politico-culturale nazionale coincide con un processo di espansione imperiale nel corso del quale viene raggiunto un buon equilibrio fra le istituzioni portanti: monarchia, Chiesa copta ortodossa e aristocrazie provinciali. Il primo grande riformatore dell’Etiopia ottocentesca è un notabile del Tigre, Kassa, che assume la corona col nome di Teodoro II (1855-1868). Il negus colpisce l’autonomia dei grandi feudatari, centralizza il potere e tenta di ridurre l’indipendenza d’azione della Chiesa. Più avanti, Menelik II (1889-1913) si dedica al compimento di conquiste territoriali portando l’Etiopia ai confini attuali; non fu una semplice espansione territoriale perché Menelik aveva di mira il controllo delle vie del traffico continentale per assicurarsi le merci più lucrative e rifornirsi di armi. Denunciato nel 1893 il Trattato di Uccialli e respinta nel 1896 ad Adua un’offensiva dell’esercito italiano, Menelik rafforza la posizione internazionale dell’Etiopia, avviando un processo di acquisizioni tecnologiche, specialmente Finché possibile, l’esercizio della giurisdizione europea in Africa restò affidato alle compagnie a Carta (chartered companies), che amministravano e sfruttavano territori immensi in regime di monopolio commerciale senza assumerne direttamente il controllo politico e senza responsabilità finanziarie. Furono le compagnie commerciali a inaugurare la prassi di sottoscrivere convenzioni o trattati per assicurare il libero commercio e la libertà di accesso di commercianti, missionari e prodotti europei. Nel complesso, quelle concessioni si traducevano in una perdita di sovranità per l’Africa. Tuttavia, una politica in Africa che fosse veramente efficace non poteva essere svolta per intero dai privati o dalle compagnie. 6.3 Imperialismo e colonialismo nella teoria e nella pratica Di colonialismo o imperialismo coloniale in Africa si può parlare solo con gli anni intorno al 1880. Al processo di accaparramento dell’Africa ad opera delle nazioni dell’Europa contribuirono motivi economici e politici, ambizioni personali, ricerca di prestigio. Le rivalità infraeuropee, in primis la rinnovata e più diretta rivalità in campo coloniale fra la Francia e la Gran Bretagna, sono una causa o una concausa del cosiddetto Scramble for Africa. Dall’altra parte concorrono gli effetti delle crisi che si accendono nella stessa Africa. Senza dubbio i fattori economici scandiscono i tempi e i modi della spartizione dell’Africa. È l’evoluzione del capitalismo in Europa con la caduta della rendita che stimola le potenze europee a cercare altrove sbocchi, risorse e mercati. La storia dell’epopea coloniale è indistinguibile dalla storia dell’accumulazione del capitale. I contenuti economici dell’imperialismo non possono essere ridotti al solo aspetto del profitto misurato in termini quantitativi: si pensi agli effetti sul piano del consenso e dell’integrazione sociale che derivano dalla conquista di beni e mercati in Africa e all’euforia nazionalistica promossa dall’imperialismo, investendo e coinvolgendo anche le classi subalterne. La spartizione stessa non seguiva necessariamente una ratio economica. Molto forti erano la seduzione esercitata da obiettivi strategici come il Canale di Suez o certe predilezioni di carattere storico o psicologico (il mare nostrum è stato un tema ricorrente per giustificare l’espansione dell’Italia). La filantropia, la scienza, i progressi in campo medico, la religione e persino l’arte, un nuovo gusto estetico, congiurano a favore dell’imperialismo. La “cultura dell’impero” (Edward Said) galvanizzava le energie della società metropolitana con il progetto esaltante di creare “imperi”. Le opposizioni al colonialismo furono limitate ad ambienti ristretti. Non sono solo i conservatori a predicare la grandezza dell’Europa e dei suoi figli al di là del mare, perché anche i socialisti sono lusingati dall’idea di esportare il progresso e il capitalismo nei paesi arretrati per poter avviare anche qui la lotta di classe. L’ordine coloniale si fonda su una nuova alleanza fra europei e africani, con un progressivo spostamento del fulcro dai nodi commerciali agli apparati per l’amministrazione. Se l’Europa abbandona l’imperialismo informale o del free trade per la conquista, con i suoi prezzi militari e gestionali, è perché le circostanze locali non permettono più un’integrazione economica e strategica delle “terre esterne” senza l’esercizio di una potestà diretta. Sono le stesse élites africane più interessate alla modernità e stabilità fatte presagire dagli europei ad attirare una presenza che si risolverà nell’esproprio della sovranità, collaborando a vario titolo con il colonialismo. 6.4 Avvio dello Scramble for Africa L’accaparramento delle terre africane ebbe inizio nel 1876 e fu completato entro il decennio ottanta del XIX secolo, con un’ultima decisiva impennata nel 1895-96. Il cardine è il 1885, l’anno di chiusura della Conferenza di Berlino sull’Africa. La conquista fu in parte improvvisata, crisi dopo crisi, territorio dopo territorio. In questi 15-20 anni tutta l’Africa fu assorbita negli imperi dei maggiori stati europei. Il rush della spartizione prese le mosse come una sfida fra Gran Bretagna e Francia con l’interferenza tedesca. La Germania in Africa si trova più spesso a fianco della Francia, per contenere lo strapotere di Londra, ma anche con il sottinteso di dare così uno sfogo alle frustrazioni della Francia dopo la disfatta del 1870 distraendola dalle “province perdute” dell’Alsazia e Lorena. Per l’escalation precipitosa verso il colonialismo globale è determinante il ruolo della Gran Bretagna, che nel 1882 interviene in Egitto per piegare Arabi Pascià. Malgrado l’opposizione di Francia e Germania, l’insediamento inglese in Egitto divenne permanente, ancorché con denominazioni che cambiarono nel tempo (occupazione militare, protettorato). Dopo un’iniziale diffidenza, anche la Germania di Bismarck si decise a entrare nella corsa scoprendosi una vocazione coloniale. Un ruolo del tutto speciale toccò a Leopoldo II del Belgio, che agiva a titolo personale per il tramite dell’Associazione africana internazionale e con i fondi della Société Générale. Decisiva fu la collaborazione ai suoi progetti del giornalista americano Henry M. Stanley con i suoi viaggi attraverso l’Africa da est a ovest raggiungendo il fiume Congo. I preparativi del re del Belgio per la costituzione di un vero e proprio Stato coloniale nel cuore stesso dell’Africa affrettarono i tempi dello Scramble. Ufficialmente l’Associazione internazionale del Congo, sotto la cui egida Stanley compì spedizioni e stipulò trattati, diceva di voler promuovere il libero scambio e la civiltà, ma tutti i resoconti sulle sue attività mostravano chiaramente che si stava costruendo un gigantesco monopolio economico. Le potenze si sentirono costrette a seguirne l’esempio fissando le loro posizioni sul terreno, anzitutto nel bacino del Congo e poi in tutta l’Africa centrale e occidentale. Il desiderio di rivincita sulla Gran Bretagna per lo “strappo” in Egitto portò a un’espansione ulteriore della Francia coprendo in breve tutta l’Africa occidentale. Dal Senegal intorno al 1880 fu lanciata l’offensiva che sarebbe proseguita verso e oltre l’alto corso