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Alessandro Manzoni, vita e opere, Appunti di Italiano

Tratto dal libro: "testi e storia della letteratura; il primo novecento e il periodo tra le due guerre" (Guido Baldi).

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 10/06/2019

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monica-minut 🇮🇹

3.9

(16)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Alessandro Manzoni, vita e opere e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria, figlia dell’illuminista Cesare Beccaria. I primi anni di collegio lasciano in lui un ricordo del tutto negativo ma lo avviano alla conoscenza di autori moderni come Alfieri e Parini e alla lettura dei pensatori francesi illuministi: la discendenza da Beccaria e l’ambiente milanese pongono sicuramente delle solide basi per il pensiero di Manzoni che, come vedremo fra poco, recepisce molti elementi dalla cultura illuminista rielaborandoli poi secondo la sua personale visione del mondo. ↣Il trasferimento a Parigi: Nel 1805 Alessandro Manzoni si trasferisce a Parigi dove la madre viveva con Carlo Imbonati, il nuovo compagno che morì però improvvisamente prima dell’arrivo del giovane in Francia. Questo evento luttuoso portò ad un forte legame fra Manzoni e sua madre che non si attenuò mai. Sposa Enrichetta BlondelNel 1808 sposa, con rito calvinista, Enrichetta Blondel, che fu sua compagna anche nel graduale processo di conversione verso il giansenismo che avvenne dopo il “miracolo di San Rocco” quando Manzoni, durante la festa patronale, si perse nella grande calca parigina e, preso dal panico, invocò Dio perché riuscisse a ritrovare sua moglie e la strada di casa. ↣La conversione ed il distacco dalla poesia classicheggiante: La conversione religiosa di Alessandro Manzoni coincide con un distacco definitivo dalla poesia classicheggiante e neoclassica: compone gli Inni Sacri e le prime tragedie, fra cui spicca il Conte di Carmagnola; vedremo in seguito queste opere. Ancora a Parigi nel 1819 frequenta lo storico francese J. Thierry da cui trarrà l’idea, fondamentale per la sua produzione artistica, dell’esigenza di una storiografia che nella sua indagine sia attenta alle masse e non solo ai governi o ai regnanti. ↣Il rientro a Milano: Dal 1820 Manzoni è a Milano e comincia per lui un periodo appartato ma assolutamente creativo. Comincia in questi anni la stesura della prima versione del suo romanzo storico d’eccellenza (I Promessi Sposi) che viene pubblicato in una prima edizione del 1821-1823 con il titolo di Fermo e Lucia. ↣Gli anni seguenti vedono Alessandro Manzoni impegnato in una profonda riflessione sulla storiografia e sulla lingua italiana, argomento con cui si esprime il suo impegno nel processo risorgimentale: se è vero che fatta l’Italia bisognava fare gli italiani (come si espresse D’Azeglio) la questione della lingua diventava secondo Manzoni un tassello fondamentale per la costruzione di questa identità. Ricordiamo che in Italia solo la lingua letteraria ha uno statuto ormai riconosciuto sul piano nazionale, si usa cioè il fiorentino come lingua ufficiale scritta, ma il resto del popolo oltre a parlare esclusivamente dialetto è anche analfabeta e il fiorentino pone la popolazione davanti alla stessa difficoltà che si avrebbe davanti una lingua straniera. ↣La predilezione per una lingua semplice: Alessandro Manzoni, che dal 1861 è senatore del neonato regno d’Italia, in linea con le idee romantiche che sposò nel corso della sua vita, predilesse una lingua fiorentina ma semplice: non il fiorentino aulico e pomposo degli scritti letterari ma una lingua schietta, popolare, che accogliesse anche i termini più pratici e comprensibili delle parlate locali (oltre il fiorentino di base quindi) e i termini stranieri circolanti all’epoca. La morte di Manzoni avvenne a Milano nel 1873 e fu occasione di solenni cerimonie che ispirarono anche una Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. →Gli anni Giovanili: Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785, da una relazione extra coniugale tra la madre, Giulia Beccaria e Giovanni Verri. Il padre ufficiale era il conte Pietro Manzoni. Visse poco tempo con la famiglia, trascorse la prima adolescenza in collegi di somaschi e barnabiti, dove ricevette un’educazione classica. A sedici anni esce dal convento e si inserisce nell’ambiente culturale milanese, frequentando poeti come Monti e Foscolo. Nel 1801 inizia a pubblicare opere che non rispecchiano il suo pensiero che è in continuo cambiamento. Nel 1805 raggiunge la madre a Parigi, dopo la morte di Carlo Imbonati e scrive un carme di stampo classicista : ‘In morte di Carlo Imbonati’. Qui nasce un rapporto molto intenso tra madre e figlio. Qui conosce anche ‘gli ideologi’ (Thierry, Fauriel: Eredi del patrimonio illuministico) e stringe una profonda amicizia soprattutto con Fauriel che diventa un suo punto di riferimento. →La conversione e il ritorno in Italia: Per la conversione religiosa di Manzoni, è determinante la conversione della moglie, Enrichetta Blondel, a Parigi dal calvinismo al cattolicesimo. Quando nel 1810 lascia Parigi ritornando a Milano, Manzoni era cambiato e la sua vita era inspirata al cattolicesimo. Allora, Manzoni abbandona la poesia classica per dedicarsi alla stesura degli inni sacri nel 1812-1815. In Italia, la sua vita era dedicata allo studio, alla scrittura e alla famiglia. Fu vicino al movimento romantico ma non partecipò mai direttamente, rifiutando di collaborare al Conciliatore. →Il distacco dalla letteratura: Dopo la pubblicazione dei promessi sposi, nel 1827, il periodo creativo di Manzoni finisce, e lui si distacca anche dal romanzo storico. Manzoni tendeva a rifiutare la poesia, considerandola falsità di contro al vero storico e morale. In questo periodo, approfondì gli interessi storici, filosofici e linguistici. L’amicizia con Fauriel fu sostituita dal filosofo cattolico Antonio Rosmini, che divenne la sua guida intellettuale. Manzoni era circondato di ammirazione grazie al successo ottenuto dal romanzo. Durante le Cinque giornate di Milano, seguì gli eventi politici e scrisse l’ode ‘Marzo 1821’. Quando si costituì il regno d’Italia, nel 1860 fu nominato senatore. Pur essendo cattolico era contro al potere temporale della Chiesa ed era favorevole a Roma capitale. Nel 1861 votò a favore del passaggio di Capitale da Torino a Firenze. Negli anni della