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"Alcune questioni di filosofia morale", Hannah Arendt, Sbobinature di Storia Della Filosofia

Sbobinature riassuntive e suddivise in capitoli del libro "Alcune questioni di filosofia morale" di Hannah Arendt, realizzate a seguito delle lezioni tenute dal Professor Pili A.A 2022/2023.

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

Caricato il 27/02/2023

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Scarica "Alcune questioni di filosofia morale", Hannah Arendt e più Sbobinature in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! “ALCUNE QUESTIONI DI FILOSOFIA MORALE” di Hannah Arendt Questo testo è frutto delle lezioni tenute dalla Arendt negli USA tra il 1965 ed il 1966 ed è in queste pagine che si può cogliere quella celebre riflessione sulla “banalità del male”, riflessione che permea l’omonima opera “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme”, pubblicata precedentemente nel 1963. La riflessione contenuta in “Alcune questioni di filosofia morale”, dunque, risulta essere collocata tra “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963) e “La vita della mente ” (opera pubblicata postuma la morte dell’autrice nel 1978). Occorre sempre ricordare che la Arendt effettua queste riflessioni a seguito di quanto riportato in “Le origini del totalitarismo” (1951). Quindi, prima di capire su cosa è incentrata “Alcune questioni di filosofia morale”, occorre capire il tema centrale de “La Banalità del male”. L’opera “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” è incentrata, come suggerisce il titolo, sulle riflessioni sul tema della banalità del male, tema che generà molte critiche mosse dal panorama culturale nei confronti dell’autrice. La Arendt utilizza il termine “banalità” del male, ma si potrebbe andare ad affermare come questo termine sia collocabile nell’orizzonte di una “normalità” del male”, “superficialità” del male. L’idea con la quale la Arendt compone “Alcune questioni di filosofia morale” è quella di “CONSIDERARE COME BUONE”/”ACCETTARE” LE CRITICHE mosse da numerosi studiosi verso “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (e quindi critiche mosse verso il tema della banalità del male) e cercare di verificare se la sua riflessione sul tema della banalità del male avesse davvero valenza filosofica effettiva. L’idea dell’opera è quella di rifugiarsi da tutte le critiche mosse alla banalità del male (intesa sia come tema sia come opera) e di sondare/verificare/testare la forza o la non forza della riflessione sul tema della banalità del male. Caratteristiche strutturali dell’opera: - L’opera è suddivisa in 4 capitoli; - L’opera, come già ho accennato, risulta essere composta a seguito di alcune lezioni tenute dalla Arendt negli Usa tra il 1965 e il 1966. Lo stile di scrittura dell’opera risente molto di ciò infatti: quest’opera risulta svilupparsi proprio come un discorso in cui la Arendt riporta le sue riflessioni proprio come se parlasse; in quest’opera la Arendt espone le sue riflessioni in una sorta di “flusso libero di pensiero”. CAPITOLO 1 La differenza tra male comunista e male nazista In “Le origini del totalitarismo” (1951), il male comunista/stalinista ed il male nazista erano posti sullo stesso livello, mentre nella “Banalità del male” (1963), non è così. Questo aspetto di non porre male comunista e male nazista sullo stesso piano viene ripreso anche all’interno di “Alcune questioni di filosofia morale”. All’interno di “Alcune questioni di filosofia morale”, sulla scia di quanto affermato precedentemente nella “Banalità del male”, infatti, la Arendt va ad affermare come il MALE COMUNISTA sia un male più “classico”, cioè è male che non ha la stessa natura del MALE NAZISTA. Dove sta la differenza tra male nazista e male comunista? In che senso il male comunista viene definito dalla Arendt come un male più classico rispetto a quello nazista? Secondo la Arendt: - Sul piano morale : Il MALE COMUNISTA risulta essere un male più classico del male nazista perché in fondo i morti/le uccisioni/le deportazioni causate dal male comunista vengono eseguite “non in bella vista” in quanto si teme il giudizio pubblico. Secondo la Arendt, quindi, il fatto che le uccisioni ecc. causate dal male comunista vengano “nascoste” all’opinione pubblica sta a testimoniare implicitamente il fatto che nella Russia stalinista vi è una morale condivisa per la quale certe azioni non si possono/devono fare. Il male comunista, come la Arendt andava ad affermare ne “Le origini del totalitarismo”, contempla/comprende ancora una trasformazione della società come il male nazista, MA questa trasformazione della società operata dal male comunista non arriva al punto della trasformazione più radicale della società operata dal male nazista in quanto nella società comunista vi è ancora una morale. Il MALE NAZISTA, invece, non si curava nemmeno di “nascondere” all’opinione pubblica le atrocità commesse, e ciò stava a testimoniare come nella società hitleriana non vi fosse più una morale. 1 - Sul piano sociale: Oltre al “non nascondimento delle atrocità”, un’altra caratteristica esclusiva del male nazista e quindi della società hitleriana (caratteristica che quindi non si ritrovava nel male comunista e nella società stalinista), la quale costituisce la caratteristica più “rilevante” del male nazista, era la spaventosa collaborazione “scontata” di ogni strato della società tedesca alla messa in atto del male nazista. Per quanto riguarda questo aspetto, occorre fare due considerazioni. Quando si afferma il fatto che nel regime nazista ogni strato della società tedesca collaborò al male nazista si deve intendere che: o Tutti gli strati della società tedesca, anche senza credere fortemente nei nuovi valori introdotti dal regime nazista e senza essere quindi pienamente convinti delle loro azioni, si allinearono e collaborarono a tale regime. o Per la Arendt, più che il malvagio (= persone che volontariamente commette il male, uccide ecc.) RISULTA ESSERE PEGGIORE CHI COMMETTE IL MALE SENZA COMPRENDERE E CAPIRE QUELLO CHE STA FACENDO. Il problema centrale, quindi, non risulta essere il “malvagio consapevole del male che commette” ma bensì chi commette male senza sapere commetterlo. La Arendt va quindi ad affermare come il regime nazista fu molto più radicale ed estremo del regime stalinista. Il regime nazista, infatti: - annunciò l’avvento di nuovi valori; - introdusse un sistema giuridico coerente con tali valori; - provò che non c’era bisogno di essere nazisti convinti per adire al regime (infatti abbiamo detto che chiunque, di ogni grado sociale, collaborò in modo “scontato” al male nazista”). - “non nascondeva” le proprie atrocità; - scardina una morale (morale che invece era presente nella società stalinista); - Il regime nazista è la BANCAROTTA DELL’ETICA , è il collasso generale dell’etica, è il collasso della morale. Il nazismo costruisce, quindi, un sistema di valori nel quale sono completamente ribaltate le norme morali. Nel male nazista, non solo “non si nascondono” le atrocità (uccisioni, deportazioni ecc.), ma diventa un valore commetterle e su ciò si costruisce un intero sistema giudiziario. I “compagni di viaggio” della Arendt La Arendt, all’interno di questo testo, prende alcuni pensatori come “compagni di viaggio” e tra questi pensatori, i quali saranno molto citati all’interno dell’opera, troviamo: Socrate; Platone; Kant; Nietzsche; pensatori della cristianità (come Tommaso d’Aquino, Sant’Agostino ecc.). Tra questi: - i personaggi più apprezzati dalla Arendt sono Socrate e Nietzsche - mentre i personaggi più problematici e per questo criticati dalla Arendt sono Platone, i pensatori della cristianità (come Tommaso d’Aquino e Sant’Agostino ecc.) e Kant. L’iniziale citazione di Churchill – reale inizio dell’Opera. USO e COSTUME L’inizio dell’opera è sancito dalla citazione di CHURCHILL. La Arendt cita delle riflessioni di Churchill (importante protagonista della 2° guerra mondiale) in quanto, tramite esse, l’autrice mira a farci rendere conto/constatare la “BANCAROTTA DELL’ETICA” che permea la società hitleriana. Nello specifico, la Arendt riporta una citazione di Churchill nella quale esso va ad affermare come le poche regole e norme in base alle quali gli uomini distinguono il bene dal male, quelle regole e norme sulle quali ci si basa per giudicare gli altri e per giustificare se stessi e quelle regole e norme la cui validità è ritenuta evidente da chiunque sia sano di mente, SIANO VENUTE MENO/CROLLATE DAL MATTINO ALLA