del Niger, secondo un piano che avrebbe dovuto traversare tutto il continente dall’Atlantico al Mar Rosso e all’Oceano Indiano. La Germania approfittò del contenzioso franco-britannico dopo l’occupazione dell’Egitto per stipulare accordi di protettorato in Togo e Camerun nell’Africa occidentale, occupare il Tanganika nell’Africa orientale e consolidare un insediamento nell’Africa del Sud-Ovest (poi Namibia). La Gran Bretagna sarebbe emersa dallo Scramble come la superpotenza africana. Il suo disegno imperiale prevedeva un asse ininterrotto dal Cairo al Capo attraverso la valle del Nilo, i Grandi Laghi e le terre australi. Possedimenti inglesi furono costituiti anche nell’Africa occidentale, imperniati sulla Nigeria e la Costa d’Oro. 6.5 La diplomazia del colonialismo: la Conferenza di Berlino La Conferenza internazionale che si tenne a Berlino nel 1884-85 in realtà si limitò a stabilire quali dovessero essere le modalità per procedere in futuro all’occupazione e per il resto si dedicò soprattutto a sancire il principio del libero commercio nei bacini dei fiumi Congo e Niger. I capi politici del continente africano non furono nemmeno presi in considerazione come possibili partecipanti alla riunione, che vide invece sedersi ai tavoli delle trattative Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Spagna, Portogallo, Austria- Ungheria, Danimarca, Svezia, Russia, Turchia e Stati Uniti. Anche ricondotta alla sua vera portata, la Conferenza rappresentò di fatto una luce verde per la spartizione dell’Africa, o fu percepita come tale. Se nelle sessioni multilaterali non si discusse di spartizione, il tema signoreggiò nei negoziati bilaterali. Durante i lavori un’associazione privata ebbe un riconoscimento internazionale, quando fu proclamata la nascita dello Stato libero del Congo (1885) con Leopoldo come sovrano. E si andò anche oltre al Congo. Dei 38 articoli che compongono l’Atto finale della Conferenza di Berlino, due riguardano specificamente la penetrazione coloniale e la spartizione dell’Africa. In essi si prescrive che le potenze europee, per avere diritti validi sui territori africani, dovevano occupare la fascia costiera e impegnarsi ad assicurare l’esercizio di un’autorità valida nell’interno corrispondente; esse dovevano inoltre notificare in tempo alle altre potenze firmatarie l’avvenuta occupazione o gli atti giuridici sottoscritti con i sovrani e capi locali. Le prese di possesso cominciarono subito dopo. Anche se i territori in palio non erano affatto “vacanti”, la non coincidenza fra le forme della sovranità africana con le convenzioni istituzionali e territoriali legate allo Stato-nazione europeo contribuì a far precipitare quelle che potevano essere solo asserzioni di sfere d’influenza in monopoli commerciali e occupazioni territoriali. Gli africani, autorità e gruppi sociali emergenti, parteciparono in diverso modo, patteggiando o opponendosi, all’attuazione delle delibere prese a Berlino e nelle convenzioni bilaterali fra gli Stati firmatari. 6.6 La conquista fra resistenza e collaborazione Ovunque possibile gli africani difesero l’indipendenza e l’autorità costituita. Nella resistenza si distinsero le compagini statali organizzate, o in via di organizzazione proprio per opporsi alla penetrazione europea, ma in molti casi anche le stesse società senza Stato misero in atto forme valide di opposizione. La storiografia suole definire “resistenza primaria” questa lotta delle entità statali precoloniali nelle primissime fasi dell’impianto del colonialismo. Alla testa del movimento si posero autocrazie o oligarchie civili, militari o religiose, che difendevano anzitutto il proprio potere e, attraverso di esso, certe visioni della società. In molti casi l’occupazione fu il prodotto di trattative e compromessi, ma in molte situazioni furono necessarie vere e proprie guerre. Guerre coloniali furono combattute dalla Gran Bretagna nell’Asante, dall’Italia in Etiopia, dalla Francia nella regione guineana, nel Macina e in Madagascar. Lo squilibrio sul piano militare, soprattutto dopo le innovazioni tecniche degli armamenti introdotte in Europa con gli anni sessanta dell’Ottocento, fu il fattore determinante delle varie sconfitte degli africani. In alcune situazioni particolari, gli occupanti sfruttarono le rivalità interafricane, facendosi assistere dai nemici dei loro antagonisti immediati. Gli europei reclutarono anche forze indigene relativamente ben addestrate (come i tirailleurs sénégalais per la Francia, gli ascari d’Eritrea per l’Italia, i West African Rifles e gli indiani per la Gran Bretagna). Caso unico in tutta la storia dello Scramble, le truppe italiane furono battute e respinte dalle armate di Menelik, imperatore d’Etiopia, nei pressi di Adua nel 1896. Fenomeni a sé, dopo la conquista e a poteri coloniali ormai costituiti, furono le “ribellioni”, provocate dalla durezza della repressione, dall’odiosità dei tributi che venivano imposti, dal reclutamento coatto per l’esercito e le opere pubbliche, dall’alienazione delle terre o dal semplice ricordo della libertà e sovranità perdute. In un possedimento tedesco, l’Africa del Sud-Ovest, si consumò, nei primi anni del Novecento, una delle pagine più cruente del colonialismo in Africa con la rivolta degli herero e la successiva repressione. una carta politica di fine secolo. Sono ancora riconoscibili nelle loro frontiere l’Etiopia e la Liberia, rimaste indipendenti. E tuttavia, l’inserimento nei domini coloniali modifica grandemente gli assetti politico-istituzionali delle popolazioni interessate, ma non li sostituisce completamente con nuove istituzioni. Negli ultimi anni dell’Ottocento e nel primo decennio del Novecento sono molto comuni le situazioni in cui il conquistatore europeo, magari in parallelo ad azioni repressive contro le sacche di resistenza, persegue in maniera sistematica politiche di ricomposizione delle società assoggettate, cercando in particolare di ottenere una ricostituzione e ristrutturazione delle gerarchie locali ai fini del consolidamento del potere coloniale. Tuttavia, anche nelle regioni dove la resistenza alla conquista è meno esplicita e vivace, o dove prevale un atteggiamento complessivamente favorevole e i poteri locali rimangono in carica, si assiste comunque ad un allentamento, spesso assai accentuato, della loro effettiva capacità di controllo sociale ed esercizio di autorità. Nei primi lustri del Novecento la situazione di degrado del prestigio e del potere dei capi può essere drammatica: privati di gran parte dell’autorità e degli strumenti coercitivi di cui disponevano in passato, ma anche del controllo di procedure estrattive che consentivano loro di porsi quali centri di redistribuzione di risorse a vaste reti di clientela, agli occhi dei sudditi la posizione dei capi è in molti casi ulteriormente compromessa dal loro evidente ruolo di ingranaggi della macchina del potere coloniale. Costretti ad imporre l’esecuzione di provvedimenti impopolari voluti dal colonizzatore come lavoro coatto, tasse, ecc., divengono ostaggi sempre più indifesi dei meccanismi tradizionali di controllo della base sul vertice. D’altra parte, queste situazioni di conflittualità inducono il potere coloniale a stimare sostanzialmente inefficace l’operato dei capi come strumenti di governo e quanto meno aleatoria la loro capacità di controllo degli amministrati. 