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Alessandro Manzoni: vita, correnti, opere e promessi sposi, Dispense di Italiano

La vita e le opere di Alessandro Manzoni, uno dei più importanti scrittori italiani dell'Ottocento. Si descrive la sua infanzia e adolescenza, il periodo trascorso a Parigi, la conversione al cattolicesimo e la sua produzione letteraria. Si analizza il rapporto di Manzoni con il Romanticismo e si sottolinea l'importanza della sua opera per la letteratura italiana.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 17/04/2022

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Scarica Alessandro Manzoni: vita, correnti, opere e promessi sposi e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! ALESSANDRO MANZONI L’infanzia e l’adolescenza Alessandro Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785, da Giulia Beccaria, figlia del giurista Cesare Beccaria, uno dei più illustri rappresentanti dell’illuminismo italiano, autore de Dei Delitti e Delle Pene, e dal conte Pietro Manzoni, modesto gentiluomo lombardo. Il matrimonio è infelice, sia per la differenza di età in quanto Giulia è ventisei anni più giovane del marito, sia soprattutto per ragioni ideologiche: Giulia è una donna spregiudicata, mentre Pietro è un uomo dallo spirito reazionario. Alla nascita di Alessandro in molti vedono in Giovanni Ferri, il padre naturale. I due coniugi dunque si separano molto presto e la madre va a vivere a Parigi, dove convivrà con Carlo Imbonati. Il giovane Alessandro riceve la prima educazione nel collegio dei Padri Somaschi a Merate, dove rimane fino al 1796, anno in cui viene ammesso presso il collegio dei Barnabiti a Milano. Manzoni arriva ad evolvere simpatie politiche per le posizioni giacobine e, in letteratura, si avvicina al Neoclassicismo, scrivendo l’idillio Adda e il poemetto Del Trionfo Della Libertà. All’interno di quest’ultimo emerge l’ideologia sviluppata durante il corso della sua formazione: si tratta di un’ideologia filo-rivoluzionaria, giacobina, atea e anticlericale. In questa prima fase della sua vita il futuro scrittore, pur non essendo apertamente ateo, pratica uno stile di vita alieno da remore di tipo morale. Quando esce dal collegio il giovane Alessandro ha appena sedici anni e idee razionalistiche e libertarie. Si inserisce ben presto nell’ambiente culturale milanese del periodo napoleonico: conosce nella casa paterna Vincenzo Monti, con cui intratterrà un devoto scambio epistolare, e vede per la prima volta, alla Scala, Napoleone Bonaparte, dalla cui personalità si sente affascinato. La giovinezza a Parigi Un momento importante e di svolta è il 1805, anno in cui Manzoni lascia la casa paterna e raggiunge la madre a Parigi. Carlo Imbonati, compagno della madre a seguito della separazione, è oramai morto: in suo ricordo, Manzoni scrive un carme in 242 versi sciolti, intitolato In Morte di Carlo Imbonati. In Francia Manzoni trascorre cinque anni durante i quali frequenta i salotti degli idéologues francesi e stringe amicizia con uno di essi, Claude Fauriel. Di formazione illuminista ma aperto alle nuove idee romantiche, Fauriel è un liberale e agevola il passaggio del giovane Alessandro dalla sua formazione settecentesca alla cultura del nuovo secolo. Decisivo risulta essere il rapporto con Enrichetta Blondel, figlia di un banchiere ginevrino e di fede calvinista: Manzoni sposa questa giovane religiosa nel 1808 a Milano con rito protestante. Verso la metà di quello stesso anno la coppia rientra a Parigi dove nasce la prima figlia, Giulia, a cui viene impartito il battesimo cattolico; mentre nel febbraio del 1810 i due si risposano con rito cattolico, dopo che Enrichetta ha abiurato al calvinismo. La “conversione” del 1810 e la grande stagione creativa Il 1810 sarà anche l’anno della cosiddetta “conversione” dello stesso Manzoni, nel senso di un ritorno alla fede cristiana verso la quale egli ha sempre ostentato una certa indifferenza: questo drastico cambiamento della prospettiva religiosa avviene in seguito alle frequenti conversazioni con il padre giansenista Eustachio Degola. Un noto e diffuso aneddoto, di cui è difficile tuttavia stabilire con certezza il fondamento, vuole che il 2 aprile, durante i festeggiamenti per il matrimonio tra Napoleone e Maria Luisa d’Austria, i due coniugi si smarriscano tra la folla davanti alle Tuileries: la preoccupazione per la sorte di Enrichetta determina la prima delle crisi di nervi che tormenteranno lo scrittore per tutta la vita. Manzoni si rifugia allora nella chiesa di San Rocco e proprio qui è colto dall’illuminazione della Grazia, seguita dal ritrovamento della moglie: è il momento decisivo della conversione manzoniana. Nel 1810 Manzoni e la moglie si trasferiscono definitivamente a Milano, accogliendo nella propria casa illustri poeti e letterati: il poeta intrattiene contemporaneamente contatti con il gruppo del “Conciliatore”, la rivista milanese che rappresenta l’organo ufficiale dei Romantici lombardi. Inizia dunque un periodo assai fecondo di attività letteraria, con la quale lo scrittore abbandona nettamente il Neoclassicismo per dedicarsi a una letteratura impegnata e intrisa di contenuti religiosi.  Dal 1812 al 1815 scrive quattro Inni Sacri, i quali avrebbero dovuto far parte di un progetto più ampio poi abbandonato.  Tra il 1816 e il 1820 compone la prima tragedia, Il Conte di Carmagnola.  Del 1821 vengono ricordate alcune Odi di ispirazione civile, vicine ai temi del Risorgimento. Spiccano fra queste soprattutto Marzo 1821 e la famosissima Cinque Maggio sulla morte di Napoleone.  Dal 1820 al 1822 produce la seconda tragedia, l’Adelchi. A partire dal 1823 sarà la Lettera Sul Romanticismo destinata a Cesare Taparelli d’Azeglio il documento fondamentale per capire le idee manzoniane in materia letteraria. Dal romanzo agli interessi storici e saggistici Il rapporto fra un grande autore come Manzoni ed un’atmosfera complessa come quella romantica non è semplice, tuttavia tramite la lettura delle opere e l’interpretazione degli studiosi moderni è possibile quantomeno avvicinarsi agli ideali del poeta. Manzoni in pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo cancella ma ne approfondisce e amplia gli argomenti. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. In nome della Ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana sino al Settecento. I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più imitati, perché l'opera d'arte nasce in legame solido con lo spirito di un'epoca, che è unico ed irripetibile. Anche la religione è una tematica centrale nel Romanticismo, in tutta Europa avviene un radicale ritorno e riqualifica del valore della Cristianità e della tradizione. Non ovunque però, essa viene conciliata con i movimenti precedenti e quindi con Neoclassicismo e Illuminismo, questo non è il caso del Romanticismo Lombardo: La Ragione diventa una componente legata in sinolo totale con la Religione, essa risulta quindi un’espressione della volontà di Dio stesso. La Divina Provvidenza di conseguenza diventa una parte fondamentale della vita dell’uomo borghese e espressione di una volontà a cui nessuno può sottrarsi. Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza nasconderlo, un preciso intendimento patriottico- risorgimentale che emerge dalle pagine del periodico Il Conciliatore. È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto economicamente dal conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal conte Federico Confalonieri (1785-1846), che collaborano anche con interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi dell'economia, come Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come il ginevrino Sismonde de Sismondi (1773-1842), scienziati come il medico-letterato Giovanni Rasori (1766-1837). Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però, con attenzione e partecipazione, condividendone il programma. Il titolo del periodico, "Conciliatore", non è casuale: nasce dall'intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico: inevitabile, quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che intervenga l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al giornale. L'impegno sociale del Conciliatore, che mira alla "pubblica utilità", istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere (dalla pedagogia all'agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle loro applicazioni tecniche), lo pongono sulla linea del Caffè, del quale, peraltro, i "conciliatori" si considerano eredi e prosecutori. Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura italiana. Per esempio, il problema della coltivazione della vite in Toscana non risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto basta per indurre l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere asburgico dello Spielberg nel libretto Mie prigioni (1832), che fece grande scalpore e rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta. Gli anni del "periodo creativo" del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani, "spazzati via" dalla conquista francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri Paesi europei, si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di realizzarsi. Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando l'indipendenza e l'unificazione delle regioni italiane: esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili. Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante patriottico, perché non invita all'azione, rappresenta una riflessione sul rapporto fra l'uomo e la storia. Manzoni introduce il concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte, come l'esilio di Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e gli fanno conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza dell'anima. Manzoni è però conscio del fatto che il Romanticismo Lombardo non sia un movimento unito e compatto, al suo interno vi sono infatti idee e concezioni anche diametralmente opposte su una stessa. Questa problematica viene esplorata a pieno nella Lettera a D’Azeglio Sul Romanticismo. OPERE GIOVANILI IL CARME “ IN MORTE DI CARLO IMBONATI ” Nel 1805 il giovane Manzoni viene richiamato dalla madre a Parigi, la quale gli concede così la possibilità di voltare le spalle all’ambiente cupo, bigotto e retrivo in cui era cresciuto. La religione si incarna per lui nel buio della casa paterna, nell’ipocrisia dei Padri barnabiti presso cui ha studiato, nel pettegolezzo cittadino che accusa di adulterio sua madre e sussurra dubbi sul suo cognome e sulle sue origini. Manzoni scrisse il carme In Morte di Carlo Imbonati per esaltare le virtù del compagno della madre venuto a mancare e, in questo modo, per difendere la donna dalle critiche mosse alla sua relazione amorosa. Il carme fu stampato dall’editore parigino Didot nel 1806: in versi sciolti, è costituito come una “visione”, cioè secondo un genere poetico allora diffuso nel quale il poeta immagina di incontrare personaggi e situazioni in una dimensione quasi di sogno. Il dialogo con Imbonati è incentrato sulla discussione riguardante il valore della poesia e i limiti della poesia stessa. Nell’ambito della cultura illuministica molti avevano sostenuto l’inutilità della poesia nel mondo moderno, superata da forme di comunicazione più efficaci e dirette, in primo luogo la prosa filosofica: la poesia non corrisponderebbe a un ragionare, ma a un immaginare, un vagare verso l’infinito. Nonostante ciò, già Giuseppe Parini, ne aveva preso le difese, nel Discorso Sopra la Poesia, in nome della sua utilità morale. Proprio Parini e Alfieri rappresentano i precedenti settecenteschi di questo modo di fare poesia che associa inscindibilmente arte e vita, letteratura e moralità. Nel celebre verso Sentir”, riprese, “e meditar (vv.207), il Manzoni associa alla dimensione filosofica e alla riflessione intellettuale di matrice illuminista il sentimento romantico della realtà. La conoscenza nasce dalla percezione ed è quindi propriamente sensoriale, corrisponde a quel “sentire”; tuttavia essa si affina con l’autoanalisi e la riflessione, dunque con quel “meditare”: saggio perciò è quell’uomo particolarmente dotato di sensibilità, che sappia però rielaborare i suoi istinti per farne condotta di vita, senza cercare esortazioni nelle futilità della vita. A differenza della religione cattolica, che predica un’astensione totale dalle nefandezze mondane, Manzoni suggerisce all’uomo di approcciare le “umane cose” al fine di constatarne la loro frivolezza. Il santo Vero Mai non tradir (vv.213-214): il sentire e il meditare sono dunque alla base della letteratura, ma questi non dovranno mai tradire la realtà storica. È proprio qui che quell’idea assoluta e illuminante del giusto agire, diventa “santa”. Questa sorta di religione laica della Verità è la remota, ma al tempo stesso indispensabile, premessa della fedeltà manzoniana al Vero cristiano. Conversione religiosa Sul suo ritorno alla fede cattolica Manzoni mantenne sempre uno stretto riserbo. Un noto e diffuso aneddoto vuole che, il 2 aprile 1810, Manzoni e sua moglie parteciparono alle celebrazioni per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa D’Austria. A causa della folla i due si trovarono separati all’improvviso. Enrichetta ebbe un piccolo mancamento e per questo si sedette un attimo per riprendersi ma la folla li separò e i due non furono più in grado di ritrovarsi. Manzoni si disperò e la preoccupazione per la sorte della moglie Enrichetta determinò in lui la prima delle crisi di agorafobia (paura dei luoghi affollati) che lo tormentarono per tutta la vita. Manzoni si rifugiò nella Chiesa di San Rocco dove dopo tanto tempo ritornò a pregare Dio affinché alla moglie non fosse successo niente. Questo evento è noto come miracolo di San rocco perché uscito dalla Chiesa (che reca un’epigrafe “IN QUESTA CHIESA IL CELEBRE SCRITTORE ALESSANDRO MANZONI RITROVÒ LA FEDE DEL SUO BATTESIMO “) Manzoni ritrovò sua moglie. È questo il momento decisivo della conversione manzoniana. La conversione di Manzoni costituisce ancora oggi un problema critico e irrisolto. GIANSENISMO La religiosità di Manzoni fu profondamente influenzata dal Giansenismo. Sappiamo infatti che frequentò personalità gianseniste quali l’abate genovese Eustachio Degola e il canonico Luigi Tosi. Ma negli scritti manzoniani, sia pubblici che privati, non vi è traccia di affermazioni puramente gianseniste. Il Giansenismo è una corrente di pensiero teologico che fiorisce in Francia (a partire dall’abbazia di Port-Royal), nei Paesi Bassi e in Italia fino alla prima metà dell’Ottocento, e prende il nome da Cornelis Jansen (1585-1638), teologo olandese noto in Italia come Giansenio. La sua dottrina si caratterizza per un radicale pessimismo sulla natura umana: a causa del peccato originale trasmesso a tutte le generazioni, infatti, l’uomo sarebbe schiavo del male. L’uomo non potrebbe resistere in nessun modo alle tentazioni senza l’intervento della Grazia Divina. La Chiesa cattolico-romana condannò il giansenismo come eretico e vicino al protestantesimo ma nonostante questo continuò a svilupparsi per altri due secoli, ai margini del Cattolicesimo. Se nel giansenismo l’uomo riceverebbe il dono della Grazia senza fare nulla per meritarselo, Manzoni pone sempre come condizione necessaria per la salvezza la risposta dell’uomo. Tutti, prima o poi, dovranno sperimentare la sconfitta e l’assenza di significato, se non altro al momento della morte. Il dolore è l’unico strumento necessario per giungere alla salvezza eterna, raggiungibile soltanto se si accetta la volontà di Dio. La sconfitta è occasione di incontro con Dio. A tutti Dio dona l’opportunità della grazia. Sta al singolo individuo accettarla o no Rinnovamento ideologico e letterario La conversione provocò un profondo rinnovamento nella sua ideologia e nella visione della realtà. Sebbene all’illuminismo subentrò il cattolicesimo Manzoni mantenne una sostanziale continuità di temi e di valori ribattezzandoli però in chiave religiosa. In quanto fatto totalizzante per lui, la conversione fu anche svolta letteraria. Sviluppò infatti un atteggiamento anticlassico, contro quel mondo neoclassico che esaltava il mondo greco e romano. Per Manzoni questi due mondi non erano più esempio di virtù perché conquistarono il loro potere attraverso le guerre e l’imperialismo, specialmente dopo la seconda guerra punica che vide la nascita delle province. Di conseguenza sviluppò un netto rifiuto per la mitologia che considerò fonte di falsità e idolatria Abbandonò quindi la posizione classicheggiante, lasciando incompiuti vari progetti, e si dedicò alla stesura di una serie di opere nutrite di interessi religiosi e storici, come gli Inni Sacri e Le Osservazioni sulla Morale Cattolica. Proprio in queste opere troviamo la concezione manzoniana del Cristianesimo, di Dio e l’importanza della Chiesa. GLI INNI SACRI Gli Inni Sacri sono la prima opera progettata da Manzoni dopo la conversione. Ancor prima di avere un progetto definito dell’opera Manzoni compose i primi quattro Inni: Resurrezione in Nome di Maria; Natale e la Passione. Soltanto tra il 1815-1823 sviluppò uno schema complessivo