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Alcuni saggi di Inattualità Pedagogiche, Sintesi del corso di Pedagogia

Alcuni saggi di Inattualità Pedagogiche

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 29/06/2023

Francescalan94
Francescalan94 🇮🇹

4.5

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Scarica Alcuni saggi di Inattualità Pedagogiche e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! INATTUALITA’ PEDAGOGICHE Dall’ubbidienza alla fiducia: riscoprire parole inattuali – Marinella Attinà Bisogna riscoprire la valenza paidetica di alcuni lemmi pedagogici entrati in disuso. Parole antiche come: ubbidienza, disobbedienza, fiducia che dagli anni 60 del XX secolo sono state trascurate dal dibattito pedagogico contemporaneo. Il termine obbedienza evoca la figura di Don Lorenzo Milani: egli sosteneva, in “Lettera ai giudici”, che l'obbedienza non è ormai più una virtù ma la più subdola delle tentazioni, di cui i giovani non devono farsene scudo ma bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto. Questa lettera contiene la memoria difensiva che Don Lorenzo Milani scrisse, non potendosi presentare al processo per gravi motivi di salute, in risposta alla denuncia che un gruppo di militari gli aveva rivolto. Essa si rifaceva a una precedente “Lettera ai cappellani”, nella quale il sacerdote chiedeva rispetto per coloro che accettano il carcere in nome dell'ideale della non violenza. L'istanza che poneva Don Milani era un vero manifesto contro l'obbedienza cieca. Essa oggi continua a suscitare un autentico sentimento di riprovazione e il suo contrario, la disobbedienza civile, oggi non viene messa minimamente in discussione. Potrebbe apparire anacronistico e antidemocratico, inattuale, il tentativo di ricentralizzare la virtù dell'ubbidienza, soprattutto dopo aver citato l'invito a disobbedire da parte di Don Milani. Si vuole sottolineare soprattutto la valenza del diritto a non obbedire acriticamente. Il movimento studentesco del 68 inaugurò un nuovo stadio tattico della disubbidienza civile. Con il movimento studentesco la disobbedienza opera come strumento di ripoliticizzazione rivoluzionaria, che dall'università si estende all'intera società e aspira essere motore di un lungo processo di trasformazione. La ricontestualizzazione semantica dell'obbedienza muove dalla ricentralizzazione dell'etimologia della parola ubbidire, che potrebbe consentirne un suo ritorno. Una sorta di mistica della disobbedienza ha alimentato una sorta di dismissione etico-civile da compiti educativi autentici. Tale progressiva dismissione è stata favorita in parte da alcuni equivoci teoretici, che hanno confuso il rapporto tra bisogni, interessi e diritti, in parte dalla radicalizzazione ideologica dell'antinomia autorità-libertà, trasformatasi in autoritarismo- permissivismo e in parte dalla sovrapposizione del termine educazione con altri termini, come formazione, sviluppo, apprendimento, fino alla riduzione del processo educazionale a mero processo istruttivo. La vicenda moderna della connessione libertà/responsabilità, autorità autorevolezza tende ad avvitarsi nella dialettica autoritarismo/permissivismo. La modernità spazza via l'eccesso di autoritarismo e il nesso libertà/responsabilità, in una sorta di degenerazione permissivista dell'educazione umana. L'etimologia di obbedienza si ricollega al latino e all'unione del prefisso ob (dinnanzi) col verbo audere (ascoltare). Obbedire significa letteralmente ascoltare chi sta dinnanzi e, dunque, prestare ascolto. L'ubbidienza sembra rimandare alle dinamiche dell'ascolto e del dialogo. L'etimologia della parola la libera dal falso concetto di obbedienza, intesa come passivo azzeramento della volontà. La radice dell’ubbidienza è nella sua dialogicità frontale, che vuole e presuppone uno che parli e l'altro che ascolti e risponda. Facendo riferimento al saggio di Giuliano Minichiello, l’Obbedienza, l'obbedienza costruttiva, secondo l'autore, è intesa come quella che assume, insieme con il soggetto, la persona come compito. Ma può farlo solo a condizione che il comando e la scelta siano entrambi fondati su questo compito. Il passaggio dal piano etimologico ha un piano più semantico conduce a quella fenomenologia dell'obbedienza sempre più identificata con l'obbedienza distruttiva all'autorità, incarnata dalla figura di Adolf Eichmann, il criminale nazista sottoposto al processo di Israele, il trasportatore di morte dalle sembianze troppo umane, che assumerà nelle pagine di Hanna Arendt il profilo che incarna la banalità del male. L'obbedienza cadaverica, per la Arendt, è l'espressione banale di un uomo banale come Adolf Eichmann. Il "tu devi” kantiano si trasla nel “non eravamo liberi di non fare”. Fu questa la linea difensiva dei criminali nazisti al processo di Norimberga facendo intendere che l'orrore dell'olocausto era nato non dall'infrazione all'ordine ma, paradossalmente dalla sua disciplinata applicazione. Gli esperimenti sull'obbedienza, condotti dallo psicologo sociale Milgram dal 1960 al 1963 nell'università di Yale, dimostrarono che l'obbedienza è un impulso dinanzi al quale molti individui sono indifesi. Un soggetto inserito in un sistema gerarchico a base autoritaria approda a uno stato eteronomico in cui sente delle responsabilità verso l'autorità, ma non si sente responsabile del contenuto delle azioni prescritte dall'autorità. La moralità non sparisce ma assume delle caratteristiche diverse: la persona subordinata prova vergogna o orgoglio a seconda di come svolge i compiti assegnategli dall'autorità. Il super-io non svolge più la funzione di giudicare se un'azione è buona o cattiva, ma si limita ad accertare se una persona funziona più o meno bene nel sistema di autorità. Poiché le forze inibitorie che impediscono a un individuo di comportarsi crudelmente verso gli altri sono deviate, le azioni non sono più limitate dalla coscienza. Si è di fronte a un’obbedienza irrazionale, determinata da una sorta di de-individualizzazione del soggetto, connessa a una progressiva de- sensibilizzazione dello stesso, che sono collocate all'interno di un processo di de- responsabilizzazione. La riattualizzazione semantica dell'obbedienza passa per la sua intima connessione all'ideale della responsabilità. L'obbedienza è un elemento essenziale per l'organizzazione della vita sociale ed è considerato una virtù laddove appare legittima e appropriata. L'obbedienza acquista senso attraverso una relazione. Proprio la relazione tra famiglia e scuola offre una riflessione per una ri-attualizzazione dell'atto di ubbidire, che deve fare i conti con la messa in discussione dell'autorità. Autorità troppo spesso liquidata in nome di un’autorevolezza che rinvia a un'idea di autorità legittimata perché condivisa ma è inutile negare che affinché vi sia autorevolezza occorre che vi sia un qualche pur riconoscimento di autorità. I colpi di frusta all'autorità che hanno messo in