7.3 L’amministrazione delle società colonizzate Per tutta la prima metà del Novecento, le potenze coloniali sono impegnate nella ricerca del modo migliore per conseguire un equilibrio fra costi e gravami di gestione (finanziari, politici, umani), ottenimento del consenso o almeno della non conflittualità da parte delle popolazioni africane e perseguimento del profitto nello sfruttamento delle risorse; devono infatti giustificare davanti all’opinione pubblica – e specialmente ai cittadini che pagano le tasse – le spese per condurre avventure coloniali e mantenere apparati di dominio in terre remote. Le risposte date dalle diverse potenze coloniali a questi scopi fondamentali sono differenti, ma è ormai consuetudine indicare nei sistemi di gestione coloniale messi in atto da Francia e Gran Bretagna le tipologie più significative e rappresentative. L’assimilazione di stampo francese e l’amministrazione indiretta di stampo inglese si prestano bene a descrivere le due variazioni estreme di amministrazione coloniale in uno spettro di soluzioni intermedie. Le politiche di Francia e Gran Bretagna sono agli antipodi, ma le distanze sono meno accentuate una volta che si passa all’attuazione sul terreno. La Francia praticò in linea di massima una politica centralizzata e uniforme secondo il principio dell’assimilazione alla Repubblica unica e indivisibile: gli africani dovevano diventare sudditi della Francia, integrati nella sua cultura. Nei possedimenti francesi ci fu meno discriminazione razziale (il razzismo dei pieds-noirs in Algeria fa storia a sé), ma i territori francesi fecero più fatica a preservare la propria identità. Al razionalismo francese la Gran Bretagna contrappose un sistema più pragmatico e realista: applicò ove possibile l’amministrazione indiretta (indirect rule) impiegando le autorità tradizionali e lasciando che sotto la loro giurisdizione, in particolare nelle campagne, e quindi nella gestione della terra, sopravvivessero istituti di tipo comunitario o tributario. Il governatore generale, che rappresenta la corona inglese, assicura comunque l’unità del sistema. La società indigena fu organizzata a un livello separato e spesso inferiore, senza i diritti di cittadinanza, con le deviazioni razziste che ciò poteva comportare. Ovunque la Gran Bretagna evitò il meticciato. La politica coloniale della Germania, eseguita da soldati e mercanti, non dedicò attenzione agli indigeni, trattati come “materiale umano” in territori oggetto se necessario di espropriazione nell’interesse della metropoli e dei coloni. Le politiche di Belgio e Portogallo si iscrivono nel filone del governo diretto. Da un punto di vista amministrativo, il colonialismo francese opera tramite un sistema istituzionale modellato su quello della madrepatria e applicato uniformemente al complesso dell’impero coloniale, prescindendo dalle singole realtà politiche e territoriali precedenti. Si ha un esteso impiego di personale europeo, mentre il personale indigeno prevale a livello di cantone, ossia dell’unità amministrativa di livello inferiore; lo chef de canton è nominato dal governo coloniale e questa è la sua unica fonte di legittimità istituzionale, almeno formalmente. Le istituzioni sociali africane e le forme di organizzazione politica di origine precoloniale sono tollerate in prospettiva di un dominio contingente, ma sono destinate a essere sostituite da istituzioni modellate su quelle della Francia e gestite da personale francese. La reale pratica politica e amministrativa conosce inevitabilmente tutta una serie di aggiustamenti e compromessi anche macroscopici. Il sistema dell’indirect rule, o di amministrazione indiretta, che prevale nell’impero coloniale britannico rappresenta una politica che tende a governare i popoli assoggettati utilizzando le loro stesse istituzioni politiche. Con l’indirect rule i rappresentanti delle istituzioni politiche precoloniali vengono trasformati in gangli dell’organizzazione coloniale a livello locale. I monarchi e i capi indigeni vengono riconosciuti come legittimi governanti delle giurisdizioni che in epoca precoloniale avevano controllato come sovrani indipendenti. Il governo attribuisce loro poteri legislativi in base ai quali essi possono amministrare i propri territori e i propri sudditi per conto dello stato coloniale: raccolgono tasse e tributi, amministrano la giustizia (almeno fino a un certo livello), garantiscono l’ordine pubblico, si occupano di sanità e istruzione. Nell’analisi dei paesi colonizzati dall’Inghilterra è necessario tenere presenti le variabili specifiche che qualificano e differenziano in maniera sostanziale ogni singolo caso locale e che condizionano quindi l’applicazione di questo modello politico-amministrativo valido generalmente per l’Africa britannica. 7.4 Sviluppi economici e sociali Se le guerre coloniali e le successive campagne di pacificazione avevano portato a un calo della popolazione indigena in molte parti del continente, con il consolidamento dello stato coloniale e la fine dei conflitti le condizioni generali degli africani migliorarono gradualmente. A sostenere la curva positiva contribuirà un decollo delle economie coloniali legato allo sviluppo delle produzioni di agricoltura commerciale, che sfruttano una serie di buone congiunture di mercato praticamente sin quasi alla fine dell’era coloniale. Si verifica inoltre un miglioramento nei servizi sanitari resi disponibili dallo Stato coloniale o dai missionari, specialmente in termini di prevenzione e lotta alle epidemie, sanità neonatale, vaccinazioni, ecc. La popolazione africana comincia a crescere a tassi sostenuti. Il colonialismo interviene in maniera evidente sul rapporto fra le società africane e il territorio da esse occupato. Una rapida modificazione della distribuzione della popolazione accompagna in genere la creazione di infrastrutture dello Stato coloniale: strade, ferrovie, ponti, nuovi centri legati allo sfruttamento minerario o agricolo, nuovi centri amministrativi. L’urbanizzazione costituisce la manifestazione più visibile dell’ordine coloniale e delle sue preminenze strategiche di occupazione e sfruttamento del territorio, nonché delle sue dinamiche di sviluppo. Complessivamente si può dire che lo sviluppo urbano coloniale rappresenti un processo quasi del tutto nuovo e rivoluzionario in gran parte dell’Africa orientale, centrale e meridionale, mentre in Africa occidentale è più in linea con un’urbanizzazione locale avviata da più tempo. Con il colonialismo si completa il processo di integrazione dell’economia africana nell’economia mondiale. Contrariamente alle fasi ottocentesche di questo processo, che lasciavano molto spazio all’iniziativa locale, nella sua piena realizzazione esso è mediato dal controllo ferreo dei diversi poteri coloniali. Ogni colonia acquisì una sua specialità per il mercato mondiale dando luogo al fenomeno della “monocoltura” (un solo prodotto d’esportazione, agricolo o minerario). La colonizzazione comportò una grande crescita dell’economia nel suo insieme, ma specialmente in termini di dotazione infrastrutturale e sviluppo del settore minerario e dell’agricoltura commerciale. Il quadro di dipendenza è pervasivo: la produzione mineraria e le colture commerciali forniscono materie prime a un settore di trasformazione situato fuori dal continente. Le politiche produttive coloniali incoraggiano lo sviluppo dei settori redditizi in chiave di sfruttamento, ma trascurano ambiti di rilievo primario per la società locale, come la produzione alimentare. 