dell’opera che aveva come intento la celebrazione in versi delle dodici festività principali. Nel 1817 iniziò la Pentecoste e la portò a termine soltanto nel 1822. Verso il 1834, forse in concomitanza con la morte della prima moglie, Manzoni iniziò un nuovo inno, il Natale del 1833, che resta però incompiuto solo dopo quattro strofe. Nel 1847 inizia un nuovo inno, di Ognissanti, ma anche questo rimane incompleto. Il progetto non venne quindi mai portato a termine. gli Inni mettono al centro il Cristianesimo nei suoi risvolti sulla vita spirituale e morale di ciascun fedele. Della liturgia Manzoni riprende le formule, gli inni, le letture e talvolta costruisce l’intero testo sullo schema della celebrazione liturgica (come nella Passione), con riferimento alla successione dei riti e ai paramenti. Per Manzoni la festa è momento di incontro tra Dio e l’uomo. Il Dio manzoniano è il Dio padre pietoso del Nuovo Testamento, che perdona e accoglie il figlio prodigo quando questi ritorna chiedendo perdono. Il poeta è profeta poiché parla a nome di altri: a nome di Dio, indicando la via a chi deve ancora deve convertirsi; a nome della comunità cristiana, prestandole la propria vocazione L’incontro tra Dio e l’uomo è un’esperienza collettiva. Per Manzoni è nella Chiesa, intesa come assemblea dei fedeli, che il progetto di salvezza si compie. Gli Inni Sacri richiamano i cristiani al dovere, che Cristo ha loro affidato, di farsi testimoni del Vangelo. Il Cristianesimo è venuto per mettere al primo posto gli ultimi, i reietti della società, ma per Manzoni ciascuno deve stare al proprio posto, accettando il proprio destino. Le scelte lessicali, criticate dai contemporanei come troppo basse, attingono alla prosa nel tentativo di creare una poesia popolare, comprensibile e cantabile da parte di tutti. Ricorre alla forma metrica chiusa o breve dell’ode o canzonetta e i versi utilizzati sono il settenario e l’ottonario. All’interno della Pentecoste, il più importante tra gli Inni, Manzoni ci presenta due concezioni differenti del Cristianesimo. Nella Pentecoste del 1817, il Cristianesimo è un’esperienza individuale e psicologica. Nel testo del 1819 invece il Cristianesimo è esperienza collettiva. Osservazioni sulla morale cattolica Manzoni espone la sua idea di Cristianesimo anche all’interno dell’opera “Le osservazioni sulla morale cattolica”. Si tratta di un’apologia, ossia di un trattato di difesa della religione cristiana. Manzoni scrive infatti quest’opera per difendere la morale cattolica, criticata nell’opera “La Storia delle Repubbliche italiane del Medioevo” di Simonde de Sismondi. Quest’ultimo accusava la morale cattolica in quanto responsabile della corruzione italiana. Historiae Patriae di Ripamonti e il “Raguaglio” di Alessandro Todino, medico milanese che diagnosticò la peste e le cause di essa. INNOVAZIONI: La novità di quest’opera è che i protagonisti sono personaggi di origine umile e l’ambientazione è di tipo rurale. Vi è la rappresentazione di situazioni che tutti, nelle diverse epoche, hanno potuto vivere. Non mancano, però, vicende eccezionali, come la peste, la guerra, il rapimento del protagonista; tuttavia il Manzoni le rappresenta con estrema verosimiglianza. Il suo obiettivo, infatti, è quello di rifondare, nel romanzo, il vero storico e l’invenzione poetica. Egli crede che la letteratura, per avere carattere educativo, non debba rinunciare a proporsi come momento di coscienza e stimolo alla riflessione, perciò deve presentare personaggi, situazioni, considerazioni, scene ecc. in cui lui si possa riconoscere. Per via della concezione cristiana di Manzoni e per la sua opinione riguardante la storia, ossia che questa sia fatta di gente comune, di massa popolare e non di élite al potere, egli narra una vicenda d’amore in un’ambientazione che rimandi alla realtà. I protagonisti sono persone semplici, comuni che rispecchiano la comunità dell’epoca. I personaggi ricavati dalle cronache, invece, acquistano una suggestione straordinaria quando l’autore cerca di illuminare la loro psicologia e immagina ciò che le cronache non possono dire, ossia il loro dramma interiore, il fardello di irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le riflessioni, i compromessi che li portano a scelte e decisioni sofferte. Per fare tutto ciò, Manzoni fa riferimento alla sua arte poetica, alla sua sensibilità e anche alla sua esperienza personale. La scelta del Manzoni ricadde sul ‘600 (per via del suo patriottismo profondo) perché di fronte al dominio dell’irrazionalità e dell’oppressione e di fronte a eventi devastanti come la peste, gli uomini reagirono abbandonandosi ai peggiori delitti e manifestarono le più grandi virtù; questo era quindi il secolo giusto per dimostrare come il contesto storico possa condizionare, ma mai determinare il comportamento umano. LA COMPOSIZIONE E LE EDIZIONI La composizione fu lunga e laboriosa: iniziò il 24 Aprile 1821 (data posta da Manzoni all’inizio del primo manoscritto) e terminò nel 1842 con la conclusione della stampa dell’edizione definitiva. 1° Stesura: La prima stesura dei Promessi Sposi è molto diversa dalla definitiva edizione, che verrà pubblicata quasi vent’anni dopo, nel 1840. La composizione inizia nel 1821 e termina nel 1823. L’opera, iniziata dopo l’interruzione dell’Adelchi, ed era concepita come un romanzo storico ambientato nella Lombardia del ‘600, inizialmente, viene lasciata senza titolo però, successivamente viene chiamata “Fermo e Lucia” grazie agli scambi epistolari tra il Manzoni ed Ermes Visconti, caro amico dell’autore che aveva conosciuto in collegio. L’autore, nell’arco di due anni scrive il romanzo che consta di 37 capitoli ed la suddivide in quattro tomi, quindi è una struttura a “blocchi”: le vicende nel paesello (I tomo), le vicende di Lucia (II-III tomo), le vicende di Renzo (IV tomo). I protagonisti della vicenda sono Fermo Solino e Lucia Zarella (nomi più diffusi nella Lombardia del ‘600, ma nell’edizione successiva i nomi cambieranno in Renzo Tramaglino e Lucia Mondella). Le storie dei personaggi sono raccontate in maniera autonoma e la conseguenza principale di tale organizzazione è la presenza di autentiche storie nella storia del tutto autonome. Inoltre l’opera è accompagnata in appendice dalla Storia della Colonna Infame, in cui l’autore riconosce il processo agli untori avvenuto durante la peste del 1630, quindi si tratta sia di veri e propri inserti romanzeschi, sia di parti di taglio saggistico. All’impronta saggistica contribuiscono la presenza di documenti e ricostruzioni storiche, e ciò accade nell’ambito delle numerose digressioni sia di carattere storico e sociale, sia per quanto riguarda la poetica. Nel momento in cui conclude l’opera, Manzoni si mostra estremamente insoddisfatto; aveva ambiziosi progetti e l’opera che lui ha scritto con tanta attenzione non lo soddisfa. L’opera che aveva scritto era molto pesante, non vi erano delle cerniere, e la lingua era farcita di lombardismi e settentrionalismi che rendono fruibile il romanzo solo in un’aerea geografica circoscritta. 2°Stesura: Subito dopo la stesura della prima edizione, Manzoni inizia un lavoro di correzione e revisione dell’opera, che porta a una nuova organizzazione della materia narrativa, con vari tagli, spostamenti, aggiunte, e anche una revisione linguistica. Il risultato è un romanzo nuovo. Questo cambiamento risale al periodo tra il 1824 e 1827, tanto che la seconda edizione è nota anche come “Ventisettana” (dall’anno in cui è stata scritta) ed è la prima delle tre edizioni ad avere come titolo una sequenza che si avvicina poi all’originale, “Gli Sposi Promessi”. Rispetto al Fermo e Lucia, ci sono diverse novità, mantenute nell’edizione del 1840. Queste novità sono: - Alcune parti vengono tagliate completamente, come ad esempio le riflessioni sulla questione della lingua nell’introduzione o l’appendice sul processo agli untori, che però riaprirà nell’edizione nel 1840 come saggio autonomo. Inoltre altre parti vengono ridimensionate; - Sotto il profilo strutturale, fondamentale è il lavoro di smontaggio e ricostruzione dell’intero impianto narrativo del romanzo per superare la divisione in blocchi del Fermo e Lucia e dare vita ad un romanzo più organico e omogeneo; - I riferimenti storici e culturali rimasti, vengono resi più puntuali con citazione diretta delle fonti; All’interno di quest’opera c’è un elemento innovativo: è stato aggiunto un capitolo con inserito un sottotitolo, “Storia milanese scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni”, e viene concepita nella villa di Brusuglio come l’edizione precedente, l’unica villa che Giulia, madre di Manzoni, decide di trattenere in Lombardia nonostante fosse stata individuata da Imbonati come erede universale. Nel momento stesso in cui la pubblica, nel 1827, Manzoni ancora si dichiara insoddisfatto, non gli piace la lingua. Non riesce a ripulirsi delle espressioni locali che rendono l’opera poco fruibile, allora decide di trasferirsi a Firenze per la cosiddetta “Sciacquatura in Arno o Risciacquare i panni in Arno” del romanzo. Fino a quel momento aveva chiesto a grandi intellettuali che facevano parte dell’Accademia della Crusca di revisionare la sua opera. Loro esibivano i capitoli con le annotazioni a margine e le correzioni dal punto di vista linguistico, ma anche così non era soddisfatto, perciò si trasferisce a Firenze perché aspirava al fiorentino parlato (non una lingua artificiale ma una lingua parlata, passibile di evoluzione) dai fiorentini colti della sua epoca. Rimane a Firenze dal 1827 al 1828, per poi tornarci per soggiorni più brevi. 3°Stesura: Dopo l’edizione del 1827, Manzoni inizia subito una nuova revisione del romanzo, soprattutto dal punto di vista linguistico-stilistico. La terza stesura è frutto dei soggiorni a Firenze, in particolare tra il 1827-1828 e tra il 1838-1840, per documentarsi direttamente sulla lingua parlata in Toscana. Interrompe questo lavoro per dieci anni, a causa di problemi famigliari e ricomincia a lavorarci nel 1838. La stesura lo impegna per due anni (non per niente la terza edizione si chiama “Quarantana”). Manzoni nel momento in cui la pubblica non opera in maniera unitaria, non pubblica il romanzo insieme, ma lo pubblica in fascicoli periodici, per cui la pubblicazione lo impegna per due anni, dal 1840 al 1842. Lo pubblica a sue spese, senza affidarsi ad un editore perché ha una causa in corso che lo vede impegnato con la casa editrice, Le Monnier; nel 1827 la seconda edizione aveva riscosso tantissimo successo tanto che l’editore Le Monnier aveva pubblicato e venduto circa 60mila copie, ma Manzoni, non soddisfatto aveva bloccato le stampe, perciò l’editore curante della promozione dell’edizione continua sottobanco a stamparle e passare l’originale a tante altre tipografie, tutte senza il consenso dell’autore che la ritiene passibile di modifica. Manzoni ha posto come obbiettivo primario quello di diffondere l’opera, ma nel momento in cui arriva la terza edizione, decide che, per renderla più interessante al pubblico, di aggiungere delle illuminazioni e si affida a Francesco Gonin. Così facendo, l’opera aumenta di prezzo, diventando un’edizione di lusso, quindi, l’obbiettivo era quello di rendere l’opera più accessibile per farla fruire, visto che stava ancora girando la seconda edizione a bassissimo prezzo. Per questo motivo, Manzoni inizia una causa con l’editore Le Monnier ma questo, avendo affidato l’originale a terzi, non è più imputabile e nel 1840 sono state vendute solo 4600 copie. LE VARIANTI LINGUISTICHE Manzoni è alla ricerca di una lingua comprensibile a tutti e il carattere profondamente cristiano e democratico del romanzo non poteva trovare espressione nell’italiano letterario della tradizione, il quale era aristocratico e antidemocratico. La lingua del Fermo e Lucia Quando Manzoni inizia la stesura della prima edizione, il problema principale è costituito dal rapporto tra storia e invenzione, mentre invece, per quanto riguarda la lingua, si limita a discutere la proposta dei pluralisti, lingua che manca di opere di carattere morale e che, come dicono gli stessi pluralisti, è stata corrotta dagli scrittori moderni. Per Manzoni, la questione della lingua era legata ad atre due questioni: quella dell’unità nazionale e quella di un letteratura moderna moralmente impegnata e Manzoni è convinto che il rigore dei pluralisti si fondi su una necessità reale, ossia quelle di imporre regole fisse. Manzoni crede che sia possibile una perfezione approssimativa di stile e per fare ciò, occorre pensare a ciò che si vuole dire, occorre aver letto i classici italiani, conoscere bene le letterature straniere moderne; ma soprattutto applicare quello che lui definisce principio di “analogia”, ossia dell’arricchimento della lingua italiana in base alle soluzioni adottate nelle altre lingue europee. Per questo, il risultato è una lingua composita, che si basa genericamente sul toscano ma che inserisce diversi elementi dialettici settentrionali, come espressioni lombarde, espressioni francesi. Una lingua affascinante per il lettore moderno, per l’originalità, la vivacità e la forza espressiva, ma soprattutto per il carattere sperimentale, perché si tratta di una lingua non esistente, che nasce dalla particolare condizione soggettiva dell’autore. La lingua dell’edizione del 1827… Appena finita la stesura della prima edizione, Manzoni cade subito nello sconforto e il problema di maggiore importanza, per lui, diventa la questione linguistica. Vuole sostituire la lingua soggettiva della prima edizione con una lingua storicamente esistente e per fare ciò si dedica a diversi studi, in particolare legge il Vocabolario della Crusca e il Vocabolario milanese-italiano di Cherubini. Il suo scopo è quello di arrivare a una lingua toscana che espressioni lombarde che hanno corrispettivo toscano. Il risultato è soddisfacente per quanto riguarda il lessico astratto delle emozioni, dei sentimenti, delle idee ecc. ma non si può dire lo stesso per quanto riguarda il lessico del mondo della vita quotidiana e del lavoro. Per questo Manzoni si dedica alla lettura degli scritti della tradizione comica e realistica toscana ma l’esito finale è quello di una lingua effettivamente esistente, del tutto letteraria, una lingua toscano-milanese. … e quella del 1840 Appena finita la stesura della seconda edizione, Manzoni realizza un viaggio in Toscana per verificare se le sue riflessioni linguistiche fossero corrette. La lingua utilizzata nel Ventisettana diventa una lingua del tutto libresca mentre, invece, la lingua che veniva faticosamente cercata sui libri era la lingua della realtà, quindi la scelta definitiva è quella di una lingua viva e parlata, il fiorentino corrente, il fiorentino delle persone colte, di modo che il romanzo potesse essere alla portata di un pubblico molto più ampio. Il risultato è un tono medio generalizzato e Manzoni realizza il proprio ideale di letteratura modernamente “popolare”, rivolta e compresa da tutti. TRAMA E FINZIONE E FUNZIONE DEL MANOSCRITTO Il romanzo, concepito come opera fra oppressi e oppressori, ci presenta i personaggi diversificandoli a seconda del loro essere “buoni o cattivi”. Il protagonista assoluto è Renzo, l’antagonista è Don Rodrigo. Renzo orfano dalla tenera età, lavorava come tessitore, possedeva anche un campicello e una villa per poter incrementare gli introiti e provvedere al suo benessere e a quello della sua famiglia. Don Rodrigo era un signorotto locale, suo zio era un conte molto influente a Milano e alla corte spagnola. Entrambi i giovani sono interessati alla stessa dinna, Lucia; con la cospicua differenza che Renzo è seriamente intenzionato a sposare la ragazza e rivede in lei e in sua madre la “ricomposizione” della sua famiglia, mentre Don Rodrigo aveva semplicemente incontrato la donna e aveva scommesso con suo cugino Attilio che grazie alla sua fama e alla sua ricchezza sarebbe riuscita a conquistarla. Successe però un fatto increscioso, di cui Lucia fece parola solamente con il suo confessore, Padre Cristoforo; qualche tempo prima, mentre si accingeva a rientrare a casa dopo il lavoro in filanda, rimasta leggermente indietro rispetto le sue compagne, ricevette complimenti e attenzioni da parte di un signorotto locale, Don Rodrigo, che in quel preciso istante si trovava in compagnia di suo cugino, il Conte Attilio. Don Rodrigo, dopo aver scommesso per gioco e per scatenare ilarità nel cugino, organizza la sospensione del matrimonio della giovane mediante intimidazioni e minacce verso il parroco per mezzo dei suoi più fidati scagnozzi: i bravi. (La figura dei bravi è ampiamente diffusa in questo periodo, essi sono dei mercenari, dipendono dal soldo dei potenti, e il loro nome deriva dal latino “bravus” che significa MALVAGIO). È evidente, chiaro e forte il sentimento che Renzo prova nei confronti di Lucia, sentimento ricambiato, ma i due sventurati non possono nulla contro i signorotti locali e contro la meschinità del parroco. I primi 8 capitoli sono ambientati nel borgo, (fase borghigiana) e vedono i tentativi falliti di Renzo di far celebrare le nozze. Occore tener presente che era presente un termine di scadenza nella scommessa tra i 2 cugini: 11 novembre, proprio in questa notte i due amati sono costretti a fuggire e a lasciare il loro paese natio nella speranza un giorno di ritrovarsi. Il celebre “Addio ai Monti” viene pronunciato con commozione da Lucia proprio in quest’occasione. I due, superato l’Adda, si separano TRAMA: La vicenda narrata da Alessandro Manzoni è ambientata in Lombardia tra il 1628 e il 1630, al tempo della dominazione spagnola. I protagonisti sono Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, due giovani che vivono in un paesino non identificato nei pressi del lago di Como, in particolare nel territorio di Lecco, nel punto in cui il fiume Adda riprende il suo corso. Tutto è ormai pronto per il matrimonio tra Renzo e Lucia, deve essere solo fissata l'ora in cui svolgere la funzione religiosa. Don Abbondio, il curato del paese incaricato di celebrare il matrimonio, durante la sua solita passeggiata serale viene però minacciato da due bravi di don Rodrigo affinché non sposi i due giovani (questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai). Il prepotente signorotto aveva infatti in precedenza scommesso con il cugino Attilio di riuscire ad impossessarsi di Lucia entro il giorno di San Martino. Spaventatissimo, il religioso cede subito alle minaccie ed il giorno dopo imbastisce delle scuse, approfittando dell'ignoranza di Renzo, per prendere tempo e rinviare il matrimonio. Il giovane però capisce che c'è qualcosa di misterioso nelle scuse del curato e lo costringe a rivelare la verità. Renzo, saputo dell'interferenza di Don Rodrigo, si consulta con Lucia e con la madre di lei, Agnese. La donna lo convince ad andare a Lecco a chiedere consiglio ad un avvocato noto per essere al servizio dei più deboli, detto Azzecca-garbugli, che però L’autore entra in contatto con il lettore presentansogli la vicenda e i personagg mediante diverse tecniche e forme narrative; queste essendo prevalentemente di tre tipologie differenti mirano a conferire nel lettore un unità d’azione. 1. Il DIALOGO, mediante questa tecnica avviene la descrizione psicologica dei personaggi, vengono delineate i loro atteggiamenti, i loro modi di fare e forniscono al lettore informazioni dirette. 2. Il SOLILOQUIO, si tratta di una tecnica espressiva utilizzata spessa dal narratore onniscente; egli entra e penetra nella mente dei personaggi e vi legge emozioni, sentimenti e pensieri. 3. I RITRATTI, questa tecnica è una delle preferite del Manzoni che si diletta nella descrizione dei personaggi delineandone non solo le caratteristiche fisiche ma anche quelle sociali. Sulla figura di Renzo si sofferma sull’identità sociale, mentre ci presenta Lucia come simblo di purezza e simbolo della realtà. Tra le tematiche trattate nell’opera risulta fondamentale il divario fra i potenti e gli umili. Il potente è colui che detiene la forza e i mezzi per ottenere ciò che vuole ma è anche colui che sa, che conosce, che possiede cultura a discapito dell’umile, un sempliciotto costretto a lavorare per poter salvare la propria famiglia. Manzoni con innumerevoli esempi sottolinea l’uso immorale e violento della cultura a danno degli umili. (vedi don Abbondio e Renzo, l’uso del latino). La violenza è un tema ricorrente in quest’opera intesa come costume quotidiano e strumento comune nei rapporti personali. Si tratta di un esplicita denuncia della corrotta società del ‘600.  Il capolavoro manzoniano dei Promessi Sposi rappresenta uno dei più importanti romanzi storici dell’Ottocento dopo l’Ivanhoe di Walter Scott. Caratteristica peculiare dei romanzi storici sono le digressioni. Una digressione è l’allontanamento temporaneo dalla storia che costituisce la struttura portante del romanzo. Nel momento in cui c’è questo breve distacco, l’autore ne approfitta per approfondire un avvenimento storico in relazione con la vicenda in modo che il lettore possa avere una visione più ampia del contesto temporale. Altre volte queste digressioni vengono usate per descrivere, principalmente in modo indiretto, un nuovo personaggio narrando un evento nel quale lui è protagonista e mediante esso possiamo comprendere molti lati del suo carattere o numerosi aspetti della sua vita. Manzoni fa un largo uso di questa tecnica tanto che nella seconda revisione del romanzo dovette ridurre drasticamente le digressioni presenti in esso poiché potevano disorientare eccessivamente il lettore all’interno della vicenda. Per staccarsi dalla vicenda principale, Manzoni usa varie strategie. Una di queste è quella di affidare la narrazione ad un narratore di secondo livello che spesso fa parte del sistema dei personaggi. Questo è il caso del “Miracolo delle noci “, racconto di uno strano miracolo narrato dal frate cappuccino Fra Galdino nella chiusura del terzo capitolo . Oppure l’autore utilizza ampie analessi (flash-back ) soprattutto per raccontare al lettore la vita passata di un personaggio come ad esempio accade per Fra Cristoforo, digressione che occupa quasi tutto il quarto capitolo. Altre digressioni importanti contenute nel romanzo sono quella sulla Monaca di Monza e quella sulla giustizia del Seicento in cui sono riportate le grida contro i Bravi. Un aspetto negativo che scaturisce dall’uso di digressioni e parti descrittive è quello di rallentare, anche se non pesantemente, la narrazione infatti nei primi otto capitoli, nei quali Manzoni fa largo uso di questi espedienti, si può notare facilmente che la storia procede con un andamento molto flemmatico. La prima digressione che si incontra nel romanzo è quella sulla giustizia del seicento. In questa digressione Manzoni riporta numerose grida emanate contro la classe sociale dei bravi che in Lombardia era molto copiosa ed racconta anche di come la dominazione spagnola opprimeva la popolazione e i più deboli che in questo periodo potevano solo subire la prepotenze dei più forti. La seconda digressione che Manzoni ci pone in esame è quella di Fra Galdino il quale narra una storia molto particolare soprattutto per il miracolo che conteneva. Con la storia del frate viene parzialmente introdotto il tema della carestia, ma soprattutto sono la fede in Dio e il rispetto dei voti che si fanno in suo onore i veri protagonisti di questa piccola storiella.  PROMESSI SPOSI: LA POETICA DEL VERO La più originale aderenza al vero è presente nei Promessi Sposi, in cui Manzoni sceglie come protagonisti gli umili. I protagonisti del Promessi Sposi infatti, il celebre romanzo di Manzoni, sono poveri e ignoranti popolani. All’interno del romanzo ci sono importanti novità: l’autore rappresenta la realtà così com’è, utilizza un linguaggio comprensibile a tutti, tratta temi che interessano una grossa fetta di lettori, risponde alle esigenze dello scrittore di portare avanti il proprio impegno morale e sociale. Si tratta di un genere nuovo, che permette al Manzoni di non imbattersi in stereotipi o norme prefissate, ma di agire in totale libertà. La realtà di ogni giorno è dipinta con serietà e realismo, in cui però non sono più presenti gli eroi della letteratura classica, ma i protagonisti sono personaggi semplici legati alla realtà storica in cui sono collocati. Hanno caratteristiche ben precise, una personalità complessa e dinamica, una sorprendente ricchezza interiore. I personaggi non vengono idealizzati, ma mantengono sia i pregi che i difetti che avrebbero nella vita reale. Per Manzoni personaggi e fatti devono aderire il più fedelmente possibile alla realtà: per questo motivo l’autore si documenta bene consultando cronache, archivi, biografie, rappresentando gli umili non come i pastorelli delle opere del ‘600 e del ‘700 o personaggi sciocchi come in Goldoni, ma così come sono nella realtà, soffermandosi sulla loro umanità e addirittura proponendo una donna comune, Lucia, come modello di comportamento.  L’ESPEDIENTE DEL MANOSCRITTO RITROVATO. Il celebre romanzo di Alessandro Manzoni si apre con un’introduzione in cui il narratore spiega l’origine della storia che si accinge a raccontare. Egli sostiene di aver trovato un anonimo manoscritto del seicento che racconta una vicenda ricca di fatti tragici e orribili, ma anche di atti virtuosi. Una vicenda che vede protagonisti degli umili popolani. La storia è scritta in italiano seicentesco, cioè in una forma antica e non sempre corretta. La trama, tuttavia, gli sembra molto bella, tanto da decidere di trascriverla in un italiano più comprensibile, in modo da farla conoscere ad un pubblico più ampio sciacquando, per usare le sue stesse parole, i panni in Arno” per creare una lingua tusco-milanese più comprensibile. In realtà I Promessi Sposi sono frutto di fantasia di Manzoni e il ritrovamento di un antico manoscritto è soltanto un’invenzione, l’espediente che usa l’autore milanese. L’espediente letterario serve al Manzoni per mantenere le distanze dalla storia che racconta, quindi fare in modo che le critiche in riferimento alla dominazione spagnola fossero attribuite ad altri, così nessuno in epoca di dominazione straniera (quella austriaca contemporanea allo scrittore) potesse accusarlo di nazionalismo. La seconda funzione del finto manoscritto è tutta stilistica: quella distanza contribuiva ad aumentare la verosimiglianza storica della vicenda di Renzo e Lucia. Manzoni non si limita a riferire al lettore dove, come e quando ha fatto il sensazionale ritrovamento, ma trascrive il frammento iniziale del fantomatico documento (Historia). Ovviamente, è tutto frutto della sua abilità di narratore. Manzoni è attento a ricreare il linguaggio seicentesco, pieno di latinismi e con quell’uso barocco delle lettere maiuscole per indicare concetti astratti come la storia (l’Historia). Questo frammento è anch’esso l’introduzione di uno stile seicentesco, tenendo a precisare che i protagonisti del racconto non saranno “Prencipi” e “Potentati” ma persone umili alle quali però sono capitati “fatti memorabili”. Anche in questo passaggio Manzoni sottolinea, indirettamente, la sua intenzione di raccontare la storia da una prospettiva nuova: con gli occhi degli umili. In questa scelta si legge la volontà di assolvere a quella nuova esigenza di realismo in letteratura, ma che nei Promessi Sposi assumerà un aspetto molto particolare. PERSONAGGI Il sistema dei personaggi dei Promessi sposi è piuttosto articolato e presenta una netta separazione fra gli umili (le "gente meccaniche, e di piccol affare" di cui parla l'anonimo nell'Introduzione, ovvero i "poverelli" citati da Manzoni) e i potenti, che hanno parte non trascurabile nelle vicende. Tra i primi troviamo soprattutto i protagonisti del romanzo (i due "promessi", don Abbondio, Agnese, Perpetua...), mentre fra gli altri vi sono sia figure di fantasia (don Rodrigo, Attilio, fra Cristoforo...) sia personaggi storici (Ferrer, il cardinale Federigo Borromeo...), secondo il principio del romanzo storico che mescola fantasia e realtà, in un ambiente sociale precisamente ricostruito. Alcuni personaggi, se anche non sono storici in senso stretto, si prestano a un'identificazione più o meno sicura, come quelli di Gertrude (la monaca di Monza) o di Bernardino Visconti, che diventa l'innominato nel romanzo. Di alcuni l'autore ci fornisce una dettagliata descrizione e ci racconta la loro storia, su altri è decisamente più reticente e la ragione di ciò è spesso attribuita all'anonimo, che avrebbe omesso alcuni particolari nel manoscritto immaginario (in alcuni casi si tratta di semplice prudenza da parte di Manzoni). I personaggi principali presentano una notevole profondità psicologica e un indubbio realismo, che spesso attribuisce loro difetti e qualità in modo verosimile (questo vale soprattutto per le figure positive della vicenda). Spesso i nomi alludono a caratteristiche del personaggio, come Lucia (giovane dalla specchiata onestà, luminosa), don Abbondio (nome del santo patrono di Como, con allusione al suo amore per il quieto vivere), padre Cristoforo (portatore di Cristo, secondo l'etimologia latina).  Lucia Mondella  È la protagonista femminile della vicenda, la promessa sposa di Renzo che subisce le molestie di don Rodrigo e le cui nozze vengono impedite dal signorotto: compare per la prima volta alla fine del cap. II, quando Renzo la raggiunge e la informa del mancato matrimonio, dopo aver costretto don Abbondio a parlare circa le minacce ricevute dai bravi. È una giovane di circa vent'anni, unica figlia di una vedova (Agnese) con la quale vive in una casa posta in fondo al paese: ha lunghi capelli bruni ed è dotata di una bellezza modesta, che non giustifica una passione morbosa da parte di don Rodrigo (il quale infatti ha deciso di sedurla per una sciocca scommessa col cugino Attilio) e che spiegherà la delusione dei nuovi compaesani quando i due sposi si trasferiranno nel Bergamasco, alla fine del romanzo. Viene descritta come una ragazza molto pia e devota, ma anche assai timida e pudica sino all'eccesso, tanto che si imbarazza e arrossisce nelle più diverse occasioni: passiva e alquanto priva di spirito di iniziativa, viene trascinata nel tentativo di "matrimonio a sorpresa" dalle minacce di Renzo, che promette in caso contrario di fare una pazzia; in seguito, quando si trova prigioniera nel castello dell'innominato, pronuncia il voto di castità che costituirà un grave ostacolo al ricongiungimento dei due promessi e che verrà sciolto alla fine del romanzo da padre Cristoforo. Quest'ultimo è il confessore di Lucia e la giovane ripone nel frate cappuccino una grande fiducia, tanto che inizialmente rivela solo a lui di essere stata importunata da don Rodrigo. Lucia è il personaggio che forse più di ogni altro ha fede nella Provvidenza divina e anche per questo sembra incapace di serbare ogni minimo rancore, persino nei confronti del suo odioso persecutore (è dunque un personaggio statico, a differenza di Renzo che compie un percorso di maturazione all'interno della vicenda). È anche il personaggio che interagisce con figure di potenti, quali Gertrude, l'innominato, il cardinal Borromeo, don Ferrante e donna Prassede. Il suo nome allude al candore della persona, nonché alla martire siracusana che preferì farsi accecare piuttosto che darsi alla prostituzione, così come il cognome (Mondella) rimanda alla sua purezza e castità. Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicata col nome di Lucia Zarella (I, 1), quando i bravi intimavano a don Abbondio di non celebrare le nozze, poi la giovane viene chiamata Mondella come nella redazione definitiva (II, 8).  Renzo Tramaglino  È il protagonista maschile della vicenda, il promesso sposo di Lucia le cui nozze vengono mandate a monte da don Rodrigo: è descritto come un giovane di circa vent'anni, orfano di entrambi i genitori dall'adolescenza e il cui nome completo è Lorenzo. Esercita la professione di filatore di seta ed è un artigiano assai abile, cosicché il lavoro non gli manca nonostante le difficoltà del mercato (ciò anche grazie alla penuria di operai, emigrati in gran numero nel Veneto); possiede un piccolo podere che sfrutta e lavora egli stesso quando il filatoio è inattivo, per cui si trova in una condizione economica agiata pur non essendo ricco. Compare per la prima volta nel cap. II, quando si reca dal curato la mattina del matrimonio per concertare le nozze: è presentato subito come un giovane onesto e di buona indole, ma piuttosto facile alla collera e impulsivo, con un'aria "di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti"; infatti porta sempre con sé un pugnale e se ne servirà indirettamente per minacciare don Abbondio e costringerlo a rivelare la verità sul conto di don Rodrigo. In seguito progetterà addirittura di assassinare il signorotto, ma abbandonerà subito questi pensieri delittuosi al pensiero di Lucia e dei principi religiosi (anche nel cap. XIII parlerà in difesa del vicario di provvisione, che i rivoltosi vogliono linciare). Il suo carattere irascibile e irruento gli causerà spesso dei guai, specie durante la sommossa a Milano il giorno di S. Martino quando, per ingenuità e leggerezza, verrà scambiato per uno dei capi della rivolta e sfuggirà per miracolo all'arresto; dimostra comunque in più di una circostanza un notevole coraggio, sia durante i disordini citati della sommossa (in cui si adopera per aiutare Ferrer a condurre via il vicario), sia quando torna nel ducato di Milano nonostante la cattura, al tempo della peste (a Milano si introduce nel lazzaretto e in seguito si fingerà un monatto, cosa che gli consentirà di trovare Lucia). È semi-analfabeta, in quanto sa leggere con difficoltà ma è incapace di scrivere, cosa che gli impedirà di diventare factotum alla fabbrica del Bergamasco dove trova lavoro dopo la sua fuga dal Milanese (anche per questo conserva una certa diffidenza per la parola scritta, specie per le gride che non gli hanno minimamente assicurato la giustizia). Rispetto a Lucia si può considerare un personaggio dinamico, in quanto le vicende del romanzo costituiscono per lui un percorso di "formazione" al termine del quale sarà più saggio e maturo (è lui stesso a trarre questa morale nelle pagine conclusive dell'opera). Nel Fermo e Lucia il suo personaggio aveva il nome di Fermo Spolino, mentre il nome Lorenzo era attribuito al sagrestano di don Abbondio, poi chiamato Ambrogio.  Don Rodrigo  È il signorotto del paese di Renzo e Lucia, un aristocratico che vive di rendita e abita in un palazzotto situato a metà strada tra il paese stesso e Pescarenico: personaggio malvagio del romanzo, si incapriccia di Lucia e decide di sedurla in seguito a una scommessa fatta col cugino Attilio, Lucia dagli altri cappuccini del lazzaretto (XXXVII). Curiosamente, nel Fermo e Lucia era dapprima indicato col nome di padre Galdino (I, 3-4), poi il nome mutava in Cristoforo da Cremona (I, 4) e ciò avvalora l'ipotesi in base alla quale Manzoni si sarebbe ispirato alla figura storica di Cristoforo Picenardi, padre cappuccino originario di Cremona e vissuto agli inizi del XVII secolo, dalla giovinezza alquanto turbolenta (come il Lodovico manzoniano) e che prestò la sua opera di assistenza ai malati nel lazzaretto di Milano, dove morì anch'egli di peste. Il nome di Galdino nella redazione definitiva sarà invece attribuito al laico cercatore delle noci, che nel Fermo si chiamava fra Canziano (e compariva in quell'unico episodio).  Perpetua  È la domestica di don Abbondio, ovvero una donna di mezza età che, avendo passati i quarant'anni (età stabilita dai Sinodi come quella minima per vivere in casa di un sacerdote) ed essendo rimasta nubile, accudisce il curato alloggiando nella sua abitazione: il suo nome proprio è poi diventato, per antonomasia, il nome comune che sino agli anni Cinquanta del XX secolo ha designato la domestica del sacerdote. Compare nel cap. I, quando il curato torna a casa in seguito all'incontro coi bravi, ed è descritta come una donna decisa ed energica, alquanto incline al pettegolezzo (è il motivo per cui don Abbondio è inizialmente restio a rivelarle il ricatto subìto) e dalla battuta salace, per cui rimprovera spesso al curato la sua debolezza e viltà. Ha un carattere spigoloso e sfoga di frequente il suo malumore con il padrone, del quale subisce peraltro "il brontolìo e le fantasticaggini" e con cui ha comunque un rapporto basato su una sorta di ruvido affetto ricambiato (sicuramente è il personaggio che meglio conosce il carattere e l'indole di don Abbondio). È un personaggio di secondaria importanza, protagonista soprattutto di duetti comici con il curato, anche se ha un ruolo decisivo nella vicenda in quanto è lei a far capire a Renzo la verità sul matrimonio rimandato (II); la sua indole ciarliera verrà poi sfruttata da Agnese, che la distrarrà la notte del "matrimonio a sorpresa" (VIII) con chiacchiere riguardanti il fatto che è rimasta zitella. La sua morte a causa della peste è rivelata dal curato a Renzo (XXXIII). Curiosamente, nel Fermo e Lucia era inizialmente chiamata Vittoria (I, 1), per poi diventare Perpetua (I, 6) come nella versione definitiva.  Agnese  È la madre di Lucia, un'anziana vedova che vive con l'unica figlia in una casa posta in fondo al paese: di lei non c'è una descrizione fisica, ma è presentata come una donna avanti negli anni, molto attaccata a Lucia per quale "si sarebbe... buttata nel fuoco", così come è sinceramente affezionata a Renzo che considera quasi come un secondo figlio. Viene introdotta alla fine del cap. II, quando Renzo informa Lucia del fatto che le nozze sono andate a monte, e in seguito viene descritta come una donna alquanto energica, dalla pronta risposta salace e alquanto incline al pettegolezzo (in questo non molto diversa da Perpetua). Rispetto a Lucia dimostra più spirito d'iniziativa, poiché è lei a consigliare a Renzo di rivolgersi all'Azzecca-garbugli (III), poi propone lo stratagemma del "matrimonio a sorpresa" (VI) e in seguito invita don Abbondio e Perpetua a rifugiarsi nel castello dell'innominato per sfuggire ai lanzichenecchi (XXIX). È piuttosto economa e alquanto attaccata al denaro, se non proprio avara, come si vede quando rimprovera Lucia di aver dato troppe noci a fra Galdino (III) e nella cura che dimostra nel custodire il denaro avuto in dono dall'innominato. A differenza dei due promessi sposi non si ammala di peste (ci viene detto nel cap. XXXVII) e, dopo il matrimonio, si trasferisce con Renzo e Lucia nel Bergamasco, dove vive con loro ancora vari anni. Del defunto marito e padre di Lucia non viene mai fatta parola e, curiosamente, il fatto che Agnese sia vedova viene menzionato solo nel cap. XXXVII, quando la donna torna al paese e trova la casa quasi intatta dopo il periodo della peste (il narratore osserva che "questa volta, trattandosi d’una povera vedova e d’una povera fanciulla, avevan fatto la guardia gli angioli").  L'innominato  È il potente bandito cui si rivolge don Rodrigo perché faccia rapire Lucia dal convento di Monza in cui è rifugiata, cosa che l'uomo ottiene grazie all'aiuto di Egidio, suo complice e amante della monaca Gertrude: in seguito a una crisi di coscienza e all'incontro decisivo col cardinal Borromeo giunge a un clamoroso pentimento, decidendo così di liberare la ragazza prigioniera nel suo castello e di mandare a monte i piani del signorotto, che dovrà successivamente lasciare il paese e andare a Milano. L'autore non fa mai il suo nome e infatti lo indica sempre col termine "innominato", dichiarando di non aver trovato documenti dell'epoca che lo citino in maniera esplicita, tuttavia la sua figura è chiaramente ispirata al personaggio storico di Francesco Bernardino Visconti, noto bandito vissuto tra XVI e XVII secolo e passato alla storia per la sua vita turbolenta e criminosa, salvo poi convertirsi ad opera proprio del cardinal Federigo. Manzoni conferma tale identificazione in una lettera a Cesare Cantù, dove allude al feudatario di Brignano Ghiaradadda come al personaggio del romanzo (in esso finzione e realtà sono abilmente mescolati, tratto comune a tutte le figure storiche che appaiono nelle vicende). Viene introdotto a partire dal cap. XVIII, quando don Rodrigo accarezza l'idea di rivolgersi a lui per tentare il rapimento di Lucia dal convento della "Signora" (obiettivo troppo al di fuori della sua portata), mentre la sua storia passata e un dettagliato ritratto del personaggio vengono riportati dall'autore nella seconda parte del cap. XIX, quando il signorotto parte alla volta del suo castello. Come personaggio vero e proprio entra in scena nel cap. XX, allorché accetta da don Rodrigo l'incarico di far rapire Lucia, anche se ci viene mostrato già preda di rimorsi e rimpianti sulla sua vita scellerata che preludono al pentimento e alla conversione dei capp. seguenti. Viene descritto come un uomo di alta statura, bruno, calvo, con pochi capelli ormai bianchi e il volto rugoso che dimostra più dei suoi sessant'anni, anche se il suo contegno e l'atteggiamento risoluto testimoniano una vigoria fisica e un'energia che sarebbero straordinari in un giovane. L'autore lo presenta come un bandito feroce e spietato, che accetta incarichi sanguinosi da mandanti anche prestigiosi e che per questo è circondato da una fama sinistra che incute terrore in tutti quelli che hanno a che fare con lui: i vari signori e tirannelli locali che vivono nel territorio che controlla (una zona a cavallo del confine tra Milanese e Bergamasco, dove è situato il suo castello e dove vive circondato da bravi) devono scendere a patti con l'innominato e diventare suoi amici, dal momento che i pochi che hanno cercato di opporsi sono stati uccisi o costretti ad andarsene. Spesso l'uomo accetta di aiutare degli oppressi vittime delle prepotenze dei nobili, il che lo rende esecutore di quella giustizia che lo Stato corrotto e inefficiente non è in grado di assicurare ai deboli; la sua figura acquista dunque una sorta di imponenza tragica e di grandiosa malvagità che lo rendono uno dei personaggi più interessanti del romanzo, specie se accostato a don Rodrigo che, al suo confronto, appare come un individuo ben più modesto e mediocre, anche perché l'innominato si compiace della sua reputazione famigerata e si propone come un nemico pubblico delle leggi e di ogni autorità costituita, mentre il signorotto ricerca continuamente l'appoggio della giustizia e degli amici potenti, mostrando in più di un caso il timore delle conseguenze delle sue malefatte (per approfondire: L. Russo, Don Rodrigo). L'intervento dell'innominato nelle vicende del romanzo è del resto decisivo, poiché con la liberazione di Lucia i disegni di don Rodrigo vanno a monte e il bene inizia a prevalere sul male, mentre la sua clamorosa conversione diventa un esempio della misericordia divina che è anche tra le pagine più celebri del romanzo, nonché una vicenda umana di caduta e redenzione simile a quella di altri personaggi manzoniani, soprattutto padre Cristoforo (convertitosi anch'egli dopo essersi macchiato di un omicidio e dopo una giovinezza inquieta in parte simile a quella del bandito). In seguito alla conversione l'innominato tiene con sé solo i bravi che accettano la sua nuova vita, mentre egli va in giro senz'armi e si propone come un difensore di deboli e oppressi, non però con i metodi della violenza usati in passato; gli antichi nemici rinunciano a vendicare i torti subìti per rispetto e perché ancora intimoriti da lui, mentre la pubblica autorità non prende nei suoi riguardi alcun provvedimento, specie perché le sue parentele altolocate ora gli valgono una protezione prima solo accennata. Egli mantiene una corrispondenza col cardinal Borromeo, l'artefice in qualche modo del suo ravvedimento, e fa avere per il suo tramite cento scudi d'oro ad Agnese come risarcimento per il male fatto alla figlia, che la donna accetta e di cui manda la metà a Renzo che nel frattempo si è nascosto nel Bergamasco; in occasione poi della calata dei lanzichenecchi (capp. XXIX-XXX) il suo castello offre un sicuro rifugio alle popolazioni che hanno dovuto lasciare le loro case per evitare i saccheggi, tra cui anche don Abbondio, Perpetua e Agnese, che si trattengono presso di lui poco meno di un mese. In seguito non viene più nominato e ignoriamo dunque in quali circostanze sia avvenuta la sua morte. Il personaggio era protagonista già del Fermo e Lucia, in cui però era chiamato Conte del Sagrato e dove la sua storia si arricchiva di particolari macabri come quello, celebre, dell'omicidio di un uomo sul sagrato di una chiesa (fatto che dava ragione del suo nome, cfr. il testo): il suo colloquio con don Rodrigo era descritto in modo stucchevole e con molti termini spagnoleggianti usati dal signorotto (cfr. il brano Il Conte del Sagrato e don Rodrigo), mentre nei Promessi sposi il colloquio tra i due è riassunto in un sintetico discorso indiretto, inoltre durante la descrizione del suo pentimento e del suo tormento interiore era inserito il ricordo di un incontro avvenuto, da adolescente, col giovane Federigo Borromeo, che risultava alquanto forzato e di sapore fin troppo "agiografico" (infatti esso è stato eliminato dalla versione definitiva del romanzo). Nella prima redazione, inoltre, la sua morte per la peste veniva ricordata nel capitolo conclusivo del romanzo, mentre nelle successive edizioni non se ne fa cenno (cfr. il brano Il finale della storia).  Gertrude, la monaca di Monza  È la monaca del convento di Monza dove si rifugiano Agnese e Lucia in seguito alla fuga dal paese e al fallito tentativo di rapire la giovane da parte di don Rodrigo: detta anche la "Signora", viene introdotta nel cap. IX ed è presentata come la figlia di un ricco ed influente principe di Milano, la quale grazie alle sue nobili origini gode di grande prestigio e di una certa libertà all'interno del convento (è il padre guardiano del convento dei cappuccini di Monza, cui le due donne si sono rivolte su suggerimento di padre Cristoforo, a condurre Agnese e Lucia da lei e a ottenere per loro la protezione della "Signora"). Il personaggio è chiaramente ispirato alla figura storica di Marianna de Leyva (1575- 1650), figlia di Martino conte di Monza e costretta a farsi monaca dal padre contro la sua volontà: entrata in convento tra le umiliate col nome di suor Virginia Maria (1591), esercitò in seguito l'autorità feudale come contessa di Monza e fu perciò chiamata la "Signora", mentre negli anni seguenti intrecciò una relazione con Gian Paolo Osio (l'Egidio del romanzo), un giovane scapestrato già colpevole di assassinio dal quale ebbe due figli (nel 1602 e 1603). Per tenere segreta la relazione l'Osio si macchiò di tre nuovi delitti, ma venne arrestato e ciò permise al cardinal Borromeo di scoprire la tresca, che fu confermata dalla stessa De Leyva. L'Osio fu condannato a morte in contumacia (1608) e venne poi ucciso in casa di un presunto amico che lo tradì, mentre la donna subì un processo canonico (1607) e venne rinchiusa nella casa delle penitenti in Santa Valeria a Milano, dove visse gli ultimi anni espiando le sue colpe e auto-infliggendosi crudeli penitenze, fino a morire in odore di santità. Manzoni modifica in parte la vicenda storica e la adatta alle esigenze narrative del romanzo, anche se rivela fin dall'inizio la storicità del personaggio: la Gertrude dei Promessi sposi è detta figlia di un gentiluomo milanese il cui casato non è dichiarato in modo esplicito, anche se la città dove sorge il convento è Monza (ciò in contrasto con la "circospezione" dell'anonimo, il quale nella finzione indica il luogo con i consueti asterischi). È presentata come una giovane di circa venticinque anni, dalla bellezza sfiorita e dal cui aspetto traspare qualcosa di torbido e di morboso, unitamente al fatto che il suo abbigliamento non si conforma perfettamente alla regola monastica (la tonaca è attillata in vita come un vestito laico e la donna porta i capelli neri ancora lunghi sotto il velo, mentre dovrebbe in realtà averli corti). Il padre guardiano dei cappuccini presenta Agnese e Lucia alla monaca (IX), la quale accetta di ospitare nel convento la ragazza e la madre, che alloggeranno nella stanza lasciata libera dalla figlia maritata della fattoressa e svolgeranno i servizi di cui si occupava la ragazza; in seguito si apparta con Lucia e mostra una curiosità morbosa per la sua vicenda, obbligandola a rivelare più precisi dettagli sulla persecuzione subìta da don Rodrigo e sul suo rapporto con Renzo. L'eccessiva libertà con cui Gertrude parla alla giovane suscita il suo stupore e Agnese, alla quale Lucia confiderà in seguito la sua perplessità, concluderà col suo buon senso di popolana che i nobili "hanno tutti un po' del matto" (X), invitando la figlia a non dare troppo peso alla cosa. La storia passata di Gertrude è narrata dall'autore con un ampio flashback, che occupa gran parte dei capp. IX-X e descrive la sua vicenda come esemplare dei soprusi che spesso nelle famiglie aristocratiche venivano esercitati sui membri più deboli: il principe padre di Gertrude, nobile milanese e feudatario di Monza, aveva deciso il destino della figlia prima ancora che nascesse, ovvero aveva stabilito che si facesse monaca per non intaccare il patrimonio di famiglia, destinato interamente al primogenito. Dunque la piccola Gertrude viene educata fin da bambina inculcandole nella testa l'idea del chiostro (le vengono regalate bambole vestite da monaca, viene spesso paragonata a una "madre badessa"...), finché a sei anni viene mandata in convento per essere educata come molte sue coetanee. All'inizio la ragazza è allettata all'idea di diventare un giorno la madre superiora del monastero, ma nell'adolescenza inizia a rendersi conto che non è quella la vita che si attende e, soprattutto, che vorrebbe anche lei sposarsi e avere un'esistenza nel mondo come tutte le sue compagne. Decide allora di scrivere una lettera al padre, per comunicargli di non voler dare il suo assenso alla monacazione, ma quando rientra a casa per trascorrere un periodo di un mese fuori dal convento (come prescritto dalla regola canonica per le monacande), è accolta con freddezza da tutti i suoi familiari e posta in una sorta di isolamento che ha il fine di forzarla ad accettare di prendere il velo. La giovane Gertrude un giorno scrive un biglietto per un paggio verso cui nutre un'innocente passione, ma la carta viene intercettata da una cameriera e finisce nelle mani del padre, il quale è abile nel servirsi di questo "fallo" della ragazza per farla sentire terribilmente in colpa e forzarla a dare il suo assenso, cosa che la poverina è indotta a fare per debolezza, senso di colpa, sottomissione all'autorità del padre. Da quel momento Gertrude è indotta in ogni modo dalla famiglia ad affrettare i passi che la condurranno alla monacazione, supera il colloquio col vicario delle monache che deve esaminarla per accertare la sincerità della sua vocazione e, alla fine, prende il velo iniziando il suo noviziato nello stesso convento in cui era stata educata, godendo di ampi privilegi e venendo trattata con rispetto e considerazione come se fosse lei la badessa (carica che non può ancora esercitare per la sua giovane età). In seguito Gertrude diventa la maestra delle educande e sfoga su queste ragazze il malanimo e l'insofferenza per il destino che le è stato imposto, tiranneggiandole e diventando talvolta la loro confidente e la complice delle loro
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