vecchiaia, fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana che vedevano in lui una guida morale, intellettuale e politica. Morì a Milano nel 1873. •PRIMA DELLA CONVERSIONE: LE OPERE CLASSICISTICHE Tra il 1801 ed il 1810, Manzoni scrive opere classicistiche. Esse sono opere scritte con un linguaggio aulico, con rimandi mitologici e dotti, inspirandosi a Foscolo e Monti. Nel 1801, scrive ‘Il trionfo della Libertà’ che inneggia alla rivoluzione francese e va contro la tirannide politica e religiosa. Seguono l’Adda, poemetto idillico indirizzato a Monti e ‘I sermoni’, in cui Manzoni polemizza contro aspetti del costume contemporaneo. Nel 1805, scrive il carme ‘In morte di Carlo Imbonati’ in cui Manzoni immagina che Carlo gli appaia in sogno dandogli nobili consigli di vita e poesia. In questa opera si nota la nascita del ‘giusto solitario, che scappa dal caos della vita contemporanea e si rifugia nella propria virtù e solitudine. Nel 1809 compone ‘Urania’ che tratta del valore incivilitore della bellezza e delle arti. Poi scrive ‘A Partenide’ in risposta al poeta danese Baggesen con cui si scusa per non poter tradurre il suo idillio borghese ‘Parthenais’. In questo periodo, Manzoni si distacca dal neoclassicismo e sente il bisogno di una letteratura nuova. Per tre anni non scrive nulla. Dopo i tre anni scrive gli ‘Inni Sacri’. •DOPO LA CONVERSIONE: LA CONCEZIONE DELLA STORIA E DELLA LETTERATURA alessandro manzoni La conversione investì tutti gli aspetti della personalità di Manzoni. Egli, per rispondere a Simonde Sismondi, che diceva che la morale cristiana era la radice della corruzione dello stato italiano, scrive ‘Le osservazioni sulla morale cattolica’. Da quest’opera traspare una fiducia assoluta alla religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero. Egli cambiò la sua concezione della storia che prima elogiava i romani come modello supremo di civiltà, attenendosi ai canoni classicisti, e ora li cataloga come un popolo violento, feroce e oppressore. Nasce in lui un nuovo interesse per il Medio Evo cristiano. Da questo ripudio della visione classica, scaturisce in Manzoni un rifiuto della concezione eroica che celebra solo i grandi, i potenti ed un interesse per i vinti e gli umili. La sua conversione, causò anche dei cambiamenti nel suo pensiero letterario. Per Manzoni, divenne centrale il problema della caduta, del male radicato nella storia e della miseria dell’uomo incline al peccato. In lui, nasce il bisogno di una letteratura che guardi al “vero”, senza finzioni, e di un’arte che si prefigga come fine “l’utile”. Inoltre, la letteratura doveva essere rivolta a tutti coloro che sapessero leggere, con una lingua parlata realmente dai ceti colti e, dal punto di vista stilistico, rifiutando il formalismo retorico. •IL PENSIERO DI ALESSANDRO MANZONI ↣Una personalità sensibile ossessionata dal peccato: Alla base della poetica di Alessandro Manzoni c’è la sua personalità sensibile, profondamente religiosa e sempre ossessionata dall’idea del peccato in linea con le filosofie gianseniste, disillusa dal processo storico e per certi versi timida. Le idee che circolano all’epoca, i residui dell’Illuminismo e le nuove inquietudini romantiche vengono accolte e interpretate secondo questo suo animo ritroso. Vediamo come: 1. Eredità dell’Illuminismo: la formazione illuminista è alla base del pensiero di Manzoni. Il suo metodo nell’affrontare questioni letterarie e politiche è razionale e analitico. Critica i pregiudizi e le superstizioni ma, a differenza degli illuministi, Manzoni è segnato da una profonda disillusione verso la Storia. La sua religiosità lo porta a vedere l’uomo incapace di cavarsela con i propri mezzi, l’uomo un essere imperfetto e perennemente corrotto che non ha modo di risollevare il processo storico verso una nuova età dell’oro. 2. L’interesse per la Storia: nonostante questa visione pessimistica l’interesse e la passione per la storia (argomenti che lo mettono in contatto sia con l’Illuminismo che con il Romanticismo) sono un punto fondamentale nel lavoro di Manzoni. Il fatto che la storia non sia un processo evolutivo verso un crescendo positivo non implica che l’indagine storiografica non sia istruttiva, appassionante e da rivalutare. Non lo interessano i governi o le guerre disputate fra i capi di Stato, poiché nutre una forte attenzione verso le masse e la loro sofferenza perdurante nei secoli. 3. Il romanticismo in Manzoni: in Italia il Romanticismo aveva tralasciato le tematiche più irrazionali e sconvolgenti che questo movimento aveva avuto nel resto d’Europa. Manzoni accoglie lo stesso tipo di Romanticismo e cioè rifiuta le idee di assoluto, di irrazionalità e di sentimentalismo prediligendo l’interesse verso il popolo e le credenze popolari, rifiutando la rigidità del classicismo per una letteratura “vera” (non servono modelli di perfezione ma una schietta rappresentazione del reale) e spontanea. →La funzione della letteratura: render le cose un po’ più come dovrebbono essere (pagina 415): Questa lettera, risalente al 1806,fa parte dell'epistolario ed è diretta all'amico di Manzoni, Fauriel; qui fa delle riflessioni sul suo lavoro letterario. Queste lettere erano rivolte non solo ai letterati ma alla moltitudine ai quali lui deve diffondere il bello e l'utile in modo che le cose possano mutare rendendole un po’ più di come dovrebbero essere. Per Manzoni la letteratura dev'essere dunque utile e trasformare la realtà, tipico dell'illuminismo infatti lui si ispira a Parini. Per riformare la società occorre illuminare le menti degli uomini poiché sono le idee vere a guidare le loro azioni. Non vi è comunicazione tra Manzoni e la moltitudine perché la lingua italiana è una lingua morta, usata da una ristretta minoranza; si vuole dunque una letteratura che usi un linguaggio comprensibile ai vari strati della popolazione. →Il romanzesco e il reale (pagina418):Joseph - Joachim-Victor Chauvet criticò Manzoni prendendo come spunto la sua tragedia “Il conte di Carmagnola” , accusandolo di non aver rispettato la regola delle tre unità aristoteliche (unità di tempo, luogo e azione). Manzoni gli risponde in una lunga lettera in francese, che in realtà si tratta di un ampio saggio, per difendersi. Nella lettera è presente la polemica contro il cosiddetto “genere romanzesco”, definito falso dallo scrittore (l.8-9). Secondo Manzoni la letteratura deve ispirarsi al vero, cioè a tutto ciò che è successo nella realtà, nella