7.5 Processi culturali e nuovi gruppi dirigenti Con la colonizzazione l’Africa è decisamente immessa nel contesto della cultura occidentale. Per tutto un ambito di rapporti cruciali, il nuovo tempo dell’Africa diviene, progressivamente ma rapidamente, quello scandito dal calendario gregoriano: si tratta di un mutamento epocale nella vita e nelle concezioni di intere società. Rispetto all’Ottocento, la scrittura amplia straordinariamente i propri spazi all’interno della vita e della cultura locali, divenendo lo strumento primo e fondamentale di promozione individuale per chi non controlli ricchezza. Le lingue dei dominatori divengono quelle ufficiali nei diversi territori e si impongono come parlate comune veicolari in ampie regioni. L’epoca coloniale promosse una certa diffusione dell’istruzione scolastica sul modello europeo, ma sarebbe eccessivo parlare di istruzione di massa. È da queste minoranze di istruiti che proviene comunque l’elemento umano che svolge un ruolo chiave non solo nella gestione dello Stato coloniale, ma anche nelle vicende legate all’indipendenza e quindi alla gestione dei nuovi Stati africani all’indomani della decolonizzazione. La sfera religiosa rappresenta un’altra area cruciale di continuità come di cambiamento. Il movimento di espansione dell’Islam proseguì in epoca coloniale, ma è il cristianesimo a far registrare una crescita prodigiosa, contendendo spazi e influenza alla fede musulmana e ancora più alle credenze indigene. Le Chiese cristiane erano presenti nell’Africa subsahariana anche prima della colonizzazione; tuttavia, la costituzione degli Stati coloniali sostiene e incentiva la capacità di espansione dell’opera missionaria, che si rivela preziosa in campi come l’alfabetizzazione e in genere il settore dell’istruzione di base e della sanità. Le missioni, bracci operativi delle rispettive Chiese con centro in Europa o in America, pongono anche le premesse per la costituzione o il rafforzamento di Chiese locali autonome. dell’Etiopia. In cambio, ottenne di farsi confermare il possedimento dell’Eritrea, che pure l’Etiopia considerava compresa nella propria sfera di sovranità come tradizionale sbocco al mare dell’impero. 8.3 Gli anni della Prima guerra mondiale L’attività coloniale italiana riprese nel XX secolo, quando nei vari scacchieri coloniali si stava esaurendo la fase della “pacificazione”. Nonostante le energie dispiegate nel Corno, l’Italia non aveva rinunciato del tutto al Mediterraneo. Qui si trovava a fronteggiare interessi “pesanti” di Stati concorrenti come la Francia e la Gran Bretagna; dovette perciò accontentarsi di una prelazione sulle due province ottomane di Tripolitania e Cirenaica, l’ultimo territorio disponibile sulla costa del Nord Africa ai fini della colonizzazione europea. Per assicurarsi il controllo della Libia l’Italia dovette combattere una guerra contro la Turchia (1911-12) e una guerra successiva contro le formazioni religiose che difendevano l’identità e l’autonomia della Tripolitania e della Cirenaica come parte della terra d’Islam. Con il Trattato di Losanna (1912) che mise fine alla guerra italo-turca il governo ottomano abdicò alla sovranità sulle due province, che erano già state annesse dall’Italia. Uscita di scena la Turchia, l’Italia si trovò a fare i conti con l’opposizione politica e militare degli arabi, i notabili nelle città e con la confraternita islamica della Senussia, espressione autentica del nazionalismo libico. La conquista della Libia, già nei suoi preparativi, segnò un salto di qualità e di quantità nell’azione coloniale dell’Italia. Solo le formazioni politiche di ispirazione socialista, e anche queste con delle eccezioni, si opposero alla nuova ondata coloniale e colonialista nella quale si impegnò in prima persona Giolitti. Del clima più chiaramente coloniale in cui è immersa l’Italia è una prova il pacchetto di rivendicazioni che corredò il suo ingresso in guerra (1915) a fianco delle potenze dell’Intesa. Un articolo del Patto di Londra recitava: «Nel caso in cui la Francia e la Gran Bretagna accrescano i loro domini coloniali in Africa a spese della Germania, queste due potenze riconoscono in linea di principio che l’Italia potrebbe reclamare qualche equo compenso». I risultati delle trattative in sede di Conferenza della pace nel 1919 restarono molto al di sotto delle aspirazioni. L’Italia era un contraente debole e alla fine dovette accontentarsi di rettifiche minori lungo le frontiere libiche e della concessione dell’Oltregiuba (allora parte del possedimento inglese del Kenya) che estese verso sud il territorio somalo sotto la sovranità italiana. 8.4 La fondazione dell’impero Il regime costituito da Benito Mussolini dopo la sua investitura a capo del governo (1922) raccolse e coordinò suggestioni ideologiche e ambizioni di potenza (il nazionalismo, la fierezza razziale, l’esaltazione della forza, la “missione di Roma”, il Mare Nostrum), l’illusione di trovare terre in abbondanza da colonizzare e persino una variante mistificata della lotta di classe (il c.d. “imperialismo sociale”). L’Italia, nazione “proletaria”, cercava i suoi spazi competendo in Africa, nel Mediterraneo e nel Levante con le grandi potenze che l’avevano sempre angariata. L’avventura in Etiopia fece registrare il picco di consenso popolare per il duce in tutto il ventennio fascista. L’azione militarmente più impegnativa, prima dell’invasione dell’Etiopia, fu la lunga guerra contro la Senussia in Libia. La Senussia, insieme ordine religioso dedito soprattutto alla devozione e all’assistenza e infrastruttura di potere politico-militare, aveva in Cirenaica le sue sedi principali (Giarabub e Kufra). In uno scontro che durò circa dieci anni, l’esercito italiano, rinforzato da truppe eritree, impiegò le armi ma anche le rappresaglie contro i civili, i campi di concentramento e la decimazione del bestiame per annientare il nemico. La sconfitta finale della Senussia e della resistenza beduina fu sancita dalla cattura, condanna a morte ed esecuzione pubblica del vecchio e prestigioso Omar al-Mukhtar, un patriota per tutti i libici. La Libia fu organizzata per essere una colonia di popolamento. Una volta cessate le operazioni militari, incominciò a cura dello Stato il massiccio trasferimento di italiani, a cui vennero assegnate le terre migliori, mentre un ingente programma di lavori pubblici dotava la colonia di una infrastruttura viaria, abitativa e idrica molto efficiente e di grande risalto. Negli anni venti fu completata l’occupazione e ricomposizione della Somalia italiana. Nonostante l’omogeneità di fondo, rafforzata dal senso di appartenere a uno stesso popolo e a uno stesso sistema organizzativo fondato sul nomadismo e la transumanza, i somali erano troppo dispersi e intimamente divisi da rivalità claniche per opporre un fronte comune alla conquista