discussione e reso fragili gli ambiti della famiglia e della scuola, hanno minato la profonda convinzione che queste due agenzie fossero deputate se non all'educazione, almeno alla socializzazione primaria e secondaria. Le continue forme di violenze verbali e non, manifestatesi nelle aule scolastiche, l'evaporazione della figura del padre che incarna la legge della parola, sembrano porre l'urgenza di una riproposizione dell'obbedienza, che possa affidarsi non all'imposizione o all'addestramento ma alla responsabilità e alla fiducia. Non si tratta di attuare un semplice passaggio lineare dall'obbedienza alla responsabilità, ma di immaginare contemporaneamente anche il passaggio inverso, dalla responsabilità all'ubbidienza, secondo una progettualità educativa che segua una logica ricorsiva. Se infatti ubbidire significa prestare ascolto, e responsabilità rinvia a un rispondere presente, si comprende come queste due dimensioni possano trovare coesione presso l'azione dell'affidarsi. Affidarsi, avere fiducia, quell'atto primigenio diventa nel cucciolo d'uomo, cui l'educazione dà forma, atto consapevole che fonda l'ubbidire costruttivo. Non vi è responsabilità in senso proprio finché non ci si confronta con l'assenza di criteri. La fiducia richiama l'antinomia attualità/inattualità. Attualità, in quanto sembra connotare l'intera vita sociale, politica, economica, interpersonale, inattualità genera continuamente distorsioni comunicative. La fiducia è quotidianamente citata, invocata, desiderata nelle relazioni interpersonali, nei contesti comunitari. Senza fiducia quindi è difficile immaginare una coppia, una famiglia, un gruppo di lavoro, una società. Essa è quindi una dimensione fondamentale. L'approccio socio-sistemico mette a fuoco la fiducia nei diversi ambiti dell'organizzazione sociale, istituzionale e del mercato. Attraverso gli studi di George Simmel, Luhmann e Giddens, la fiducia diventa categoria concettuale, fondamentale per cogliere alcuni aspetti caratterizzanti il passaggio alla modernità delle società occidentali. Luhmann assegna alla fiducia la funzione di riduzione del rischio e della complessità. Esistono molte situazioni in cui l'individuo deve scegliere se accordare o meno la propria fiducia in determinate circostanze. Per Luhmann, la fiducia non è un valore positivo dell'agire o dell'esperienza, non ha un valore morale di preferibilità, essa si configura come dispositivo di riduzione della complessità e come anticipazione che orienta l'agire e l’esperire. La fiducia è intesa come un investimento a rischio. Luhmann pone l’attenzione sulla dimensione dell'apprendimento: la fiducia deve essere appresa e i presupposti alla base di questo processo di apprendimento vengono prodotti nel corso dell'infanzia. La fiducia è caratterizzata da una relazione dialogica e di interdipendenza tra le persone e i diversi contesti esperienziali. I fattori che promuovono la fiducia sono l'ascolto, il confronto, la dinamica del dono, l'aiuto reciproco, la cooperazione, lo sviluppo di legami, di responsabilità e di impegno. Riappare il costrutto della responsabilità perché, come sottolineato dalla filosofa Michela Marzano, che legge la relazione fiduciaria come salto nell'ignoto, la fiducia non si decreta e nemmeno si esige e la fiducia degli uni dipende dalla lealtà degli altri. Ubbidienza, fiducia, responsabilità come testimonianza di lealtà, si pongono come costrutti semantici che La filosofa Annette Baier ha osservato che tendiamo a notare la fiducia quanto notiamo l'aria, ovvero ce ne accorgiamo solo quando essa diventa scarsa o inquinata. Questa citazione sembra tristemente appropriata a questa particolare momento storico, segnato dalla diffusione del covid 19: nell'opinione dei cittadini si è progressivamente sviluppata una crescente consapevolezza del ruolo cruciale sostenuto dalla fiducia, negli altri e nelle istituzioni, in ogni aspetto del funzionamento di una società e di una scuola. Fidarsi di una persona o di un gruppo significa sentirsi a proprio agio, senza ansia o preoccupazione, in una situazione di interdipendenza in cui i risultati ottenuti dipendono dalla partecipazione e dal contributo degli altri. Ogni soggetto può ritenere che le sue aspettative saranno soddisfatte se può avere fiducia nella benevolenza, onestà, affidabilità e competenza degli individui con i quali si trova interagire. È davvero importante cercare di costruire e di potenziare un sentimento di fiducia nell'ambito dell'istituzione scolastica: i genitori mandano i loro figli a scuola, fiduciosi che saranno al sicuro dai pericoli e che saranno guidati nel loro processo di apprendimento; i ragazzi vanno a scuola fiduciosi di trovare un ambiente che sappia valorizzare la propria personalità e soddisfare le proprie aspettative di conoscenza e di acquisizione di competenza; i docenti svolgono il proprio lavoro fiduciosi di poter sostenere i ragazzi nel percorso di orientamento alla realizzazione del proprio progetto di vita. La costruzione di un clima di fiducia nella scuola è fondamentale per la sua missione principale di educare gli studenti, mantenendo e promuovendo i saperi, i valori e gli ideali che caratterizzano le società in cui agiscono. Le nostre scuole hanno il compito di incoraggiare i ragazzi nell'assunzione di valori collettivi quali il rispetto, la tolleranza, la democrazia e l'equità. La fiducia che studenti e docenti pongono nella scuola può essere considerata a partire dall'opportunità di riconciliare la dimensione educativa e la dimensione cognitiva. Troppo spesso le due dimensioni vengono considerate distinte e nella scuola vengono creati artificiosamente due oggetti separati di analisi, che poi finiscono per acquisire la duplice etichetta di profitto e di condotta. Oltrepassando questa visione dicotomica che tende a mantenere una separazione tra l'ambito emotivo e quello cognitivo, può aprirsi la strada o una visione del formativo come un approccio sistemico che assuma la prospettiva della co-costruzione della conoscenza in un contesto che sia caratterizzato dalla circolazione della fiducia reciproca. Educare significa trarre dalla persona ciò che essa può sviluppare in accordo con le proprie caratteristiche e potenzialità, compresi sentimenti ed emozioni. Una persona educata è consapevole dei valori a cui fa riferimento nella propria vita e le assume non come imposizione esterne Ma come l'adesione sentita a leggi morale e culturali che ha progressivamente introiettato proprio in virtù del suo processo educativo e che nel tempo andranno a costituire la struttura profonda della sua personalità e della sua sensibilità. La scuola, come la famiglia e altre agenzie educative, contribuisce fortemente allo sviluppo della dimensione educativa della persona ma veicola alla persona contenuti informativi in merito agli studi disciplinari che costituiscono il patrimonio conoscitivo della cultura e della società di appartenenza. Molto spesso nella