storia: solo il vero ha una forza drammatica ineguagliabile. Il romanzesco causa la perdita dei “caratteri individuali” dei personaggi: l’unità di tempo prevede che la vicenda si svolga nel giro di 24 ore, quindi non c’è il tempo necessario a sviluppare le passioni e i sentimenti che vengono così snaturati, esagerati dalla necessità di concludere brevemente l’azione. In questo modo i caratteri individuali vengono sostituiti da personaggi stereotipati, da allegorie di concetti o sentimenti. (l.18-27). Inoltre Manzoni fa un’altra polemica dovuta al rifiuto del classicismo: in particolare porta come esempi le tragedie degli scrittori francesi del Seicento Racine e Corneille poiché Chauvet era francese e sicuramente aveva presente di cosa parlava: le loro opere infatti seguivano scrupolosamente la regola delle tre unità e Manzoni ne critica l’esagerazione con cui appaiono i personaggi. →La lettera allo Chauvet sull’unità di tempo e di luogo della tragedia (Pagina 422): Nel brano tratto dalla lettera a Monsieur Chauvet (1820) Manzoni analizza il rapporto tra Storia e Poesia. Nei primi versi Manzoni critica la poesia fondata sulla pura invenzione e sul sentimento, svincolata perciò dalla rappresentazione della realtà storica. Essa è infatti una poesia facile , che non richiede sforzo intellettuale. la grande letteratura rifiuta l’invenzione e ha per oggetto il vero. Esempi i questa letteratura sono i poemi epici e le tragedie in versi della letteratura greca e latina, opere fondate sui miti che gli antichi consideravano alla stregua di avvenimenti storici reali. essi sono i grandi monumenti della poesia. I grandi drammaturghi hanno evitato di sostituire l’invenzione alla storia. La tradizione è importante. Diverso è il modo in cui storia e poesia affrontano il vero. perciò l’artista deve trovare i contenuti poetici nei fatti storici. Il compito dello storico è invece quello di esporre e precisare i fatti(vero storico). Compito dell’artista è di indagare la dimensione interiore degli individui (vero poetico) di intuire grazie alla propria immaginazione e simpatia i segreti più intimi del cuore degli uomini , le aspirazioni e le delusioni che hanno animato le azioni dei protagonisti della storia, dei grandi ma anche degli umili. la storia ha dei limiti perché testimonia soltanto grandi avvenimenti, senza tener conto delle passioni, dei sentimenti degli uomini. alessandro manzoni mi vengono in mente i “dolci castelli” dei Franchi che pensano nel cuore alla loro patria, ai lori affetti, alla loro serenità; mi vengono in mente le lettere strazianti dei soldati della I Guerra mondiale costretti ad affrontare nelle trincee situazioni sub- umane. Tanti altri sono i temi che Manzoni pone sapientemente nelle opere citate: la lotta dell’indipendenza che è sacra e giusta poiché Dio condanna ogni forma di servaggio, poiché “Dio rigetta la forza straniera”e Dio aiuterà le “itale genti” contro il “Germano” come aiutò il popolo di Israele contro il Faraone e come guidò il colpo di Giaele contro il tiranno del popolo; la necessità di conquistare la libertà con il proprio sacrifico (più volte gli italici hanno guardato verso i due mari, l’Adriatico e il Tirreno, più volte hanno sperato di veder provenire dalle Alpi qualche aiuto straniero; “Il forte si mesce col vinto nemico/ col novo signore rimane l’antico” —-> concezione che rimanda alla favola di Fedro “L’asino e il vecchio pastore” in cui si afferma che nel mutar di governo, il più delle volte, i poveretti non cambiano nulla se non il nome del padrone; ma rimanda anche a La fattoria degli animali di G. Orwell); il diritto di ogni popolo a difendere e conquistare l’indipendenza (emblematica è a tal proposito la dedica al poeta e soldato tedesco Teodoro Koerner che combattè contro Napoleone); la speranza, nei versi finali di Marzo 1821, di una vittoria definitiva che faccia sì che l’Italia sia “al convito dei popoli assisa” o altrimenti “più serva, più vil, più derisa / sotto l’orrida verga starà”; l’indissolubilità tra cittadini e patria come l’indissolubilità tra affluenti e fiumi ecc… Chiudo dicendo: Manzoni ha dedicato l’ode civile a Teodoro Koerner che era tedesco e alla stregua del Manzoni, proprio un filosofo tedesco, cioè Fichte, dedicò alla sua patria non libera parole meravigliose che facevano appello soprattutto al valore della lingua nei Discorsi intorno alla nazione. La lingua in effetti è il minimo comune denominatore di ogni popolo. →5 maggio (pagina 433): Il Cinque Maggio viene composta da Manzoni "di getto", cosa eccezionale per lui, appena pervenuta la notizia dell'avvenuta morte il 5 maggio 1821, di Napoleone Bonaparte. La notizia appunto scosse profondamente Manzoni e quest'ode diede anche nel panorama europeo una rappresentazione in qualche modo ed un'interpretazione più che altro definitiva in merito al senso dell’esperienza e del vissuto di Napoleone; basti pensare che fu subito tradotta da Goethe in tedesco proprio perchè ne riconobbe la profondità e l’altezza di ispirazione. E' significativo che la struttura metrica del Cinque Maggio sia la stessa che Manzoni utilizzerà per il coro dell'atto IV dell'Adelchi, cioè "Sparse le trecce morbide". Significativo perchè entrambi i testi, in qualche modo, da prospettive diverse ovviamente, affrontano il tema dell'eroismo, e lo demistificano . L’opera di Manzoni in generale si può concepire come un’opera tesa alla costante demistificazione di tante idee legate a tradizioni anche nobili e consolidate, ad esempio appunto il tema dell’eroismo. Quel tema dell’eroismo delle grandi personalità, la cui azione nella storia non significa altro che spargimento di sangue, che perpetuazione di sofferenze. Anche Ermingarda, che pure non parteciperà alle azioni politiche del suo popolo, in qualche modo, come dirà appunto il coro a cui facevo riferimento prima, parteciperà della logica che agli occhi di Manzoni spiega la dinamica storica e cioè la logica per cui o si è oppressi o si è oppressori, o si agisce nella storia, e per fare questo si compie il male o ci si rifiuta di compiere il male e si è oppressi. In qualche modo anche Napoleone, che si è comportato per tutta la vita da oppressore, pur con la grandezza delle sue imprese alla fine diventa un oppresso, oppresso da se stesso, oppresso dal suo passato, oppresso dalla sua sconfitta, oppresso soprattutto, come dice in conclusione dell’ode, dal ricordo della sua esperienza. Quando infatti