SERA (= improvvisamente) e siano crollate 2 morali non hanno consistenza vera, non hanno fondamento adeguato (quindi la Arendt afferma che come Nietzsche le morali crollano perché non hanno fondamento adeguato). Se però Nietzsche affermava come di fronte al crollo della morale occorreva porre al centro/privilegiare la vita, la Arendt invece va ad affermare come il porre al centro la vita (intesa come procreazione e sostentamento) non basta in quanto L’ESISTENZA UMANA E LA MORALE SONO FONDATE E COMPRENDONO ANCHE VALORI PIÙ ALTI DELLA VITA (libertà, giustizia ecc.). L’importanza della questione morale nella storia (connesso con Nietzsche) Per la Arendt, il problema della morale si è risvegliato di colpo con lo scoppio della 2° guerra mondiale in quanto prima di questo sconvolgimento l’argomento morale era stato accantonato/non era più un argomento centrale all’interno del panorama culturale. Per la Arendt, prima dello scoppio della 2° guerra mondiale, il problema della moralità non risultava essere un tema/argomento centrale nel panorama intellettuale/culturale. Secondo la Arendt, il problema della moralità e l’importanza del discorso etico/morale diventa centrale a seguito dello scoppio della 2° guerra mondiale. Perché PRIMA dello scoppio della 2° guerra mondiale il tema della moralità risultava non essere più un tema centrale? Per la Arendt, il platonismo, ed il cristianesimo che si è eretto sopra di esso, proposero una morale la quale si limitava a limitare, cioè si limitava a presentare dei limiti, ovvero delle norme e regole morali da seguire rigidamente. In seguito, interviene Nietzsche che smonta tutto questo discorso, interviene Nietzsche che smonta tutti i limiti della morale ed afferma come l’uomo, di fronte al crollo della morale, debba porre al centro la propria vita (Nietzsche fonda tutto sulla vita). Successivamente si presentano Freud, il quale afferma come esistano delle forze inconsce molto più ampie rispetto a quelle forze che caratterizzano la dimensione cosciente dell’uomo, e Marx, il quale cala/sposta queste ampie forze in ambito sociale. Di conseguenza, a seguito del pensiero di Freud e Marx, e tendendo conto la morte di Dio di Nietzsche, la morale diventa un argomento non più centrale nel panorama culturale. La morale, a seguito del pensiero di Nietzsche, Freud e Marx, diventa un argomento non più centrale. Infatti, se si insiste sul fatto che l’uomo è sovrastato dall’inconscio (Freud) e sul fatto che l’uomo è sovrastato dalle forze economiche che dominano la società (Marx), allora non vi è più la libertà di agire dell’uomo, libertà che rappresenta il concetto base della moralità (perché vi sia moralità, e quindi perché l’uomo possa scegliere tra compiere bene o compiere il male, l’uomo deve poter essere libero di compiere questa scelta). Nel pensiero di Freud e Marx non si parla di libertà (l’uomo è sovrastato, rispettivamente, dall’inconscio ed è sovrastato dalle forze sociali), per cui non essendoci ciò, allora non si può parlare nemmeno di moralità. Ecco come la moralità, a causa del pensiero di Freud e Marx (tendendo sempre presente la morte del Dio di Nietzsche), cala in secondo piano. Perché il tema della moralità si risveglia di colpo a seguito dello scoppio della 2° GUERRA MONDIALE ? Secondo la Arendt, la moralità si risveglia di colpo con lo scoppio della 2°guerra mondiale, evento che ha una portata smisurata sulla vita umana. Nello specifico, la questione della moralità diventa di importanza centrale quando si cerca di voler dar spiegazione al fenomeno della 2°guerra mondiale: quando si cerca di capire le motivazioni che hanno condotto l’uomo ad attuare la 2° guerra mondiale, ad attuare la deportazione degli ebrei, ad attuare la costruzione dei campi di concentramento e di sterminio ecc. non ci si accontenta di affermare che l’uomo ha fatto ciò in quanto sovrastato dalla storia, dalla società ecc. ma bensì si ricercano le motivazioni morali che hanno spinto l’uomo ad attuare tutto ciò. Per la Arendt, l’uomo è responsabile (e quindi libero) e non deve giustificare le sue azioni in quanto sovrastato dalla storia, dalla società ecc. . Per la Arendt, l’uomo è responsabile della 2° guerra mondiale e questa responsabilità dell’uomo viene indagata dal tribunale. Le motivazioni morali, per le quali l’uomo ha commesso le atrocità della 2° guerra mondiale, vengono indagate dal tribunale. Cosa mostra all’uomo la sua responsabilità (e quindi la sua libertà)? Secondo la Arendt, l’elemento che mostra all’uomo la sua responsabilità è il TRIBUNALE/DIRITTO/SISTEMA GIURIDICO. Secondo la Arendt, il tribunale non potrebbe mai esistere se non vi fosse l’idea che l’uomo abbia una propria responsabilità e quindi una propria libertà. L’uomo non è sovrastato dall’inconscio o dal sociale, ma bensì è un uomo libero e responsabile delle proprie 5 azioni. Il tribunale/il sistema giuridico insiste sull’esistenza della persona, persona che non è sovrastata dall’inconscio o dal sociale ma persona che ha una propria responsabilità, che ha una propria colpa personale e quindi che ha una propria libertà. Il tribunale mostra all’uomo come esso abbia una propria responsabilità ed una propria LIBERTÀ (mostra all’uomo il fatto che esso può scegliere liberamente di compiere il bene o compiere il male). Il tribunale ci rimanda e ci costringe a fare una riflessione morale. Laddove la moralità risultava essere una questione non più centrale, il tribunale ci riporta ad una riflessione morale. La differenza tra FILOSOFIA MORALE e RELIGIONE (= soprattutto il cristianesimo) La Arendt compie una disamina storica sulla filosofia morale con l’intento di voler distinguere nettamente la filosofia morale dai precetti religiosi/religione (con precetti religiosi/religione, la Arendt intende soprattutto il cristianesimo). La Arendt, quindi, vuole distinguere nettamente tra filosofia morale da un lato e precetti religiosi/religione (= soprattutto il cristianesimo) dall’altro. La Arendt, quindi, afferma come la filosofia morale non esiste là dove la religione, specialmente la religione cristiana, detta delle norme del comportamento umano e i criteri in base ai quali giudicare le nostre azioni. Per la Arendt, là dove c’è religione non può esserci moralità autentica. Perché? Là dove c’è religione non può esserci moralità autentica in quanto la religione impone dei comandamenti divini a cui si deve obbedire e sottostare. La filosofia morale, a differenza della religione (soprattutto cristiana), non deve avere come riferimento l’obbedienza a dei comandamenti (la filosofia morale non deve far si che si obbedisca a dei comandamenti divini) ma bensì la filosofia morale deve ricercare la “vita buona” (la Arendt, parlando del fatto che la morale deve ricercare la “vita buona”, riprende Aristotele). Va ricordato che, in realtà, il termine “OBBEDIENZA” è letteralmente traducibile con “ascolto dell’altro”. La Arendt, però, non riprende il termine “obbedienza” in questo suo senso originario ma bensì lo intende come “il SOTTOSTARE A NORME ESTERNE ” e ciò non ha nulla a che fare con una morale autentica. Nella religione, a differenza della filosofia morale, vi è il binomio obbedienza-disobbedienza, binomio per il quale l’uomo dovrebbe obbedire a quei comandamenti divini che la religione stessa impone. La filosofia morale, come accennato, non mira all’ottenimento dell’obbedienza dei comandamenti ma bensì mira alla ricerca di una “vita buona” (per la filosofia morale, l’uomo non deve obbedire a dei comandamenti divini ma bensì deve ricercare una “vita buona”). Per la Arendt, la RELIGIONE SI BASA SULL’OBBEDIENZA AL COMANDAMENTO DIVINO mentre la MORALE SI BASA SULLA RICERCA DI UNA “VITA BUONA” (poi comunque vedrò come la morale si basa anche sull’obbedienza a se stesso. Rimane comunque esclusa dalla moralità l’obbedienza al comandamento religioso). La Arendt, per far intendere come la filosofia morale, a differenza della religione, non si basi sull’obbedienza a comandamenti divini, riprende KANT, il quale affermava il fatto che l’uomo non ritiene alcune azioni come obbligatorie perché imposte dai comandamenti divini ma bensì considera alcune azioni come obbligatorie in quanto è l’uomo stesso che si sente internamente obbligato. Secondo Kant, quindi, l’uomo non compie quelle azioni obbligatorie perché obbligato dai comandamenti divini ma bensì perché esso si sente internamente obbligato. Secondo la Arendt, quindi, solo una volta che avviene l’emancipazione dai comandamenti religiosi, allora si potrà parlare finalmente di filosofia morale. Solo se ci si distacca dai comandamenti religiosi, allora si potrà parlare di filosofia morale. In linea con ciò, dunque, la Arendt va ad affermare come fino a Kant, mettendo da parte la parentesi dell’antichità, non è mai esistita autentica filosofia morale. Per la Arendt, al di là della parentesi dell’antichità in cui vi era un’autentica filosofia morale, FINO A KANT NON è MAI ESISTITA UN’AUTENTICA FILOSOFIA MORALE. Dopo l’antichità, in cui ancora vi era un’autentica morale, l’istaurarsi dei grandi monoteismi (primo fra tutti il cristianesimo) ha fatto si che non vi fosse più un autentica filosofia morale in quanto la moralità diventa legata all’obbedienza- disobbedienza dei comandamenti imposti da un certo monoteismo. 