coloniale. Consolidate le posizioni in Somalia, erano state poste le condizioni per l’attacco all’Etiopia. Il pretesto per alzare la tensione con l’Etiopia venne fornito dall’instabilità della frontiera nella zona semidesertica contigua alla Somalia e, in particolare, dallo scontro a fuoco occorso il 5 dicembre 1934 nell’oasi di Ual Ual. L’imperatore Haile Selassie portò la causa davanti alla Società delle Nazioni, di cui anche l’Etiopia era membro. Ma Roma disconosceva tutto e contestava ormai il diritto dell’Etiopia a far parte della Società delle Nazioni adducendo che le facevano difetto i requisiti minimi della “civiltà” (l’argomento più citato era la pratica della schiavitù). La Società delle Nazioni condannò l’Italia e le sanzioni approvate contro di essa servirono al governo di Mussolini per eccitare gli istinti patriottici del popolo italiano contro quella “congiura internazionale”. I primi reparti italiani varcarono il confine fra Eritrea ed Etiopia, il 3 ottobre 1935, prima agli ordini di De Bono e poi di Badoglio. Altri reparti, comandati da Graziani, mossero dalla Somalia. L’Etiopia restò sola a difendere la propria indipendenza. L’esito della guerra dal punto di vista militare era segnato. Per debellare la resistenza da Roma giunse l’ordine di impiegare tutti i mezzi, compresi i bombardamenti con gas tossici, passando sopra alle norme internazionali. Le battaglie decisive furono combattute e perse dalle forze del negus ad Amba Aradam (febbraio 1936) e Mai-Ceu (marzo 1936), a quarant’anni di distanza dalla battaglia di Adua del 1896. Il negus scelse di andare in esilio. L’esercito italiano al comando di Badoglio entrò ad Addis Abeba il 5 maggio 1936; il 9 maggio dal balcone di Piazza Venezia il duce proclamò la fondazione dell’impero. Ma i tempi non erano più quelli della spartizione dell’Africa. Tutto congiurava semmai per la fine del colonialismo. La presenza italiana in Etiopia durò solo cinque anni e fu poco più di un’occupazione militare, fortemente contrastata da una guerriglia in cui combatterono insieme i dignitari dell’aristocrazia e i contadini. L’Italia reagì all’accanita resistenza dei patrioti con una repressione spietata, ma fuori delle città e delle grandi vie di comunicazione il controllo fu sempre precario. La riorganizzazione che seguì all’occupazione dell’Etiopia coinvolse anche gli altri possedimenti italiani dell’Africa orientale. L’Eritrea e la Somalia furono riunite con l’Etiopia, in un insieme che fu ribattezzato Africa orientale italiana (AOI). L’AOI fu suddivisa in sei governatorati e ad Addis Abeba si insediò il governatore generale con il titolo di viceré. Il primo viceré fu Pietro Badoglio; dopo di lui vennero nominati Rodolfo Graziani e il duca Amedeo d’Aosta, che cercò di mitigare la tensione dopo le insensate violenze scatenate come ritorsione per l’attentato che ferì Graziani il 19 febbraio 1937. Dietro agli abusi, fu condotta, quantunque sempre a fini di espropriazione e di dominio, una politica di sviluppo e di modernizzazione con un notevole sfoggio di risorse e di uomini: costruzione di strade, nuovi quartieri nelle principali città e ospedali; miglioramento dei servizi e delle strutture amministrative; varo di industrie e intensificazione della colonizzazione agricola delle terre dell’altipiano. La politica coloniale fascista fu qualcosa di diverso dal colonialismo inglese e francese: respingeva l’idea di governo indiretto e puntava a fare delle colonie altrettante estensioni oltremare dell’Italia. Nel 1937 venne emanato un decreto che vietava le unioni miste. Le leggi razziali del 1938 ebbero conseguenze ancora più pesanti in tutte le colonie e soprattutto nell’Africa orientale. L’abrogazione del diritto terriero consuetudinario per favorire l’insediamento dei coloni fu fra i provvedimenti più odiosi per le tradizioni e la sensibilità delle popolazioni locali. Gli espropri costituirono il principale motivo di malcontento e di rivolta. Come sbocco dell’emigrazione, le colonie furono una delusione, ma anche la resa economica fu ostacolata dalla scarsità delle risorse e dalla mancanza di una vera e propria economia coloniale. 8.5 La perdita delle colonie Tutti i possedimenti coloniali italiani in Africa andarono perduti nel corso della Seconda guerra mondiale sotto l’offensiva degli eserciti alleati, composti in maggioranza da inglesi. L’Africa orientale fu persa nel 1941 e la Libia nel 1943. Haile Selassie rientrò ad Addis Abeba al seguito delle truppe inglesi vittoriose esattamente cinque anni dopo l’ingresso di Badoglio e riassunse formalmente le sue prerogative sovrane. La Somalia, l’Eritrea e la Libia vennero occupate dalle forze armate britanniche (il Fezzan dalla Francia). Nel 1947 l’Italia subì un trattato di pace molto duro che le ingiungeva di lasciare tutte le sue ex colonie senza condizioni. Il trattato ribadiva l’indipendenza dell’Etiopia e metteva a carico dell’Italia il pagamento dei danni di guerra. Prescriveva inoltre che sul destino delle ex colonie italiane avrebbero deciso le potenze vincitrici e, in mancanza di un accordo, le Nazioni Unite, che in effetti furono investite della materia nel 1948. Il 5 dicembre 1950 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votò a maggioranza per la costituzione dell’Eritrea in “unità autonoma” federata all’Etiopia: una soluzione di difficile attuazione. Il governo autonomo dell’Eritrea ebbe vita breve. Nel 1962 l’Eritrea fu annessa all’Etiopia ed ebbe inizio una guerra trentennale. Il nazionalismo eritreo non nacque dunque dall’opposizione al colonialismo, ma trovò piuttosto la sua ragion d’essere nell’opposizione a uno stato africano, l’Etiopia. L’Eritrea raggiunse l’indipendenza nel 1991 a seguito del crollo del regime militare in Etiopia. In riferimento alla Libia, l’Italia capì che non aveva margini di manovra e lasciò cadere la pretesa di avere l’amministrazione fiduciaria almeno per la Tripolitania. Si delineò così la soluzione dell’indipendenza, che fu approvata a maggioranza dall’ONU il 21 novembre 1949. In riconoscimento delle diverse caratteristiche storiche, culturali e nazionali, le tre componenti della Libia indipendente – Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – avrebbero conservato una certa autonomia interna in un quadro federale. Nel 1949 l’Assemblea generale dell’ONU decise di affidare la Somalia all’Italia in amministrazione fiduciaria per un periodo prefissato i dieci anni dal 1950. Il decennio dell’AFIS (Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia) è stato l’ultimo atto coloniale o paracoloniale dell’Italia in Africa. Soggetta alle verifiche periodiche dell’ONU, l’amministrazione era intesa anzitutto a preparare la Somalia all’indipendenza. Il passaggio dei poteri avvenne effettivamente nel 1960. Nei medesimi giorni la Gran Bretagna concesse filosofici e dall’azione come politico e statista di Léopold Sédar Senghor, che fu presidente del Senegal indipendente per vent’anni dal 1960 al 1980, la negritudine non vuole recludere i neri in un ghetto, sia pure esaltato e rivalutato, ma punta a riammetterli, finalmente indipendenti e sicuri di sé, nella civiltà universale. 