Manzoni immagina gli ultimi giorni di Napoleone lo vede come un uomo che è superato, che è vinto dal ricordo delle sue grandi imprese che ora gli appaiono come un fallimento. E’ significativo sotto questo aspetto soffermarsi brevemente sull’attacco dell’ode: “Ei fu”. In qualche modo la forte pausa dopo il verbo isola l’espressione, che è un’espressione di profonda antitesi , un’espressione potremmo dire ossimorica. “Ei”, non c’è bisogno neanche di nominarlo . “Ei” che recupera la funzione dell’is latino, quel grande, quel famoso, quell’eroe così immenso che non occorre neanche nominare, fu, è morto. Anche la grandezza più grande che la dimensione umana possa attingere, scompare. In effetti tutta l'ode è un susseguirsi di antitesi tra stasi e movimento, tra luce e tenebra. Manzoni, con un potentissimo scorcio, rievoca le imprese che hanno percorso buona parte del mondo, quelle imprese che vanno "Dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno”, quelle imprese che sono state commesse da “quel securo” che è assimilato addirittura alla potenza del fulmine. Viene infatti detto: “di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno; scoppiò da Scilla al Tanai, dall'uno all'altro mar." E al verso 31 una prima pausa di riflessione relegata ad una domanda drammatica: "Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza nui chiniam la fronte al massimo Fattor, che volle in lui del creator suo spirito più vasta orma stampar." In qualche modo la grandezza di Napoleone contiene una scintilla dell’onnipotente spirito creatore di Dio. Eppure è un uomo, eppure è fallito. Un altro degli elementi interessanti di quest’ode è il fatto che in qualche modo è concepita come una sorta di Inno sacro, cioè come gli Inni Sacri ricordavano un evento nella storia, per quanto nella storia sacra, ma avvenuto nella storia che abbia cambiato il mondo, così in qualche modo la vicenda storica di Napoleone comporta una profonda riflessione nel "noi", come appunto avviene negli Inni Sacri, che sono costruiti sulla base di una riflessione che il “noi” fa sull’evento sacro ricordato. Qui siamo nella storia certo, ma un evento storico così potente e così drammatico che comporta una riflessione in un “noi” che coglie in questa vicenda un riflesso di una norma universale. Questa norma universale che a partire dal verso 55, pone in luce l'inganno dell'eroismo e della dinamica storica. Infatti il verso 55 si apre con una “E” che in realtà ha una forte valenza avversativa. Dopo aver ricordato le grandi imprese compiute da Napoleone, Manzoni osserva: "E sparve”, ricollegandosi così alla formula incipitaria “Ei fu”. “e i dì nell'ozio | chiuse in sì breve sponda, | segno d'immensa invidia | e di pietà profonda, | d'inestinguibil odio | e d'indomato amor." E allora vediamo Napoleone che a fronte del suo fallimento sta per crollare sotto il peso dei suoi ricordi. Infatti osserva al verso 69:” Oh quante volte ai posteri Narrar se stesso imprese, E sull’eterne pagine Cadde la stanca man!". Un’ immagine di cui si ricorderà il Manzoni proprio in conclusione del Natale 1833 citando il verso virgiliano “cecidere manus”: "Oh quante volte, al tacito morir d’un giorno inerte, chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte, stette, e dei dì che furono l’assalse il sovvenir!” Il ricordo della grandezza passata diventa umanamente insostenibile. Niente sembra meno accettabile di un uomo che, illusosi di poter attingere ad una sfera superiore, quasi una sorta di antico eroe greco che si macchia di hybris, cioè del travalicamento dei limiti imposti dagli dei all’uomo, deve fare i conti con la propria umanità ritrovata che lasciata a se stessa è un fallimento. Ma ecco che proprio nel momento del fallimento, il momento della fine, in realtà sia rinascita in un’ottica di fede. Dio si pone vicino al letto di Napoleone morente. Si diceva infatti che prima di morire Napoleone avesse alessandro manzoni chiesto un prete. Ebbene Manzoni, rifacendosi a questa notizia, osserva che forse a tanto strazio: “Cadde lo spirto anelo, E disperò: ma valida venne una man dal cielo, e in più spirabil aere pietosa il trasportò; e l’avviò, pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desidéri avanza, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò.” La “gloria che passò” non è altro che silenzio e tenebra, ma quel silenzio che si riempie di vita quando è illuminato da Dio, quando apre l’uomo alla dimensione dell’eterno, quando come la discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste fa si che l’uomo si ricongiunga, si riconnetta a Dio ed in Dio trovi quel senso che la sua vicenda umana altrimenti gli avrebbe negato. ↣E’ la maledizione della storia: il male non sta, secondo Manzoni, nell’operare male, ma proprio nell’operare. Non è possibile per l’uomo fare del bene, perché anche cercando di eliminare ogni componente negativa, il male è comunque connaturato all’azione umana. Non si può agire senza essere carnefici. Meglio allora essere vittime della storia, essere oppressi, perché gli oppressi potranno godere della grazia divina. Ed è proprio per questo motivo che ora si rallegra con il padre, il padre che, non essendo più re, non potrà più essere annoverato tra gli oppressori, ma tra gli oppressi. E il giorno in cui anche Desiderio morirà, non si mesceranno più ai lamenti dei cari le imprecazioni di coloro ai quali Desiderio ha fatto torto. ↣Alla valutazione negativa della storia umana Manzoni è giunto partendo da una ricerca di valori etici “assoluti” che lo porta a concludere che è impossibile fondare una morale su basi puramente umane e dall’altra che è inevitabile una frattura tra moralità assoluta e storia umana. E’ una tematica che, osserva Giulio Bollati, Manzoni aveva già affrontato in forma più programmatica nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819). ↣La morale filosofica è contrapposta alla morale teologica e rifiutata a vantaggio di questa perché “non è scienza, non ha basi fisse né punti di convincimento comune”. Il suo difetto è quello di essere stata fondata soltanto “nella ragione e nella coscienza” degli uomini, e la ragione e la coscienza, per Manzoni, variano secondo luoghi e tempi. Non si salva, da questa valutazione negativa della morale filosofica, nemmeno Kant, il quale pure aveva fondato una morale tutto sommato abbastanza astratta, basata su una legge morale acontenutistica. C’è tuttavia un aspetto della trattazione