quotidianità scolastica l'elemento dell'educativo e dell'istruttivo vengono tenuti separati, non tanto nei processi di insegnamento/apprendimento, quanto nel momento della valutazione. Infatti, nelle schede che vengono utilizzate per la raccolta delle valutazioni ottenute dai singoli allievi, vengono tenuti distinti i voti di condotta dai voti di profitto, mostrando così un vero e proprio iato tra la dimensione dell'educazione e quella dello studio dei contenuti disciplinari. La sfera cognitiva e quella emotiva sono strettamente correlate e si apprende con minore difficoltà e con maggiore partecipazione e interesse quando si riesce a stabilire un contatto efficace tra le due dimensioni. Dunque nella pratica quotidiana del fare scuola sarebbe davvero auspicabile che si favorisse la circolazione dei sentimenti e delle emozioni che caratterizzano la sfera dell'educativo, in accordo con lo sviluppo delle conoscenze e delle curiosità scientifiche, elementi tipici della dimensione cognitiva. Un approccio sistemico sembra poter essere identificato con la categoria del formare, intesa come dimensione che configura la copresenza di più elementi, quello dell'educazione e dell'istruzione che si attuano in un contesto nel quale circoli la fiducia reciproca tra i docenti e gli studenti. L'approccio sistemico-formativo trova la sua configurazione elettiva nella costruzione di luoghi, fisici, virtuali, culturali, in cui sia possibile potenziare l'emergere di elementi educativi, i motivi e cognitivi in un clima di fiducia e di condivisione. Il luogo per eccellenza in cui è possibile mettere in pratica tale e stretto connubio è il laboratorio, che Baldacci descrive come uno spazio attrezzato in cui si svolge un'attività centrata su un certo oggetto culturale. La classe può essere considerata un laboratorio poiché è una situazione in cui può essere praticato un apprendimento attivo, dell'imparare facendo, che coinvolga gli allievi e i docenti. La verifica e la valutazione rivestono un ruolo importante sia nella progettazione e nella programmazione dell'intervento educativo, sia nella costruzione di un clima sereno, fiduciario e collaborativo nel contesto-classe. La valutazione è la misura dell’agire didattico e permette la raccolta dei dati informativi, attraverso processi di monitoraggio dei percorsi di insegnamento e di apprendimento, che rendono possibile, ai docenti e agli studenti, riflessioni per decidere in modo consapevole come procedere nel futuro. La verifica e la valutazione rappresentano il momento clou dell'attività di insegnamento/apprendimento poiché consentono di verificare l'ipotesi che un certo progetto didattico sia andato, o no, a buon fine. Non è riferita esclusivamente ai voti che un docente attribuisce alle prestazioni di un alunno sul compito, sul registro, in pagella, ma anche alla possibilità, per il docente, di monitorare l'efficacia delle sue lezioni e, per lo studente, la possibilità di comprendere se sta studiando nel modo giusto. L'atto valutativo può essere realizzato solo se docenti e studenti si impegnano a far convergere le proprie azioni verso un fine comune: collaborare con fiducia per elevare la qualità del processo e degli esiti dell'insegnamento/apprendimento. Infatti è auspicabile che la valutazione sia utilizzata con lo scopo di coinvolgere gli studenti e renderli protagonisti del proprio processo formativo e non solo per attribuire un valore ai risultati ottenuti al termine di un intervento didattico. Black e William hanno proposto una definizione di valutazione: una pratica valutativa in una classe può dirsi formativa nella misura in cui evidenzia che il rendimento degli studenti è interpretato e utilizzato dai docenti e dagli studenti per prendere decisioni sui prossimi passi da compiere nel percorso formativo, in modo che questo risulti essere migliore rispetto alle decisioni che si sarebbero prese in assenza di una valutazione formativa. Dunque lo scopo della valutazione utilizzata in funzione formativa consiste nel fornire feedback agli insegnanti e agli studenti in modo che possano modificare le proprie successive attività didattiche e di apprendimento per adeguarle ai traguardi da raggiungere. La qualità dell'istruzione e dell'educazione dipende in primo luogo dall’agire dei docenti. Il feedback è utile per identificare carenze di gruppo o individuali e per porvi rimedio; spostare l'attenzione sui processi di apprendimento piuttosto che sulle valutazioni finali al fine di aumentare l'efficacia dell'attività formativa. Nella classe si deve assumere un clima collaborativo che non può essere dato per scontato ma deve essere costruito e voluto dagli stessi protagonisti. Un clima collaborativo si instaura soprattutto se viene a stabilirsi un rapporto di fiducia tra i soggetti, in sintonia con gli altri, avendo uno scopo comune e un metodo condiviso. Nel contesto scolastico tutti i partecipanti hanno sufficiente autonomia e fiducia negli altri per contribuire liberamente alla costruzione di interventi e di idee in un'atmosfera aperta e solidale: la fiducia è un elemento di grande rilevanza nei processi di feedback perché ne mette in luce gli aspetti emotivi, affettivi e relazionali. L'assenza di fiducia è da attribuirsi soprattutto a tre evenienze: il feedback viene restituito in ritardo rispetto ai tempi utili nel processo di apprendimento; è spesso solo una trasmissione unidirezionale di informazioni; gli studenti trovano difficoltà nel comprendere e nell'accogliere il feedback che ricevono. Al posto del feedback si propone l'approccio dialogico che è uno scambio interattivo in cui le interpretazioni sono condivise e i significati negoziati. Sono state osservate le pratiche valutative dei docenti in ottica trifocale: quello che i docenti ritengono di fare, quello che gli studenti ritengono che i docenti facciano, quello che rileva un osservatore esterno. La ricerca svoltasi Configura di fatto come un'esperienza di apprendimento situato che ha coinvolto gli insegnanti e gli alunni di una classe IV di un liceo scientifico di Ostia. Sono stati tradotti e validati i questionari standardizzati che permettono di rilevare il punto di vista del docente (QD) e quello degli studenti (QS) sulle modalità di utilizzo, in classe, anche delle attività valutative. Nel contesto indagato sono stati somministrati tali questionari con l'aggiunta di una griglia di osservazione compilata dall’osservatore presente in classe durante le lezioni. L'approccio metodologico utilizzato è stato di tipo quali-quantitativo. In primo luogo si è tenuto un incontro nel quale è stato chiarito allo scopo dell'indagine ed è stata illustrata la funzione formativa della valutazione; l'incontro è stato rivolta ai docenti e agli studenti allo scopo di coinvolgerli attivamente nel percorso intrapreso. La seconda fase, durata all'incirca due mesi, ha previsto all'osservazione del contesto classe e delle azioni valutative attuate dai docenti. Il