6 L’autentica filosofia morale si ha a partire da Kant, in quanto è esso in primis che non parla di obbedienza a comandamenti divini esterni ma bensì di obbedienza a se stessi. Secondo la Arendt, riprendendo Kant, l’unica obbedienza che si deve ammettere è L’OBBEDIENZA A SE STESSI. Per Kant, così come per la Arendt, l’uomo non obbedisce al comandamento divino ma bensì l’uomo obbedisce solo a se stesso. Quindi, è obbedendo a se stessi, e non al comandamento divino, che si rifonda la moralità. QUINDI, la moralità deve emanciparsi dal religioso, deve emanciparsi dall’obbedire al comandamento divino e deve approdare all’obbedienza solo nei confronti dell’uomo stesso. Nella moralità autentica, l’uomo non deve obbedire al comandamento divino imposto dalla religione ma bensì deve obbedire a se stesso. È SOLO OBBEDENDO A SE STESSO, E NON OBBEDENDO AL COMANDAMENTO RELIGIOSO, CHE SI RIFONDA UNA MORALITÀ AUTENTICA. Ciò è comprensibile in quanto avevamo già affermato come Kant considera alcune azioni come obbligatorie in quanto è l’uomo stesso che si sente internamente obbligato (metà pag. 6). Nella religione, il momento morale non è il momento fondativo di essa. Facendo riferimento alla religione cristiana, la morale non è un elemento fondativo di essa ma bensì è una sua conseguenza. La Arendt afferma come la morale non sia elemento fondante/centrale nel cristianesimo ed infatti essa, in linea con ciò, va proprio ad affermare come la morale cristiana si sia modificata nel corso del tempo, nel corso dei vari contesti storici. Ciò che permane nel cristianesimo non è la morale ma bensì è l’esperienza dell’uomo di un incontro con Dio e Cristo. Quindi, nel corso dei vari contesti storici, permane l’esperienza dell’uomo di un incontro con Dio e Cristo ma si modifica il modo dell’uomo di essere coerente a questa sua esperienza di incontro con Dio e Cristo. Facendo un esempio, fino all’anno 1000 i sacerdoti si possono sposare, mentre dopo l’anno 1000 non più. Nel corso delle varie epoche storiche cambia la disciplina, cambia il regolamento etico ma permane l’esperienza di fondo dell’incontro dell’uomo con Dio e Cristo. Nel corso delle epoche storiche permane l’esperienza dell’incontro dell’uomo con Dio e Cristo ma, per restare coerenti con il contesto storico che cambia, si vanno a modificare certe regole etiche/morali della religione. Fin qui, dunque, KANT è IL MODELLO DI RIFERIMENTO PER LA ARENDT. LA ARENDT RIPRENDE DA KANT COME NON SI DEBBA PARLARE DI OBBEDIENZA AI COMANDAMENTI ESTERNI MA BENSÌ DI OBBEDIENZA A SE STESSI. OBBEDIENZA A COMANDAMENTI -> NEGATIVO, NON SI PARLA DI MORALE AUTENTICA OBBEDIENZA A ME STESSO (elemento introdotto da Kant) -> POSITIVO, SI PARLA DI MORALE AUTENTICA Kant (nell’imperativo categorico) e la Arendt parlano di obbedienza a se stessi. Noi (e non la Arendt!) affermiamo, in realtà, come questo elemento dell’obbedienza a se stessi, questo ELEMENTO DEL SÉ che definisce un’autentica moralità, sia parzialmente presente anche all’interno della religione cristiana (ma non nella religiosità in senso ampio!). Noi (e non la Arendt!) affermiamo come la religione cristiana non sia caratterizzata solo dall’obbedienza al comandamento divino ma anche da una certa obbedienza al sé e questa obbedienza al sé, ad esempio, si può cogliere dalla celebre espressione cristiana “ama il prossimo tuo come TE STESSO”. Questo elemento dell’obbedienza al sé, che per noi è parzialmente presente nella religione cristiana, per la Arendt non è presente nella RELIGIONE IN SENSO AMPIO (e quindi nemmeno nella religione cristiana) in quanto la religiosità in senso ampio (e quindi anche la religione cristiana) è simile alla politica (nemmeno nella politica si parla di obbedienza al sé). La religiosità in senso ampio risulta essere simile alla POLITICA in quanto in entrambe vi è un qualcuno che detta delle leggi (nella religiosità è Dio) e un qualcuno che deve ubbidirvi (uomo) e perciò la religiosità in senso ampio non risulta essere caratterizzata da questa obbedienza al sé (nella religiosità si obbedisce al Dio e non al sé così come nella politica si obbedisce a chi fa le leggi e non al sé). Per la Arendt, nella religiosità in senso ampio (cristianesimo compreso) e nella politica non vi è l’obbedienza al sé, ma rispettivamente obbedienza al Dio (comandamenti) ed obbedienza a chi fa le leggi politiche. 7 “compiere il male per il male” (per cui se io compio il male lo compio solo perché in realtà io credevo che esso fosse bene), allora io vado anche a sostenere come la libertà sia connessa al bene (libertà = compiere il bene). Se si afferma il fatto che non si possa compiere il male per il male (e quindi se si afferma come si compia il male solo perché si credeva che esso fosse bene), allora si va ad affermare come tutti agiscano per il bene. Per la Arendt, ciò non è accettabile. Comunque, il punto di vista della religione e della morale per il quale vi è l’impossibilità nell’uomo di voler compiere il male per il puro piacere di farlo, sarà approfondito in altri capitoli.  Risposta che dà la ARENDT : La Arendt non accetta la risposta proposta dalla morale e dalla religione. Secondo la Arendt, in fondo, L’UOMO PUÒ ANCHE COMMETTERE IL MALE PER IL SEMPLICE GUSTO/PIACERE DI FARLO. Secondo la Arendt, a differenza di quanto sostenuto dalla morale e dalla religione, l’uomo può voler realmente commettere il male. La Arendt ritiene che vi sia la possibilità di compiere il male per il male. La Arendt ritiene come l’uomo che compie il male non lo compie solo perché in realtà lo confonde con il bene ma bensì lo può compiere anche perché vuole realmente compierlo. Secondo la Arendt, il male per il male è possibile quando si sospende la capacità di pensare dell’uomo. L’uomo può volere commettere il male quando viene sospesa la sua capacità di pensiero. Comunque, il punto di vista della Arendt per il quale vi è la possibilità nell’uomo di voler compiere il male per il puro piacere di farlo, sarà approfondito in altri capitoli. Paragonando il pensiero di Socrate, del cristianesimo, di Kant e della Arendt per quanto riguarda il concetto di bene e libertà: - Nel pensiero di Socrate si parlava di intellettualismo etico, ovvero si andava ad affermare come se l’uomo conosce il bene è impossibile che esso non lo faccia. Nel pensiero di Socrate, chi fa il male lo compie solo perché è ignorante del bene. Chi conosce il bene farà sempre il bene e, dunque, chi commette il male lo fa solo perché non conosce/è ignorante del bene. - Nel cristianesimo e fino a Kant, se tu fai del male è perché la tua libertà non è libera in quel momento. Tu fai del male perché sei condizionato da pressioni (leggi) esterne o interne che ti costringono ad agire male. Fino a Kant si sosteneva che il compiere il male per il male non fosse possibile. Se l’uomo, contrariamente, volesse realmente compiere il male per il male, allora così facendo sarebbe come se la sua libertà ponesse in essere il non essere (ponesse in essere ciò che essa non può essere). Se l’uomo ricercasse il male per il puro male, la libertà porrebbe non se stessa in quanto la libertà, secondo il cristianesimo (a anche secondo la morale) è connessa al bene. Secondo il cristianesimo (e secondo la morale), la libertà è connessa al bene per cui chi compie il male non lo fa perché volesse realmente il male ma lo fa perché in realtà credeva che quel male fosse un bene. Se si ammettesse che l’uomo compia il male per il male, allora si dovrebbe ammettere come la libertà ponga in essere il suo non essere e ciò è impossibile. Quindi, nel pensiero di Socrate e nel pensiero cristiano sino a Kant non vi è un ‘autentica ricerca del “male per il male”: In Socrate, l’uomo non ricerca il male per il male ma compie il male solo perché non conosce il bene; Nel pensiero cristiano sino a Kant, chi fa il male non lo fa perché lo desidera