morale kantiana che Manzoni condivide: l’impossibilità di conciliare istanze naturali della componente materiale dell’uomo e moralità. Il che vuol dire che, dato che la storia è fatta da uomini che agiscono sospinti da queste istanze, la storia umana e la morale sono due poli opposti e inconciliabili. Da specificare, tuttavia, che si parla della storia limitatamente, della storia in quanto prodotto dell’azione umana. C’è tuttavia anche nella storia, solo in alcuni momenti, uno spazio per una valutazione positiva costituita dalla presenza della Provvidenza Divina; il che viene messa in evidenza, per esempio, nel Cinque Maggio, sia in quanto Napoleone era l’uomo fatale in cui il Massimo Fattore volle stampare la più vasta orma del suo spirito, sia in quanto, alla fine dell’ode, diventa consapevole, grazie alla provvida sventura dell’esilio, della presenza del divino che lo avvolge come una mano dal cielo, lasciando spazio dunque anche ad una dimensione di ricompensa personale. Così anche e soprattutto l’Adelchi è la tragedia della provvida sventura, che abbraccia sia Ermengarda sia, come vediamo qui, Adelchi. Una provvida sventura che lo rende non più carnefice, ma vittima della storia e che quindi gli garantisce il perdono e la grazia divina. Pietoso fino all’ultimo e depositario dell’insegnamento cristiano, Adelchi perdona Carlo con le toccanti parole “il tuo nemico prega per te morendo”, proprio perché Adelchi sa che ora l’ingrato ruolo d’oppressore è passato ai Franchi. •IL FERMO E LUCIA E I PROMESSI SPOSI La stesura de I Promessi Sposi, grande romanzo storico e capolavoro di Manzoni, si dispiega attraverso due decenni e tre diverse redazioni che porteranno alla finale edizione degli anni quaranta dell’Ottocento. Si passa da una versione provvisoria e da una veste linguistica lombarda, quella del Fermo e Lucia del 1821, all’edizione rivista e completa, linguisticamente coerente con le idee di Manzoni sulla questione della lingua, del 1841 con il titolo di Promessi Sposi. ↣Le idee manzoniane Dalla trama de I Promessi Sposi emergono chiaramente le idee di Alessandro Manzoni: • I protagonisti sono popolani, umili, travolti da avvenimenti storici a loro estranei. Lotte di potere, epidemia di peste , rivolte cittadine mettono i protagonisti a dura prova. • Il lieto fine è affidato alla Divina Provvidenza: la peste uccide gli antagonisti e fa ricongiungere gli innamorati. • Rottura delle unità aristoteliche. →Manzoni e il problema del Romanzo: La compiuta realizzazione della nuova concezione della letteratura manzoniana si trova ne ‘I promessi sposi’ che sono l’opera che contiene la più forte carica rinnovatrice nei confronti della letteratura tradizionale italiana. Il romanzo, in quel periodo, era ritenuto un genere inferiore, indegno di entrare nella letteratura, e la scelta di esso, è il primo segno di rottura dal passato. Secondo Manzoni, il romanzo realizza i principi romantici per un rinnovamento della cultura italiana. In primo luogo, I promessi sposi rispondono perfettamente ai principi del Vero, dell’interessante e dell’utile: il romanzo rappresenta la realtà senza astrazioni tipiche della letteratura classicistica, si rivolge ad un più vasto pubblico, e non ad una cerchia ristretta, attraverso la forma narrativa ed un linguaggio accessibile che suscita l’interesse del lettore comune contrariamente a come facevano le tragedie, le odi ecc. E’ anche facile introdurre nella narrazione l’esposizione di idee e concetti. In tal modo, il romanzo risponde alle esigenze dell’impegno civile dello scrittore e comunica al lettore notizie storiche, ideali politici e principi morali. In secondo luogo, il romanzo permette allo scrittore di esprimersi in piena libertà, senza regole imposte dall’esterno. Tramite il romanzo, Manzoni si separa dagli stili secondo i quali solo ciò che è nobile può essere rappresentato in forme serie e sublimi, come egli stesso fece nelle tragedie, non potendo fare a meno di parlare di personaggi importanti. Nel romanzo, invece, sceglie di rappresentare una realtà umile. Infatti, sceglie come protagonisti due semplici popolani della campagna lombarda e rappresenta le loro vicende con serietà e tragicità. I due protagonisti, pur alessandro manzoni essendo portatori delle virtù più alte, non vengono idealizzati, come si sarebbe fatto nelle opere classiche, ma non cessano di essere contadini. Grazie ai promessi sposi, Manzoni assume la funzione di iniziatore del romanzo realistico in un paese culturalmente arretrato. →I promessi sposi e il romanzo storico: Per la sua opera narrativa, Manzoni sceglie il romanzo storico che era molto diffuso in Europa grazie al successo dello scozzese Walter Scott, il vero fondatore di questo genere. Con i promessi sposi, si propone di offrire un quadro della società, costume mentalità e vita sociale ed economica del passato. Secondo Scott, i protagonisti sono personaggi comuni, ed i grandi eventi o eroi del passato, fanno solo da sfondo delle vicende vissute da questi personaggi. Manzoni si differenzia da Scott perché fa delle ricerche minuziose per scoprire più informazioni possibili sugli eventi storici del passato, cosa che Scott non faceva. Infatti, Manzoni gli rimprovera l’eccessiva disinvoltura con cui tratta la storia, romanzandola attraverso l’invenzione. Per Manzoni, personaggi e fatti storici devono essere trattati rigorosamente per far si che si mantenga la concezione del ‘Vero’ storico, che induce l’autore a respingere il romanzesco. →Il quadro polemico del Seicento e l’ideale di società. La società di cui Manzoni vuol mostrare nel suo romanzo è quella lombarda del Seicento sotto la dominazione spagnola. Qui coglie il trionfo dell’ingiustizia, dell’arbitrio e della prepotenza da parte del governo nella condotta politica e nei provvedimenti economici, da parte dell’aristocrazia e delle masse popolari; è il trionfo dell’irrazionalità nella cultura. Il modello della società a cui aspira Manzoni sono: un potere statale saldo che sappia contrastare prepotenze; una legislazione razionale ed un apparato della giustizia che sappia farla rispettare; un’organizzazione nel quale l’aristocrazia pone ricchezze e potenze al servizio della comunità; con la classe inferiore, con un comportamento laborioso e pio, che deve accettare la propria condizione, senza rivendicare i loro diritti; avranno una vita migliore nell’aldilà. Infine, i ceti medi devo essere mediatori con i potenti, per il bene della comunità. Nel sistema dei personaggi del romanzo, don Rodrigo e Gertrude rappresentano una figura negativa dell’aristocrazia; il cardinale Federigo ne rappresenta il modello positivo. L’innominato, con la sua conversione, rappresenta il passaggio della nobiltà dalla parte negativa a quella positiva. Per quanto riguarda i ceti popolari, l’esempio negativo è rappresentato dalla folla violenta di Milano, il positivo dalla rassegnazione cristiana di Lucia; Renzo, come l’innominato nei ceti superiori, rappresenta il passaggio dal negativo al positivo, da un atteggiamento ribelle a un abbandono alla volontà di Dio. Per i ceti medi, esempi negativi sono don Abbondio e Azzeccagarbugli, esempio positivo fra Cristoforo. Manzoni è convinto che la religione sia l’unica vera forza riformatrice, perché agisce contro i mali della società. L’ideale della società di Manzoni corrisponde ai principi della nascente borghesia liberale. Il modello di una società giusta in cui i privilegiati diano volontariamente a chi non ha nulla è proposta dal Vangelo stesso. La visione religiosa porta Manzoni ad avere una concezione tragica e pessimistica della storia umana. La società deve ispirarsi al modello del liberalismo borghese e ai principi cattolici. →L’intreccio e la struttura romanzesca. Il romanzo, ambientato nella Lombardia del ‘600, narra le vicende di due giovani contadini, Renzo e Lucia, costretti a rinunciare al loro matrimonio a causa dell’opposizione del signorotto locale Don Rodrigo; complice il timoroso parroco Don Abbondio. I due fuggono, aiutati dal padre cappuccino fra Cristoforo. Lucia, rifugiatasi in un monastero di Monza, viene consegnata inizialmente a Gertrude, la monaca a cui è stata affidata, poi a un potentissimo signore, l’innominato, che agisce per compiacere Don Rodrigo. Ma la crisi morale che tormenta l’innominato lo spinge a liberare Lucia, che intanto, per la propria salvezza, ha fatto un voto di castità. Nel frattempo, a Milano, Renzo si è lasciato coinvolgere nei tumulti provocati dalla carestia e si è salvato a stento dall’arresto. La peste, che si diffuse nel milanese, decimando la popolazione, spinge Renzo a ritornare nella città alla ricerca di Lucia: nel lazzaretto incontra, ormai gravemente malato, fra Cristoforo, vede e perdona Don Rodrigo morente, ritrova Lucia guarita e ormai libera dal voto fatto. I due giovani così possono finalmente sposarsi; si trasferiscono a Bergamo, dove, allietati dalla nascita di numerosi figli, vivranno felicemente. La loro vicenda è mostrata come un’esplorazione del negativo nella realtà storica: Renzo sperimenta il male nel campo sociale e politico, Lucia soprattutto nel campo morale. Ma attraverso questa esperienza del negativo si compie anche la loro maturazione. Renzo ha tutte le virtù che per Manzoni sono proprie del popolo contadino; però c’è in lui un’insofferenza per ogni forma di sopruso. Ciò potrebbe portarlo a commettere atti di violenza, che lo estrometterebbe dalla società. Il suo percorso di formazione consisteva nel giungere a rassegnarsi alla volontà di Dio. In lei c’è un rifiuto della violenza, un abbandono totale alla volontà di Dio. A Lucia manca quella consapevolezza del male che è necessaria per capire la vera natura della realtà umana. Attraverso le sue sofferenze, arriva alla fine a comprendere che le sventure si abbattono anche su chi è “senza colpa”, e che la vita più “innocente” non basta ad evitarle. Compare così al termine del romanzo il concetto della “provvida sventura”, tanto caro a Manzoni. → Il lieto fine, l’idillio, la Provvidenza. Nel finale, nei due personaggi sono presenti le basi della visione manzoniana, come il rifiuto dell’idillio, la rappresentazione di una vita quieta e senza scatti e anche se alla fine del romanzo i due protagonisti riprendono la loro vita tranquilla, non si tratta di un idillio, perchè sono consapevoli della tragicità della vita e la loro vita è finalizzata a far del bene. È anche mostrata la concezione manzoniana della Provvidenza che, nel romanzo, non è enunciata in prima persona dal narratore, ma è affidata ai soli personaggi. Questo perché la sua concezione è diversa da quella dei suoi umili protagonisti. Renzo e Lucia hanno una concezione ingenua della Provvidenza, che identifica virtù e felicità. Nella visione teologica di Manzoni, al contrario, felicità e virtù possono coincidere solo nella vita eterna: solo con la morte vi è la certezza che i buoni saranno premiati e i malvagi puniti. Per Manzoni la provvidenzialità dell’ordine divino del mondo non consiste nell’assicurare la felicità ai buoni, ma nel fatto che proprio la sventura fa maturare una profonda consapevolezza. Solo alla fine Renzo e Lucia capirono che la sventura può colpire anche le persone più innocenti e che la fiducia in Dio la rende utile per una vita migliore nell’eternità. →L’ironia verso la narrazione, i lettori e i personaggi. Le conversazioni sono spesso pervase dall’ironia, uno degli aspetti più attraenti del romanzo. L’ironia comporta un atteggiamento di distacco, ma nei Promessi Sposi si trova anche l’autoironia, in cui il narratore guarda con distacco se stesso e la propria scrittura; ad esempio, nell’introduzione, dove mette in dubbio l’utilità della propria opera, o quando si riferisce ai “25 lettori” del romanzo. A volte l’ironia è rivolta ai lettori che si aspettano dal romanzo la narrazione di eventi straordinari. Nei confronti dei personaggi del popolo si tratta di un ironia che segna la distanza del colto narratore dalla gente umile, dai loro discorsi e dai loro comportamenti, ma è un’ironia quasi affettuosa, alessandro manzoni • Protettori: padre Cristoforo e cardinale Federigo Borromei. • Oppressori: don Rodrigo e l’innominato. • Strumenti degli oppressori: don Abbondio e Gertrude. ↣Le coppie per antagonisti • Renzo / don Rodrigo • Lucia / l’innominato • Padre Cristoforo / don Abbondio • Gertrude / cardinale Federigo ↣protagonisti Andiamo ora a descrivere meglio i due protagonisti. ↣Renzo: • Come la critica ha quasi unanimemente riconosciuto, è un eroe picaresco, un personaggio sempre in cammino, ramingo, un «eroe cercatore» • Si muove sempre in spazi aperti. È estroverso e impulsivo, si caccia facilmente nei guai: non è saggio, ma ha buon cuore • In lui si compie la maturazione più evidente tra i personaggi: il momento culmine di questa maturazione è il perdono a don Rodrigo, il suo nemico ↣Lucia: • Ritratta quasi sempre in ambienti interni: è un personaggio domestico. È autoritaria, pur nella sua modestia, ed è saggia grazie alla frequentazione di padre Cristoforo • Il suo momento culminante è nel dialogo con l’innominato: è il momento in cui lei fronteggia il male assoluto, armata solo della sua fede e della sua innocenza • Capito il dramma del male, il suo personaggio si arricchisce notevolmente e subisce anch’esso l’evoluzione che viene esplicitata nel «sugo della storia»: a lei spetta il messaggio finale dell’opera •Temi e significato dell'opera ↣Il tema centrale è la sofferenza degli innocenti I promessi sposi, oltre alla tesi storica, contengono numerosi temi, che possiamo ricondurre a una problematica comune: il male nella storia e la sofferenza degli innocenti. Si può additare l’egoismo umano come colpevole (sarebbe il caso di don Rodrigo nei confronti di Lucia); questo però non spiega il problema nella sua interezza. Renzo e Lucia, nel finale del romanzo, offrono una meditazione sul male, come potrebbe farla la gente comune (e non l’autore), e dicono: [...] che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore. In verità, i due capiscono che al male non c’è risposta; e che la fede è una richiesta di senso ed è uno sforzo da compiere per comprendere il male che si deve sopportare. È difficile capire se l’autore si riconosca nella conclusione dei suoi due personaggi: sappiamo che il narratore ha un atteggiamento spesso ironico nel romanzo, ma autore e narratore non sono la stessa cosa... La storia come continuo fronteggiamento di catastrofiUna cosa è certa: Manzoni, con questo romanzo, descrive con accuratezza il male morale e il dolore: la sua è una visione problematica e, secondo Calvino, «I promessi sposi propongono una visione della storia come continuo fronteggiamento di catastrofi». E le forze umane non sono sufficienti, ma tristemente velleitarie. ↣In Manzoni, Illuminismo e Romanticismo si fondono: l’analisi del male poggia su una base razionalistica e teologica: «le ragioni della scienza, anche qui, sono anche le ragioni d’una nozione dell’incommensurabilità di Dio, d’una religiosità che nel suo nocciolo profondo non è più ottimista dell’ateismo di Leopardi» (I. Calvino). ↣Il male è parte integrante del mistero della vita Per entrambi gli autori occorre conoscere il nemico, ossia il Male, ed è qui che si compie la formazione dei due promessi sposi: Renzo e Lucia, alla fine delle loro traversie, imparano cosa sia il male ricevuto e il male causato, e come esso sia parte integrante del mistero della vita: «Nonostante la luce che emana dalla legge morale, il male resta un enigma, segno terribile della libertà dell’uomo» (E. Raimondi). ↣Non c'è un finale con idillio Ecco spiegato il profondo pessimismo relativo all’agire umano, quella libertà sinistra che farebbe meglio ad autolimitarsi, e quindi ecco l’odio per i sovvertimenti, le rivoluzioni, per quel furor di popolo che agisce barbaramente, anche quando è nel giusto. Manca quindi un idillio al finale manzoniano: non c’è un “e vissero felici e contenti”, perché l’ordine – proprio quell’ordine tranquillo da cui si era partiti all’inizio del romanzo – può essere sconvolto dal male, esprimibile nell’egoismo umano (don Rodrigo) e nella Natura (la peste). ↣Bisogna imparare a dialogare con il dolore quotidiano Non è possibile arrivare a un equilibrio perfettamente statico, ma il proseguire del romanzo negli ultimi capitoli suggerisce la dinamicità della quiete: una dinamicità che nasce dal dialogo col dolore che ogni giornata porta con sé: «Il dolore nella compagine dei Promessi sposi ha una parte preponderante, e nulla è così profondo in questo capolavoro come quello che scaturisce da tale sentimento» (Attilio Momigliano). Altro tema importante è la conversione: la Grazia divina agisce sull’uomo misteriosamente; torna a riaffacciarsi il motivo autobiografico che già si era palesato nell’ode Il cinque maggio (1821), davanti alla conversione di Napoleone. È questo il punto di contatto più sfuggente tra divino e umano. Il passaggio dell’innominato nelle file dei buoni segna la svolta positiva del romanzo: dimostrazione, forse, che il singolo può comunque creare il bene di molti o alleviarne le sofferenze. ↣La provvidenza nel romanzo è come un altro personaggio Anche a proposito della Provvidenza (trattata come se fosse un personaggio aggiunto) il discorso si fa complesso: i due protagonisti la interpretano con ingenuità, come bambini, credendola infallibile. Essa è imperscrutabile nel suo agire sulla sfera terrena; solo nell’aldilà dona certezza del premio. Manzoni aveva caro il concetto di «provvida sventura» (Adelchi): il male rende consapevoli e, se accettato con la fede, aumenta la virtù. Per alessandro manzoni questo Guido Baldi sostiene, contrariamente a Calvino, che I promessi sposi, come libro cattolico e progetto di società, non abbia una vera e propria problematica: l’invadenza del narratore onnisciente, che commenta e ironizza, non lascia, secondo Baldi, il lettore libero di orientarsi. ↣L'ironia pervade ogni cosa Certamente è vero che il narratore ironizza e che ha una sua indole riconoscibile: ma la dialettica c’è perché l’ironia pervade quasi ogni cosa e il passo al relativismo viene frenato dall’ingenuità dei personaggi, che rappresentano il mondo a cui si sceglie di credere, i valori che è meglio non perdere. Il poema, che in fondo costituisce, si rivela proprio in questa contraddizione, proprio nei limiti che intercorrono tra il paternalismo del narratore, il pessimismo malcelato dell’autore e il fragile idillio dei protagonisti. •Lucia e Don Rodrigo (pagina474)→Veditela sul libro →La “Signora”, libertinaggio e sacrilegio e la sventurata rispose (pagina477-482): La Monaca di Monza può essere definita una dei personaggi più significativi dei “Promessi Sposi” Ella è in un primo momento presentata nel capitolo nono del romanzo e poi protagonista di numerose vicende del capitolo decimo. La sua descrizione differisce in parte dalla descrizione della stessa nella prima stesura dell’opera “Fermo e Lucia” . Alcuni critici considerano questa edizione un romanzo completamente diverso, ma leggendo entrambe le versioni non mi trovo completamente d’accordo. Prendendo in considerazione la descrizione della monaca di Monza si possono notare comunque alcune differenze : per prima cosa a lei venivano dedicati ben sei capitoli mentre nell’ultima stesura la sua storia è concentrata in soli due capitoli e perde i risvolti più truci , le viene attribuita una luce diversa , in quanto prima Manzoni la presentava più negativamente rispetto ad ora ma difformità sono presenti anche nella stessa struttura e lingua : il “Fermo e Lucia” presenta infatti meno coerenza ed equilibrio, in entrambe le parte l’autore dice l’età approssimativa della donna: 25 anni , enfatizza il contrasto tra i colori chiari e quelli scuri che viene a figurarsi sulla monaca e la vivace espressività dei suoi occhi , nel “Fermo e Lucia “ però si sofferma maggiormente su ciò che essi vogliono esprimere. Ancor più tempo il Manzoni impiega per cercare di illustrare gli atteggiamenti e lo stato d’animo di Gertrude mentre nell’ultima versione lascia al lettore il compito di arguirli attraverso la descrizione estetica della stessa •Il conte del Sagrato e l’innominato (pagina491-496)→Veditela sul libro →La conclusione del romanzo: un paradiso domestico e promozione sociale (pagina 504): →La struttura: Abbandonato definitivamente l’orizzonte spaziale della città con il riferimento alla morte di don Ferrante, con cui si è concluso il capitolo precedente, il racconto torna a collocarsi nell’ambiente paesano, da cui era partito. La conclusione del romanzo, riannodando nel tessuto generale della narrazione gli ultimi fili dell’intreccio, rinvia a situazioni descritte in altri capitoli, a dimostrazione dell’unità strutturale dell’opera, in cui le singole parti si richiamano e si completano a vicenda. →I personaggi e i nuclei tematici: La ricomposizione della vicenda, segnata dall’allontanamento di Renzo e Lucia (capitolo VIII), esige il ritorno dei fuggiaschi al paese, che abbandoneranno per il bergamasco con il proposito di incominciare una nuova vita. L’atmosfera che circonda i personaggi è serena e pacata; il loro atteggiamento è caratterizzato da una grande attenzione alle cose da realizzare, ai progetti per il futuro, nella prospettiva di un’esistenza tranquilla. →Don Abbondio : La figura dominante del capitolo è quella di don Abbondio. Il curato partecipa alla gioia dei suoi parrocchiani, soprattutto perché si è convinto della definitiva uscita di scena di don Rodrigo, che egli commenta senza alcun sentimento di carità cristiana. Il suo discorso esalta i meriti della peste, flagello che elimina i tiranni e strumento della Provvidenza. Il suo concetto di “Provvidenza” si accorcia benissimo con il suo “sistema” di vita: essa non è, come per padre Cristoforo e Lucia, quella forza che guida in modo misterioso, ma benefico, la vita degli uomini; al contrario, è vista, egoisticamente, come un mezzo per assicurare la sua tranquillità personale. La pace ritrovata rende don Abbondio piuttosto loquace e persino spiritoso, ma, ad un’analisi più attenta, non è difficile accorgersi che egli è l’uomo di sempre: pauroso e preoccupato unicamente della sua incolumità fisica, si rifiuta inizialmente di celebrare il matrimonio, nascondendosi dietro l’affetto che dice di provare da sempre per Renzo. In questo capitolo conclusivo, don Abbondio si prende una rivincita: minacciato da don Rodrigo tramite i suoi bravi, riceve adesso una visita altrettanto inaspettata, ma gradita, quella del marchese. Quest’ultimo è, nel complesso, una figura di scarso rilievo, costruita in esatta antitesi a quella del potente signorotto: aperto, cortese, placido, umile, dignitoso quanto l’altro era superbo e arrogante. Tuttavia, il realismo impedisce a Manzoni di farne una figura eccessivamente perfetta, quindi, poco credibile. Ne abbiamo la dimostrazione quando, durante il banchetto offerto agli sposi, il gentiluomo si ritira per pranzare con don Abbondio in un’altra sala: il suo comportamento nei confronti di Renzo e Lucia è quello di una persona perbene, ma le differenze sociali hanno comunque il loro peso e non possono essere dimenticate facilmente. A questo riguardo, il giudizio del narratore sul marchese (un brav’uomo») si esprime per contrasto con quello di don Abbondio che lo aveva definito addirittura un grand’uomo. Anche Renzo e Lucia hanno la loro rivincita: il romanzo si era aperto con una minaccia proveniente dal palazzo e si chiude con un pranzo offerto dal marchese in quello stesso luogo. →Possiamo parlare di "lieto fine" del romanzo? Da un certo punto di vista, sicuramente: la famiglia di Renzo e Lucia ha raggiunto finalmente la tranquillità e la sicurezza economica e le avventure sembrano essersi concluse, come fa notare anche il narratore. Tuttavia, ci sono alcuni elementi in base ai quali è possibile dire che l’opera, se raggiunge il “lieto fine”, non approda però all’idillio cioè a una condizione di assoluta mancanza di contrasto. Da questa visione della vita convenzionale e stereotipata ci salva l’ironia del narratore, che segnala una serie di contrattempi e di difficoltà: alessandro manzoni • la festa che il marchese offre ai due sposi, se da un lato può assumere il carattere di una riparazione alle malefatte di don Rodrigo, dall’altro ribadisce le differenze sociali esistenti tra loro: pur nell’armonia dei buoni rapporti, ognuno deve restare al suo posto; • i protagonisti abbandonano i luoghi d’origine e la loro partenza è segnata dal dolore del distacco Renzo e Lucia, giunti a destinazione, proveranno tutti i fastidi che l’integrazione sociale in un ambiente nuovo comporta di necessità e che si manifestano soprattutto in critiche a Lucia, cui il giovane reagisce con decisione, finendo per diventare disgustoso. Il punto decisivo, a sostegno della tesi che I Promessi sposi sono un romanzo senza idillio, si trova nelle riflessioni di Renzo e Lucia, cioè nel sugo di tutta la storia. I due hanno imparato che, nella vita, non mancano ingiustizie, miserie e violenze (ciò che Lucia chiama in sintesi "i guai"). La sofferenza colpisce l’uomo, ogni uomo, anche coloro che non hanno fatto nulla per meritarla: essa si rivela, però, uno strumento di espiazione e di purificazione che, perfezionandoci, avvicina a Dio. La concezione manzoniana è pessimistica, ma non passiva: esige la reazione al male, il coraggio e la tenacia nel testimoniare la propria fede. Il dolore del mondo resta un mistero inspiegabile: il solo conforto è la fiducia in Dio, unica difesa contro il male e l’assurdo dell’esistenza. E il messaggio del romanzo, che rifiuta una felicità passeggera e le consolazioni facili. alessandro manzoni
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