9.4 Gli effetti delle due guerre mondiali Il coinvolgimento dell’Africa nella Prima guerra mondiale (1914-1918) fu duplice: come sede locale dello scontro fra le potenze europee e per l’impiego di soldati delle colonie sui campi di battaglia. Le truppe di Inghilterra e Belgio entrarono nei possedimenti dell’Africa orientale tedesca e li occuparono. Per proteggere Suez da un eventuale attacco turco o tedesco, Londra proclamò la legge marziale in Egitto: accantonata la proposta di annetterlo tout court all’impero britannico, l’Egitto fu trasformato unilateralmente in protettorato e per tutta la guerra servì da piattaforma e quartier generale delle potenze alleate. I combattimenti della Prima guerra mondiale provocarono danni irreparabili soprattutto nell’Africa orientale, non solo perché vi furono impegnate centinaia di migliaia di africani, ma anche perché le campagne della guerra causarono una tremenda penuria di cibo in Ruanda e nelle regioni vicine; seguirono, altrettanto devastanti, le epidemie. Gli africani erano già stati reclutati in passato per le guerre coloniali e più raramente in Europa. Nella Prima guerra mondiale essi combattevano per le potenze metropolitane anche in un contesto europeo e mondiale. Si valuta che complessivamente allo sforzo bellico dell’Europa parteciparono circa 500 mila africani. Sul piano strettamente militare, la guerra sancì la sconfitta e la scomparsa in quanto tale dell’Impero Ottomano. Gli ex possedimenti della Germania sconfitta furono oggetto di spartizione. Il bottino più ricco toccò a Francia e Inghilterra, che si divisero il Togo e il Camerun, mentre il Tanganika passò sotto l’amministrazione britannica. Dall’Africa orientale tedesca fu ritagliato il territorio corrispondente al Ruanda-Urundi, attribuito al Belgio, che l’amministrerà insieme al Congo belga. Anche il Sud Africa prese parte alla divisione delle ex colonie tedesche, ottenendo il mandato sull’Africa del Sud-Ovest. Fra i paesi che non trovarono soddisfazione nelle spoglie dell’impero tedesco ci fu l’Italia, che dovette accontentarsi di alcuni ritocchi ai confini di Libia e Somalia. Gli effetti della guerra del 1914-18 sul colonialismo e in particolare quello in Africa furono interlocutori. Da molti segni si poteva concludere che il colonialismo non era più del tutto in sintonia con gli equilibri che si stavano delineando sul piano internazionale. Con i 14 punti enunciati dal presidente Thomas Woodrow Wilson nel 1919, gli Stati Uniti presero su di sé la causa, molto popolare in Europa, dell’autodeterminazione dei popoli. Era chiaro che l’autodeterminazione aveva un senso in Europa e un senso del tutto diverso nel perimetro extraeuropeo, in cui continuava a valere la legge del colonialismo. L’istituto del mandato, che era al centro della disciplina della Società delle nazioni per le dipendenze sottratte ai paesi vinti, anticipava un mondo postcoloniale. A questo proposito, lo storico liberale inglese Herbert Albert Laurens Fisher scrive che dopo la Prima guerra mondiale «la crudezza della conquista fu drappeggiata nel velo della moralità». I popoli colonizzati non furono ammessi a godere delle varie dottrine sul diritto di autodeterminazione, ma il dado era stato tratto. Nei paesi africani erano all’opera movimenti e partiti a tendenza nazionalista. L’opposizione al colonialismo faceva sentire la sua voce anche nelle società europee. Dopo la Rivoluzione russa, Mosca appoggiava con molta energia le spinte autonomistiche nei continenti colonizzati nel nome dell’internazionalismo. Il colpo finale al colonialismo sarebbe venuto dopo la Seconda guerra mondiale. L’evoluzione della diplomazia internazionale aveva un riscontro nel maggiore impegno che le stesse potenze europee mettevano nell’amministrazione e nello sviluppo delle colonie. Nel periodo fra le due guerre l’Africa conobbe, nel complesso, un vigoroso impulso alla crescita demografica anche per il calo dei tassi di mortalità infantile. Lo sviluppo economico-sociale e dell’istruzione fece da incentivo al fermento politico. I partiti nazionalisti in Africa ora avevano una base sociale su cui appoggiarsi: i primi attivisti furono reclutati fra gli insegnanti, gli impiegati dello Stato, i ministri del culto, tutti ben inseriti nei sistemi coloniali. I primi partiti e le prime organizzazioni sindacali dell’Africa subsahariana videro la luce nei primi decenni del XX secolo. Come regola generale, le élites africane erano più politicizzate nell’Africa occidentale che in quella orientale o centrale. Nello stesso periodo, studenti provenienti dall’Africa occidentale arrivarono a Parigi e Londra dove fondarono giornali, associazioni e movimenti che si convertirono in altrettante occasioni di mobilitazione e scambio di esperienze anche con le forze politiche e intellettuali d’Europa. Tornando in Africa dall’estero, Kwame Nkrumah, Nnamdi Azikiwe e Jomo Kenyatta – tutti e tre destinati a diventare capi di Stato rispettivamente di Ghana, Nigeria e Kenya – erano in possesso di un patrimonio ideologico adatto a raccogliere le sfide della politica che li aspettavano nei loro paesi. La Seconda guerra mondiale continuò e per certi versi completò il processo iniziato con la Prima. Il principio dell’autodeterminazione venne ufficializzato nella Carta atlantica redatta da Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill nel 1941 e sottoscritta successivamente dall’URSS e dagli altri membri della coalizione contro il fascismo internazionale. Intaccato dalla Prima, il mito della supremazia del bianco non sopravvisse alla Seconda. 10. Processo di decolonizzazione e indipendenza 10.1 Un evento di portata generale La decolonizzazione ha avuto una dimensione globale, sia perché ha proceduto in modo pressoché simultaneo in tutti i continenti in cui aveva avuto luogo a suo tempo l’espansione coloniale, sia perché fu incoraggiata o appoggiata dai mutamenti politici ed economici che si determinarono nel mondo per effetto della Seconda guerra mondiale. Il conflitto stesso, promuovendo l’ascesa di due potenze come Stati Uniti e URSS, che si facevano interpreti rispettivamente delle correnti liberal-democratica e socialista dell’anticolonialismo, sovvertì gli equilibri favorendo la fine dell’imperialismo nella sua forma coloniale. La fine degli imperi coloniali non escluse nei fatti la prosecuzione di un apparato di controllo mediante gli strumenti meno formalizzati dell’economia, degli aiuti, dell’influenza culturale o della presenza di forze e basi militari all’insegna del neocolonialismo o della politica di potenza. La proliferazione delle indipendenze e degli Stati indipendenti è il risultato indiscutibile della decolonizzazione. Gli Stati coinvolti sul versante europeo nell’opera di decolonizzazione sono anzitutto la Gran Bretagna e la Francia, e con loro – per quanto riguarda l’Africa – il Belgio, il Portogallo e la Spagna. Le varie potenze coloniali affrontarono la scadenza con programmi e sottintesi diversi: la Gran Bretagna preparava una forma di devoluzione dei poteri, il Portogallo e in misura minore la Francia pensavano ancora all’integrazione, il Belgio non si pose neppure il problema fino all’ultimissima ora utile. Si può distinguere una decolonizzazione che segue procedure essenzialmente politiche, negoziali, e all’opposto una decolonizzazione che ricorre all’azione diretta e alla lotta armata. L’ideologia alla base del movimento è il nazionalismo, che si autolegittima con il riferimento a una nazione o a un popolo che reclama la propria emancipazione in un territorio dato. In Africa alla spinta per l’indipendenza contribuirono anche ideologie transnazionali a carattere universaleggiante come il panafricanismo e la negritudine. 