ricercatore ha assistito alle elezioni dei docenti, raccogliendo dati, sia attraverso la libera osservazione con carta e penna, sia con la griglia strutturata, costruito sulla base dei questionari QS e QD che ha compilato settimanalmente, per ciascun docente, ovvero per ciascuna disciplina. Si è proceduto all'elaborazione all'interpretazione dei dati analizzando gli esiti dei questionari e delle griglie strutturate e, successivamente, ponendo in relazione per ciascuna disciplina il QD, il QS e la griglia strutturata. In seguito sono stati restituiti i risultati dell'indagine a ciascun docente, per consentirgli di assumere il punto di vista dei ragazzi e delle osservazioni del ricercatore, al fine di riflettere sulle proprie attività didattiche e valutative e per formulare eventuali ipotesi di miglioramento. Infine è stato chiesto ai docenti di esprimere le proprie considerazioni sull'esperienza effettuata attraverso un'intervista semistrutturata, costruita soprattutto con lo scopo di rilevare se la ricerca li avesse condotti a una riflessione sulle proprie pratiche valutative. Al termine dell'esperienza sono stati resi noti i risultati: tutti i docenti hanno accolto con interesse la restituzione degli esiti, ritenendoli utili per effettuare una proficua riflessione e ringraziando per l'opportunità offerta. L'esperienza ha mostrato come le procedure e laboratoriali abbiano consentito ai docenti agli studenti di acquisire una maggiore consapevolezza riguardo alle modalità valutative utilizzate in classe. È stato anche sottolineato il clima di collaborazione di fiducia che ha legato tra loro docenti, studenti e osservatore, poiché gli allievi si sono sentiti protagonisti di un'azione didattica, quella valutativa, che generalmente subiscono e la maggior parte dei docenti ha mostrato una grande disponibilità a rimettere in discussione le proprie pratiche valutative tenendo conto dell'opinione dei ragazzi e dell'osservatore. La parola a riparo. Raccoglimento e riserbo come virtù silenziose e inattuali – Emanuela Mancino Nella terza considerazione inattuale, Nietzsche parla di fretta, comuni a tutti, nel desiderio di apparire felici, di ingannare chi potrebbe scorgere tracce delle nostre miserie. Dissimulare e mascherare mancanze o desolazioni, riempimenti dello spazio e del tempo. Heidegger definisce deiezione una condizione di essere in autentica che vede l'uomo imbrigliato nella quotidianità e nelle sue forme impersonali che si muovono nell'orizzonte della chiacchiera, dell'opinione comune, di una curiosità. Siccome la chiacchiera è intrecciata al curiosare, l'atto di conoscere si fonda sull'equivoco, sul sì del si dice. Più che di comprendere l’ente di cui si discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. L'oggetto della comprensione divenne il discorso e il suo contenuto assume meno rilevanza della possibilità di parlare che diviene un'azione da compiere. La fuga che ne deriva è una fuga dall'essere. Il teatro di questo atto è il territorio dell'apparire. Al cospetto del mondo, chi non comunica non esiste. Di fronte al rischio di non essere visti, la foga dell'azione e del discorso confermano quei meccanismi ciclici di produzione che decorano la vita. Si affaccia l'ambiguità. Il legame tra il dire e il tacere, tra l'apparire e il ritrarsi si incontra con il gesto e con la dimensione della discrezionalità. La discrezione presuppone una dialettica sottile dell'apparizione e della scomparsa, della mostrazione e del riserbo. Si produce un modello che pone il pensiero nel dominio dell'apparire pubblico e che tende a mortificare quelle forme di non-apparizione. La costruzione stessa dell'identità transita non solo attraverso gesti condivisi di apparenza ma si sposta nel territorio della spettacolarizzazione, il dare a vedere. Le cose da fare divengono cose che devono essere fatte, che premono d'urgenza e necessità. Era inevitabile che questo meccanismo si riversasse anche nella situazione contingente, nei giorni e nelle angosce che derivano dall'attuale condizione di pandemia. I nostri stili di vita, familiari, amicali, amorosi, socio-professionali sono stati destabilizzati. La situazione di confinamento domestico ha portato a visibilità automatismi, abitudini, modi di abitare lo spazio e il tempo. Mentre gli appuntamenti venivano cancellati sullo strumento del dover fare ed essere che è l'agenda, mentre svanivano le occasioni di incontro, anche i pensieri perdevano la loro dimora rassicurante. Ancor di più il vuoto, il silenzio, la mancanza hanno parlato la lingua della paura, portando a visibilità e dando voce e spazio a quel che proprio la società dello spettacolo, con le sue abitudini i suoi fini cerca costantemente di un'abilità, di un risultato. Non c'è nulla di male nell'individuare e mettere in atto strumenti e metodi volti ad eliminare un qualsiasi ostacolo che possa frapporsi al successo di apprendimento, se la fatica può essere intesa come freno alla motivazione, spreco di energia, esaurimento della disponibilità ad apprendere. Tuttavia, così facendo, ossia demonizzando la fatica in quanto tale, amplifichiamo una percezione della fatica esclusivamente al negativo. La fatica non è solo un ostacolo e richiede di essere considerata come un vantaggio, senza illudersi che possa essere eliminata da un'azione educativa. Va monitorata, gestita e dosata. Lo sfinimento in educazione è una vicenda che coglie chiunque vi si trovi coinvolto secondo Duccio Demetrio. Lo sfinimento sfinisce meno chi comprende al volo che sottrarsi a esso non serve a nulla, che l'unica via d'uscita è restare in mezzo alle turbolenze, dove non vengono meno i moti di orgoglio e i compiacimenti se si è dotati di spirito di lungimiranza e resistenza. Ovvero, quando si accetta questa fatica, perché se ne comprende la funzione e la si vive consapevolmente, ci si rende davvero conto che è in corso una trasformazione, che ci si sta appropiando di qualcosa, che si è protagonisti attivi di un cambiamento, educando ed educandosi al contempo. La fatica, allora, oltre a darsi come l'inevitabile impiego di energia che un apprendimento autentico richiede, è anche una misura del proprio grado di coinvolgimento e di investimento, fisico, intellettivo ed emotivo. Vittorino Andreoli, nel suo testo “La fatica di crescere”, argomentava che la fatica deve essere difesa, che merita un elogio perché è una parte integrante e necessaria dell'esistere, considerandola come uno stimolo che ci preparerà a non retrocedere di fronte alle difficoltà, un vero e proprio allenamento per imparare ad affrontarle e superarle. La fatica ha un significato costruttivo e mira a un risultato gratificante di benessere. Giovanni Genovesi sostiene che la capacità di affrontare la fatica e la consapevolezza che ogni cosa che vale la pena apprendere comporti fatica è indispensabile in qualsiasi processo formativo. Senza questa consapevolezza verrebbe a mancare lo stesso esercizio e quindi la possibilità di impadronirsi di una determinata abilità. L'educazione sollecita l’individuo non solo a sopportare la fatica per cercare di raggiungere determinate abilità, ma che fa della stessa fatica un piacere perché vista strettamente collegata al successo conoscitivo che si intende conseguire. La fatica connessa al processo educativo non è passivamente subita ma anche e soprattutto attivamente vissuta e cercata. È importante mantenere in equilibrio le tante variabili coinvolte in un processo educativo come l'impegno, la motivazione, i bisogni di gratificazione e la fatica. Essa ci indica che stiamo imparando qualcosa, che ci stiamo appropiando di un contenuto, di uno strumento e di una consapevolezza. L'apprendimento di cui non riusciamo ad accorgerci, che avviene mentre si è concentrati a fare altro, che non ci infastidisce creandoci un problema, ha poco a che fare con l'educazione autentica che, al contrario, ci richiede un coinvolgimento pieno e che ci disturba perché vuole portarci a qualcos'altro. Non è vero che, oggi, la fatica è considerata sempre e comunque in termini negativi. C'è infatti un ambito, forse l'unico, in cui provare fatica e reinvestirla via via nelle attività che si gonfiano, governarla con intelligenza, è considerato un merito: l'ambito sportivo. Qui la fatica è qualcosa di sano, che da la misura dell'impegno, dello sforzo a superare un limite, della capacità di reggere una prova; essere disponibili a questo tipo di fatica, accoglierla in vista del risultato a cui porterà distingue tra chi aderisce a un certo stile di vita (dinamico, energico, attivo) che richiede autodisciplina e chi invece si lascia andare alla sedentarietà, alla pigrizia, all'indolenza, alla passività. Vi è una correlazione tra educazione e sport: concetti come esercizio, allenamento, superamento degli ostacoli, mettersi alla prova, stabilire obiettivi da perseguire ecc, sono spesso mutuati dall’ambito sportivo e portati in quello educativo, nell’intraprendere un percorso di crescita e sviluppo. La fatica è qualcosa di più profondo e di più complesso rispetto a un mero dispendio di forze. Il sociologo Alain Ehrenberg parla della fatica di essere se stessi nel mondo contemporaneo associandola alla malattia tipica del nostro tempo, la depressione. La dialettica proposta da Domenico De Masi in relazione al binomio fatica/ozio richiamava il mito di Sisifo. Le cose hanno un valore dato dal sudore necessario per ottenerle ( Sisifo che sale il pendio del monte sospingendo il pesante masso); quella secondo cui il lavoro alienante, ripetitivo, senza sapere e senza potere cagiona una fatica senza speranza (Sisifo che scende a valle con la consapevolezza che dovrà ricominciare sempre tutto da capo, cosciente della sua miserevole condizione); e infine, quella (che vendica Sisifo) secondo cui Sisifo si può liberare dall'inutilità, dal dolore e dal tormento della fatica, smettere di salire e scendere, e starsene sulla cima del monte a contemplare le macchine che lavorano per lui e dedicarsi all'ozio creativo. La professionalità educativa e la funzione genitoriale devono possedere la competenza di educare a gestire la fatica, di saperla dosare, di sapere allenare la fatica come appropriazione da parte dell’educando di saperi e strumenti da cui derivano gratificazione e piacere. Non bisogna dimenticare la fatica di chi educa, ovvero di chi si spende in una relazione finalizzata all'altro da sé, affinché l'altro possa maturare, conoscere, esprimere e diventare. La dimensione auto-educativa del settore dell'educazione degli adulti, dove il coinvolgimento in attività formative comporta tutta una serie di affaticamenti ma si accompagna anche a un riconoscimento più maturo della fatica, non come effetto indesiderato o collaterale, non come prezzo da pagare ma come virtù da saper vivere. Bisogna considerare la fatica come componente funzionale del processo educativo che ha la peculiarità di allontanarci dalla nostra cosiddetta comfort zone per spronarci verso conquiste anteriori che ci costano fatica ma che, proprio in virtù di questo, ci ripagano ancor di più su di un piano di significato e di realizzazione esistenziale. “Fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”. Il valore politico ed etico-pedagogico inattuale della vergogna vicaria – Paola Martino La pedagogia interroga il presente con una preoccupazione progettuale. Il pedagogista è un pensatore e una sorta di giornalista radicale e assume la vista del pensatore del fuori, del presente e del futuro. È il teorico sulla e dell'educazione, contro il tempo, sul tempo e in favore di un tempo venturo. La vergogna è un inattuale pedagogico. Malgrado sia un’emozione sociale, interpersonale è caduta in desuetudine. Laddove viene assunta come coscienza del noi, in una prospettiva orientata a promuovere civismo, responsabilità, solidarietà, pone con urgenza un'interrogazione sulla sua possibile funzione politico-educativa. La vergogna sembra mostrare lo spazio intimo e più proprio di un soggetto. Si può ritrovare il valore etico-politico e pedagogico della vergogna nell’opera platonica. Il rimprovero socratico, il richiamo a convertire la propria vita che si serve della vergogna, consente di mostrare come sin dall'antichità questa emozione sociale ponesse in gioco la questione del sapere con se stessi, ovvero il tema semantico della coscienza inteso come giudizio personale dell'io sul proprio comportamento. L’aidos, che rievoca il dovere, il rispetto, il senso del pudore-vergogna, è un dono indispensabile per il darsi dell'essere in comune. Dal dialogo aporetico tra Socrate e Protagora emerge che l'arte politica, la possibilità per gli uomini di vivere in comune, di costruire un legame sociale, non è un privilegio ma un bene condiviso e spettante a ciascuno. La vergogna heideggerianamente è una parola fondamentale della grecità autentica, essa non allude a un sentimento soggettivo, a un atteggiamento vissuto, ma è ciò che consente di cogliere l'uomo. La vergogna è un sentimento ontologico che predispone a memorare. Secondo Jean Paul Sartre, la vergogna è sentimento ed essenza di se stessi e dell'altro, per se stessi e per l'altro. La coscienza è intenzionale e implica un essere transfenomico. Mediante lo sguardo altrui l'uomo si scopre oggetto nel mondo, coscienza-irriflessa, coscienza oggetto. La vergogna ha una funzione svelante e rischiarante, essa fa dell'io l'essere che l'altro conosce. Ciò che appare nella vergogna è il fatto di essere incatenati a se, l'irremissibile presenza dell'io a se stesso. È dunque la nostra intimità, cioè la nostra presenza a noi stessi che è vergognosa. Ciò che la vergogna svela è l'essere che si svela. Lo spirito borghese ha alimentato e sostenuto una visione autosufficiente dell'io, quest'ultimo prova vergogna soltanto nel mancare di fiducia in se stesso. La modernità, però, ha finito per centralizzare l'inquietudine dell'evasione che è il bisogno di uscire da se stessi, cioè di spezzare l'incatenamento più radicale, il fatto che l'io è se stesso. La vergogna svolge una funzione nel processo di socializzazione e di costruzione di un'idea di communitas, fino a configurarsi come sentimento morale per eccellenza. La vergogna, infatti secondo Agnes Heller, è un'emozione intrinsecamente sociale che regola le azioni di una persona e il suo comportamento in conformità con le norme della sua comunità. La vergogna consente di misurare il grado di appartenenza a una data comunità definita attraverso valori sociali condivisi. secondo Martha Nussbaum è l'amara emozione che risponde alla presa di coscienza della debolezza e della fragilità umana. La vergogna, emozione che compare intorno al secondo anno di vita, è una sosta obbligata della prima infanzia per il superamento del narcisismo primario. L'emozione della vergogna infiacca il senso di onnipotenza infantile mediante la presa in carico della propria umana imperfezione, limitatezza e debolezza. Il bambino, in questa particolare fase evolutiva, incorre in una serie di proibizioni da parte dell'adulto. I divieti e le proibizioni si innestano sulla sempre più accresciuta consapevolezza del bambino che sperimenta, in questa fase, la coscienza della violazione di eteronorme comportamentali e sviluppa la comprensione emotiva. La percezione della proibizione genitoriale e la consapevolezza del proprio comportamento rappresentano i requisiti per l’emergere della vergogna: tale emozione infatti presuppone la consapevolezza di aver infranto una qualche norma col proprio comportamento. Questa consapevolezza comporta un’inibizione del comportamento sanzionato e la conseguente autoregolazione emozionale. Oggi, ciò che sembra affermarsi non è il venir meno di questa emozione ma una sorta di impunità emozionale. La vergogna non scompare, ciò che si sottrae è la capacità di rintracciare un giudizio di senso condiviso su cosa debba e possa essere ritenuto vergognoso. La vergogna sembra divenire un affetto da aggirare e rimuovere nel tempo del trionfo della cultura del narcisismo. La vergogna diviene un disturbo emozionale da curare attraverso la cinica svergognatezza. Siamo spettatori della vergogna prometeica, legata al processo cieco e non calcolato del divenire umano che provoca un senso di inadeguatezza innanzi alla perfezione. Questo senso anima nell'uomo il desiderio di fare se stesso e lascia spazio a una vergogna invisibile inedita: il vergognarsi di vergognarsi. Questa forma fa emergere una spudoratezza, svergognatezza, volta a celare e favorire la ritirata delle emozioni attraverso un'azione paradossale: si nasconde la vergogna mediante la visibilità. La vergogna non sparisce ma perdura e assume nuove forme nel tempo. Essa è rilessicalizzata ed emigrata dalla sfera dell'onore, della sessualità e della coerenza a quella del successo e della fitness corporea. Non avere successo è diventato sempre più vergognoso mentre le vie del successo non sono più regolate da modelli normativi. Contro l'imperialismo di un'educazione nutrice dell'onnipotenza narcisistica, della perfezione e della prestazione, capace di generare la mera vergogna aspirazionale, di promuovere la sola piccola virtù del successo, è avvertita l'urgenza di una riflessione pedagogica in grado di favorire un’elaborazione educativa della vergogna in una prospettiva non solo personale ma anche politica. La vergogna espone allo sguardo dell'altro e non agisce in modo inibente soltanto in presenza degli altri, ma anche a prescindere dal loro concreto esserci innanzi. Fa i conti con il giudizio di un altro significativo interiorizzato che è astratto, generalizzato e idealizzato. Bisogna recuperare una visione della vergogna in una stagione culturale che trova la figura prototipica dell'indifferente nel passante, che volge lo sguardo altrove. Bisogna ritrovare il valore sociale non solo del “vergognarsi per”, ma del “vergognarsi di” che comporta la possibilità di un rinnovato senso di appartenenza e di prossimità e consente di intravedere una cultura emozionale in cui la vergogna si incarna in un inedito noi collettivo capace di arrossire anche per il mondo. C'è una grande differenza tra di vergognarsi per il vergognarsi di. Quando diciamo “mi vergogno per” ci assumiamo la responsabilità di un’azione, di un comportamento compiuto da noi che non approviamo e nel quale non ci riconosciamo. Invece “mi vergogno di” esprime allo stesso tempo distacco e coinvolgimento, esprime una vergogna dell'appartenenza che segna una presa di distanza. Attraverso la vergogna “di” si esprime la separazione della propria individualità dall'insieme di appartenenza. Promuovere una pedagogia della vergogna significa fare appello alla soggettività e alla responsabilità di ciascuno. La politica non consegna un mondo, ma lo presuppone come luogo di costruzione ed espressione della vita activa. La politica nasce tra gli uomini, non esiste una sostanza, un'essenza politica secondo Hannah Arendt. Come scrive Primo Levi, vi è una vergogna più ampia, la vergogna del mondo. Levi ricorda che nessun uomo è un'isola. La vergogna, che è una reazione intima dell'uomo, e anche una reazione socialmente esigente. Non è solo vergogna di fronte agli altri, ma può essere anche vergogna per loro. Alcune forme della vergogna possono assumere un valore etico-politico positivo. È possibile individuare una vergogna costruttiva in grado di promuovere lo sviluppo morale degli individui e di alimentare il senso di comunanza dell'umanità. La vergogna costruttiva è quella che suscita un impegno orientato a reintegrare e riparare le storture della comunità di appartenenza. Come mostrato da Gabriella Turnaturi è possibile distinguere un significato tragico e un significato di redenzione della vergogna; il primo segna un’emarginazione l'affermazione della scrittura, era trasmessa a voce. Tradizione e memoria vanno di pari passo. L'antropologia culturale approfondito gli studi sulla tradizione e sulla memoria e ha reso giustizia alla cultura inferiore, folkloristica o delle tradizioni popolari ritenute poco importanti. Siamo usciti dalla definizione restrittiva che identificava il folk con il ceto contadino illetterato per accettare il significato di folklore proposto dai filosofi marxisti, i quali sostenevano che nella categoria del folk andavano inclusi sia la popolazione rurale sia il proletariato urbano, che era diverso dal ceto contadino e aveva un proprio folklore. La tesi marxista è avallata dall’evidenza che ancora oggi gli individui continuano a utilizzare forme dialettali, a raccontare barzellette tradizionali o a praticare giochi tradizionali. Ancora più importante è la seconda parte della parola folklore, lore, Sapienza, designa i generi che costituiscono il corpus delle tradizioni popolari: miti, epopee, racconti, leggende, canti, proverbi, indovinelli, superstizioni, giochi, danze, costumi, incantesimi, benedizioni, maledizioni, ricette di cucina, filastrocche, similitudini, usanze, metafore, gesti ecc. Nel sud, tradizione, memoria e folklore assumono un peso importante rispetto ad altri territori e incidono sulla costruzione sociale della comunità. Dal punto di vista pedagogico questa attenzione al folklore a tutto ciò che a esso è allegato è molto importante perché consente di tenere vivo il rapporto con la tradizione e la memoria, radicando sempre di più le persone al proprio territorio. È un legame forte che si viene a creare, che incide anche sulle scelte di vita personali e collettive. L'importanza attribuita nel sud al folklore fa sì che questo si trasformi in una vera e propria cultura popolare che acquisisce valore di sapere e non più solo di tradizione. In questa nuova dimensione, la cultura popolare del Sud assume un carattere non più regionalistico, limitato, circoscritto ma nazionale. Il Meridione non vuole essere visto come la parte malata d'Italia, quasi come una cosa a sé stante dal resto della nazione. Rinnovare il ricordo è fondamentale per rinsaldare una forte identità grazie alla quale si può avviare un progetto teso alla formazione di una civitas meridionale. La pedagogia del Sud Mediterraneo deve superare un paradosso che affonda le radici nella storia del Sud: lo sfruttamento del Mezzogiorno e le sue ricchezze naturali e storiche. Questo paradosso dicotomico ha fatto sì che si è avuta devastazione e degrado e si è conservato un patrimonio storico-artistico inestimabile. Diventa fondamentale l'azione educativa illuminata da una pedagogia meridionale che abbia consapevolezza della realtà meridionale. La pedagogia della civitas meridionale è fortemente identitaria ed è un fattore di sviluppo che sostiene il territorio. Il legame stretto con il proprio territorio, il suo ambiente e la sua storia, riduce l'incertezza e lo smarrimento dovuto alla globalizzazione. La pedagogia della civitas meridionale si rifà al concetto di rete, ovvero la costruzione di convinzioni collettive, di condivisione valoriale. La pedagogia partecipa attivamente alla costruzione identitaria ma è consapevole che occorre un altro elemento di sviluppo più visibile com’è la politica. Nel sud la pedagogia della civitas deve sostituire le politiche per il mezzogiorno con la politica per il sud. La questione del suo sviluppo prima ancora di essere economica, istituzionale, è pedagogica, ossia riguarda l'educazione del singolo e la sua capacità di saper vivere il proprio territorio. La pedagogia meridionale deve impegnarsi nella prassi e deve essere in situazione. Bisogna costruire una Paideia in cui l'uomo è centrale per la sua Humanitas. La pedagogia meridionale deve far tesoro della storia del sud, delle sue ferite e delle sue ricchezze. La storia del Mezzogiorno non va né negata né esaltata. Il Sud non è un altro mondo, è solo un pezzo di mondo con le sue precise caratteristiche ed è a partire da queste che è possibile immaginare per il sud un avvenire ricco di risorse e di prospettive. E la pedagogia meridionale inserita in questo processo può contribuire a educare a comportamenti civici, impegnati e responsabili verso se stessi e verso la collettività. Attuale o inattuale? Ripensare il metodo nel lavoro educativo – Cristina Palmieri L’emergenza sanitaria che sembra aver sospeso la vita di prima e messo tra parentesi, durante il lockdown, il mondo dei servizi educativi e della scuola, ha fatto emergere alcune modalità di intendere l’educazione già radicate nel senso comune e nella storia che ha caratterizzato le professioni e i servizi educativi portandoli, ancor prima dell’emergenza pandemica, a vivere una situazione di grande complessità e disorientamento. Gli studenti hanno vissuto un'esperienza che ha cambiato la forma della scuola. Le misure prescritte modificano gli ambienti in cui avviene l'esperienza educativa, avendo un impatto significativo sulla qualità dell'esperienza possibile nei servizi. Bisogna trasformare la crisi provocata dalla pandemia in un'occasione preziosa per cambiare. Questa attualità chiede che i presidi educativi ci siano e che si adattino a una mutata situazione sociale ed economica, continuando a svolgere le loro ordinarie attività. Non si mettono in dubbio le finalità, i contenuti o i presupposti delle attività proposte ma che si adattino le modalità di erogazione. Devono essere riaffermate efficienza ed efficacia. L'impressione è che emergano due aspettative contrapposte e complementari che sottendono visioni specifiche della scuola e dei servizi: da una parte il loro compito è presidiare situazioni scomode e difficili, tamponando l'eventuale crescita di situazioni di disagio, spesso nell'ottica di una risoluzione di ciò che viene avvertito come problematico, urgente ed emergenziale. Dall'altra parte bisogna riportare una certa normalità e riadattare la scuola e i servizi. Se non ci si può adattare, scuola e servizi cadono nel baratro dell'impotenza e vengono bollati di inadeguatezza. L'esperienza della pandemia sta mostrando come quel modello, quei risultati, quelle aspirazioni abbiano dei limiti non solo nella costitutiva fragilità umana, ma anche nell'incapacità di considerare seriamente quelle dimensioni che essi stessi escludono: l'imprevedibilità della vita e l'impossibilità di un controllo totale. Considerare questi elementi significa resistere alla tentazione di rispondere alla richiesta attuale di adattamento alla situazione considerata come una lunga parentesi. Significa riconoscere come parte integrante dell'esistenza delle persone ogni attimo vissuto, anche se imprevisto, emergenziale, incomprensibile, doloroso, traumatico e ammetterne l'irreversibilità, e l'inevitabile impatto. Significa chiedersi come si possano creare le condizioni perché l'educazione possa essere sempre e comunque un'esperienza di qualità. I professionisti dell'educazione si devono porre domande su come il lavoro educativo che quotidianamente svolgono venga effettuato e ciò significa pensare la questione del metodo. Il punto di partenza, per una risposta alle esigenze professionali, sta nella possibilità di pensare il metodo come un elemento essenziale per lo sviluppo della conoscenza e dell'agire umano. Innanzitutto, l'esigenza di darsi un metodo nasce da un'esperienza di spaesamento: di fronte a un mondo di cui non si riconoscono più i punti di riferimento tradizionali che garantiscono una conoscenza vera e un orientamento morale sicuro, occorre trovare una via di uscita. Il metodo è ciò che serve per fare esperienza, perché grazie a esso acquista corpo e forma e si trasforma in conoscenza capace di suggerire comportamenti. Il punto è come nello sviluppo del concetto di metodo sia stato considerato il rapporto con la vita. Il metodo cartesiano si basa sulla separazione della ragione, vista come facoltà di conoscenza, dalla vita, abitata da appetiti, tradizioni e contingenze che non consentono di raggiungere quella verità assoluta e certa in cui il filosofo crede. Il metodo è un processo che nasce in situazione e si fonda sul coinvolgimento personale del soggetto che conosce e sulla possibilità di apertura a nuovi modi di vedere, vivere e agire. Quando si parla di metodo si parla di una dimensione che appartiene al pensare e all'agire, viste come azioni contemporanee e inseparabili, dell'essere umano nei suoi ambienti di vita. Questo è rilevante per il lavoro educativo che non richiede solo conoscenza dei contesti e comprensione delle persone, ma necessita anche di mettere a punto interventi che rappresentino opportunità effettivamente educative in tali contesti e per tali persone, anche e soprattutto quando le situazioni vissute sono complesse o emergenziali perché conseguenti a profonde trasformazioni sociali o generate da eventi catastrofici e inaspettati come quello della pandemia. Il metodo non può essere ricondotto a un insieme di procedure predefinite da applicare a una situazione data ma può essere visto come ciò che struttura e anima le pratiche educative. Certamente un servizio o una scuola possono dichiarare di aderire a un metodo codificato come per esempio il metodo Montessori. Ma il metodo implica un salto qualitativo rispetto a una semplice adesione o all'applicazione di indicazioni prescrittive e operative. Nel metodo si incarna il rapporto fra teoria e pratica. Il metodo si configura come un modo di essere e di agire nella pratica, intendendo quest'ultima come quell’agire intenzionale guidato da un obiettivo pragmatico in cui la dimensione sociale, relazionale ed epistemologica sono intrecciate. Dal punto di vista pedagogico ogni metodo è abitato da una dimensione ontologica (una visione di ciò che l’educazione è o dev’essere), da una dimensione antropologica (da un modello di uomo, donna, bambino, anziano, educatore, di ciò che sono e dovrebbero essere), da una dimensione epistemologica (da un modello di conoscenza dei soggetti e delle situazioni). Dall’intreccio di tali dimensioni emerge l’agire educativo. Il metodo è anche processuale, situazionale e interpretativo. Esso prende forma nel tempo sfruttando le potenzialità insite nelle situazioni, è capace di comprendere la complessità di ciò che accade nei contesti educativi. Agire con metodo implica sviluppare la competenza di apprendere costantemente dall’esperienza. Autorità e autenticità. Intrecci inattuali – Valeria Rossini Il tema dell’autorità interessa studi storico-politici, filosofici, sociologici, psicologici e pedagogici. Ci sono diverse interpretazioni di questo costrutto. Troviamo l’aggettivo positivo autorevole, da cui è stato formato il sostantivo autorevolezza. Troviamo l’aggettivo di segno negativo autoritario, un francesismo entrato nella lingua italiana insieme al sostantivo autoritarismo, usato per indicare la deriva negativa dell’autorità. Della famiglia fa parte anche l’aggettivo autoritativo, termine tecnico del linguaggio giuridico. Perciò sono possibili differenti interpretazioni. L’autorità è sempre stata associata ad un tipo di forza autonoma e autarchica. Questo termine si lega al verbo augeo, aumentare, accelerare. Da augere deriva anche auctor. Secondo la legge delle 12 tavole, risalente al 450 a.C., l’auctor era il venditore che si rendeva garante e si assumeva la responsabilità che la merce da lui venduta fosse in suo legittimo possesso. Nel diritto romano si chiama infatti auctoritas tutoris l’autorizzazione ad agire. Oltre l’ambito giuridico, si fa riferimento a un consiglio che qualcuno, più esperto e saggio, dona a un altro, approvando l’azione che quest’ultimo deve eseguire. Il consiglio non è un comando ma agisce come se lo fosse perché rappresenta un aiuto disinteressato e dunque degno di accettazione. L’autorità richiama la forza ma come accrescimento, innalzamento, ingrandimento, rafforzamento e potenziamento. Quest’accezione rimanda all’azione dell’esaltare, fecondare, arricchire e ha un’analogia con la parola greca exousia che significa avere un’esistenza che proviene da fuori, da altro rispetto a sé. L’autorità dispiega la sua forza dal riconoscimento della debolezza e del dolore. Accogliere l’autorità di Dio nella nostra vita vuol dire affrontare il trauma della correzione, l’umiltà di dover imparare da un altro. Così, la nostra libertà si rivela proprio quando ci riconosciamo creature e accettiamo di poter e dover imparare da colui che ci dona e ci insegna la vita, soffrendo con noi e al nostro posto. Secondo Benveniste, inizialmente il significato di augere era quello di generare dal proprio seno, atto creatore e, da qui, l'idea di accrescimento, sia materiale (generalizzazione dei figli, ampliamento del patrimonio, conquista di territori), sia rituale andrebbe letta alla luce della continuità tra nascita e crescita perché ciò che cresce, nel modello culturale romano, è anche ciò che dà inizio a un processo e ne garantisce il buon esito. Però, l'accrescimento che indica augere, ha finito per indicare il prestigio, allontanandosi dal riferimento al potere di creazione. Questa associazione ha indebolito il senso dell'accrescimento che, in campo pedagogico, non riguarda uno status ma un processo, caratterizzato da creatività e perfettibilità, che interessa entrambi i poli della relazione ma soprattutto colui al quale l'autorità è diretta. In campo pedagogico, l'autorità si realizza nei due compiti che derivano dalla sua etimologia, ossia l'essere attori e autori nel processo educativo. La duplice funzione dell'autorità si può ritrovare nella distinzione tra auctor/auctoritas e autor/autoritas operata da Dante. Da una parte, troviamo le forme con c, ricondotte al verbo latino augeo, con riferimento alla figura e al potere dell'imperatore; dall'altra le forme senza c, più adatte a indicare gli scrittori. Oltre che dall'origine etimologica, l'ambiguità del concetto di autorità emerge dall'evoluzione storica delle sue diverse modalità di espressione. La prima ambivalenza ha a che fare con l'antinomia tra iniziativa individuale e coesione sociale. Quest'ultima è frutto di un comportamento istintivo dell'uomo che spinge i membri di una comunità alla fedeltà verso il gruppo, consolidata dall'ostilità verso i gruppi esterni e dalla paura dei nemici. In origine, la fedeltà verso il gruppo era rafforzata dalla fedeltà verso un capo in grado di fare da collante tra loro. Successivamente, la coesione è stata garantita non più dall'istinto ma dalla paura e, fino alle società moderne, le guerre sono state lo strumento mediante il quale i dominatori sono riusciti a indurre i dominati ad obbedire al capo e a collaborare tra loro. Farsi obbedire e unificare sono dunque i compiti originari dell'autorità, che si è avvalsa di un altro grande alleato, lo spirito di appartenenza a una stessa fede religiosa. Secondo Russell, l'ordine che deriva dalla coesione e dalla guida di un capo non è in grado di soffocare del tutto le spinte alla
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