compiere per il puro gusto di farlo ma lo commette perché è costretto (dall’esterno o dall’interno). - Per la ARENDT, a differenza di quanto affermato da Socrate e dal pensiero cristiano sino a Kant, È POSSIBILE CHE L’UOMO COMPIA IL MALE PER IL MALE. 10 CAPITOLO 2 Questione della natura dell’Io in quanto coscienza Il secondo capitolo si apre con la questione della natura dell’IO IN QUANTO COSCIENZA (Io come coscienza). Come arriva ad affermare ciò Hannah Arendt? Come arriva la Arendt ad affermare che l’Io sia coscienza? La Arendt arriva ad affermare ciò perché essa nota che le massime morali (“ama il prossimo tuo come te stesso”, “non fare gli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” ecc.) hanno come riferimento di base l’Io: l’etica è la scienza che si occupa del nostro rapporto con gli altri e per parlare del nostro rapporto con gli altri occorre parlare di un Io. Le massime morali fanno riferimento sempre ad un Io (le massime morali vanno tutte sulle sponde dell’Io) e questo Io è inteso come coscienza. La Arendt, quindi, all’inizio del primo capitolo, si interroga sulla natura dell’Io e va ad affermare che esso sia coscienza. Cosa significa che Io è coscienza? Che significati comporta l’affermare che l’Io sia coscienza? Il termine “coscienza”, nel suo significato, oscilla tra una VALUTAZIONE IN SÉ MORALE (= io ho coscienza quindi ho una certa moralità. Ciò lo intendiamo anche nel nostro senso comune per cui, ad esempio, quando affermiamo di essere delle persone coscienti affermiamo di essere delle persone con una certa moralità) ed il semplice riferimento di “SAPERE DI SE STESSI” (io ho coscienza di me = io mi conosco). Secondo la Arendt, già il termine “coscienza” ha qualcosa a che vedere con la morale: per “coscienza” si intende un termine che oscilla tra l’avere una certa valenza morale (= io ho coscienza quindi io ho una certa moralità. Ciò lo intendiamo anche nel nostro senso comune per cui, ad esempio, quando affermiamo di essere delle persone coscienti affermiamo di essere delle persone con una certa moralità) e l’“avere conoscenza di se stessi” (io ho coscienza = io so di me stesso, io mi conosco, io conosco me stesso). Il termine coscienza, quindi, oscilla tra avere una coscienza morale e il sapere di se stessi. La Arendt, afferma poi come questa oscillazione del termine “coscienza” (“coscienza” che oscilla tra “l’avere una certa moralità” ed “avere una conoscenza di sé”) è già presente nel motto “Conosci te stesso” (iscritto sul tempio di Apollo nell’Antica Grecia) che era fondamentale nel pensiero socratico. Cosa si intende per “Conosci te stesso”? Cosa afferma questo “Conosci te stesso” che diventa centrale per il discorso socratico? Per “Conosci te stesso” si intende un’attività conoscitiva e morale insieme (io conosco me stesso e quindi da un lato ho conoscenza di me e dall’altro ho una morale. In ciò, secondo la Arendt quindi, era già presente il termine “coscienza” inteso sia come “conoscenza di se stessi” sia come “avere una certa moralità”). La Arendt afferma che LE PROPOSIZIONI MORALI APPARTENGONO ALLA COSCIENZA. In che modo? In che modo le proposizioni morali appartengono alla coscienza? In generale (quindi non strettamente nel pensiero della Arendt), le proposizioni morali potrebbero appartenere alla coscienza per due possibili modi: o perché sono autoevidenti o perché sono dimostrabili (= seguono un procedimento dimostrativo). Nello specifico, per la Arendt, le proposizioni morali appartengono alla coscienza perché LE PROPOSIZIONI MORALI SONO AUTOEVIDENTI ed infatti afferma come le proposizioni morali sono indimostrabili. Per meglio dire, la Arendt cercherà di elaborare una via di mezzo tra Socrate e Platone: - In Socrate, la ricerca di un principio morale segue il procedimento/ragionamento dimostrativo (si concatenano i ragionamenti per arrivare al fondamento). Per Socrate, le proposizioni morali sono dimostrabili. - In Platone, i principi morali sono autoevidenti. In Platone, il filosofo compie l’autoevidenza del bene. Tutti coloro che non sono in grado di cogliere l’autoevidenza del bene, devono obbedire ai filosofi, che infatti per Platone dovrebbero essere posti al governo della città, in quanto solo essi riescono a cogliere l’autoevidenza del bene. La Arendt cercherà di cogliere una via di mezzo tra Socrate e Platone (vedi fine pag. 12). 11 Nel constatare la presenza della moralità nella coscienza (sopra infatti avevamo detto che per la Arendt le proposizioni morali appartengono alla coscienza), la Arendt riprende il pensiero di KANT (nel pensiero di Kant, che poi riprende la Arendt, le proposizioni morali appartengono alla coscienza). La Arendt afferma che, nel pensiero kantiano, le proposizioni morali nella coscienza sono accompagnate da delle OBBLIGAZIONI ALLA MORALITÀ (nel pensiero kantiano, le proposizioni morali nella coscienza sono accompagnate da un “dovere per il dovere”, dal “Tu devi” o “Tu non devi”). Siccome per la Arendt quindi, riprendendo il pensiero kantiano, le proposizioni morali nella coscienza sono accompagnate da delle obbligazioni (sono accompagnate dal “dovere per il dovere”), allora ecco come ritorna il TEMA DELL’OBBEDIENZA. Il tema dell’obbedienza sembrava scomparire in quanto ci si stava emancipando dal religioso (il religioso era segnato dal tema dell’obbedienza), ma invece il tema dell’obbedienza ritorna con l’elemento dell’obbligazione che era presente del pensiero kantiano. Quindi, la Arendt riprende il pensiero kantiano e va ad affermare come le proposizioni morali nella coscienza siano accompagnate da delle obbligazioni; così facendo ritorna in auge il tema dell’obbedienza che invece sembrava stesse scomparendo in quanto ci si stava allontanando dal religioso (il tema dell’obbedienza ritorna nel pensiero della Arendt in quanto essa riprende l’elemento kantiano delle obbligazioni, obbligazioni che accompagnano le proposizioni morali nella coscienza). Cosa si annida dietro l’obbligazione? Cosa si nasconde dietro l’obbligazione? Secondo la Arendt, dietro all’obbligazione alla moralità si nasconde una MINACCIA. Secondo la Arendt, quando si aggiunge l’obbligazione, si vuol nascondere una minaccia. Secondo la Arendt, dietro il “ Tu devi ” e il “ Tu non devi ” (= obbligazioni tipiche del pensiero kantiano) si nasconde/cela un “ Altrimenti ”, vale a dire una minaccia. Siccome dietro l’obbligazione si nasconde una minaccia, allora non c’è ancora una piena emancipazione dalla moralità di tipo eteronomo. La minaccia che si cela dietro al “Tu devi” o al “Tu non devi” potrebbe essere inflitta da un Dio vendicativo, da una certa comunità o dalla coscienza che minaccia di punire l’uomo con una forma di autocastigo, autocastigo che solitamente chiamiamo “pentimento”. Nel caso specifico del pensiero di Kant, la coscienza minaccia di punire l’uomo con un “disprezzo di se stessi”. Secondo la Arendt, per COLORO CHE TEMONO IL DISPREZZO DI SE STESSI, il pentimento ecc. (= per coloro che temono la minaccia) le proposizioni morali sono autoevidenti e non c’è bisogno di alcuna obbligazione alla moralità (questi uomini NON FANNO UNA CERTA AZIONE MORALE PER IL “TU DEVI” MA PERCHÉ IL FARE QUELLA CERTA MORALE AZIONE È AUTOEVIDENTE). Per coloro che temono la minaccia che si nasconde dietro l’obbligazione, non c’è bisogno dell’obbligazione alla moralità (= non c’è bisogno del “Tu devi” o del “Tu non devi”) perché le proposizioni morali sono già autoevidenti. La Arendt poi analizza come esempio la situazione della Germania nazista e nello specifico si concentra su quelle pochissime persone che sono state in grado di non aderire al regime nazista. La Arendt afferma come quelle pochissime persone che sono state in grado di resistere al regime nazista non lo hanno fatto a causa di un’obbligazione (= non lo hanno fatto perché mosse dal “Tu non devi”, non lo hanno fatto perché “Tu non devi aderire al regime nazista”) ma lo hanno fatto perché IL RESISTERE AL REGIME NAZISTA ERA AUTOEVIDENTE. I pochissimi che non hanno aderito al regime nazista, non hanno resistito al regime per il “Tu non devi aderire al regime nazista” ma hanno resistito al regime per il “È EVIDENTE NON ADERIRE AL REGIME NAZISTA”. I pochissimi che non aderirono al regime non lo fecero perché la loro coscienza disse loro “Questo non devo farlo”, ma rifiutarono il regime perché la loro coscienza disse loro “QUESTO NON POSSO FARLO”. La Arendt va ad affermare come quelle pochissime persone che durante l’ascesa nazista si sono rifiutate di aderire a tale regime, non hanno mai dovuto affrontare alcun conflitto morale o alcuna crisi di coscienza o obbligazioni. Coloro che non hanno aderito al regime nazista non hanno dovuto affrontare alcune obbligazioni. Essi non sentirono in se stessi un obbligazione. Essi rifiutarono il regime non per un’obbligazione morale ma perché era autoevidente rifiutare tale regime. IN KANT, QUINDI VI È LA NECESSITÀ DI UN’OBBLIGAZIONE, mentre per la Arendt non è detto che ci debba essere sempre questa obbligazione alla moralità: infatti, nel caso dei pochi che resistettero al regime nazista, essi non resistettero per un’obbligazione ma resistettero perché era autoevidente farlo. Torniamo alla via di mezzo che la Arendt rappresenta tra Socrate e Platone (di fine pag. 11). Secondo la Arendt, quindi, chi agisce moralmente lo fa perché segue certi ragionamenti (Socrate) e perché segue certe obbligazioni 12 lato la Arendt stima di più Socrate ma dall’altro parla di autoevidenza che invece era vicina al discorso platonico? Possiamo identificare due possibili risposte sul come sia possibile che questi due elementi vadano insieme: - La Arendt parla sia delle vittime sia dei persecutori e come entrambi abbiano perso i binari della decisione morale. Il processo della banalità del male è rivolto a tutti, anche alle vittime, non solo ai persecutori. - Quando la Arendt afferma di stimare maggiormente la posizione socratica, non dobbiamo comunque intendere che la Arendt rinneghi la posizione platonica. La Arendt non afferma come la posizione platonica non vada bene in assoluto. La Arendt afferma come la posizione platonica sia una modalità attraverso cui si arriva a contemplare il bene morale. Secondo la Arendt, di fronte alla contemporaneità, si fa fatica ad accogliere l’idea nietzschiana della fine di tutti i valori, l’idea nietzschiana della morte del Dio. La Arendt afferma che la sua generazione fu la prima generazione a vivere al di sotto di un cielo vuoto (al di sotto di un cielo senza Dio). TEMA DEL “DUE IN UNO” che poi fonda il TEMA DEL “PENSARE” Attestato ciò, la Arendt torna a parlare di SOCRATE. La Arendt afferma come, all’interno del “Gorgia”, Socrate affermi come non si riesca a convincere gli altri di quel che si vuole come bene. Socrate infatti, nel “Gorgia”, non riesce a convincere nemmeno i suoi discepoli che sia bene agire in una certa maniera. La Arendt afferma come sia MEGLIO PATIRE IL MALE CHE INFLIGGERLO/FARLO e questo tema è un classico topos socratico che quindi la Arendt riprende. Perché secondo la Arendt, che riprende il pensiero socratico, è meglio patire il male che infliggerlo? È meglio patire il male piuttosto che farlo perché se io facessi il male, io sarei costretto a vivere con me-malfattore. È meglio subire il male piuttosto che infliggerlo in quanto: - se io facessi il male dovrei convivere con me-malfattore e non potrei sottrarmi da me stesso (se io faccio del male all’altro io sarei un malfattore e non potrei fuggire da me stesso); - se io subissi il male potrei scappare/fuggire da chi mi stia arrecando male (se io subissi del male dall’altro, l’altro sarebbe un malfattore e io potrei scappare/fuggire da lui); Per la Arendt, IO SONO DUE IN UNO SOLO (= TEMA DEL DUE IN UNO). Per la Arendt, IO SONO DUE IN UNO, IO CONVIVO CON ME E QUINDI IO NON POSSO FUGGIRE DA ME LADDOVE IO COMPIA IL MALE. È meglio subire il male in quanto io posso fuggire dall’altro ma non posso fuggire da me stesso e ciò porta al tema del due in uno: IO CONVIVO CON ME STESSO E QUINDI NON POTREI FUGGIRE DA ME STESSO SE IO FACESSI IL MALE. Se io facessi il male, io vivrei lacerato dentro di me in quanto io compirei il male e dovrei convivere con un me-malfattore. È meglio subire il male piuttosto che farlo in quanto se io subissi il male io potrei scappare dall’altro, mentre se io facessi il male io non potrei scappare/fuggire da me stesso ed in ciò, quindi, emerge il tema del 2 in 1 (= Io sono due in uno). Questo tema del 2 in 1 (Io sono due in uno) è il TOPOS SOCRATICO che più piace alla Arendt. Il tema del 2 in 1, per la Arendt, è un tema più socratico che platonico. Perché il tema del 2 in 1 è un tema più socratico che platonico? Il tema del 2 in 1 è un tema più socratico che platonico perché: - In Platone, il rivolgersi dentro di sé/il rivolgersi alla propria interiorità è in realtà un rivolgersi al di fuori di se stessi. In Platone, il rivolgersi a se stessi è un andare al di fuori di sé in quanto il parlare con se stessi è un parlare con una realtà ideale/un parlare con l’alterità. - In Socrate, il rivolgersi dentro di sé/il rivolgersi alla propria interiorità è un “reale” parlare con se stessi/è un reale parlare con la propria coscienza. La caratteristica propria della coscienza è l’essere 2 in 1. 15 Il tema del 2 in 1, quindi, è accennato all’interno del dialogo platonico del “Gorgia”, ma poi è meglio esposto/studiato in altri dialoghi platonici come il “Teeteto” e la “Repubblica”. Cosa esprime questo tema del 2 in 1? Cosa ci consente di mettere a fuoco questo tema del 2 in 1? La Arendt afferma come il tema del 2 in 1 apre al TEMA DEL PENSARE. Quindi, la Arendt giunge all’elaborare il tema del pensare: questo tema era molto caro anche al suo maestro Heidegger; questo tema del pensare sarà anche un tema al centro di una successiva opera della Arendt quale “La vita della mente”. Quindi, il tema del 2 in 1 apre al tema del pensare, il tema del 2 in 1 apre alla questione/problema di capire cosa significhi “il pensare”. La Arendt, definisce il pensare riprendendo la definizione socratica ed in linea con ciò va ad affermare come per “pensare” si debba intendere un dialogo tra sé e sé (dialogo per il quale l’uomo pone a se stesso delle domande e trae da sé le risposte) ed ecco quindi come ALLA BASE DEL PENSARE VI SIA IL TEMA DEL 2 IN 1. Il 2 in 1 è peculiarità dell’umano, la possibilità del dialogo interiore con se stessi è una peculiarità umana, nella possibilità del dialogo interiore con se stesso risiede l’umanità dell’uomo. L’umanità risiede nel dialogo che l’uomo ha con se stesso. IL PENSARE, QUINDI IL DIALOGO TRA SÉ E SÉ, MI DICE LA PECULIARITÀ DELL’UMANO. L’UMANITÀ È IL POTER DIALOGARE CON SÉ. Quindi, ripercorrendo il percorso di pensiero della Arendt: è meglio subire il male che fare il male -> tema del 2 in 1 (io convivo con me stesso per cui è meglio subire il male che fare il male) -> tema del pensare (il pensare è dialogo tra sé e sé e questa possibilità di dialogo è la caratteristica peculiare dell’umano). La Arendt, quindi, arriva ad affermare come il 2 in 1 sia espressione di una coscienza (= l’uomo è 2 in 1/l’uomo convive con se stesso) e questa coscienza si esercita nel pensare (il pensare è dialogo tra sé e sé nell’ottica dell’uomo come convivente con se stesso/nell’ottica del 2 in 1). Detto ciò, la Arendt smette di parlare di Socrate e Platone. La Arendt, una volta affermato come il pensiero, inteso come dialogo tra sé e sé sia peculiarità dell’umano, ci dice quali sono le conseguenze del discorso condotto sino ad ora. La Arendt afferma come: 1) Il PENSARE SIA UN REQUISITO PRE-FILOSOFICO: Se la mia umanità si ha per il dialogo tra me e me (quindi se la mia umanità si ha con il mio pensare. Io sono umano perché penso/perché dialogo con me stesso) ma non tutti gli uomini sono filosofi, allora la facoltà di pensare (= il dialogare con se stessi) precede la facoltà di filosofare/fare scienza (non tutti gli uomini sono filosofi). Se quindi si afferma come il pensare precede il filosofare, allora poi da ciò deriva come IL PENSARE NON COINCIDE CON IL FARE FILOSOFIA. Il pensare, quindi, è un requisito pre-filosofico. Il pensare è un qualcosa che si antepone/precede alla filosofia. Il pensare è un’attività che viene prima non solo della filosofia ma che viene prima di qualsiasi altra attività. Il pensare non è un’attività garantita ma bensì è un’attività che occorre sempre tenere sveglia/accesa perché il pensare è un’attività che si può spegnere/è un’attività che può venire meno anche se continuo a compiere altre azioni/attività nel mondo. Siccome la Arendt afferma come il pensare ed il filosofare non siano coincidenti (ma appunto il pensare precede il filosofare), allora la Arendt va poi ad affermare come vi possa essere un filosofare che non implichi il pensare. Secondo la Arendt VI È UN MODO DI FARE FILOSOFIA CHE NON SEGUE IL PENSARE. Il fatto che vi sia un modo di fare filosofia che non segua il pensare si ritrova nella Germania nazista: la Arendt afferma come se il filosofare coincidesse con il pensare, allora nella Germania nazista tutti i più grandi pensatori/intellettuali (tutti coloro che fanno filosofia) avrebbero dovuto pensare e quindi rifiutare il nazismo, MA siccome anche i più grandi pensatori/intellettuali aderirono al nazismo allora ciò sta proprio a significare come il filosofare non coincidesse con il pensare. Quindi, la Arendt afferma come tutti quei grandi pensatori/intellettuali che aderirono al regime nazista stessero filosofando ma senza pensare (ciò testimonia come filosofia e pensiero non coincidano). Se questi grandi filosofi avessero pensato, allora di certo non avrebbero aderito al nazismo. 16 Quindi vi sono degli intellettuali che filosofano senza pensare, che filosofano sospendendo la capacità profonda di pensare. Un esempio di questi intellettuali che filosofano senza pensare (che filosofano sospendendo la loro capacità profonda di pensare) sono proprio quei grandi intellettuali che durante il nazismo aderirono al regime. Questi intellettuali, quindi, sono proprio ciò che permette di dimostrare come filosofare e pensare non coincidano. 2) Conseguenza del fatto che il pensare sia un requisito pre-filosofico /Conseguenza del fatto che pensare e filosofare non siano coincidenti/Conseguenza del fatto che vi può essere un filosofare senza pensare: IL MALE È DETERIORARE LA CAPACITÀ DI PENSARE, il MALE È DETERIORARE LA PROPRIA UMANITÀ (umanità = poter pensare/poter dialogare con sé), il male è deteriorare la possibilità di poter dialogare con sé. Se il pensare, ovvero il poter dialogare tra sé e sé, dice la nostra umanità, allora il deteriorare questa possibilità di dialogo tra sé e sé indica il deteriorare se stessi, indica il deterioramento della propria umanità, indica il degenerare nel male. Secondo la Arendt, come si fa ad alimentare questo dialogo tra sé e sé? La Arendt afferma come il dialogo tra sé e sé (quindi il pensare) può essere alimentato tramite la capacità del RICORDARE : “ricordare” vuol dire continuamente avere presente a sé ciò che si fa, “ricordare” vuol dire riportare alla mente tutto il proprio passato, “ricordare” vuol dire riflettere tutto il proprio passato nel proprio presente. In questo “ricordare”, quindi in questo riflettere il passato nel presente/in questo riportare alla mente il proprio passato, si possono scovare dei miei errori. NEL MOMENTO IN CUI IO RICORDO IO DIALOGO TRA ME E ME (e quindi io penso). Il male frutto del “ricordare”, il male frutto di questo riflettere il mio passato nel presente NON è IL MALE BANALE. La Arendt, distingue quindi tra MALE “RIFLESSO” e MALE BANALE: - MALE “RIFLESSO”, MALE FRUTTO DEL RICORDARE, MALE RADICALE, MALE DEL “PROFONDO”: Quando io commetto un errore ma questo errore è FRUTTO DEL DIALOGO TRA ME E ME, allora questo errore è un tipo di male ma NON un male banale. Il male frutto del dialogo tra sé e sé (quindi il male dovuto al pensare quindi il male commesso dall’uomo) non è un male banale ma bensì è un male “riflesso”. Il male frutto di un dialogo interiore è un male perdonabile (perché c’è qualcuno da perdonare, ovvero l’uomo). - MALE BANALE/SUPERFICIALE : Il male banale si dà quando si DETERIORA LA CAPACITÀ DI PENSARE . Il male banale/radicale è il male che rimane in superficie, è il male che non è riflesso. Il male frutto di un dialogo interiore (= il male “riflesso”) è un male perdonabile, mentre il male banale è un male imperdonabile. Il male banale è un male imperdonabile perché non c’è nessuno da perdonare, perché il male banale è COMMESSO DA CHI DISMETTE LA PROPRIA UMANITÀ, ovvero è COMMESSO DA CHI SMETTE DI PENSARE/DIALOGARE TRA SÉ E SÉ (infatti l’umanità si ha col pensare, con il poter dialogare con se stessi). Questo male banale viene definito dalla Arendt come il male che commette il “SIGNOR NESSUNO” ed è questo il male che la Arendt teme di più: il male che più teme la Arendt è il male compiuto dal “signor Nessuno”, ovvero è il male commesso da chi ha perso la sua umanità (= MALE COMMESSO DA CHI NON è PERSONA), da chi non è più 2 in 1, da chi ha smesso di pensare, da chi ha smesso di dialogare con se stesso. IL CENTRO DELLA DIFFERENZA TRA PENSIERO E FILOSOFIA È IL TEMA DEL RICORDO. Quando io ricordo, ovvero quando io riporto me stesso su ciò che è avvenuto/su ciò che ho fatto ecc., io dialogo tra me e me E GUADAGNO IN PROFONDITÀ E SPESSORE UMANO. IL MALE PEGGIORE, QUINDI, È IL MALE BANALE OVVERO IL MALE COMPIUTO DA CHI NON RICORDA, DA CHI NON PENSA, DA CHI NON DIALOGA TRA SÉ E SÉ, DA CHI NON VA NELLE PROFONDITÀ DELLA SUA UMANITÀ MA BENSÌ DA CHI RESTA IN SUPERFICIE. IL MALE BANALE, quindi, È IL MALE SUPERFICIALE: il male banale è il male superficiale in quanto è il male che viene commesso da chi non dialoga tra sé e sé e quindi da chi non scende nelle profondità della sua umanità ma bensì da chi resta in superficie. 17 l’uomo è da solo (non è con altri uomini) ma è sempre in compagnia di qualcuno, ovvero di se stesso (perché ricordiamo che l’uomo è 2 in 1). - ISOLAMENTO : è condizione per la quale l’uomo è da solo (non è in compagnia di altri uomini) e nemmeno in compagnia di se stesso. L’uomo si trova in una condizione di isolamento quando NON È NÉ IN COMPAGNIA DI ALTRI E NÉ IN COMPAGNIA DI SE STESSO. L’isolamento è quella condizione per la quale l’uomo è presente parzialmente a se stesso, l’uomo è alienato, l’uomo non è in compagnia né di altri né di se stesso.  L’isolamento, però, non va connotato subito negativamente in quanto ci sono molte attività che richiedono questo isolamento (che richiedono la sospensione del rapporto con gli altri e la sospensione del dialogo interiore). L’isolamento può essere un requisito indispensabile per tutti quei lavori che richiedono la massima concentrazione quali: attività produttive, di fabbricazione, lo studio ecc.  L’isolamento può avere però anche una connotazione negativa. L’isolamento ha anche una connotazione negativa in quanto io, isolandomi dagli altri e da me stesso, posso sentirmi abbandonata. L’isolamento quindi, in senso negativo, coincide con l’abbandono. L’isolamento, quindi, di per sé non è un male ma può esserlo. Il dialogo interiore come avversario dell’obbedienza Il modello di questa operazione dialogica (dialogo tra sé e sé, 2 in 1, pensare) è Socrate: infatti, la storia di Socrate, così come ce la racconta Platone, è una continua messa in questione della realtà esterna e questa realtà esterna diventa il centro del mio dialogo interiore (io dialogo con me stesso sulla realtà esterna). Il 2 in 1, il dialogo interiore, è avversario dell’obbedienza. Per obbedienza si intende il cieco aderire a qualcosa che arrivi dal di fuori/esterno di me e quindi, affermando come il dialogo interiore sia avversario all’obbedienza, affermiamo come il dialogo interiore fa si che l’uomo non aderisca ciecamente a qualcosa che provenga dall’esterno di sé. Tornando a Socrate, Socrate viene condannato dallo Stato in quanto personaggio “scomodo” che aiutava gli altri a dialogare tra sé e sé e quindi personaggio che poneva in questione/dubbio l’incondizionata/cieca obbedienza. Socrate mette in discussione/dubbio l’INCONDIZIONATA OBBEDIENZA e per questo viene condannato e ucciso (Socrate fa dialogare gli altri con se stessi e ciò metteva fine all’incondizionata obbedienza). La Arendt, quindi, affermando come Socrate avesse messo in dubbio l’incondizionata obbedienza (ovvero quell’obbedienza per la quale l’uomo, senza dialogare tra sé e sé, obbedisce ciecamente a qualcosa di esterno), intende affermare anche come forse in realtà esista anche un’” CONDIZIONATA OBBEDIENZA” (obbedienza per la quale l’uomo dialoga tra sé e sé e poi obbedisce. In questo caso della condizionata obbedienza, l’obbedienza viene filtrata dal dialogo interiore dell’uomo). In chiave politica, per la Arendt, l’Io (inteso come 2 in 1) si presenta come l’ultimo baluardo che si oppone/che fa resistenza al male. Di fronte al male banale, l’Io rimane l’ultimo baluardo che ci difende dal male. L’Io, sul piano politico, rappresenta una sorta di “misura di emergenza di fronte al male”. La Arendt afferma come tutta questa questione del 2 in 1 (che riportava anche nel capitolo 2) sia valida in casi eccezionali, sia valida in caso di un male dilagante. Il 2 in 1, il dialogo tra sé e sé è l’unica ancora di salvataggio quando il male è ormai dilagante (quando si è in una situazione di emergenza). Quindi, la figura di Socrate è preziosa per i casi eccezionali. 20 Successivamente, la Arendt afferma come questo 2 in 1 che apre al pensare sembra difficilmente compatibile con L’AGIRE. Perché? Perché questo 2 in 1 pone un problema nel rapporto con l’agire? Il 2 in 1 pone un problema rispetto all’agire in quanto, quando sono nel dialogo con me stesso, sono in una posizione riflessiva su di me e questa è una posizione per la quale io non sono in azione. Quando io dialogo con me stesso, io sono in una posizione che precede o che segue l’agire ma non sono in una posizione di azione/agire. Nel momento in cui comincia l’agire, io sono gettato fuori da me stesso e quindi fuori dal mio dialogo interiore. Secondo la Arendt, quando siamo gettati nell’agire ormai ciò che è stato deciso interiormente è ormai stato deciso. Si procede nell’agire come se l’agire chiedesse solo l’UNO e non il due in uno. L’agire chiede più l’uno che il due in uno, invece il pensare necessita del due in uno (= del dialogo interiore). NELL’AGIRE NON C’È 2 IN 1, NELL’AGIRE NON C’È DIALOGO INTERIORE (il dialogo interiore e quindi l’essere 2 in 1 è necessità del pensare ma non dell’agire). AUTOCRITICA DELLA ARENDT Successivamente, nel terzo capitolo si apre all’autocritica della Arendt. La Arendt si sottopone ad una sua autocritica in quanto afferma che il discorso condotto sino ad ora (il discorso sul dialogo interiore, il discorso sul tema del due in uno ecc.) può essere sottoposto a critica se si tiene conto di alcuni elementi. La Arendt compie una propria autocritica in quanto si domanda se tutto il suo discorso sul dialogo interiore (e quindi sul 2 in 1) fosse in realtà un qualcosa di soggettivo e valido solo in certi contesti. La Arendt si domanda quindi se questo suo dialogo interiore fosse in realtà un qualcosa di soggettivo e quindi non valido del tutto da un punto di vista morale. La Arendt afferma come del suo discorso sul tema del dialogo interiore ecc. le si possa fare una critica ovvero LE SI POSSA CRITICARE DI ESSER STATA SOGGETTIVA , ovvero le si possa criticare di non aver proposto nessun criterio morale oggettivo . La Arendt, per rispondere alla critica di esser stata soggettiva che le si potrebbe rivolgere, riporta come esempio due importanti personaggi della storia del pensiero ed afferma come questi due grandi personaggi abbiano in realtà ricevuto la stessa critica che essa si autorivolge (critica di esser stata soggettiva). La Arendt, quindi, afferma come effettivamente, ENTRANDO IN CONTATTO CON IL SUO DISCORSO SUL TEMA DEL DIALOGO INTERIORE ECC. , SI POTREBBE PENSARE CHE QUESTE TEMATICHE SIANO DELLE TEMATICHE SOGGETTIVE (e quindi non valide da un punto di vista morale oggettivo) ma poi riporta il fatto che persino due tra i più grandi pensatori della storia hanno ricevuto una critica di questo genere (una critica per la quale i loro pensieri venissero considerati soggettivi). Questi due personaggi molto importanti nella storia del pensiero che la Arendt riprende ed analizza sono CICERONE e ECKHART. Perché la Arendt prende in considerazione questi due personaggi? La Arendt prende in considerazione questi due personaggi in quanto: - Sono due personaggi molto diversi tra loro : Cicerone fa riferimento al mondo precristiano (Cicerone è ancora legato al mondo antico); Eckhart fa riferimento al mondo cristiano medievale (con Eckhart siamo a cavallo tra il 1200 ed il 1300). - Nonostante Cicerone ed Eckhart siano due personaggi molto diversi tra loro (vivono in epoche differenti, sono figli di un pensiero differente ecc.), essi giungono alla medesima conclusione: entrambi affermano come, ogni qualvolta che si deve scegliere il bene o il male, ciò che è determinante in questa scelta è la soggettività. Cicerone ed Eckhart affermano come, nel compiere il bene o il male, SIA DETERMINANTE LA SCELTA SOGGETTIVA DELL’INDIVIDUO. Secondo Cicerone ed Eckhart la scelta morale, la scelta morale tra bene e male, è personale e soggettiva. Quindi, la Arendt afferma come ad essa si potrebbe rivolgere la critica di esser stata soggettiva. Successivamente riporta come in realtà questa critica fu mossa anche a due tra i più grandi della storia del pensiero, quali Cicerone ed Eckhart. 21 Nello specifico, la Arendt afferma come il punto sul quale concordano Cicerone ed Eckhart sia il fatto che, in un certo momento, tutte le norme oggettive di riferimento (verità, castighi, ricompense dell’aldilà ecc.) devono dare la precedenza a un criterio assolutamente soggettivo, criterio soggettivo in base al quale io scelgo CHI voglio essere e CON CHI voglio passare il resto dei miei giorni. Il TEMA “DEL CHI” racchiude interamente il pensiero della Arendt: l’identità dell’uomo si dà in una scelta personale (scelta per la quale l’uomo decide “chi vuole essere”) che è anche una scelta comunitaria (scelta per la quale l’uomo decide “con chi” stare ecc.”). La Arendt afferma come, tramite le parole di Cicerone ed Eckhart, ciò che resta all’uomo è la scelta di chi esso vuole essere e la scelta del con chi esso vuole essere. La natura dell’azione Arendt poi prosegue il discorso considerando la NATURA DELL’AZIONE. La Arendt, quindi, termina il suo discorso sulla coscienza ed entra nel tema dell’azione. Passando dal tema della coscienza al tema dell’azione, la Arendt passa dalla considerazione dell’Io alla CONSIDERAZIONE DELL’ALTRO: quando la Arendt compiva il discorso sull’etica ed il male, ci si riferiva all’Io (i principi morali come il “non fare agli altri quello che non volessi fosse fatto A TE” prendevano in considerazione l’Io); quando si entra nella sfera dell’azione il baricentro non è più sull’Io ma sull’altro, quando la Arendt parla della sfera dell’azione non prende in considerazione l’Io ma bensì PRENDE IN CONSIDERAZIONE L’ALTRO. Quando si parla di azione, quindi, assistiamo ad uno spostamento di baricentro: dall’Io, che mi serve per prevenire il male, all’altro che mi serve ad agire per il bene. La Arendt afferma come, quando si parla di agire, occorre parlare di due fenomeni connessi tra loro: fenomeno della VOLONTÀ, che mi spinge ad agire; PROBLEMA DELLA NATURA DEL BENE.  QUESTIONE DELLA VOLONTÀ: Per spiegare cosa sia la volontà, la Arendt ci propone un’immagine particolare: la Arendt cerca di spiegare cosa sia la volontà proponendo un’immagine per la quale essa descrive cosa accade laddove essa desideri mangiare un piatto pieno di fragole che le si ponga davanti. La Arendt, dunque, descrive cosa sia la volontà tramite un’immagine per la quale essa descrive cosa accade laddove essa desideri mangiare un piatto ricolmo di fragole. Parlando di essa che potrebbe magiare o meno le fragole, la Arendt descrive 3 importanti facoltà: - DESIDERIO : Il desiderio, sin dall’antichità, è sempre stato inteso come un’attrazione per qualcosa di esterno (nel caso di essa che vuole mangiare le fragole, il desiderio sarebbe l’attrazione per le fragole). - RAGIONE : La ragione, sin dall’antichità, era quella facoltà che gestiva il cedere o meno dell’uomo al desiderio. Da ciò, quindi, deriva come, per gli antichi, il soddisfacimento del desiderio (= il mangiare o meno le fragole) derivi da: - Forza del desiderio , desiderio che farà si che io mangi le fragole. Se il desiderio è più forte della ragione, allora io mangerò le fragole. - Forza della ragione , ragione che si opporrà al desiderio e farà si che io non mangi le fragole. Se la ragione è più forte del desiderio, allora io non mangerò le fragole. La Arendt, afferma come a queste due importanti facoltà di desiderio e ragione ne vada aggiunta una terza, ovvero la facoltà della VOLONTÀ: Secondo la Arendt, la volontà è quella facoltà umana che permette all’uomo di dire di sì o di no ai precetti della ragione. È la volontà che permette all’uomo di soddisfare i suoi desideri (= dire di sì alla ragione, dire alla ragione che può soddisfare quei desideri) o meno (= dire di no alla ragione, dire alla ragione che non può soddisfare quei desideri). Secondo la Arendt si cede al desiderio non per debolezza della ragione o per forza eccessiva del desiderio ma si cede al desiderio per volontà di voler soddisfare quel desiderio. Secondo la Arendt, la 22 altri. Quindi, alla luce di ciò, il riprendere la “Critica della ragion partica” è impossibile in quanto non vi sono dei principi morali universali/validi per tutti ma bensì ognuno ha i propri. KANT IERI IMPAZZIVA DI FRONTE ALLA NON UNIVERSALITÀ DEL BELLO e oggi la ARENDT IMPAZZISCE DI FRONTE ALLA NON UNIVERSALITÀ DELLA MORALE. La Arendt afferma di voler applicare oggi al piano morale quello che Kant ieri applicava sul piano estetico. La Arendt afferma come, per poter applicare oggi al piano morale quello che Kant ieri applicava sul piano estetico, occorre utilizzare capacità di immaginazione e capacità di rappresentazione. Attraverso l’immaginazione e la rappresentazione era possibile, per Kant ieri e per la Arendt oggi, formulare dei giudizi.  PARLANDO DI KANT: Cosa affermava KANT quando egli parlava del giudizio del bello? Kant affermava come, quando qualcuno diceva “questo è bello”, quel qualcuno non si limitava a far intendere che quel qualcosa piacesse lui ma inoltre sperava anche che gli altri dicessero “questo è bello”. Kant, nel giudizio estetico, affermava come, quando qualcuno diceva “questo è bello”, quel qualcuno volesse/sperasse in fondo che anche gli altri dicessero “questo è bello”. Kant affermava come colui che faceva un giudizio estetico (= chi diceva “questo è bello”) mirasse al raggiungimento dell’universale (mirasse al fatto che anche gli altri dicessero “questo è bello”). Per Kant, nel giudizio estetico si mirava all’universale. Quando io dico “questo è bello” in fondo spero che anche gli altri dicano “questo è bello”. In questo modo, KANT TROVA UN’UNIVERSALE NEL GIUDIZIO ESTETICO (universale nel giudizio estetico che Kant era ossessionato dal trovare tanto che il non trovare universalità nel bello lo faceva “impazzire”).  PARLANDO DELLA ARENDT: Quindi, come con Kant siamo di fronte al giudizio estetico che nel suo essere formulato mira costantemente all’universale (abbiamo detto infatti che per Kant il giudizio estetico/giudizio del bello mira a raggiungere l’universale), così CON LA ARENDT SIAMO DI FRONTE AL GIUDIZIO MORALE CHE NEL SUO ESSERE FORMULATO MIRA COSTANTEMENTE ALL’UNIVERSALE. Secondo la Arendt, quando noi formuliamo un giudizio morale (ad esempio, quando dico che qualcosa è bene) noi non vogliamo che quel giudizio morale sia valido solo per noi ma bensì anche per gli altri (ad esempio, noi non vogliamo che quel qualcosa sia bene solo per noi ma bensì vogliamo che quel qualcosa sia bene anche per gli altri). Secondo la Arendt, così come era per il giudizio estetico in Kant, IL GIUDIZIO MORALE HA UNA VALENZA INTERSOGGETTIVA e quindi NON SOGGETTIVA/PARTICOLARE. La Arendt, proseguendo sul tema del giudizio, afferma come nella formulazione del giudizio sia di fondamentale importanza il MOMENTO DELLA RAPPRESENTAZIONE e DELL’IMMAGINAZIONE: la Arendt afferma come il momento rappresentativo e immaginativo siano di centrale importanza laddove si parli di formulazione del giudizio in quanto nel momento rappresentativo e immaginativo io figuro la mia norma morale (figuro la norma morale che io vorrei fosse di tutti, che io vorrei fosse universale). La Arendt afferma come un giudizio sia formulato a seconda della rappresentazione che l’individuo si fa su quel qualcosa sul quale esso è chiamato ad esprimere un giudizio. Per farci capire ciò, la Arendt propone un esempio per il quale essa va ad affermare come un soggetto possa esprimere un giudizio su una “catapecchia” solo dopo aver tentato di rappresentare come lui si sentirebbe se dovesse vivere lì. Quindi, solo dopo aver immaginato come lui potrebbe vivere lì (vivere in miseria ed in povertà) allora il soggetto giudica quella “catapecchia” come tale. La Arendt afferma come quando io effettuo un giudizio morale, io attingo dentro di me (= dialogo tra me e me, ho il mio dialogo interiore) per poi immaginare e rappresentare un qualcosa che in realtà non è pensato solo da me perché il mio dialogo interiore è anche contaminato dalla relazione con gli altri. Il contesto nel quale sono (= gli altri), quindi, influenza la mia rappresentazione, influenza la mia immaginazione. 25 Detto tutto ciò, quindi detto che per la Arendt i giudizi morali hanno una valenza universale (anche se ciò non è propriamente corretto!), possiamo quindi dire che i giudizi morali sono delle norme oggettive valide per tutti? NO, la Arendt afferma come i giudizi morali non siano delle norme oggettive valide per tutti (non possiamo dire che i giudizi morali sono oggettivi e validi per tutti). Per meglio dire, per la Arendt, i giudizi morali non hanno né validità oggettiva e universale né validità puramente soggettiva e personale: PER LA ARENDT I GIUDIZI MORALI HANNO VALENZA INTERSOGGETTIVA O RAPPRESENTATIVA. La Arendt, quindi afferma come non si possa giungere ad un principio realmente universale e oggettivo al quale aspirava Kant ma bensì possiamo solo accontentarci di essere giunti a PARLARE DI UNA VALENZA INTERSOGGETTIVA (e quindi sicuramente non soggettiva). Per la Arendt, nel pensiero di Kant L’UMANO è PLURALITÀ (= umano come irriducibile ad una cosa sola, umano come 2 in 1 ecc.) soltanto nel giudizio estetico (per la Arendt, secondo Kant l’uomo è plurale solo nell’ambito del giudizio estetico). Secondo la Arendt, invece, l’umano è plurale in tutti i giudizi, non solo in quelli estetici come invece era nel pensiero di Kant. In conclusione, DA COSA CAPISCO COSA SIA BENE E COSA SIA MALE? Esiste qualcosa a cui aggrapparsi per discernere/distinguere il bene dal male ? Arendt risponde a questa domanda con “Sì e no”. Perché la Arendt afferma ciò? La Arendt afferma ciò perché: -Questo qualcosa a cui aggrapparsi per discernere il bene dal male sembrerebbe far riferimento agli usi e costumi della società a cui apparteniamo e quindi far riferimento ai criteri stabiliti intersoggettivamente. Il distinguere il bene dal male potrebbe dipendere dai criteri della mia intersoggettività (ad esempio dai criteri stabiliti dalla comunità alla quale appartengo). Questo però non ci mette a riparo dal totalitarismo (non ci mette a riparo dal male) perché potrebbe darsi che dentro una stessa intersoggettività (comunità) vi potrebbe essere una norma morale per la quale sia giusto compiere un certo male (ad esempio in una certa intersoggettività potrebbe darsi che vi sia una norma morale per la quale sia giusto che gli ebrei vengano deportati nei campi di concentramento). Quindi, il fatto che i criteri morali siano intersoggettivi (e quindi né universali né soggettivi) ha una certa importanza ma non ci mette del tutto a riparo dal male perché potrebbe darsi che in una certa intersoggettività vi sia comunque un principio morale per il quale sia giusto fare del male. -La Arendt parla della CATEGORIA DELL’ESEMPIO : Per la Arendt, gli esempi sono le “dande” del giudizio ovvero sono le direttrici/linee guida entro cui il giudizio si muove. Quando noi formuliamo un giudizio morale noi abbiamo sempre delle linee guida/direttrici che guideranno il nostro giudizio. Il nostro giudizio sarà formulato sulla base delle nostre linee guida/direttrici e quindi esempi (determinati personaggi ecc.) a cui noi ci ispireremo per formulare il nostro giudizio. In altre parole, la Arendt si chiede come sia possibile distinguere il bene dal male. La Arendt afferma come si possa distinguere “più o meno” il bene dal male rifacendosi ai criteri dell’intersoggettività e rifacendosi agli esempi. Non si può distinguere il bene dal male in modo assoluto (e quindi non ci si può difendere dal male) né se ci si rifà all’intersoggettività (potrebbe darsi che nell’intersoggettività/comunità vi sia una norma per la quale sia giusto fare del male) né se ci si rifà ad un esempio (potrebbe darsi che il personaggio che prendiamo come esempio per la formulazione del nostro giudizio abbia dei principi morali non orientati al bene). L’intersoggettività e la categoria dell’esempio in parte mi dicono una certa possibilità di discernere/distinguere il bene dal male ma dall’altra non mi permettono di distinguere il bene dal male in maniera oggettiva/assoluta/indiscutibile. NÉ L’INTERSOGGETTIVITÀ NÉ GLI ESEMPI MI GARANTISCONO L’OGGETTIVITÀ MORALE (ma almeno danno delle indicazioni su cosa sia bene e su cosa sia male!). 26 CONCLUSIONE Per la Arendt, le nostre decisioni sul bene o sul male dipendono dalla scelta dei nostri compagni, dalla scelta del “con chi” vogliamo essere in compagnia (compagnia sia di persone vive, sia si persone morte, sia di persone reali, sia di persone irreali. Si vede in ciò l’importanza sia dell’intersoggettività sia dell’esempio). Per la Arendt, i pericoli maggiori per la società sono quindi: - Scelta della “compagnia sbagliata”: scegliere di voler essere in compagnia di qualcuno che persegue il male (= Hitler). - Indifferenza : uno dei pericoli maggiori per la società è il fatto di essere indifferenti sul piano politico e sul piano morale, ovvero è l’affermare come “qualsiasi compagnia andrà bene per noi”. - Non voler giudicare affatto, non voler discutere su cosa sia bene e su cosa sia male. Per la Arendt, l’indifferenza è peggio dello “scegliere la compagnia sbagliata” ma è altresì vero che il non voler giudicare affatto è ancor peggio dell’indifferenza. 27
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