10.2 Territori, nazioni e Stati Le formazioni statali che hanno sostenuto l’urto del colonialismo europeo a sud del Sahara non sono sopravvissute al colonialismo. Per questo alcuni storici hanno attribuito al colonialismo una funzione oggettiva di nation-building: nell’Africa subsahariana l’autodeterminazione si è imposta in modo da riconoscere il diritto all’indipendenza dei territori definiti dalla politica coloniale, senza tenere in conto la nazionalità e la composizione etnica degli aggregati umani ivi presenti. L’ideologia dell’indipendenza si è richiamata solo in minima parte al passato precoloniale. Pur lottando contro il potere coloniale, l’élite alla testa del nazionalismo africano non aveva interesse ad abbattere del tutto il mondo del colonialismo, perché la richiesta dell’indipendenza partiva dalla situazione coloniale e da un ceto dirigente che conosceva solo quell’esperienza e si era formato in essa. Per come è avvenuta l’emancipazione dell’Africa, non solo lo Stato ha avuto la precedenza sulla nazione, ma si è anche articolato attorno alle forme istituzionali dell’Occidente. Potenze coloniali e partiti nazionalisti si trovarono d’accordo sull’opzione formale della democrazia. Le Costituzioni adottate dai paesi di nuova indipendenza in coincidenza con l’anno dell’Africa imitavano quelle di Francia o Gran Bretagna. Lo Stato africano indipendente è un insieme complesso. In esso convivono motivi, codici e modi di produzione che in parte sono di derivazione europea e in parte riflettono la storicità africana. La sovranità, ad esempio, vale soprattutto verso l’esterno. All’interno sopravvivono altre sfere di appartenenza e quindi di giurisdizione. 10.3 L’“anno dell’Africa” Il processo di decolonizzazione in Africa ebbe lo stesso andamento vertiginoso ed emulativo che aveva avuto lo Scramble. Fu il Nord Africa ad esserne interessato per primo. A parte l’Egitto, indipendente formalmente dal 1922, i primi paesi africani a conseguire l’indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale furono la Libia (1951), il Sudan e i possedimenti francesi del Marocco e della Tunisia (1956). In Algeria, che legalmente non era neppure una colonia bensì parte integrante del territorio francese, l’insurrezione lanciata dal Fronte di liberazione nazionale nel 1954 segnò l’inizio di una guerra che sarebbe finita solo nel 1962, con la proclamazione dell’indipendenza dello Stato africano. La grande ondata delle indipendenze a sud del Sahara si colloca fra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta. Dopo l’indipendenza dell’India e del Pakistan nel 1947, il governo inglese aveva avviato procedure per un’evoluzione analoga nei possedimenti africani. Fu la Costa d’Oro ad avere la precedenza in Africa giungendo all’indipendenza nel 1957 e adottando il nome di Ghana. Il modello di decolonizzazione gradualistica perseguito dalla Gran Bretagna consisteva nell’allargamento di funzioni e poteri degli settanta generarono uno stato di crisi generalizzata, indebitamento, povertà di massa, vuoti di potere, screditando i governi dell’indipendenza e innescando problemi cronici di stabilità. L’Organizzazione dell’unità africana (OUA), fondata nel 1963 ad Addis Abeba per iniziativa dell’imperatore Haile Selassie, con il suo primo atto solenne ratificò l’assetto statuale della decolonizzazione: le frontiere ereditate dal colonialismo non potevano essere cambiate se non con il consenso di tutte le parti interessate. L’Assise panafricana ha mostrato una costante opposizione nei riguardi delle secessioni (il Katanga dal Congo, il Biafra dalla Nigeria, l’Eritrea dall’Etiopia), mentre il Sahara Occidentale non ha avuto difficoltà a farsi ammettere all’OUA come Repubblica araba sahraui democratica (RASD). Le sole eccezioni ratificate sono state l’indipendenza dell’Eritrea e la formazione del Sud Sudan. Nel 1964, dalla fusione fra Tanganika e Zanzibar si è formata la Tanzania. Col pretesto dell’unità nazionale o dell’emergenza per lo sviluppo, dopo l’indipendenza hanno prevalso negli Stati africani sistemi di tipo autoritario ispirati al presidenzialismo e imperniati sul partito unico come “partito di tutto il popolo”. Mancavano alle società africane quelle organizzazioni intermedie che costituiscono il tessuto connettivo per la vita civile. I soli “corpi separati” di un certo peso erano la burocrazia e l’esercito più, in certi paesi, le Chiese cristiane. Quanto ai militari, essi si sono imposti come i candidati naturali quando hanno fallito i civili. In mancanza di legami politici in senso proprio dal basso verso l’alto o viceversa, soccorrono i canali del clientelismo o del tribalismo, promossi a unico modo di partecipazione politica e di integrazione sociale. Il rafforzamento dell’esecutivo, che si appropria delle risorse a fini di parte con una coincidenza fra potere politico e potere economico, ha dato origine alla tipologia di Stato detta “neopatrimoniale”. Quasi ovunque le gerarchie tradizionali sono state compresse dalle autorità dello Stato indipendente, ma hanno conservato un’influenza in quanto tali a livello locale o come gruppo di pressione dentro o fuori l’apparato del potere. Il cambiamento politico o istituzionale è stato a lungo risolto attraverso la violenza. Moltissimi Stati africani sono stati teatro di uno o più colpi di Stato militari. In parte per i contraccolpi degli eventi in Europa orientale, ma molto di più per la naturale evoluzione delle stesse società africane, una svolta si è prodotta intorno al 1990. In molti paesi africani i regimi autoritari sono entrati in crisi, per un ripensamento dall’alto o come effetto di manifestazioni e proteste a livello popolare. Non tutti questi processi hanno avuto successo, ma la tendenza alla liberalizzazione politica ed economica, con una sterzata a favore del libero mercato e contro il dirigismo e la protezione della produzione domestica, è stata generale e per certi aspetti irreversibile. Le grandi potenze si sono adoperate in vario modo per promuovere dall’esterno la stabilità e la democrazia. Una forma di pressione abituale è costituita dalle condizionalità che corredano gli aiuti e i crediti concessi dagli organismi finanziari ed economici internazionali o dai singoli donatori. Per mettere in atto un meccanismo per la risoluzione dei conflitti e per una maggiore tutela dei diritti umani scongiurando interventi dall’esterno, l’Africa si è dotata nel 2002 di una nuova organizzazione, l’Unione africana (UA), che ha preso il posto dell’Organizzazione dell’unità africana (OUA). 11. La storia si fa politica 11.1 Continuità e rotture Nella scala della storia, l’occupazione dell’Africa è un fenomeno breve: in gran parte del continente non dura più di qualche decennio. Il suo impatto in termini di trasformazione sociale ed economica delle società colonizzate è importante, anche se non ovunque e non sempre allo stesso modo. Per diverse parti del continente la conquista operò sullo sfondo di mutamenti profondi nella società e nella politica locali già ampiamente in atto. La dimensione politico-istituzionale che si consolida dopo la “spartizione” è marcata da continuità con il recente passato coloniale, del quale sopravvivono sostanzialmente gran parte delle gerarchie, forme di autorità riconosciuta e spesso anche pratiche di governo. Eppure, è proprio l’area politico-istituzionale quella in cui la portata e la durata del cambiamento determinato dalla colonizzazione non possono essere sottovalutate, non fosse altro perché l’ordine coloniale cambia radicalmente la carta politica del continente, impone nuove frontiere, nuove centralità, nuove istituzioni politiche e amministrative. L’immaturità delle società africane rimane il principale paradigma interpretativo della politica odierna del continente e in particolare dei paesi subsahariani, dei quali si tende sempre a definire in via preventiva la natura artificiosa, come creazioni recenti dell’imperialismo europeo e quindi paesi “nuovi”. L’immaturità strutturale delle società e degli Stati africani odierni sono citate regolarmente a giustificazione ultima delle loro instabilità, debolezze, crisi e guerre. Questa “immaturità” trasformata in carattere consustanziale delle società africane è una conseguenza non poi così lontana dell’“inciviltà” e della “primitività” dell’Otto-Novecento coloniale, come del resto il discorso sullo sviluppo è parente stretto di quello sulla “civilizzazione”. 11.2 Funzioni e poteri dello Stato Le insufficienze organiche dello stato coloniale che lo storico statunitense Frederick Cooper ha dipinto come un “guardiano” con pochi strumenti per padroneggiare gli ambiti sociali e culturali di cui teoricamente aveva la gestione in esclusiva, passarono tali e quali ai nuovi Stati. Esercitare tutte le responsabilità di governo richiedeva risorse che gli Stati africani neo-indipendenti non avevano sempre a disposizione. D’altro canto, gli Stati sentivano l’obbligo di tenere fede all’impegno di riscatto che era stato la fonte e l’anima dei movimenti di liberazione. Fu così che in alcuni dei nuovi Stati venne improvvisata una strategia interventista nell’economia e nei servizi che rappresentava un’ulteriore sfida per le capacità effettive. Il potere coloniale aveva valorizzato la parte “utile” del territorio, ma aveva lasciato il resto in uno stato di abbandono o in affidamento alle autorità dette “tradizionali”. La colonizzazione ha impedito per quasi un secolo ogni specie di rivoluzione agraria. Alla testa dello Stato neo-indipendente c’erano soprattutto esponenti della società urbana con i relativi interessi. I gruppi dirigenti non avevano fonti di reddito al di fuori dello Stato. La base economica su cui è costruito il potere dello Stato è esigua: le miniere, le banche, le industrie moderne e le compagnie di servizi restavano per lo più, direttamente o indirettamente, nella disponibilità delle potenze ex coloniali. L’infrastruttura ereditata dal colonialismo era predisposta all’esportazione invece che all’integrazione nazionale. In contraddizione con la figura dello Stato “forte” in quanto autoritario o dispotico, lo Stato africano può rientrare – impiegando la terminologia dell’economista svedese Gunnar Myrdal – nella categoria dello Stato “debole” (soft). Il potere centrale non esige di essere la sola autorità in tutti i comparti della vita associata e di esaurire in sé l’esercizio della sovranità. Il mancato rispetto del principio che riserva allo Stato il monopolio dell’uso legale della forza è una delle cause principali dell’instabilità politica cronica in cui vivono o hanno vissuto molti Stati africani, nonché della moltiplicazione di conflitti interni. Da un altro punto di vista, però, lo Stato africano è “sovrasviluppato” e “sovraesposto”: a imitazione dello Stato coloniale, esso si assume compiti che spetterebbero alla società civile o ai corpi intermedi. La tendenza repressiva e violenta dello Stato postcoloniale è una conseguenza della debolezza più che della forza. Lo Stato africano ha superato tante difficoltà dando prova di una insospettata capacità di durata, a differenza di ciò che si è verificato in altri scacchieri (Medio Oriente, Asia centrale, Europa) in cui, con la fine della guerra fredda, si sono avuti diversi rimaneggiamenti di identità e sovranità. L’area più instabile si è rivelata il Corno allargato. L’Etiopia dovette accettare, al momento della disfatta del regime militare- rivoluzionario del Derg nel 1991, il distacco dell’Eritrea, che si costituì come stato a sé. Anche l’ex Somaliland britannico nel 1991 prese la strada dell’indipendenza, non riconosciuta come tale dalla diplomazia internazionale, ma consolidata sul piano di fatto. Nel Sudan il contenzioso fra Nord e Sud si concluse anch’esso con la soluzione dei due Stati: a nord l’impronta dominante arabo-islamica è rimasta e si è rafforzata dopo l’esperienza coloniale, mentre a sud l’amministrazione inglese aveva preservato di fatto la separatezza delle province abitate da popolazioni nere e non arabizzate e non islamizzate. 11.3 Fine delle ideologie e nuovi revivalismi La decolonizzazione di gran parte dei paesi africani fu caratterizzata dall’asserzione di visioni della politica e dello Stato che, per quanto diverse fra loro, erano ispirate al cosiddetto “socialismo africano”, filone ideologico maturato nel Secondo dopoguerra, che rivendicava una via africana peculiare al socialismo. Il socialismo africano metteva insieme visioni fortemente idealizzate di una società e cultura africane “tradizionali” conculcate dall’imperialismo europeo, principi di socialismo idealista europeo ottocentesco, solidarismo cristiano e istanze di nazionalismo rivoluzionario. La dottrina marxiana della lotta di classe era rigettata e si sottolineava piuttosto il ruolo maieutico che le avanguardie rivoluzionarie dovevano svolgere nel liberare e riasserire un comunitarismo intrinseco delle società africane. Ne derivarono esperienze molto diversificate, in termini sia di politiche interne sia di schieramento internazionale, anche se pressoché tutte caratterizzate da forme di dirigismo o autoritarismo statalista (ad opera sia di civili sia di militari) e tentativi ambiziosi e spesso velleitari di pianificazione economica. Padri ideali e principali esponenti del socialismo africano furono Kwame Nkrumah in Ghana, Ahmed Sékou Touré in Guinea, Modibo Keita in Mali, Julius Kambarage Nyerere in Tanzania, Jomo Kenyatta in Kenya, Léopold Sédar Senghor in Senegal, Kenneth Kaunda in Zambia e altri ancora. Vinta la sfida dell’indipendenza politica, partiti e regimi ispirati al “socialismo africano” persero sostanzialmente le sfide dello sviluppo e dell’emancipazione dalla dipendenza strutturale dell’Occidente capitalista. Dagli anni settanta del Novecento le istanze della liberazione e trasformazione delle società africane andarono piuttosto coagulandosi intorno a scelte ideologiche e politiche di carattere più dichiaratamente allineato a visioni marxiste- leniniste quali, sulla scia dell’elaborazione ideale e della militanza politica di Amilcar Cabral
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved