Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

. Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli (a cura di), Antropologia culturale. I temi fondamentali, Milano, Raffaello Cortina, 2018, Sintesi del corso di Antropologia Sociale

riassunto del manuale . Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli (a cura di), Antropologia culturale. I temi fondamentali, Milano, Raffaello Cortina, 2018

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 25/10/2019

eleonora_caffulli
eleonora_caffulli 🇮🇹

4.2

(27)

12 documenti

1 / 64

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica . Allovio, L. Ciabarri, G. Mangiameli (a cura di), Antropologia culturale. I temi fondamentali, Milano, Raffaello Cortina, 2018 e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Sociale solo su Docsity! ANTROPOLOGIA CULTURALE I TEMI FONDAMENTALI Lo studio degli esseri umani ha due dimensioni principali: quella socioculturale e quella biologica. I due ambiti non sono isolabili facilmente. L’antropologia culturale e sociale si occupa degli esseri umani organizzati in società e dotati di specifiche visioni del mondo, proponendo un linguaggio scientifico per lo studio delle diversità e delle somiglianze socioculturali rintracciabili e degne di essere studiate. Nonostante in passato gli antropologi si siano occupati anche del passato e quindi nella dimensione diacronica, la loro occupazione principale, ovvero l’indagine etnografica, li ha condotti a fare ricerche soprattutto su gruppi coevi al ricercatore. L’antropologia fisica (detta oggi antropologia biologica anche) si occupa delle variabilità dei caratteri morfologici, metrici e genetici all’interno di e tra le popolazioni umane. Si occupano della storia evolutiva dell’homo sapiens e delle altre specie di ominidi che costituivano il “cespuglio” dei processi di ominazione, attraverso scavi in situ rivenendo fossili di ominidi e altri materiali culturali. Oggi l’antropo biologica raggiunge successo negli studi attraverso l’analisi della variabilità genetica e di quella genomica (estesa a gran parte del dna), sia su popolazioni attuali sia su reperti umani antichi. Sia gli antropologi biologici, sia gli antropologi sociali e culturali si definiscono antropologi. Diversi invece gli antropologi filosofici che si definiscono filosofi. Antropologi culturali, sociali ed etnologi fanno più o meno lo stesso mestiere. È opportuno dire tuttavia che le tre nominazioni fanno riferimento rispettivamente alla sfera simbolica, i saperi e il linguaggio (antropo culturale in particolare negli usa); all’analisi dei sistemi sociali, giuridici e delle istituzioni (antropo sociale in particolare in gran bretagna); allo studio storico di aree culturali geograficamente limitate (etnologia). Ci sono poi dei sottogruppi che lavorano su particolari specializzazioni tematiche, come l’antropologia economica, l’antropologia politica, medica ecce cc. In italia le numerose differenziazioni terminologiche sono state riunite in un ulteriore termine declinato al plurale, quello telle discipline demoetnoantropologiche. Il primo paese che ha visto sviluppare un interesse di studio verso la diversità culturale è stata la Francia, probabilmente per eredità dello spirito illuminista. Tuttavia non si consolidò come studio vero e proprio. Questo avvenne prima in gran bretagna e negli stati uniti nella seconda metà dell’ottocento. In gran bretagna l’indirect rule, ovvero la particolare forma di amministrazione e gestione dei territori coloniali britannici, favorì lo studio dei modelli di organizzazione politica, giuridica e sociale delle popolazioni indigene. La società statunitense aveva la presenza invece sul territorio americano dei nativi, i cosiddetti indiani, degni di essere studiati a partire dalla loro complessità linguistica, culturale e sociale. Gli studi sia negli usa sia in gran b si basavano sul paradigma dominante dell’evoluzionismo. Gli antropologi evoluzionisti di fine 800 sostenevano che tutte le culture umane seguissero necessariamente una sola via di sviluppo che le avrebbe condotte dallo stato selvaggio a quello della civiltà. Alcune civiltà si sarebbero sviluppate prima, altre si sarebbero attardate a livelli inferiori. Il livello massimo di sviluppo era quello della civiltà europea, all’opposto della quale coniarono la definizione di “primitivo”. In ogni caso, se oggi questo concetto può essere ovvio, nell’ottocento era una vera e propria novità considerare la cultura non più solo una caratteristica delle popolazioni avanzate, ma di tutte , in qualunque gruppo umano. Tra fine 800 e gli anni 20 del 900 si sviluppa una critica all’impianto evoluzionista, e c’è una decisiva revisione metodologica. Gli antropologi non stanno più solo rinchiusi nelle loro biblioteche, ma vanno sul campo e viaggiano per avere osservazioni dirette. A partire dal 1886 Boas condusse ricerche presso i kwakiult nella costa del nordovest. Era particolarmente critico nei confronti del metodo comparativo tanto caro agli evoluzionisti, e riteneva inutile fare generalizzazioni riguardanti il comportamento delle culture 1 umane e concepiva il lavoro dell’antropologo come il raccogliere dati specifici e particolari, inerenti a specifici gruppi umani. Il lavoro dell’antropologo non è quello di generalizzare e condurre a regole universali, ma di compiere scavi etnografici mirati e rigorosi che permettessero di rintracciare le conformazioni sociali e le cause storiche dei singoli tratti culturali registrati in specifiche popolazioni. Per quanto riguarda la gran bretagna, risale invece al 1898-1899 una spedizione allo stretto di Torres, organizzata dall’università di cambridge in cui si ebbero contatti con i nativi, e si capì quanto fosse importante lo studio sul campo. Nella corrente di questo nuovo clima metodologico, fu prodotta una delle opere più impo della storia dell’antropologia: Argonauts of western pacific (1922)di Bronislaw Malinowski,antropologo polacco formatosi a londra. Il volume si incentra sull’analisi dello scambio cerimoniale Kula effettuato dagli isolani nelle isole Trobriand (melanesia occidentale), e si basa sul suo studio sul campo. Il cerimoniale viene visto come un’istituzione che permette ai trobriandesi di mantenere relazioni sociali tra le diverse isole dell’arcipelago e prefigura l’approccio funzionalista allo studio delle società. Questa prospettiva dice che OGNI ELEMENTO CULTURALE è FUNZIONALE AL MANTENIMENTO DELLA COESIONE SOCIALE, e dominerà la gran bretagna per gran parte del 900. Nel corso del 900 vengono prodotte numerose monografie basate sugli studi sul campo. Le società vengono presentate come sistemi dotati di una logica interna. Gli antropologi capiscono che la nozione di primitivo, di semplice, non era che condizionata dallo sguardo etnocentrico di noi occidentali, abituati a paragonare le altre culture alla propria, considerata ideologicamente superiore. Le nostre categorie di pensiero non sono universali inoltre, ma sono anch’esse condizionate dai nostri ambiti culturali. La via “maestra” non è più quella eurocentrica, al di fuori della quale esiste solo la periferia. Molti antropologi, i particolar modo francesi, hanno indagato i sistemi di pensiero altri sottolineando come, al di là dell’unità psichica dell’essere umano, esistono molteplici modi di percepire il mondo, costruire categorie cognitive, ed elaborare sistemi cosmogonici e religiosi. Anche in francia, che si può definire la terza culla dell’antropologia culturale, fu una spedizione (la Dakar- Gibuti) a inaugurare una stagione particolarmente proficua di ricerche etnologiche. Emblematico è lo studio del direttore della missione Marcel Griaule presso i Dogon dell’africa occidentale. Egli ha mostrato come il pensiero cosmogonico dei Dogon, raccontatogli da un anziano cacciatore cieco del posto, sia altrettanto complesso, elaborato e profondo delle riflessioni filosofiche occidentali. Per riassumere: gb, usa e francia sono i primi paesi in cui si è sviluppata dalla dine dell’ottocento ai primi decenni del 900 l’antropologia culturale. Oggi come non mai si ricerca un aiuto alla comprensione, al dialogo, all’incontro tra popoli. 1 CULTURA Esistono almeno due concetti di cultura: il primo, classico, si riferisce alla formazione individuale e differenzia gli individui all’interno di una società tra colti e incolti.o fra più colti e meno colti; il secondo, proprio delle scienze sociali, si riferisce a una condizione che riguarda gli individui in quanto membri di una società particolare o di un gruppo che condivide forme di vita e visioni del mondo (es cultura maori o cultura pastorale). Arjun Appadurai parla di obiettivo dell’antropologia culturale di costruire un “archivio di realtà vissute” in cui si incontrano persone che trascorrono e hanno trascorso vite molto diverse dalla nostra. Ma non solo. La cultura ha un valore centrale nel definire l’essere umano. La cultura in senso antropologico non è fatta soltanto di usi e costumi, abiti esteriori che si possono dismettere con relativa facilità; essa non è ornamentale, ma costitutiva dell’essere umano. La rilevanza della cultura non è stata chiara fin dall’inizio degli studi, ma si afferma nel corso del 900. Gli studi paleoantropologici hanno dimostrato come molte 2 esteriorità. Anche la cultura, proprio per la sua dimensione etnografica e antropologica è qualcosa che l’uomo indossa. Al seguito di illustrare il concetto antropologico di cultura Alfred L. Kroeber fa ricorso, nel saggio del 1917 th superorganic, a un esempio molto significativo, ossia il diverso comportamento di adattamento a un ambiente artico da parte di gruppi umani e altri animali. Mentre tutti i mammiferi artici presentano un pelo folto, l’uomo ricopre la sua pelle con pellicce. L’adattamento degli animali è organico e richiede molto tempo per assestarsi, mentre invece quello dell’uomo non è organico ed è molto veloce. L’adattamento animale è più lento in quanto coinvolge gli organismi, mentre la rapidità dell’adattamento culturale umano è consentita dalla circostanza per cui gli organismi rimangono esclusi dal processo. Anche se comunque c’è un risvolto della medaglia perché il cambiamento organico assicura il perpetuarsi della specie, mentre invece l’uomo nasce nudo come il suo discendente. Puntare su forme non organiche di adattamento assicura rapidità, ma sono cose prive di adattamento per il futuro. Il non coinvolgimento dell’organismo nei processi e nelle forme di adattamento culturale è la ragione del carattere di esteriorità della cultura. La cultura si configura come un insieme di forme e processi che si collocano TRA gli organismi umani e il mondo esterno. Tutti gli utensili, spiega anche lo studioso Andrè Leroi Gourhan, costituiscono un prolungamento all’esterno, al di là dei confini degli organismi. Ovviamente accanto alle progressioni tecnologiche c’è l’altro grosso ambito della cultura umana: il linguaggio. Per Kroeber “il linguaggio è qualcosa di completamente acquisito, non ereditario, di completamente esterno e non interno, un prodotto sociale e non frutto di uno sviluppo organico”. La lingua non è incisa nei nostri geni, come lo sono gli occhi azzurri o i capelli biondi. Tanto che se un individuo di madre e padre francese viene trasportato in cina subito dopo la nascita saprà il cinese. Per Kroeber il carattere esteriore della cultura si oppone al carattere interiore dell’istinto: se quest’ultimo è qualcosa di inciso internamente in quanto prodotto dall’eredità organica, la cultura, in quanto tradizione, è qualcosa che viene dato attraverso, passato di mano i mano dall’uno all’altro, e si risolve in un messaggio trasmesso di generazione in generazione. L’essere umano è un essere organico, ma anche un portatore di cultura, una tavola su cui si può inscrivere. Quello organico e quello culturale sono due poli indipendenti e autonomi. Secondo Krober prima l’evoluzione bilogica porta a compimento la sua opera, dopodichè su questa si innesta l’evoluzione culturale. IL DIFFERENTE PESO DELLA CULTURA E LA SUA IMPRESCINDIBILITA’ BIOLOGICA Sviluppi più recenti negli studi hanno mantenuto l’idea del carattere esteriore della cultura. Clifford Gertz: la cultura è un insieme di fonti estrinseche di informazione che si trovan nei confini dell’organismo umano come tale”. Roger Keesing: gli stessi individui in quanto attori sociali percepiscono la cultura come esterna. Entrambi questi teorici rifiutano la realtà umana e quella della cultura come stratigrafica. Per keesing è falsa la teoria secondo la quale si possa indagare sotto gli strati della cultura per trovare l’essere umano primigenio, nudo e crudo. Anche Geertz ha questo pensiero, e lo motiva in particolare con la metafora dell’abbigliamento. Si tratta infatti di valutare il peso degli abiti (= cultura) che gli uomini indossano per affrontare il mondo. Per diversi momenti della filosofia occidentale che Geertz vede rappresentata soprattutto dall’illuminismo, la natura umana permanente e stabile risulta coperta da una serie di costumi. L’obiettivo è quello di eliminare i costumi per scopriere ciò che l’uomo effettivamente è. L’io, la ragione, lo spirito, configurati come purezza umana, si configurano solamente levando questa impurità dei costumi. I costumi si rivelano del tutto stravaganti, superficiali e leggeri per una diretta conoscenza dell’umanità, che ostacolano il pensatore nell’analisi di ciò che è veramente umani. In questo contesto, se il concetto di cultura viene impiegato, esso è CULTURA ANIMI, ossia della ragione o dello spirito. L’elaborazione in ambito etnografico della cultura, ha appesantito di molto lo strato dei costumi. Per kroeber il peso della realtà umana viene equamente diviso tra la sua componente di livello organico e la sua componente di livello culturale. Gli abiti culturali non sono più considerati delle ristrettezze senza senso, ma sono strumentali e funzionali, e soprattutto sono forme e modelli. I costumi sono ineliminabili in una condizione antropologica. Ma questo concetto di cultura si inserisce pur sempre in una visione 5 “stratigrafica”. Con gli sviluppi più recenti degli studi antropologici, sono considerati sempre più importanti i costumi e le abitudini. Si predica allora l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità di scoprirlo nudo nella sua identità pre culturale. E questa irreperibilità non si deve a un difetto di strumentazione analitica ma secondo il presupposto che i costumi di certo non nascondono l’uomo. I costumi sono la realtà dell’uomo, e come diceva Pascal, la sua seconda natura. Non bisogna mai dimenticare tuttavia la loro variabilità. Legandola alla cultura, l’essenza “uomo” viene separata dal principio dell’unità e della stabilità e considerata compatibile, anzi consustanziale, con la variabilità. L’essere umano non è una struttura che si trova intatta in ogni luogo e tempo; esso coincide invece con la pluralità delle forme particolari e locali mediante cui inevitabilmente gli esseri umani di volta in volta si realizzano. Non scompare l’esteriorità che la cultura ha, ma cambia la concezione della stessa esteriorità nel definire l’essere umano. Esteriorità non è più superficialità. Se l’esteriorità culturale concentra il senso dell’umanità, ciò significa che il centro di gravità dell’essere umano è esattamente in quell’esteriorità. L’espansione della cultura al di là dei confini con l’organico è dovuta allo smantellamento della visione stratigrafica. Dagli anni 20 del 900 in poi sono state fatte importanti scoperte in ambito palepantropologico. Con l’australopitecus africanus (prima scoperta Raymond Dart nel 1924) e con lo Ziniantropus della gola di olduvai (tanzania 1959 scoperto da Louis S.B. Leakey) ci si è resi sempre più conto che gli ominidi antenati dell’uomo sapiens disponevano di una qualche forma di cultura, nonostante il loro cervello fosse come capacità volumetrica un terzo dell’uomo attuale. L’antropologo fisico Sherwood Washburn dice che è quasi più corretto pensare che la cultura sia arrivata in contemporanea al nostro sviluppo, anzi, che si può considerare quasi la nostra struttura fisica come il risultato della nostra cultura (paradosso). Comunque in ogni caso ciò che le scoperte dimostrano è che la cultura viene ben prima che l’evoluzione organica produca l’uomo quale esso è attualmente. Inoltre non è più accettabile uno schema di sovrapposizione di piani paralleli costituenti la realtà umana (livello organico e livello culturale). Il rifiuto dell’ordine temporale e diacronico costituito da un prima (evoluzione organica) e un dopo (evoluzione culturale) comporta pure il rifiuto dell’ordine sincronico e gerarchico di un sotto (base organica) e sopra (stratificazione culturale). La cultura non interviene a cose fatte sul piano organico, ma si innesta direttamente nell’evoluzione organica quale sua componente imprescindibile. Leroi Gourhan negli anni 60 giunge nel suo Le geste e la parole a conclusioni assai simili a quelle di Geertz. Una di queste è il ruolo del cervello nell’evoluzione biologica e culturale dell’uomo. La concezione stratigrafica dava al cervello una funzione primaria e trainante e addirittura creativa rispetto alla formazione della cultura (prima il cervello umano perfettamente abilitato e poi la produzione della cultura). Leroi Gourhan scombina questo schema mettendo il cervello nelle ultime posizioni invece che nelle prime. Il cervello è sì un trionfo sviluppato, ma è arrivato dopo. È come se il cervello seguisse il movimento generale e non ne fosse l’istigatore. “eravamo disposti ad ammettere qualunque cosa pur di essere cominciati dai piedi”. Prima che il cervello prendesse la sua forma e sviluppo attuali, l’uomo ha saputo sfruttare le mani per la costruzione di utensili, si è messo in posizione eretta, e non solo. Ha anche imparato la capacità simbolica del linguaggio. L’utilizzo delle mani e la posizione eretta hanno liberato la faccia della funzione prensile tipo animali e ha reso disponibili i muscoli facciali all’utilizzo della parola. Non è un ribaltare le posizioni tuttavia. Si vuole solo dimostrare che c’è un legame puiù profondo di quanto la cultura stratigrafica lasci scorgere. È ovvio che quella cultura di utensili e di parole sia prodotta dal cervello, ma il modello di interazione profonda tra la componente organica e quella culturale suggerisce che il cervello sia a sua volta prodotto da quella cultura. Il modello interattivo suggerisce che la cultura non sia un abbellimento, un’appendice o un’esteriorizzazione di cui si potrebbe fare a meno, ma è vitale. Clifford Geertz scarta l’ipotesi di kroeber del punto critico alle soglie del quale ci sarebbe stato un salto tra fase organica e fase culturale. La componente organica non prescinde più da quella culturale. Infatti l’ambiente culturale ha caratterizzato l’evoluzione organica che ha prodotto l’uomo com’è oggi e continua a modificarlo. È ovvio che la cultura ha consentito all’uomo di sopravvivere e gli ha garantito un efficace adattamento all’ambiente. Ma la teoria culturale a cui ci si riferisce ritiene che l’incidenza della cultura sia ben più profonda di quanto possano farci presagire l’idea di utilità e la testimonianza degli utensili preistorici. La formazione e lo sviluppo dell’essere umano dipendono sempre più dalla sua esteriorizzazione culturale. In questa prospettiva la cultura non si limita solo a fornire le comodità necessarie all’adattamento, ma viene 6 rappresentata come indispensabile per la stessa vita dell’uomo come l’acqua lo è per i pesci. Gli uomini senza cultura non sarebbero animali con difficoltà di adattamento all’ambiente, bensì sarebbero “inguaribili mostruosità con pochissimi istinti utili”. Il modello interattivo ritiene che la neocorteccia sia cresciuta in gran parte in interazione con la cultura, ma da ciò dipende una grave conseguenza, ossia l’incapacità del nostro apparato nervoso e cerebrale a dirigere il nostro comportamento e a organizzare la nostra esperienza senza la guida fornita del sistema di simboli significanti. La cultura per Geertz non è un aiuto ma la base della sopravvivenza dell’uomo. SIMBOLI CONDIVISI Il modello interattivo intende la cultura non solo come strumentalità, ma anche e soprattutto come simbolismo: la cultura incide nella vita dell’uomo e si configura come prerequisito della sua esistenza biologica, psicologia e sociale (Geertz) in virtù non soltanto dell’apparato tecnologico che sa fornire, ma anche della sostanza simbolica di cui è composta. Così come è da scartare la cultura come elemento aggiuntivo degli esseri umani già fornito dall’evoluzione organica, così è da scartare l’alternativa opposta secondo cui la cultura e le sue forme esisterebbero già prima dell’evoluzione dei suoi portatori. Lo stesso simbolismo della cultura è a sua volta il prodotto, per molti aspetti inconsapevole, degli organismi umani. C’è una circolarità di retroazione tra cultura e organismo umano. Ma perché l’interazione organismo/cultura non si limita a stare sul piano supeficiale ed esterno della tecnologia ma si addentra nche nelle profonfità del simbolismo? Secondo questa teoria c’è stato tra l’inizio della cultura, che po sarebbe diventata umana, e la comparsa dell’uomo attuale, un passaggio lento ma deciso da forme di controllo del comportamento umano prevalentemente genetiche a forme di controllo prevalentemente culturali. L’intervento della dimensione simbolica, rappresentata soprattutto dal linguaggio ha costituito una fase di non ritorno. Secondo Geertz questo processo può essere definito come un crescente affidamento a sisistemi di simboli significanti per il controllo del comportamento umano e quindi come una sempre minor presa del controllo genetico. Affidarsi sempre più alla cultura e semore meno alla base genetica per orientare gli esseri umani nel mondo ha comportato uno iato tra quello che ci dice il nostro corpo (le informazioni genetiche inadeguate perché troppo generiche) e quello che dobbiamo sapere per funzionare. Si tratta di un vuoto che dobbiamo riempire noi sessi e lo riempiamo con le informazioni fornite dalla nostra cultura. E queste informazioni di cui l’uomo ha bisogno per sopravvivere sono immerse conservate e trasmesse dalla sostanza simbolica della cultura. Il modello interattivo non implica solo il rifiuto di cultura/natura come entità separate, ma implica anche il rifiuto della separazione individuo/società come entità autonome. Non esiste un individuo formatosi per conto proprio che poi entra successivamente nella società. L’interazione organismo/cultura è resa possibile dal contesto sociale, così come il contesto sociale richiede l’uso di simboli per la comunicazione. L’interazione organismo/cultura implica le interazioni sociali, lo scambio di azioni, informazioni, prodotti. Il comportamento culturale dell’uomo appare sempre mediato dall’uso di simboli, ed è nel contesto sociale che i simboli si formano, tanto quanto gli individui che li usano. Ma dato che il simbolismo è un insieme di vincoli culturali, pure il comportamento sociale deve essere invocato per spiegare come e perché gli esseri umani siano culturali. Il simbolismo rinvia alla società perché esso è una condivisioni di accordi, convenzioni, limiti, presupposti, ecc. e affiora come prodotto e come condizione nello stesso tempo degli scambi o interazioni di cui è fatta la vita sociale. Simbolismo e vita sociale appaiono indissolubilmente legati, tanto che è impossibile secondo leori gourham pensare a uno sviluppo culturale tutto materiale che precedesse la produzione simbolica. La condivisione di simboli sta alla base della loro identità e quindi anche il motivo della loro differenziazione culturale rispetto ad altri gruppi sociali. Condividendo simboli si produce un noi e nello stesso tempo so determinano le differenze tra il proprio noi e quello degli altri. REIFICAZIONE E PRECARIETA’: L’”IN PIU’” CULTURALE Roger Keesing ha parlato di “magia dei simboli condivisi” che agiscono come presupposto della vita sociale di ogni gruppo, e che non sono esplicitati e considerati criticamente. Essi si trovano nei costumi più inveterate e nelle consuetudini più ovvie, negli atteggiamenti in apparenza più naturale a cui di solito non si 7 antropologi con le loro società dominate dai costumi e dalle tradizioni , e sul versante opposto filosofi e sociologi in mezzo a una società modernizzata e razionalizzata. La razionalità è defluita verso la cultura tradizionale, eliminando da essa un certo alone di misteriosa sacralità e contribuendo a riconoscere invece le strutture logiche delle interazioni economiche, degli scambi matrimoniali, o dei miti. Anche la cultura si è infiltrata nella ragione contribuendo a sottolineare la natura o il condizionamento di costume del pensiero che si autordefinisce razionale, il suo essere una credenza e il suo essere particolare. Lo sconfinamento della cultura verso la ragione smentisce le pretese di universalità di quest’ultima, giacchè lo schema razionale e obiettivo di ogni gruppo umano dato non è mai solo il possibile. Sconfinamento della cultura nel mondo animale come i filosofi hanno rivendicato la ragione per non spartire la cultura con i primitivi, così gli antropologi rivendicano per lo più il simbolismo e il significato per non spartire la cultura con i primati e altri animali. Ma piuttosto che erigere barriere difensive può risultare di grande interesse riflettere sul mutamento di prospettiva che a questo proposito ha caratterizzato il pensiero di Levi Strauss. Nel 1949 egli iniziava la sua opera più importante sulla parentela con un libro dal titolo “natura e cultura” e riteneva che questa distinzione fosse segnata da un confine apparentemente sicuro e invalicabile, quale sarebbe il linguaggio articolato, esclusivo dell’uomo. Ma nella seconda edizione del 1967 egli ammette che la linea di demarcazione appare ora più tenue e tortuosa. L’uso e la costruzione di utensili, l’esistenza di processi di comunicazione, l’impiego di veri e propri simboli anche tra gli animali, inducono infatti Levi Strauss a chiedersi se l’opposizione tra natura e cultura, lungi dall’essere un dato oggettivo dell’ordine del mondo, non sia piuttosto una creazione artificiale della cultura umana, un’opera difensiva che questa avrebbe scavato tutt’intorno a sé recidendo i legami con le altre manifestazioni della vita al fine di affermare la propria esistenza e rivendicare la propria originalità. Se così fosse lo scienziato che voglia studiare la cultura non deve concentrarsi su queste tecniche difensive, bensì cercare l’origine dei fili che connettono la cultura al resto della natura. Bisogna anche qui andare oltre quella finzione simbilica, oltre quell’in più culturale che provvede illusoriamente a separare la cultura dalla natura. In effetti sembrano esservi due opzioni fondamentali per determinare il senso della cultura umana: la prima ritiene giusto rimanere all’interno delle correnti culturali indagandone le forme, ricostruendone la storia (Kroeber) o interpretandone i simboli e i significati (Geertz); la seconda ritiene invece inevitabile prima o poi un’uscita della cultura verso realtà che in qualche modo nel precedono o ne sono a fondamento (lo spirito umano di levi strauss, come l’inconsio di freud, o la struttura economica di marx ed engels). Analizziamo quelle che sono due visioni opposte: quella di Levi Strauss e quella di Geerz. Mentre il primo consegna un’immagine della cultura come costituita da ragnatele di significati che l’animale uomo ha tessuto e fra cui rimane sospeso, il secondo contempla l’intera cultura umana come un’efflorescenza passeggera, destinata a inabissarsi nel vuoto scavato dal suo furore, come opere sottili e raffinate di cui è inevitabile che alla fine non rimanga più niente. Ciò che entrambe le prospettive ci trasmettono è l’idea della cultura come un’elaborazione fittizia e precaria di cui l’uomo non può fare a meno e a cui rimane tenacemente aggrappato per garantirsi una sopravvivenza. La ragione associata alla cultura perde la sua verticalità originaria (= la ragione come struttura universale e quindi indipendente dalle manifestazioni culturali) su quel piano orizzontale in cui non ci sono superiori e inferiori, bensì soltanto simili e dissimili. LA DIMENSIONE CULTURALE (ARJUN APPADURAI) L’OCCHIO DELL’ANTROPOLOGIA L’antropologia è il mio archivio di realtà vissute, che io ritrovo in tutti i tipi di etnografie di persone che hanno trascorso vite molto diverse dalla mia, nel presente e nel passato. L’antropologia porta con sé la tendenza professionale a privilegiare il culturale come tratto essenziale di molte pratiche. Devo quindi spiegare la specifica rilevanza di tale aggettivo nell’uso che ne faccio. Mi trovo a disagio con il sostantivo cultura, meglio l’aggettivo culturale. Il disagio è generato che il nome dà alla cultura un senso di oggetto, una cosa o una sostanza fisica o metafisica, che la riporta nel concetto della razza, per contrastare la quale il nome cultura era stato in origine concepito. Se è percepita come sostanza 10 mentale il termine cultura implica di fatto un’idea di condivisione, accordo, compiutezza, e toglie l’attenzione sui vari dislivelli di conoscenza, sul prestigio differenziale degli stili di vita…ecc (il pregio della diversità della cultura). Se il sostantivo cultura pare associato a qualche tipo di sostanza secondo modalità che sembrano occultare più di quanto non rivelino, l’aggettivo culturale conduce invece verso il più fertile campo delle differenze, dei contrasti e delle comparazioni. Il tratto più prezioso del concetto di cultura è il concetto di differenza, una proprietà più contrastiva che sostantiva di certe cose. Ogniqualvolta indichiamo una pratica, una distinzione, un concetto, un oggetto, o un’ideologia come dotati di una dimensione culturale, stiamo sottolineando l’idea di differenza situata, cioè differenza in rapporto a qualcosa di locale, incarnato e importante. Si può riassumere questo concetto nel modo seguente: piuttosto che considerare la cultura una sostanza, è più utile considerarla una dimensione di fenomeni, una dimensione che si accompagna alla differenza situata e incarnata. Ma ci sono al mondo molti tipi di differenze, e solo alcune sono culturali. Propongo di considerare culturali solo quelle differenze che esprimono oppure formano la base per la mobilitazione di identità collettive. L’approccio aggettivale sottolinea la dimensione contestuale, euristica e comparativa della cultura, e che ci orienta al concetto di cultura come differenza, soprattutto nell’ambito dell’identità di gruppo. Ho quindi suggerito che la cultura sia una dimensione pervasiva del discorso che sfrutta la differenza per generare diverse concezioni di identità di gruppo. Visto che ho virato così nettamente verso l’idea di etnicità (l’idea cioè di identità collettiva naturalizzata) è importante chiarire che tipo di relazione tra cultura e identità di gruppo sto cercando di articolare. La parola cultura nel suo senso non marcato può continuare a essere usata per fare riferimento alle differenze che caratterizzano il mondo. Propongo tuttavia di restringere cultura come termine marcato al sottinsieme di differenze che viene mobilitato per articolare il confine della differenza. La cultura diviene quindi una questione di identità collettiva costituita da alcune differenze tra altre. (FARE PAG 42-43-44 PERCHE’ NON SI CAPISCE UN CAZZO) ABITARE O COSTRUIRE (TIM INGOLD) Il mio saggio cerca di comprendere le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente. L’aspetto fondamentale della vita è che non comincia qui e finisce lì, ma continua sempre. Per la stessa ragione un ambiente non è mai dato, ma sempre in costruzione. Questo fatto ha delle implicazioni importanti per le nostre idee sulla somiglianza e le differenze tra gli esseri umani e gli altri animali, in riferimento ai modi in cui gli uni e gli altri si costruiscono dei mondi. In particolare qui mi occuperò del significato dell’architettura o di quella parte che convenzionalmente descriviamo come “costruito”. Ho preso le mosse da un punto di vista che era ed è ancora piuttosto convenzionale in antropologia, ossia la premessa che gli esseri umani abitino mondi discorsivi di significati culturalmente costruiti, sovrapposti a un substrato materiale continuo e indifferenziato. Se mi sono distinto dai miei colleghi è stato per la mia volontà di specificare le implicazioni di questa premessa nei termini di una distinzione tra esseri umani e animali non umani. Ero sicuro che i modelli sviluppati dagli ecologi e dai biologi evolutivi per spiegare le relazioni tra organismi e ambiente potessero essere applicati anche agli esseri umani come specie, tuttavia mi era chiaro che questi modelli non lasciavano spazio a ciò che sembrava la più importante caratteristica dell’attività umana: che essa è motivata e intenzionale. La vita umana, proponevo, ha luogo in due domini. Un dominio sociale di relazione interpersonale e un dominio ecologico di relazione tra organismi, di modo che il problema è capire come i due si relazionino a vicenda. Partendo da due affermazioni ragionevoli (gli esseri umani sono organismi e le loro azioni sono intenzionali), mi ritrovai con ciò che sembrava un risultato completamente irragionevole. Cioè che a differenza di tutti gli altri animali gli esseri umani conducono un’esistenza schizofrenica, a metà nella natura e metà no; metà organismi, metà persone; metà corpo, metà mente. Occorreva un nuovo modo di pensare gli organismi e le loro relazioni con i loro contesti ambientali. In breve: una nuova ecologia. Mi sono ispirato a tre fonti principali. La prima viene dalla biologia e consiste nel lavoro di un gruppo di intellettuali coraggiosi, soprattutto biologi evolutivi, che hanno sfidato il pensiero neodarwinista della disciplina. La 11 seconda consiste nella psicologia ecologica, un approccio alla percezione e all’azione che è radicalmente opposto all’orientamento cognitivista della componente dominante in psicologia. La terza viene dagli scritti filisofici fenomenologici, soprattutto di Martin Heidegger e Maurice Merleau Ponty. Questi tre ambiti hanno due aspetti in comune. Prima di tutto questi tre approcci capovolgono l’ordine normale delle priorità di forma e processo. La vita non è il dispiegamento di una forma preesistente ma il processo stesso attraverso cui la forma si genera e si mantiene. Poi questi approcci adottano come punto di partenza l’agente nel suo contesto ecologico, nel mondo, di contro a un’idea dell’individuo separato dal mondo là fuori. In breve essi sostengono che è attraverso il suo essere abitato, e non costruito secondo le linee di un processo formale, che il mondo diventa un contesto ricco di significato. Il mio pensiero si è spostato da UNA PROSPETTIVA DEL COSTRUIRE a una PROSPETTIVA DELL’ABITARE. EDIFICARE AMBIENTI, COSTRUIRE DEI MONDI Possiamo inquadrare il nostro problema partendo da due affermazioni. “L’uomo” scrive Clifford Geertz “ è un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto”. Ciò fa supporre che gli animali non umani non siano ugualmente “sospesi”. Consideriamo poi un passaggio del testo di Jacob Von Uexkull, “Una passeggiata nei mondi degli animali e degli uomini”: “come il ragno tesse la sua tela, ogni soggetto intesse relazioni con qualche aspetto delle cose intorno a sé e le tesse in una salda rete che sostiene la sua esistenza”. Ora, i soggetti di cui parla Uexkull non sono umani, anzi, sta parlando di una specie di acari. Se ciò che dice Geertz degli esseri umani vale dunque anche per gli acari, cosa distingue il mondo degli uomini da quello dei non umani? Benchè si possa sostenere come fa Nelson Goodman, che gli uomini sono costruttori di mondi, questo lascia in sospeso come gli atti umani di costruzione del mondo siano diversi da quelli degli animali. Poniamo l’attenzione sull’ambiente costruito. Come possiamo distinguere ciò che è costruito da ciò che non lo è? Possiamo dire come Lawrence e Low che si tratta di “qualsiasi alterazione fisica dell’ambiente naturale, dal focolaio alle città, per mezzo di una costruzione umana. Ma perché i prodotti della costruzione umana dovrebbero differire di principio dai prodotti delle costruzioni di altri animali? L’artificiale è davvero solo ciò che è fatto dall’uomo? E dove tracciare il confine, in un ambiente che porta l’impronta dell’attività umana, tra ciò che è e ciò che non è una casa, un edificio, una costruzione, un esempio di architettura? Iniziamo con la distinzione tra PROGETTO ed ESECUZIONE. Immaginiamo la conchiglia di un mollusco, la tana di un castoro e la casa umana, tutti e tre presi come progetto di architettura. Alcuni applicano il concetto di architettura alla sola casa, altri alla casa e alla tana (esempio di architettura animale) ma non al mollusco, altri a tutti e tre. Il motivo per escludere la conchiglia è che essa non è costruita dal mollusco. Cresce intorno a lui e basta e lui non può farci molto. Il castoro lavora sodo per costruire la sua tana, e così l’uomo la sua casa. Dovremmo allora concludere che la tana del castoro è un’espressione di “castorità” così come la casa è un’espressione umana? La mia risposta in passato è stata negativa. I castori costruiscono sempre lo stesso tipo di tana mentre gli esseri umani costruiscono case diverse a seconda del momento storico e delle proprie esigenze. La differenza tra la tana e la casa non sta nella costruzione della cosa stessa, ma nelle origini del progetto che ne governa la costruzione. Il progetto della tana è incorporato nello stesso programma che sottitende lo sviluppo del castoro. È esecutore di un progetto che si è evoluto insieme alla morfologia e al comportamento del castoro in un processo di selezione naturale. Sia il castoro nella sua forma fenotipica sia la costruzione della tana sono espressioni dello stesso genotipo. Richard Dawkins ha coniato la definizione di genotipo esteso, per riferirsi agli effetti genetici che vanno oltre il corpo dell’organismo, e in questo senso la tana fa parte del genotipo esteso del castoro. Gli esseri umani invece sono gli autori dei loro progetti, costruiti attraverso processi di decisione e di selezione intenzionale delle idee. Ed è a questo progetto intenzionale che ci riferiamo quando diciamo che la casa è costruita e non formata. Ma se l’essenza del fare sta nella progettazione conscia, cioè nella costruzione di un progetto, ne segue che si possano costruire cose senza alterarne la forma fisica. Poniamo di voler piantare un chiodo senza avere un martello. Cercheremo una pietra dura che ne faccia la funzione. Allora a quel punto è come se noi avessimo costruito un martello perché la pietra è diventata martello, nella dimensione per cui il nostro occhio mentale vi ha attribuito le qualità del martello. Per definire situazioni di questo tipo ho scelto il termine cooptazione. La pietra è stata cooptata e non costruita per diventare un martello. Ne segue che ci sono due tipi di fare: 12 COMPARAZIONI CONTROLLATE Nel 1965 Evans-Pritchard pubblicò un saggio sul metodo comparativo divenuto in seguito assai celebre (IL METODO COMPARATIVO DELL’ANTROPOLOGIA SOCIALE). Pur dichiarandolo irrinunciabile, egli disse che autori come Frazer o lo stesso Murdocl applicavano una comparazione indiscriminata avente come obiettivo quello di dimostrare le proprie teorie precostituite (frazer) o correlazioni transculturali scarsamente signigicative (murdock). Evans-pritchard spostò invece l’accento sulla ricerca delle differenze. Infatti per lui più che le somiglianze, l’antropologia doveva spiegare le differenze. Lui cita a questo proposito l’inefficacia del metodo comparativo, per fare delle comparazioni degne di questo nome, in relazione alle popolazioni delle regioni nilotiche (nuer, dinka, anuak) da lui stesso studiate. Secondo lui più i dati sulle società studiate dagli antropologi si accumulavano, più era difficile formulare leggi sulla vita sociale. Era infatti più agevole formulare leggi comparando pochi dati. evans-pritchard era consapevole del fatto che l’antropologia, in seguito agli sviluppi della ricerca sul campo, si era sempre più avvicinata ai “significati indigeni”, e più questo avvicinamento proseguiva, meno sembravano possibili le generalizzazioni di un tempo, le quali si rivalevano fondati su dati alquanto scarsi e per nulla contestualizzati. Allora lui propende per un’immagine della ricerca antropologica come metodologicamente più simile alle scienze storiche che non alle scienze naturali. Secondo lui una comprensione adatta dei dati etnografici deve precedere qualunque analisi che pretenda di essere seriamente scientifica. Spostando il discorso dalla comparazione generalizzante alla conoscenza delle singole culture lui è ben consapevole del pericolo di una frantumazione dell’antropologia in una serie di monografie. Egli propone allora l’esercizio della comparazione su scala limitata, che prenda società di un solo tipo (cacciatori, nomadi esempio) o tematiche circoscritte. Si intravede un cambiamento importante nello statuto epistemologico della stessa dimensione comparativa: essa non è più la condizione di metodo per la formulazione di leggi generali, ma semmai è uno strumento di migliore comprensione della specificità sociale e culturale. In ogni caso la pratica di un metodo comparativo circoscritto e limitato nelle pretese esplicative era già in utilizzo tra altri studiosi come Siegfried F. Nadel che in un breve ma significativo studio sulla stregoneria in quattro società africane scrisse un saggio di comparazione controllata fondata sul principio delle variazioni concomitanti. Lui non voleva formulare una teoria generale della credenza nella stregoneria di queste quattro società, ma mirava a spiegare le differenze esistenti in questa credenza presso i popoli presi in considerazione. La comparazione si presentava come rimedio all’impossibilità di sperimentare, benchè tale impossibilità fosse condivisa dall’antropologia con altre scienze, anche naturali (come l’astronomia o la geologia). Tutte studiano le variazioni, cercate e trovate nei dati dell’osservazione, e le mettiamo in correlazione affinchè possano emergere regolarità generali. Nadel si propone di fare un lavoro di comparazione che tenga conto del contesto, ossia dell’influenza esercitata da determinate istituzioni che apparentemente sono prive di relazioni con l’argomento studiato, sulla dinamica di quest’ultimo. Nel suo studio (1952) Nadel si propone di costruire un modello su piccola scala di un’analisi comparativa, o meglio, di un’analisi di variazioni concomitanti. Lo scopo è quello di spiegare alcuni fatti sociali relativi alla credenza della stregoneria. Nadel dal suo studio assume che 1) ogni divergenza culturale rilevante comporta ulteriori divergenze concomitanti nelle rispettive culture; e che 2) le credenze nella stregoneria sono causalmente correlate alle frustrazioni, alle ansie, o ad altri stress mentali allo stesso modo in cui i sintomi psicopatologici sono correlati ai disturbi mentali della stessa natura. CLASSIFICAZIONI POLITETICHE E RETI DI CONNESSIONE Verso la fine degli anni 50 Edmund R. Leach scrive che la comparazione è un processo analogo alla raccolta delle farfalle: si avvale della classificazione , della sistemazione delle cose in base a tipi e sottotipi. La comparazione presenta gravi limitazioni. Uno dei suoi difetti principali è che non ha limite logico. Ogni società può essere individuata in tal modo come un sottotipo diverso da ogni altro, e dato che gli anttopologi hanno un concetto piuttosto valgo di società, sono portati a distinguere sempre nuove società ad infinitum. La critica di leach si rivolgeva a uno specifico tipo di comparazione e non può dunque essere generalizzata. Le comparazioni come quelle fatte da Nadel per esempio, difficilmente potrebbero essere considerate una “raccolta di farfalle”. Ciononostante, le pretese comparativiste dell’antropologia sono state fatte oggetto di molte critiche. E tali critiche non provengono soltanto da coloro che hanno considerato la comparazione come “oggettivante” e “decontestualizzante”, ma anche da coloro che partendo da posizioni definibili come “decostruzioniste”, hanno contribuito a conferire un senso nuovo alla prospettiva comparativa. Tra questi vi 15 è Rodney Needham che, già agli inizi degli anni 70 operò uno smantellamento della parentela. Criticò il pensiero secondo il quale la nozione di parentela fosse una nozione in grado di ricoprire un’area omogenea definita da fenomeni empirici. Needham partiva dal fatto che non ci sono classi di fenomeni omogenei a cui poter attribuire la qualifica di fenomeni di parentela. Il suo rifioto derivava dal fatto che noi, sulla base di dati empirici specifici chiamiamo parentela, non trova corrispondenza nelle società diverse dalla nostra. Needham muoveva da osservazioni simili a quelle che aveva fatto Godenough nel suo tentativo di trovare una definizione di matrimonio. Ma mentre lui, pur liquidando come etnocentrici i tentativi precedenti di altri studiosi, aveva poi comunque tentato di trovare una definizione universale di matrimonio, per Needham l’impresa è impossibile. Per lui infatti la tendenza a definire universalmente le categorie nell’area di parentela (discendenza, matrimonio, incesto ecc) derivava sostanzialmente da due fattori: dall’eccessivo attaccamento a fatti empirici da un lato, e dall’altro dalla accettazione di un’idea del tutto non realistica di come si formano le classificazioni. In qualunque società esistono diritti che possono non essere tutti trasmessi concordemente con un principio sempre identico, nel caso specifico il principio di discendenza patrilineare. Tali diritti o “funzioni componenti” possono essere la trasmissione del nome, della residenza, dell’eredità dei beni materiali e spirituali e l’appartenenza al gruppo. Ciascuna di queste prerogative può seguire un modo diverso di trasmissione per cui noi potremmo dire che una società è patrilineare opure matrilineare solo se tytte queste prerogative fossero trasmesse in base allo stesso principio. Siccome però questo non si dà ci si chiede cosa farsene di tali definizioni (FARE FINE PG 72-73-74-75) Con Needham pare dunque tramontare ogni possibilità di comparazione, se comparazione significa accostare tra loro società simili allo scopo di costruire dei tipi. Questo perché, come sosteneva leach, analisi di tal genere hanno una loro utilità, ma presentano anche molte limittazioni. Tale limitazione consisteva principalmente nella moltiplicazione delle tipologie e nella riduzione del mestiere dell’antropologo a “collezionista di farfalle”. Per Needham invece le classificszioni politetiche, che a differenza di quelle monotetiche sembravano aprire una via d’accesso al progetto comparativo dell’antropologia, finiscono per ridursi a rersimonianza del fatto che siamo determinati dai limiti delle nostre stesse categorie concettuali. Il saggio sulle classificazioni politetiche si chiude infatti con questa affermazione: la consapevolezza delle confuzioni prodotte in antropologia da termini classificatori standard può servire a preparare la nostra comprensione all’rchè ci confrontiamo con concetti alieni che, in una maniera similmente disconosciuta da coloro di cui vogliamo comprendere le modalitè di pensiero, sono parimenti politetici. FARE PG 76-77-78-79 COMPARAZIONE COME TRADUZIONE Ci preme dimostrare come ogni comparazione finisca inevitabilmente per imbattersi in un “problema di traduzione”. Prendiamo in considerazione un lavoro di antropologia della parentela. In Description and comparison in cultural antrhopology, ward goodenough comparò alcuni casi etnografici empirici che dovevano per lui fornire la base per definizioni di portata generale. Pur dichiarandosi fedele all’idea di un’antropologia come scienza comparativa, Goodeough si interroga sul senso della comparazione in maniera non dissimile da quello che ha fatto Needham a proposito del concetto di parentela. Questo perché noi diamo per scontato di sapere cosa siano cose come il matrimoni. Ma quando ci volgiamo ad altre società questi concetti cominciano a essere problematici. È difficile decidere cosa sia il matrimonio tra i nayar dell’india e la parentela tra gli isolani delle Trobriand. Emerge quindi il problema della definizione degli oggetti che si intendono studiare, ma questo problema riinvia come si intuisce a quello più generale della traduzione dei concetti e della loro descrizione: chiedersi che cosa sia il matrimonio tra i nayar dell’indonesia o fra i truk della micronesia p un po' come chiedersi: come posso definire o chiamare quel particolare fenomeno che osservato tra i nayar e truk io sono portato a chiamare matrimonio? Prendendo spunto dall’opera di Murdock, goodenough esamina la definizione che questi dà di famiglia nucleare. Per murdok essa è costituita da un uomo, una donna e la loro prole. Benchè possano esistere altre forme di famiglia (poliginica, poliandrica, estesa) la famiglia nucleare è presente 16 ovunque. Al tempo stesso il matrimonio è l’atto che ne sanziona la costituzione. In base a tale atto si instaura una serie di legami funzionali tra i coniugi e si plasmano diritti e doveri nei confronti della prole: esclusività sessuale, cooperazione economica, coabitazione, procreazione, socializzazione, educazione dei figli. Simili definizioni sono tuttavia secondo Goodenough una proiezione etnocentrica, in quanto definiscono la famiglia come qualcosa che è il più vicino possibile all’idea che noi abbiamo di essa e in quanto riconosciamo (cioè definiamo) come matrimonio qualsiasi transazione che stabilisca una unità sociale di questo genere. FARE PG 81-88) L’ETNOGRAFIA E LA POLITICA DEL CAMPO (JEAN PIERRE OLIVIER DE SARDAN) L’inchiesta di tipo antropologico vuole avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturlai dei soggetti (vita quotidiana, conversazioni) in una situazione di interazione prolungata tra il ricercatore stesso e le popolazioni locali, al fine di produrre delle conoscenze in situ, volte a rendere conto del punto di vista dell’attore, delle rappresentazioni ordinarie, delle pratiche consuete e dei loro significati autoctoni. L’inchiesta sul campo non si può imparare su un manuale. Non ci sono procedure formalizzabili che basterebbe rispettare, come ne esistono, in parte, nella cosiddetta inchiesta quantitativa. La ricerca sul campo è una questione di abilità che chi apprende impara innanzitutto facendo. Bisogna aver condotto personalmente delle interviste con una traccia prefabbricata di domande per rendersi conto di quanto gli interlocutori restino inibiti da un quadro troppo stretto o troppo unidirezionale. Bisogna essersi confrontati con numerosi malintesi tra chi fa l’indagine e chi ne è oggetto per essere capaci di individuare i controsensi che cospargono ogni conversazione di ricerca. Bisogna aver imparato a padroneggiare i codici locali di cortesia e buona creanza per sentirsi a proprio agio nelle conversazioni. La ricerca sul campo, o ricerca etnografica, o ricerca socio- antropologica, si basa sulla combinazione di quattro grandi forme di produzione di dati: l’osservazione partecipante (l’inserimento prolungato del ricercatore nell’ambiente di vita delle persone oggetto della ricerca), il colloquio (le interazioni discorsive deliberatamente suscitate dal ricercatore), le procedure di censimento (il ricorso a dei dispositivi costruiti per l’indagine sistematica e la raccolta di fonti scritte. L’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE Attraverso un soggiorno prolungato presso i soggetti di una ricerca, l’antropologo in carne e ossa si scontra con la realtà che intende studiare. Possiamo scomporre analiticamente questa situazione in due tipi di situazioni distinte: quelle che rientrano nel campo dell’osservazione (il ricercatore è testimone), oppure quele che rientrano nel campo dell’interazione (il ricercatore è coattore). Le situazioni normali combinano secondo dosaggi diversi l’una e l’altra delle componenti. In tutti i casi, le informazioni e le conoscenze acquisite possono essere sia registrate più o meno sistematicamente dal ricercatore sia restare informali o latenti. Se le osservazioni e le interazioni sono registrate, esse si trasformano in dati e corpus. Altrimenti esse giocano nondimeno un ruolo, che è dell’ordine dell’impregnazione. I DATI E IL CORPUS Il ricercatore deve procedere a prendere appunti, sul campo o a posteriori, e tentare di organizzare la conservazione di ciò a cui ha assistito in generale sotto forma di descrizione scritta, talvolta registrata in video. Tramite tali procedure produrrà dei dati e costituirà dei corpus che saranno oggetto di spoglio e trattati ulteriormente. Questi corpus non sono degli archivi come per lo storico, essi assumono la forma concreta del taccuino, in cui l’antropologo registra sistematicamente quello che vede e sente. Quello che c’è scritto in questi taccuini continuerà a esistere sotto forma di dati e farà funzione di corpus che potrà essere spogliato, trattato, restituito. I dati sono la trasformazione in tracce oggettivate di pezzi di realtà come sono stati selezionati e percepiti dal ricercatore. Certo l’osservazione pure e ingenua non esiste ed è da molto tempo che il positivismo scientista ha perso la partita nelle scienze sociali. Le osservazioni dell’antropologo sono influenzate dalla sua ricerca, dal suo linguaggio, dalla sua formazione, dalla sua personalità. Comunque una problematica iniziale può grazie all’osservazione ampliarsi. L’osservazione non è la colorazione di un disegno tracciato preliminarmente: è la prova del reale a cui è sottomessa una curiosità preprogrammata. La competenza del ricercatore sul campo sta tutta nel poter osservare ciò a cui non era preparato (mentre si sa quanto è facile scoprire solo quello che ci si aspetta) e nell’essere in grado di produrre dati che lo 17 LE FONTI SCRITTE Non devono essere dimenticate né sminuite, per quanto siano meno specifiche della ricerca sul campo. Alcune di queste fonti vengono raccolte prima della ricerca sul campo (letteratura scientifica sull’ambito considerato, o la letteratura grigia, ossia rapporti, valutazioni, perizie ecc). queste permettono una familiarizzazione, o meglio l’elaborazione di ipotesi esplorative e di domande particolari. Altre fonti sono imprescindibili dalla ricerca sul campo (le produzioni scritte dagli attori, come quaderni di scuola, libri, lettere, diari personali, volantini, archivi locali). Altri invece possono costituire corpus autonomi distinti e complementari a quelli prodotti dalla ricerca sul campo. LA POLITICA DEL CAMPO L’antropologia è una scienza sociale e empirica, non una forma di giornalismo, di cronaca o di autobiografia esotica. Questo campo fa infatti capo a una strategia scientifica del ricercatore. Una strategia che può rimanere implicita o può essere relativamente esplicita. L’implicito può camuffare notevoli pigrizie metodologiche, ma il nostro tentativo consisterà nell’esplicitare il più possibile ciò che può esserlo, al fine di mettere in luce alcuni principi di quella che è la POLITICA DEL CAMPO. 1) La triangolazione La triangolazione è il principio base di ogni inchiesta, che sia poliziesca o etnografica: le informazioni devono avere dei riscontri. Ogni informazione proveniente da un’unica persona è da verificare. Con la triangolazione semplice il ricercatore fa un confronto incrociato tra gli informatori, per non essere prigioniero di un'unica fonte. Ma si potrebbe parlare di triangolazione complessa dal momento in cui si tenta di analizzare la scelta di tali molteplici informatori. La triangolazione complessa intende far variare gli informatori cin funzione del loro rapporto con il problema trattato. Vuole incrociare punti di vista quando ritiene che la loro differenza produca senso. Non si tratta più di verificare, ma di ricercare dei discorsi in contrasto, di rendere l’eterogeneità delle argomentazioni, di basarsi sulle variazioni piuttosto che cancellarle. Si giunge così al concetto di GRUPPO STRATEGICO, ossia una congregazione di individui che hanno globalmente di fronte a uno stesso problema uno stesso atteggiamento, determinato in larga misura da un rapporto sociale (in senso ampio: culturale, simbolico, economico ecc) simile rispetto a questo problema. I gruppi strategici variano ovviamente a seconda del problema considerato. Talvolta varieranno a seconda delle caratteristiche statutarie o socio professionali, talvolta a percorsi biografici ecc. La nozione di gruppo strategico è quindi di carattere empirico. Presuppone semplicemente che in una data collettività non tutti gli attori abbiano né gli stessi interessi né le stesse rappresentazioni e che, a seconda dei problemi, i loro interessi e le loro rappresentazioni si aggreghino in maniera diversa, ma non in maniera casuale. 2)L’iterazione La ricerca sul campo procede per iterazione, cioè per andate e ritorni, va e vieni. Nella sua forma più semplice l’iterazione è il va e vieni della ricerca sul campo. Infatti il ricercatore non segue un ordine prefissato, ma va da x che gli dice di andare da y dall’altra parte del villaggio, e poi ritorna da z che abita vicino a x. I suoi interlocutori non sono scelti in anticipo, ma prendono posto secondo un continuo compromesso tra i piani del ricercatore, le disponibilità dei suoi interlocutori, le occasioni che si presentano, i canali di parentela ecc ecc. la scelta così si opera in buona parte per ramificazioni o arborescenza: da ogni colloquio nascono nuove piste e nuovi interlocutori possibili. La ricerca sul campo si adegua dunque ai diversi circuiti sociali e locali, alla loro complessità, ai loro intrecci, alle loro distorsioni. L’iterazione è però anche, in un senso più astratto, un va e vieni tra problematica e dati, interpretazione e risultati. Ogni colloquio, ogni osservazione, ogni iterazione, sono altrettante occasioni di trovare nuove piste di ricerca, di modificare ipotesi, di elaborarne di nuove. Si interpreta senza interruzione. È come una continua ridisposizione del quadro interpretativo a mano a mano che si accumulano gli elementi empirici. La saturazione Quand’è allora che si può mettere fine alla fase del campo? Quando evidentemente decresce la produttività delle osservazioni e dei colloqui. A ogni nuova sequenza, a ogni nuovo colloquio si ottengono sempre meno 20 informazioni nuove. A questo punto uno ha più o meno fatto il giro delle rappresentazioni per un dato ambito di indagine. Quindi la durata del processo dipende evidentemente dalle caratteristiche del tema di ricerca. Il gruppo sociale testimone In generale risulta utile darsi un luogo intensivo di ricerca, poggiante su un insieme sociale di conoscenza reciproca che possa in seguito servire da base di riferimento per delle ricerche più estensive. Questo gruppo testimone varia evidentemente secondo i temi della ricerca e può essere di dimensioni diverse: una famiglia, un villaggio, una banda di giovani, un laboratorio, un quartiere ecc. Una certa durata della conoscenza reciproca in un gruppo, una rete o una società è una condizione dell’osservazione partecipante. L’intensività permette anche di effettuare continuamente dei confronti tra diverse fonti di informazione. Permette inoltre di mettere in rapporto, visto che si lavora su scala ridotta e in profondità, conoscenza di ordine diversa e di vario registro e di avere un approccio trasversale, dove gli attori sociali vengono colti nella diversità dei loro ruoli. La trappola in cui molti sono caduti è stata quella di affidarsi solo ed esclusivamente a questo gruppo testimone e a produrre monografie esaustive di microcomunità. Il gruppo testimone deve essere la base di una ricerca più estesa, della quale diventa un punto di partenza, un calibro di riferimento. Precisiamo infine che un gruppo sociale testimone può talvolta rinviare a un solo gruppo strategico, ma nella maggior parte dei casi racchiude gruppi che appartengono a più gruppi strategici. Gli informatori privilegiati L’informatore privilegiato può essere considerato chiaramente come caso estremo di un gruppo sociale testimone ristretto a un solo individuo. Un solo individuo viene considerato depositario di un’intera cultura. Questo può essere collegato a una modalità di ricerca pigra e a usi discutibili che vengono fatti del testimone. Intendiamoci bene: non vi è ricercatore che non abbia i suoi informatori privilegiati, ma il ricorso preferenziale a questo o a quell’interlocutore può e deve combinarsi con il principio di triangolazione. Ci sono inoltre diversi tipi di informatori privilegiati: alcuni sono dei generalisti, che danno chiaramente e comodamente accesso alle rappresentazioni usuali; altri sono dei tramiti, o dei mediatori, che aprono la strada verso attori chiave, o verso scene culturali di difficile accesso. Altri invece sono degli esperti, con un ruolo di consulenza o di narrazione. Ovviamente cercare un mediatore, un tramite, una persone risorsa su cui appoggiarsi è certamente una necessità all’inizio di una ricerca. Emanciparsene avviene generalmente in una fase successiva. LA GESTIONE DEI FATTORI DI DISTURBO La ricerca sul campo ha evidentemente le sue perturbazioni. L’obiettivo del ricercatore è cercare di padroneggiare questi fattori di disturbi o controllarli. L’inclinaggio L’inserimento del ricercatore in una società non si fa mai con la società nel suo insieme, ma attraverso dei gruppi particolari. Si inserisce in certe reti e non in altre. Il ricercatore con la sua complicità a una “clique”, o una “fazione” locale, incappa in due incovenienti. Da un lato il rischio di diventare troppo portavoce della clique d’adozione e di riprenderne i punti di vista, dall’altro il pericolo di vedersi chiudere le porte in faccia dalle altre cliques locali. L’inclinaggio è sicuramente uno dei principali problemi della ricerca sul campo. Il fatto stesso che in un dato spazio sociale gli attori locali siano il larga misura legati tra loro sotto forma di reti fa sì che per produrre i suoi dati, l’antropologo sul campo dipenda necessariamente da tali reti. Il ricorso a un interprete, che è sempre anche un informatore privilegiato, introduce delle forme particolari di inclinaggio: il ricercatore dipende allora dalle affinità e ostilità proprie del suo interprete, così come dalle appartenenze o dagli ostracismi a cui lo espone lo statuto di quest’ultimo. La soggettività del ricercatore FARE PG 108-109 CONCLUSIONE: PLAUSIBILITA’ E VALIDITA’ 21 Sono stati fatti molti tentativi contemporanei per definire le condizioni della validità in etnografia. Possiamo citare i tre “criteri” proposti da Sanjek: 1) in che misura le teorizzazioni dell’antropologo si fondano sui dati di campo forniti come “prove”? 2) siamo informati sul “percorso del campo”, cioè su chi sono gli informatori e su come sono state raccolte le informazioni? 3) le decisioni interpretative effettuate a mano a mano sul campo sono esplicitate? Non sono poi così sicuro che si debba parlare di “criteri”. Comunque che la preoccupazione per la validità dei dati debba essere al centro del lavoro sul campo mi sembra la condizione di ogni pretesa di plausibilità dell’antropologia. Certo i dati, estratti dai corpus, prelevati dai taccuini del campo, sono “montati”, cioè selezionati, ritagliati, incollati, messi in scena in funzione dell’intenzione dimostrativa e narrativa del ricercatore. FINIRE PG 110-111-112 3 PERCEZIONE/CONOSCENZA Sia la cultura in senso antropologico, sia l’antropologia intesa come linguaggio scientifico della diversità culturale, non possono prescindere dalla centralità del linguaggio e dalla molteplicità delle lingue parlate. La lingua è sicuramente una delle parti più importanti di quell’assemblaggio chiamato cultura. Il tema dell’importanza linguistica ha portato gli studiosi a sollevare alcune questioni quali la rilevanza della lingua nel determinare la visione del mondo. Secondo il principio della “relatività linguistica”, grammatiche differenti porterebbero i parlanti a tipi di osservazioni diverse fino ad arrivare a visioni del mondo differenti. In ogni caso, a prescindere dai vari dibattiti, gli antropologi del linguaggio condividono i programmi di ricerca dei sociolinguisti, attenti quindi alle varietà interne alla comunità dei parlanti e ai repertori linguistici in esse rintracciabili piuttosto che agli aspetti formali e astratti. Particolare attenzione viene rivolta alla lingua come strumento d’azione sociale in specifici contesti d’uso e come prodotto e processo storico/sociale anche alla luce di fenomeni di contatto linguistico e mescolanza tra lingue. Se la lingua fa parte della cultura, essa irrompe nella metodologia etnografica e nella valutazione di possibili ipotesi comparative. Per questo è importante l’attenzione degli antropologi culturali agli aspetti semantici della lingua e agli aspetti pragmatici della comunicazione umana, consapevoli di quanto la complessa questione della traducibilità delle culture passi inesorabilmente attraverso l’altrettanto complessa questione della traducibilità linguistica. Alessandro Durati agli inizio degli anni 90 del 900 ha introdotto il concetto di ethnopragmatics per specificare un ambito di studio etno-linguistico focalizzato sulla documentazione e analisi di pratiche culturali contenenti attività comunicative in specifici contesti d’uso (per esempio scambio di saluti e esperienze vissute). Altri antropologi invece, come Thomas Csordas si sono spinti decisamente oltre nel riconoscere la dimensione incorporata della cultura in una chiara volontà di superamento del dualismo cartesiano mente-corpo. Il corpo è il terreno intersoggettivo in cui vengono prodotti i significati interculturali, e non solo il luogo di iscrizione dei simboli prodotti dalla mente; inoltre non sempre l’agire sociale è formulabile verbalmente ed esprimibile attraverso la lingua. Il testo di Michael Jackson contenuto in questo capitolo si inserisce in questa tradizione di studi dimostrando quanto sia più complessa la lettura di un rituale, più di un semplice “testo”. Per jackson infatti risulta spesso fallimentare “tradurre” l’agire rituale in parole e ritenere che ogni atto significhi sempre qualcosa al di là del coinvolgimento sensoriale dei corpi durante la performance. Bisogna valorizzare maggiormente le pratiche corporee, siano esse quelle dei soggetti studiati, o anche quelle che lo stesso antropologo apprende con una conoscenza empatica e imitativa. Le perplessità nei confronti di una cultura definita come “superorganica” separata dalla natura appartengono anche allo studioso Philippe Descola. Egli in una sezione della sua opera del 2005, OLTRE NATURA E CULTURA, riconosce l’evidenza potente e spontanea delle pratiche che lo studioso studia per individuare specifici habitus. Nonostante ciò Descola ritiene che si debba mantenere l’ambizione, in qualità di antropologi culturali, di ricercare le “strutture di inquadramento” capaci di spiegare le regolarità e la coerenza dei differenti modi, culturalmente determinati, di abitare e percepire il mondo. Descola propone lo studio di quelle che il suo maestro, levi strauss, denomina strutture, con una minore tendenza però 22 inglese) sia sotto forma di differenziazione linguistica e dialettale. Tali modelli non possono essere applicati alle situazioni della vita reale in cui le “mescolanze impure” sono la norma. In quarant’anni di ricerca di Chomsky e i suoi collaboratori si è detto assai poco, se non addirittura nulla, su come riconnettere la conoscenza astratta dei membri idealizzati di comunità pure ai concreti atti di performance linguistica compiuti da persone che vivono in comunità reali. Perché non potremmo accogliere l’idea che la varietà è parte integrante delle culture umane e della natura umana? E cosa ci impedisce di accettare il fatto che esistono sempre delle forze contrastanti in qualunque aggregato umano, finanche nello stesso individuo? Riconoscere questi fatti significherebbe definire un diverso tipo di programma per lo studio dell’umanità, lingua compresa. Un programma fondato sull’assunto che la variazione è la norma e dunque dobbiamo andare in cerca di modi per documentarla se vogliamo comprendere la lingua come parte della condizione umana. Si tratta di un percorso indicatoci da alcuni studiosi come Mikhail Bachtin. Egli affermò che l’omogeneità linguistica è una costruzione ideologica, storicamente legata allo sviluppo degli stati europei e agli sforzi di creare un’identità nazionale mediante una lingua nazionale che doveva ricevere un unico nome: tedesco, inglese, italiano, francese ecc. La cosa non ha alcun rapporto necessario con l’uso linguistico reale: nella realtà della vita quotidiana il discorso di qualunque individuo è pieno di numerose voci diverse, o personaggi costruiti attraverso la lingua, qualità che Bachtin chiama RAZNORECIE, e che in italiano è stato tradotto con ETEROGLOSSIA. I molteplici fattori sociali, culturali, cognitivi e biologici responsabili della nascita di una lingua eteroglotta, agiscono insieme dando vita a un’interrotta tensione fra quelle che Bachtin chiamò le forze centripete e centrifughe della lingua. Delle forze centripete fanno parte i poteri politici e istituzionali, che tentano di imporre una varietà o codice a discapito di altri (es: inglese in scozia nei secoli 12esimo e 16esimo). Si tratta di forze centripete perché tentano di costringere i parlanti ad adottare un’identità linguistica unificata. Le forze centrifughe invece allontanano i parlanti da un certo comune, favorendo la differenziazione. Sono le forze che vengono di solito impersonate da persone (geograficamente, numericamente, ecomomicamente, metaforicamente) marginali, alla periferia del sistema sociale. COMUNITA’ DI PARLANTI MULTILINGUI Presso la comunità dei tewa dell’Arizona studiata da Paul Kroskrity, tre secoli di contatto e matrimoni misti con la popolazione confinante degli hopi, per giunta più numerosa, non sono riusciti a estirpare la lingua tewa, sebbene fra i membri più giovani della comunità vi siano alcuni segni del fatto che essa si sta perdendo. Nonostante vi siano stati pericoli in cui i tewa dell’arizona rivendicavano per se stessi l’identità di Hopi, essi continuano a serbare una propria peculiare identità. La lingua che gli antenati dei tewa dell’arizona portarono con sé dai pueblos (villaggi) del Rio Grande circa 300 anni fa è il più importante tramite simbolico di questa identità. La lingua tewa per loro ha uno statuto speciale, come dimostrano i numerosi modi in cui tentano di proteggerla. Paradossalmente lo statuto particolare del tewa come simbolo di identità etnica è proprio ciò che ha reso questa varietà particolarmente vulnerabile, dato che non la si può trasmettere a persone considerate esterne al gruppo, né a questi ultimi è consentito trasmetterla. Kathrin Woolard ha studiato il prestigio del catalano a Barcellona, e ci presenta come una lingua minoritaria possa rimanere dotata di prestigio. Nonostante i secoli di controllo politico del governo centrale spagnolo e l’imposizione del catalano nelle scuole, il castigliano continua a sopravvivere e in catalogna è vissuto come prima lingua da buona parte della popolazione, continuando a godere di uno status elevato. Questo è accaduto secondo la Woolard perché la lingua minoritaria, ossia il catalano, non è la lingua dotata di minor prestigio, ma la lingua della borghesia dominante sul piano economico; al contrario il castigliano è la lingua dei lavoratori immigrati provenienti dall’andalusia e da altre zone meno ricche del paese. Ciò significa che le forze centrifughe in catalogna sono rappresentate da una popolazione nativa che è più ricca della popolazione di immigrati che parla il castigliano come prima lingua. Jane e Kenneth Hill hanno studiato il destino del messicano, noto anche come azteco o nahualt. Gli autori mostrano come il messicano nel corso dei secoli abbia tratto numerosi prestiti dallo spagnolo, acquisendone i tratti grammaticali e lessicali. Lo spagnolo e il messicano si sono intrecciati l’un l’altro in modo tale che gli Hill preferiscono parlare di una lingua sincretica piuttosto che di mescolanza di lingue; per esempio i parlanti del messicano hanno rianalizzato alcune forme spagnole adattandole in forme creative alla sintassi o alla morfologia del nahualt. Sino a tempi abbastanza recenti i parlanti del messicano sono riusciti a legare lo 25 spagnolo a contesti ufficiali e distanti dall’uso intimo e quotidiano. Tuttavia la strategia del sincretismo è oggi messa in crisi: non solo il messicano è utilizzato per una serie di funzioni sempre più ristretta, ma assistiamo a una vera e propria svalutazione del messicano così come è parlato oggi (ossia nella sua forma sincretica) e a una rinascita del purismo. Questa tendenza nell’uso della lingua e negli atteggiamenti assunti nei suoi confronti è parte di una tendenza più ampia che induce le persone a abbandonare l’identità “indigena” a favore di un’identità messicana: si tratta di un fenomeno che si manifesta nel modo in cui la gente si veste, nei tipi di case che costruisce, e in altri aspetti simili, oltre che nei tipi di prodotti che consuma. Ma la lotta non è terminata. Lo spagnolo continua a svolgere una funzione di distanziamento per buona parte dei parlanti: così anche se molte città maliche sono divise tra Mexicanos (parlanti in cui domina il messicano) e castellanos (parlanti in cui domina lo spagnolo), alcuni parlanti hanno iniziato ad ammettere la possibilità che possa esservi un’identità etnica condivisa, adatta ad ambedue i tipi di parlanti. Nelle pagine finali del loro libro gli hill pongono un’omaggio alla diversità linguistica, sottolineando la responsabilità dei popoli del mondo nel tenere sotto controllo l’imperialismo culturale e nel favorire la conservazione delle lingue storico-naturali, considerate come tesori che appartengono all’umanità intera. Si tratta di universi simbolici la cui capacità di risposta al mutamento è tale che un particolare modo di parlare quale è il messicano, sottoposto a 500 anni di ferocissime aggressioni, può reagire, trasformarsi e far dronte all’attacco esterno soltanto mediante la lotta linguistica quotidiana espressa nei discorsi degli umili. LA CONOSCENZA DEL CORPO (Michael Jackson) C’è sempre il rischio in antropologia di trattare le persone che studiamo come oggetti, semplici mezzi per perseguire i nostri scopi intellettuali. C’è un simile atteggiamento nei confronti dei nostri stessi corpi che noi abbiamo, considerandoli come oggetti. Contro questa visione, Merleau-Pontu fa notare che il corpo umano è esso stesso un soggetto, e che il “soggetto” è necessariamente e non solo contingentemente incorporato. Inoltre, se gli esseri umani si distinguono da altri esseri organici e inorganici, non è tanto per specifiche caratteristiche extracorporee, ma piuttosto per il carattere distintivo dei loro corpi. Quando iniziai le lezioni di hatha yoga fu come scassinare i lucchetti in una gabbia, per la prima volta cominciai a vivere il mio corpo in completa consapevolezza, sperimentando il carattere incorporato della mia coscienza e della mia volontà. La pratica dell hatha yoga mi ha spinto ad esprimere la dialettica di datità e scelta in termini di relazioni tra abitudini corporee e intenzioni, e a esplorare le reciprocità tra disposizioni corporee abituali, schemi di attività pratica e forme di coscienza, il campo di ciò che Mauss e Bourdieu chiamano habitus. Comunque questa mia descrizione di “tecnologie del sé creative” si concentrerà su forme di coscienza e di uso del corpo culturalmente condizionate. INIZIAZIONI E IMITAZIONI FARE PG 135 FINE – 136- 137 – 138 – 139 – 140 Quello che propongo di fare ora è spostare l’attenzione da un resoconto di come si presentano queste performance imitative a un resoconto di cosa significano e perché si svolgano, senza alcun riferimento a priori a precetti regole o simboli. I DINTORNI DI UN MODO DI AGIRE Prendiamo in considerazione un problema sollevato da Francisca Boaz nel 1944: “Qual è la relazione tra i movimenti caratteristici di una certa danza e i gesti e le posture di tutti i giorni tipiche dello stesso popolo che la esegue?” nel caso delle performance che ho descritto, ogni elemento corporeo può essere osservato anche in altri campi della vita sociale kuranko. Così le inquietanti imitazioni del comportamento maschile da parte delle donne sono mischiati a elementi che sono evidenti prestiti da rituali funebri, per esempio il mimare le espressioni impassibili, e il coltello con l’impugnatura verso il basso. Tuttavia gli altri elementi ci rimandano alla boscaglia: il ragazzo che imita lo scimpanzè, l’imitazione dei cacciatori da parte delle donne…ecc. Si possono riconoscere dunque le seguenti trasportazioni: dal campo maschile a quello femminile; dai riti funebri a quelli di iniziazione, dalla boscaglia al villaggio. 26 Non possiamo spiegare le imitazioni in occasione delle iniziazioni o dei rituali in termini di coinvolgimento individuale o di sentimenti. In effetti quando suggerii alle donne kuranko che agire come gli uomini potesse essere un loro modo di sfogare il loro risentimento nei confronti del potere maschile nella vita di tutti i giorni, restarono confuse. Forse la “folle Kamban” era veramente pazza perché si comportava in modo sconclusionato? Mi chiesero, con riferimento a un’altra donna che con gesti assenti e abiti da uomo partecipava alle ultime fasi del rituale. Il carattere regolare o convenzionale di queste pratiche non è necessariamente il risultato dell’obbedienza a regole o a intenzioni consce ma piuttosto una conseguenza del modo in cui i corpi delle persone sono plasmati da abitudini inculcate all’interno di un ambiente condiviso e articolate in movenze che sono, per dirla come Pierre Bordieu “collettivamente orchestrate senza direttore d’orchestra”. Queste “disposizioni durature” sorgono in un ambiente di attività pratiche che Bordieu chiama habitus. Come hanno anche sottolineato Marcel Mauss e Jhon Dewey, le abitudini sono internazionali e legate a un ambiente di oggetti e di soggetti altri. Le forme di uso del corpo (tecniques du corps) sono condizionate dalle nostre relazioni con gli altri (es: disposizioni corporee che siamo arrivati a considerare maschili o femminili incoraggiati e rinforzati in noi dai nostri genitori o coetanei) o sono radicati attraverso le nostre interazioni con oggetti (es: il modo di lavorare a una scrivania o con un macchinario impone e rinforza degli schemi posturali che finiamo per considerare appartenenti a impiegati sedentari o lavoratori di fabbrica). Secondo questa prospettiva, le rappresentazioni collettive come quelle di genere e di classe sono sempre correlati a schemi di uso corporeo generati all’interno di habitus. Inoltre, le idee stereotipe e le abitudini corporee tendono a rinforzarsi a vicenda in modi che rimangono “stabiliti” finchè l’ambiente su cui queste abitudini sono fondate rimane fisso. Tuttavia le relazioni abituali tra idee, esperienze, e pratiche corporee possono essere interrotte. (es: la depressione può causare dimagrimento e perdita del tono muscolare). È lo sconvolgimento delle relazioni che ci interessa studiare, e il modo in cui questo sconvolgimento innesca cambiamenti nelle disposizioni corporee e mentali. L’iniziazione kuranko è in primo luogo uno sconvolgimento dell’habitus che mette in moto quelle modificazioni sociali e personali il cui aspetto corporeo manifesto è l’inversione dei ruoli. Il mio ragionamento è che questo sconvolgimento dell’habitus, nel quale le donne hanno campo libero nel villaggio e gli uomini devono cavarsela da soli, o stare in casa come donne atterrite, apre alle persone delle possibilità di comportamento che portano INCARNATE, ma normalmente non hanno l’inclinazione ad esprimere. Inoltre, credo che sia grazie alla forza di queste possibilità straordinarie cje le persone controllano e ricreano il loro mondo, il loro habitus. Consa sono dunque queste possibilità incarnate e tuttavia latenti che vengono messe in pratica durante le iniziazioni? Alcune, come gli atteggiamenti di dolore, sono stabilite filogeneticamente. Altre, come l’oscillare estasiato e dissociato dei danzatori-imitatori, suggeriscono un elemento ipnotico, alla cui base sta un riflesso condizionato le cui origini sono probabilmente legate all’ambiente intrauterino. Quanto alle basi dell’imitazione sessuale, è importante far notare che i bambini kuranko sono liberi di scorrazzare per casa e per il villaggio senza le restrizioni delle regole convenzionali che separano rigidamente l’universo maschile da quello femminile. Come dicono gli stessi kuranko i bambini sono sessualmente indeterminati e sporchi. L’habitus trasformato durante l’iniziazione semplicemente riattiva questi stili di comportamento e schemi di opposizione tra sessi iscritti profondamente nell’inconscio somatico. Per prima cosa consideriamo la trasposizione di pratiche corporee da settore a settore: da maschile a femminile, da funerale a iniziazione, da boscaglia a villaggio. Troviamo qua un parallelo in natura con quelle notevoli trasposizioni nelle quali diversi organismi assumono o imitano caratteristiche di altri organismi nello stesso habitat. Proprio come questa mimesi naturale ha valore di sopravvivenza per una specie, così si potrebbe supporre che la sopravvivenza della società kuranko dipenda dalla creazione di adulti responsabili attraverso ordalie iniziatiche esattamente tanto quanto dipende dalla nascita fisica dei bambini. Creare adulti richiede l’impiego coordinato di informazioni da tutto l’ambiente; richiede di sfruttare le energie vitali del mondo naturale, catturare virtù maschili come forza d’animo e coraggio, e imitare il rifiuto del cucciolo di scimpanzè o la finta indifferenza in pubblico di chi partecipa a un funerale, che ricordano entrambi alle donne come debbano sopportare la separazione dalle figlie perché queste ultime possano diventare donne indipendenti. 27 Ciò che ho fatto in tutto questo capitolo è una critica all’approccio “intellettualista” al simbolismo (FARE PG 154 – 155) GLI SCHEMI DELLA PRATICA (Philippe Descola) FARE DA PG 156 A PG 168 4 COSMO-LOGIE/SOCIO-LOGIE Questa sezione si concentra sulle forme di logos declinate al plurale, cosmologie e sociologie. Accostate esse portano alla luce la doppia natura dell’antropologia, culturale e sociale. Le pagine che seguono hanno per concetto da un lato le visioni del mondo e le riflessioni su di esso, ossia le cosmologie, e dall’altro lato le forme di istituzione, organizzazione, e legittimazione delle relazioni e delle gerarchie sociali, cioè le sociologie. Ci affidiamo alle riflessioni di 3 autori molto noti nel panorama internazionale. Michael Herzfeld, Maurice Godelier e Lila Abu-lughod. Il primo brano intitolato “cosmologie” propone un percorso sul modo in cui l’antropologia ha trattato questo tema. La riflessione umana sul posto che occupiamo nell’universo presenta uno strabiliante grado di variabilità nel tempo e nello spazio. Parlare di cosmologie al plurale significa percepire le differenze, in secondo luogo accoglierle, in terzo luogo valutarle in termini paritari oppure disporle in una gerarchia di valore. Il terzo punto costituisce un elemento critico intorno al quale si sono raccolte le varie posizioni, a volte opposte tra loro, in particolare quando si tratta di collegare la variabilità delle cosmologie a distinzioni fondate su una divisione del tipo noi vs loro. Questo ci riporta al tema dell’evoluzionismo sociale. Il fatto che esistano culture e socierà inferiori e superiori è un’idea da tempo rimossa dall’antropologia, ma tuttavia continua a mantenere un certo grado di credibilità. Al contrario, Michael Herzfeld invita il lettore a osservare con lo stesso rispetto e dunque a inserire nella stessa categoria quella di “cosmologia”, sia la visione del mondo che si può estrapolare da un rituale caratteristico di una qualunque cultura non occidentale, sia il paradigma scientifico che informa l’attività di ricerca di un qualunque esponente di una disciplina accademica (ivi anche la fisica). Ciò che effettivamente una cosmologia mette a disposizione di coloro i quali la condividono è una nozione di ordine che include anche idee sull’origine dellìordine stesso, sulle sue modalità di mantenimento e eventualmente sul suo destino finale, e che fornisce al contempo una teodicea, ossia una spiegazione del male culturalmente assai variabile e una concezione del tempo (ciclico o lineare). Il secondo brano, a firma di Maurice Godelier affronta il tema dell’organizzazione sociale a partire da una prospettiva a prima vista decentrata, quella dei sistemi di scambio tra gruppi e popolazioni, toccando tuttavia in questo modo un punto classico e centrale della storia della disciplina. Da Malinowski a Boas a Mauss i sistemi di scambio sono stati analizzati per mettere in rilievo i principi costitutivi di un sistema di relazioni sociali e illustrarne le peculiarità, a partire dal principio di reciprocità individuato da Malinowski. Godelier ricostruisce i termini di questo classico tema aggiornandolo alla luce degli studi più recenti. Quello che emerge non è più la stretta identificazione tra tipi di società e specifici sistemi di scambio, ma una riflessione sui modi in cui diversi sistemi di scambio si articolano e combinano dentro ogni società. Se nel primo caso si tratta di attraversare i confini del tempo e dello spazio, come avviene nel resoconto sulle cosmologie, nel secondo caso invece si procede per approfondimento intensivo di un caso monografico 30 conosciuto direttamente attraverso l’osservazione partecipante. Il brano di Lila Abu-Lughod, che rappresenta appunto questa vocazione monografica dell’antropologia, mostra al lettore il caso dei beduini nel deserto libico-egiziano per metterne in luce una dialettica di identità e differenze, appartenenze e contrasti, eguaglianze e diseguaglianze. Lo fa in primo luogo affrontando la nozione di identità collettiva per chiarire la sua duplice natura: attraverso il suo riferimento al sangue e dunque alle origini, l’identità si presenta come una nozione apparentemente chiusa all’interno dei confini di un gruppo; tuttavia a sua natura oppositiva cioè il fatto che l’identità del noi sia necessariamente costruita in rapporto alla diversità dell’altro, chiama in causa la centralità della relazione in seno all’identità stessa. Lia abu-lughod ci permette di intraprendere un viaggio denso in un singolo contesto, all’interno dei codici di comportamento, di lettura delle relazioni, delle condivisioni, delle identificazioni e delle differenze. COSMOLOGIE (Michael Herzfeld) VIVERE NEL COSMO La cosmologia si riferisce al posto che occupiamo nell’universo. Essa pertanto ha a che fare in modo cruciale con la definizione di confini tra natura e cultura. Quando gli antropologi si interessavano di più alle forme di pensiero supposte semplici o primitive, essa implicava qualsiasi cosa appartenesse al dominio della religione e alla categoria spregiativa di superstizione. Tecnicamente però il termine abbraccia sia la religione che la scienza, rivelandosi perciò molto utile agli obiettivi di un’antropologia esaustiva. Iniziamo con la scienza. Per i fisici il cosmo o l’universo rappresenta la totalità delle cose fisiche: non soltanto la materia ma anche lo spazio, il tempo, e in generale tutto ciò che è pertinente da un punto di vista fisico. “I fisici non vedono se stessi come gli autori della cosmologia di una qualche religione secolare: per loro la religione riguarda la credenza più che la conoscenza. Ma ritengono la propria professione come la rivelazione e la custodia di una verità fondamentale, e la cultura occidentale li conferma in misura sorprendente in questo ruolo privilegiato” (S. Traweek). I fisici “credono” che mentre la distribuzione della razionalità tra gli umani è disuguale, la natura obbedisce a leggi immutabili alle quali gli umani stessi possono adattare le loro idee nella misura in cui posseggono tale capacità di essere razionali. Questa ricerca di un’eroica perfezione intellettuale, si contrappone a ciò che da qualche tempo sappiamo realmente circa la produzione sociale della scienza. Si tratta di una visione dell’universo, di una cosmologia, che non necessariamente esige credenze, ma che esige l’accettazione pragmatica del processo attraverso il quale gli scienziati isolano il proprio lavoro da qualsiasi interesse per il significato o dalle conseguenze sociali e politiche di ciò che fanno. Dal momento in cui accettiamo che gli etnografi delle società esotiche di piccole dimensioni e dei laboratori scientifici siano interessati allo stesso modo all’organizzazione delle idee sull’universo, la distinzione tra stati razionali e pre-razionali della mente collettiva giunge a dissolversi in maniera sconcertante. Inoltre, dal momento in cui riconosciamo il ruolo della scelta e dell’agentività, la cosmologia non serve più da fattore determinante per l’azione, ma piuttosto come una copiosa fonte di immagini e come argomentazione da cui gli individui e i gruppi possono attingere in maniera creativa mentre cercano spiegazioni e giustificazioni per le loro attività. Elemento cruciale per la nostra comprensione di ciò chela cosmologia scientifica potrebbe avere in comune con la dottrina religiosa, è il fondamentale concetto di ordine, il quale è essenzialmente un costrutto sociale. Tramite la cosmologia, le persone considerano l’universo come un’ entità organizzata: piuttosto che un cumulo di componenti fisici ordinati in maniera casuale, esso è una disposizione altamente organizzata di materia ed energia strutturata su diversi livelli di dimensione e complessità. Questo è ciò che è stato indicato come “ordine del mondo”. Questioni centrali riguardano l’origine di questo ordine, come è mantenuto e se alla fine esso è destinato a scomparire. Il tentativo di ricondurre l’apparente organizzazione casuale dell’universo a un senso di ordine, si fonda su supposizioni relative alla natura. E se la contaminazione (religiosa, oltre che sanitaria) è da ritenersi utilmente come una faccenda fuori luogo (M. Douglas), allora affermazioni del tipo “la natura aborre il vuoto”, oppure “abbiamo il 70 per cento di probablità d pioggia” devono ugualmente essere considerate come dimostrazione dell’umana propensione di dedurre l’ordine dall’apparente caos dell’esistenza. A un livello intermedio, possiamo anche affermare che il nazionalismo e le sue congiunte burocrazie rappresentano, in termini analoghi, un tentativo collettivo di imporre l’ordine politico istituendolo tramite miti eziologici delle origini e pratiche ritualistiche che richiedono una disciplinata conformità. L’ordine quindi è l’elemento di maggiore interesse nei sistemi cosmologici, dagli 31 schemi religiosi di popoli distanti nello spazio geografico e temporale, fino alle argomentazioni della fisica e della chimica moderne. Che le stesse pratiche scientifiche siano sottoposte a limiti sociali e politici è stato l’oggetto di una prolungata indagine etnografica. Da una certa prospettiva, i dibattiti ambientali e politici sono delle dispute sul predominio dell’uno o dell’altro tipo di ordine, cosicchè, come kay milton ha astutamente fatto notare, le discussioni del rapporto della natura con la cultura estendono questo interesse andando dritte al cuore della teoria antropologica. Un mondo privato di queste visioni “altre” sarebbe davvero impoverito. Persino la riduzione di tutte le relazioni di parentela alla nozione di famiglia limita lo spazio per soluzioni alternative che renderebbero ammissibili la compassione e la cura nei confronti di coloro che sono emarginati. Parliamo della necessità di riconoscere e preservare la diversità culturale nel mondo ; la diversità intellettuale è sicuramente un aspetto cruciale di ciò, poiché può aiutarci a evitare la trappola delle soluzioni autoreferenziali rispetto alle quali non vengono ammesse alternative: è probabilmente qui che l’antropologia trova il suo ruolo più importante come disciplina applicata, oltre che essere la disciplina meno dotata per affrontarlo. In altri termini potremmo affermare che la stessa possibilità di comparazione essenziale per ogni nozione di scelta etica, risulta decisiva. Esiste un’evidente analogia con la situazione della biodiversità nel mondo. Lo studioso John Middelton sosteneva che gli antropologi si sono avvicinati alla cosmologia in quanto fenomeno culturale, o, per usare le parole di Durkheim, in quanto rappresentazioni collettive, o fatti sociali. In effetti è precisamente con Durkheim e i suoi collaboratori che lo studio approfondito e comparativo delle cosmologie come ambito specifico di ricerca ha avuto inizio nei primi anni del 20esimo secolo. Il punto di partenza è l’asserzione che non esistono false religioni, dato che “tutte rispondono, sebbene in modi diversi, a date condizioni dell’esistenza umana”. Durkheim in altri termini dice che “un’istituzione umana non può basarsi su un errore, su una menzogna”. Il suo ragionamento si fondava sul presupposto dell’esistenza di facoltà umane di raziocinio comuni e universali. “se ciò non fosse basato sulla natura delle cose, nei fatti avrebbe incontrato una resistenza di fronte alla quale non avrebbe potuto trionfare”. Durkheim perciò ha intrapreso lo studio delle religioni primitive, “con la sicurezza che esse siano aderenti al reale e lo esprimano”. Inoltre, i primi sistemi di rappresentazione con i quali gli uomini hanno figurato se stessi e il mondo a se sressi erano di origine religiosa. Questo conduce Durkheim a osservare “non c’è religione che non sia pari tempo una cosmologia e una speculazione sul divino”. Secondo Durkheim alcuni concetti chiave dominano la nostra vita intellettuale; si tratta di ciò che i filosofi a partire da aristotele hanno definito categorie dell’intelletto: le idee di tempo, spazio, qualità, quantità, causa, sostanza, personalità e così via. Tali categorie, supponeva Durkheim, costituivano un prodotto del pensiero religioso, e ciò significa che erano fondamentalmente sociali. Per steven lukes, l’affermazione di durkheim secondo la quale i concetti sono rappresentazioni collettive può essere ritenuta equivalente alla semplice ma feconda idea, riscoperta un secolo più tardi da Wittgestein, secondo cui i concetti operano all’interno di forme di vita sociale, accordandosi alle norme. Questa prospettiva non soltanto ha contribuito a frornire una visione della società come un sistema di relazioni sociali, ma anche un’osservazione della società stessa come ciò che Mary Douglas avrebbe definito un “prototipo per le relazioni logiche tra le cose”. Questa prospettiva ha screditato la visione evoluzionistica del mito e del rituale, dal momento che ha permesso di considerare entrambi come i prodotti di un ordine sociale non meno logico di quello dei moderni gruppi umani. Secondo Evans-Pritchard “l’antropologia sociale analizza le società come sistemi morali o simbolici, e non come sistemi naturali, sicchè è meno interessata al processo piuttosto che al progetto e perciò ricerca i modelli e non le leggi, mostra la coerenza e non le necessarie connessioni tra attività sociali, e interpreta più che spiegare”. La tradizione Durkeimiana è rimasta radicata ai presupposti evoluzionisti. Per Durkheim e Mauss, la mancanza della differenziazione dei ruoli nelle cosiddette “società primitive” (la solidarietà meccanica attraverso cui l’arte, la politica e le credenze sono state tutte inglobate in una singola struttura sociale che ha interamente definito le modalità con cui è stata assegnata un’espressione collettiva a questi ambiti di esperienza), non ha lasciato spazio al ruolo dell’agentività individuale. Al contrario, per la cosmologia dell’occidente post illuminista, l’esercizio dell’agentività individuale ha necessitato la liberazione 32 rituali siano progettati al cambiamento di specifiche situazioni (i rituali di guarigione per esempio) essi agiscono in senso cosmologico allo scopo di preservare l’ordine. I riti interessano perciò la sfera dell’immunità cosmologica: i cambiamenti che inglobano sono la ricalibratura di un dettaglio locale in virtù del grandioso ordine delle cose. R. Da Matta dice che il rituale ha un inizio, uno svolgimento e una fine, al contrario della terribile indifferenza racchiusa nella linea continua che nasce da routine sociali senza inizio né fine. Esso fornisce uno strumento per porre sotto certe forme di controllo collettivo il tentativo umano di procastinare la morte, per creare situazioni di eccezionalità nell’incessante monotonia dell’esistenza. Il rituale inoltre si riferisce inevitabilmente al tempo: al suo passaggio, al suo significato, alla sua inesorabile associazione con la morte, oltre che con la nascita e il rinnovamento. In un certo senso quindi tutti i rituali si riferiscono a un passaggio. La famosa tripartizione dei rituali fatta da Arnold Van Gennep comincia con una fase iniziale (di “separazione” da una fase precedente), una intermedia (di transizione) e finale (di “incorporazione” di una nuova fase). I rituali possono mostrare le contraddizioni e le debolezze di una società. Secondo Max Gluckman e i suoi collaboratori i rituali sono stati utili al mantenimento dello status quo; l’equivalente interazionale era il pettegolezzo, in cui la moralità era mantenuta da una costante, o meglio ritualistica, insistenza sulle infrazioni inevitabilmente frequenti. COGNIZIONE E COSMOLOGIA La cosmologia e la storia possono essere lette rispettivamente come consolidati modelli della struttura e dell’agentività. La cosmologia in ogni momento storico fornisce una visione corrente dell’interpretazione della verità assoluta. E viene rappresentata come statica. Quando essa include il tempo, può sviluppare una qualità ciclica o teleologica, com’è accaduto nella storiografia occidentale, rispettivamente con Splengler e Marx; è stata questa caratterisctica che ha conferito a simili visioni della storiala loro attrattiva per i regimi politici autoritari. La cosmologia colloca il tempo a servizio della struttura sociale; una delle più drammatiche illustrazioni di questo aspetto si trova nella rappresentazione degli eventi presso le cosiddette società segmentarie, nelle quali la verità diventa relativizzata dall’instabilità delle relazioni politiche. Dal momento in cui ci allontaniamo dalla cosmologia per avvicinarci alla storia, e dal rituale allo spettacolo, dovremmo resistere alla tentazione di ritenere questi passaggi come fasi di mutamento dalle formazioni sociali premoderne a quelle moderne. Piuttosto essi rappresentano un mutamentto della presenza della questione dell’agentività in relazione alle strurrure consolidate della vita sociale, strutture la cui effettiva esistenza è nondimeno subordinata a quelle azioni che conferiscono loro significato e presenza. La modernità non è priva di cosmologia, e gli scienziati riconoscono i limiti di una conoscenza sempre più sconcertante ora che sappiamo che la tecnologia non rapppresenta una panacea per tutti i mali, inclusa la nostra stessa ignoranza. Nei laboratori, negli uffici amministrativi, nelle sale di emergenza medica gli antropologi odierni esplorano le questioni relative alla vita e alla morte secondo modalità che potrebbero essere comparate con quella monarchia divina che tanto aveva affascinato frazer nel 19esimo secolo. DONARE, SCAMBIARE, CUSTODIRE: COME SI CREANO LE SOCIETA’ (Maurice Godelier) Mi propongo di esplorare le distinzioni esistenti tra le cose che si vendono, quelle che si donano, e quelle che non bisogna né vendere, né donare, ma custodire per trasmettere. Naturalmente per esplorare questo argomento bisogna reimmergersi nella storia stessa dell’antropologia e si viene di colpo rinviati a una delle più grandi opere antropologiche. Il saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel 1921. Riprendiamo il contesto in cui il saggio sul dono è stato scritto. Mauss era un socialista, noto professore universitario e scriveva tutte le settimane sul giornale popolare l’Hummanitè. Dopo la guerra aveva visitato la Russia. Sotto il potere comunista, divenendo ostile al bolscevismo per due ragioni: innanzitutto perché voleva creare un’economia che sfuggisse al mercato, e in secondo luogo per il sistematico ricorso alla violenza per trasformare la società. Tuttavia Mauss nel saggio sul dono critica innanzitutto il liberalismo e rifiuta che la società si chiuda sempre più in ciò che chiama “la fredda ragione del commerciante, del banchiere e del 35 capitalista”. Nel 1921, 15 anni prima del fronte popolare redige un programma socialdemocratico che prevede che lo stato apporti a coloro che lavorano un aiuto materiale e una protezione sociale che il salario non permette. Che cos’è un dono per Mauss? È un atto che instaura un doppio rapporto tra colui che dona e colui che accetta, tra donatore e donatario. Donare significa condividere volontariamente ciò che si ha o ciò che si è. Un dono forzato non è un dono. Il dono avvicina colui che dona a colui che riceve, ma allo stesso tempo il dono crea presso colui che lo accetta un debito, degli obblighi. Sin dall’inizio Mauss sostiene che il dono non sia un atto suscettibile di essere studiato in modo isolato, ma fa parte di un insieme di rapporti che si allacciano tra individui e i gruppi per via della concatenazione di tre obblighi: quello di donare, quello di accettare il dono e quello di donare a propria volta quando il dono è stato accettato. FARE PG 194-195-196 A grandi linee questa è l’analisi del potlatch condotta da Mauss. Eppure nel suo testo di trovano menzionati i fatti sui quali egli stesso non si è interrogato. In una nota a piè di pagina per esempio dice che presso i kwakiult gli oggetti in rame più belli e i titoli più importanti rimanevano fissi all’interno del clan e delle tribù e non entravano mai nel potlatch. Solo Annette Weiner tra tutti i commentatori ha sottolineato l’importanza di affermazioni del genere. Questo punto infatti cambia tutta la prospettiva degli oggetti donabili, poiché introduce una categoria delle cose che non si devono né vendere né donare, ma custodire nell’ambito dei possedimenti inalienabili. Prima di tornare su questa categoria di oggetti bisogna ritornare un istante sulle tesi di mauss relative all’esistenza di uno spirito delle cose. Mauss, come abbiamo visto, voleva capire perché una cosa donata dovesse essere restituita al donatore o determinare un controdono in ritorno, ma non aveva scoperto abbastanza riguardo al kula. La pratica del kula consiste nel mettere in circolazione un braccialetto con la speranza di ottenere un giorno una collana di valore equivalente, o viceversa. Vediamo quindi come in questo meccanismo non sia mai lo stesso oggetto, né lo stesso tipo di oggetto a rimpiazzare quello donato. È pertanto impossibile nel caso dei kula avanzare l’idea cara ai maori secondo la quale lo spirito presente nella cosa indurrebbe la persona che l’ha ricevuta in dono a restituirla al proprietario originario. Infatti Mauss si rammaricava del fatto che Malinowski non fosse riuscito a detreminare la ragione della circolazione dei vaygua (gli oggetti preziosi dei kula). Se infatti la ragione avesse risieduto in un qualunque orientamento di questi oggetti tendente a tornare verso un punto di origine, il fatto sarebbe allora prodigiosamente identico all’hau maori. Sfortunatamente non è quanto è stato trovato. Infatti Malinowski aveva tralasciato due concetti indigeni chiave che chiariscono il modo in cui il kula viene praticato e spiegano perché il proprietario dell’oggetto appaia sempre presente nella cosa donata. Sono i concetti di kitoum e keda. Che cos’è il kitoum? FARE PG 198 – 199 – 200 – 201 – 202 L’IDENTITA’ NELLA RELAZIONE (Lila Abu-Lughod) Sapendo che gli Awlad Ali abitavano la fascia costiera lungo il bordo settentrionale del deserto libico, mi ero figurata delle tende sulla spiaggia di sabbia bianca con il mediterraneo turchese che luccicava sullo sfondo. Scoprii invece che, nonostante la sua vicinanza, il mare aveva poca parte nella vita dei beduini, che riservavano il loro apprezzamento alla bellezza naturale del deserto, dove la migrazione li aveva regolarmente portati fino agli anni della sedentarizzazione. Eppure, nonstante il loro apprezzamento dei doni naturali del deserto, i beduini pensano al territorio in cui vivono principalmente nei termini delle persone e dei gruppi che lo abitano. Mi ero anche aspettata di trovare pastori nomadi che vivevano tranquilli con le loro greggi, ma scoprii invece che quelle stesse persone che magnificavano le attrattive del deserto abitavano in case (anche se continuavano a piantarvi vicino le tende e a passare lì dentro gran parte delle giornate), indossavano lucenti orologi da polso e scarpe di gomma, ascoltavano la radio, e viaggiavano sui pick up Toyota. Diversamente da me non consideravano queste cose come segni allarmanti del fatto che stessero perdendo la loro identità come gruppo culturale, come beduini perché loro si definiscono non tanto sulla base di un modo di vita, ma piuttosto sulla base di alcuni principi chiave di organizzazione sociale: la genealogia e un ordine tribale fondato sulla vicinanza degli agnati (i parenti paterni) e legato a un codice morale, quello dell’onore e della modestia. Il loro universo sociale è ordinato da questi principi ideologici che sono riuniti 36 nella nozione che gli Awlad Ali hanno di sangue (dam), un concetto dotato di un’enorme forza culturale di cui esplorerò ora due aspetti. ASL: IL SANGUE DELLE ORIGINI Il sangue lega le persone al passato e allo stesso tempo le unisce nel presente. In quanto collegamento al passato attraverso la genealogia, il sangue è fondamentale per la definizione dell’identità culturale. La nobiltà di origine o di ascendenza (asl) è un motivo di grande preoccupazione per gli Awlad Ali. I loro clan migrarono in egitto alla libia. La maggior parte dei resoconti concordano nel considerarli discendenti dei beni suleim e dei beni hilal, gli invasori arabi che dal Najd calarono nel nord africa nell’11 secolo. Alcune fonti collocano la migrazione al 13 secolo. Sono rimasti marginali rispetto alla società agraria della valle del nilo, il centro economico e demografico dell’egitto. Secondo tutte le stime i beduini del deserto occidentale sono molto meno dell’1 per cento dell’intera popolazione dell’egitto. Il tentativo a partire dal 1952 con l’ascesa al potere di nasser di integrare i beduini nella politica, nell’economia e nella cultura della nazione egiziana non è stato raggiunto. Al contrario, il senso di identità collettiva dei beduini, si definisce per opposizione agli egiziani o ai contadini, raggruppati insieme come “gente della valle del nilo”. Le differenze con loro vanno al di là della lingua e del vestiario, si estendono fino ai fondamenti dell’origine, definiti dalla genealogia, dall’organizzazione sociale, dai modi di relazione interpersonale. Il sangue nel senso della genealogia è alla base dell’identità degli awlad ali. Coloro che possono collegarsi genealogicamente a una qualsiasi delle tribù del deserto occidentale possono definirsi arab (arabi) ossia non egiziani. Infatti gli awlad si riferiscono a se stessi così. Il termine nello specifico non indica solo l’essere diversi dagli egiziani, ma rivendica le origini provenienti dalla penisola arabica e i legami genealogici con le tribù arabe pure che furono le prime seguaci del profeta maometto, e suggerisce anche la loro affinità con tutti i musulmani di lingua araba nel medio oriente e del nord africa. Gli egiziani sono ritenuti privi di radici o nobili origini (asl o mabda). Si ritiene che le nobili origini conferiscano qualità morali e carattere. I beduini attribuiscono valore a una costellazione di qualità che potrebbero essere racchiuse nell’espressione “codice dell’onore”. Una mancanza d’onore per gli egiziani per esempio era l’insistenza nel voler stipulare contratti; per gli arabi era sufficiente la parola. La virtù araba più apprezzata è la generosità, espressa soprattutto dall’ospitalità. La temerarietà e il coraggio sono qualità considerate naturali per gli uomini e per le donne. Sebbene le guerre tribali siano finite, gli uomini beduini mantengono fede ai loro valori guerreschi portando le armi e ricorrendo anche alla violenza quando vengono sfidati o insultati. Forse ancora più indicative di asl sono le qualità morali associate alle relazioni tra uomini e donne. Una segregazione sessuale troppo blanda e l’intimità che mariti e mogli mostrano in pubblico sono interpretate come segno di debolezza degli uomini egiziani e l’immoralità delle loro donne. GARA’BA: IL SANGUE DELLA PARENTELA Il concetto di sangue è centrale per l’identità beduina anche in un secondo senso: attraverso il suo primato ideologico nel presente, come mezzo per determinare la collocazione sociale e i vincoli personali. Gli awlad ali concepiscono se stessi soprattutto in termini di tribù, che, come è noto, sono unità ambiguamente segmentate definite dalla consanguineità o dai legami con un comune antenato patrilineare. L’organizzazione sociale e tribale è un altro punto su cui gli Awlad Ali si differenziano fieramente dai loro vicini egiziani. Gli egiziani non sono organizzati in tribù, non conoscono le loro radici e si identificano con un’area geografica o peggio ancora con un governo nazionale. Una delle prime domande che pongono a un nuovo venuto infatti è da dove vieni? E non si aspettano come risposta un’area geografica, ma piuttosto un’affiliazione tribale. Poiché gli Awlad Ali applicano il termine tribù a molti livelli di organizzazione, le persone appartengono simultaneamente a più tribù contrassegnate da un nome. I termini tribali in cui i beduini concepiscono i vincoli sociali danno un’impronta distintiva alla loro vita sociale. la maggior parte della letteratura sui beduini si è focalizzata sul modo in cui la parentela fornisce un idioma per le relazioni politiche. Il mondo sociale degli Awlad Ali si divide tra parenti e stranieri/estranei (garib contrapposto a gharib), una distinzione che modella sia il sentimento sia il comportamento. L’ideologia beduina della parentela è basata su due proposizioni fondamentali. Primo, tutti coloro che sono in relazione di sangue condividono una sostanza che li identifica in entrambi i sensi della parola: nel senso di dare a ciascuna persona un’identità sociale e in quello di spingere gli individui a identificarsi con chiunque altro condivida lo stesso sangue. Gli 37 Sebbene i mrabtin siano ora indipendenti, autorizzati a possedere terra e non pagnino più tributi come prima, la distinzione in termini di libertà rimane una fonte di differenziazione sociale a causa delle implicazioni morali delle loro origini. Nonostante la retorica riguardante l’equivalenza giuridica e l’eguaglianza degli agnati, esistono enormi disuguaglianze di status e autorità all’interno del lignaggio così come all’interno della tribù. La distinzione primaria è tra giovani e anziani. Gli anziani del villaggio controllano le risorse quali i pozzi e la terra (il bestiame invece è posseduto individualmente ed è una faccenda separata), prendono le decisioni, combinano i matrimoni. I membri più giovani servono in silenzio gli anziani e ascoltano e intervengono di rado durante le riunioni. Poi, per quanto riguarda le famiglie, sopra tutti c’è il patriarca. Il patriarca controlla le risorse. Ma anche altre relazioni all’interno della famiglia sono disuguali, per esempio quella tra fratelli maggiori e minori, dove i fratelli maggiori hanno la precedenza. La relazione di disuguaglianza tra i sessi è di solito in funzione delle relazioni famigliari che esistono tra loro. I padri hanno autorità sulle figlie come sui figli. I fratelli maggiori hanno autorità sulle sorelle minori, sebbene da bambini le sorelle maggiori si prendano cura dei fratelli minori e possano dare loro ordini. Le relazioni familiari da sole, comunque non determinano le relazioni di diseguaglianza tra i sessi. Le donne sono sempre dipendenti, come indica il più comune termine di riferimento per le donne, wliyya (sotto la protezione). Da adulti anche i fratelli minori sono responsabili delle loro sorelle maggiori e hanno autorità su di loro. Allo stesso modo la relazione tra madre e fugluo, in cui inizialmente la madre ha potere su ogni cosa in quanto controlla l’accesso al cibo e alle altre risorse, poi si riequilibra col tempo. Marito e moglie non sono mai uguali, sebbene entrambi adulti. LA FAMIGLIA COME MODELLO DELLA GERARCHIA SOCIALE FARE PG 218-219-220 5 IDENTITA’/APPARENZE Le identità e le appartenenze subiscono spesso processi di naturalizzazione di fronte ai quali l’antropologia culturale rinnova continuamente la propria missione intellettuale, che consiste anche e soprattutto nel rivelare il fontamento culturale di ciò che viene presentato come naturale. La naturalizzazione delle identità e delle appartenenze pone dunque una sfida al cuore dell’antropologia e chiama in causa un impegno critico di decostruzione. La razza, l’etnia, il sesso e il genere sono le categorie che si mettono in discussione in questo capitolo allo scopo di esemplificare le modalità attraverso le quali l’antropologia culturale si avvicina alle identità e alle appartenenze. L’antropologia culturale insiste da tempo nel sottolineare che le identità e le appartenenze, quali per esempio quelle etniche e quelle di genere, sono costruzioni culturali modellate dalla storia e non realtà granitiche, necessarie, oggettive, che vincolano il comportamento e la dignità dell’essere umano in maniera univoca e ineludibile per non parlare delle razze umane che costituiscono un caso volgare di mistificazione. Le razze umane non esistono. E il concetto di divisione raziale non ha alcun fondamento scientifico, come ha dimostrato l’antropologia biologica, ossia la scienza che si occupa della storia naturale della nostra specie e del processo di ominazione, ovvero dell’essere umano in termini biologici. Biondi e Rickards ricostruiscono le tappe storiche attraverso cui il concetto di razza ha acquisito un’illusoria consistenza nel pensiero scientifico occidentale e il lavoro che è stato necessario per giungere a decostruire tale illusione. Far fuori la “razza” purtroppo non significa far fuori il razzismo, poiché la volontà di gerarchizzare i gruppi umani persiste attraverso l’uso “razzista” di una batteria di concetti di rimpiazzo (civiltà, cultura, etnia, nazione). Anche quando si parla di etnia si ha a che fare con un’illusione. Parlando di identità etniche come “finzioni” non si vuole sostenere che esse siano false, ma che sono appunto il risultato di un processo di pslamazione culturale che si dipana nel tempo. Durante questo percorso, le identità etniche possono mutare, in quanto i 40 loro confini si muovono, i simboli dell’appartenenza cadono nell’oblio e vengono sostituiti da altri, le relazioni con altri gruppi cambiano segno, e anche le denominazioni etniche sono soggette a trasformazioni. L’antropologia, a partire dagli studi di Margaret Mead su “sesso e temperamento” ha contribuito a elaborare e diffondere con successo la distinzione tra sesso come dato biologico autoevidente e il genere come costruzione culturale complessa e negoziabile, alimentando in questo modo una discussione ancora in corso. La categoria di genere, ridefinita negli studi antropologici statunitensi da Gayle Rubin in un saggio del 1975 attraverso la nozione di sistema sesso-genere, è posta a organizzare la riflessione attorno alle forme in cui sesso, corpo, identità, classificazioni identificazioni e gerarchie di genere siano prodotti di sistemi simbolici e di rapporti di forza. Idea centrale del saggio è la nozione di sistemi di prestigio, che poggiano a loro volta su sistemi di divisione del lavoro sociale che attribuiscono ruoli differenziati e gerarchizzati alle donne e agli uomini. La divisione del lavoro sociale in base al sesso, che, salvo eccezioni, è a favore del popolo maschile, non dipende secondo gli studi dalle caratteristiche maschili/femminili, ma è il frutto di specifiche forme di organizzazione socioculturale che istituiscono sulla differenza una forma di gerarchia che secondo Rubin, nell’esagerare la differenza produrrebbe il genere. LA RAZZA: UN ERRORE SCIENTIFICO E UN ABOMINIO SOCIALE (Gianfranco Biondi, Olga Rickards) La nascita della biologia moderna è fissata al xviii secolo quando Carlo Linneo ha definito le modalità per classificare gli esseri viventi e su quella base ha fondato la tassonomia: la disciplina che definisce i rapporti di parentela tra le diverse entità e, dalla metà del xix secolo anche la loro storia evolutiva. Linneo è vissuto in un’epoca in cui prevaleva la credenza erronea che per l’essere umano si dovesse definire un regno tassonomico diverso da quello animale, vegetale e minerale. Noi infatti secondo questa idea saremmo stati creati da una divinità a sua immagine e somiglianza, mentre il resto delle specie sarebbe stato semplicemente creato. Linneo è riuscito non senza qualche difficoltà a metterci come giusto nell’ordine tassonomico delle scimmie e delle scimmie antropomorfe, quello dei primati, con il nome di homo sapiens. L’evidenza sperimentale (in particolare la somiglianza morfologica tra noi e gli altri primati) ha permeso a linneo di fare il suo lavoro, mentre agli scienziati attuali di affermare che il concetto tassonomico di razza non può essere applicato alla nostra specie: in noi la razza è stata falsificata. Le razze umane non esistono e in noi l’uso del termine è scientificamente errato. La razza in biologia non è altro che la categoria tassonomica sottospecifica e come le altre (specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum, regno e dominio) deve identificare il rapporto di parentela o antenato-discendente che unisce gli individui o i gruppi. Gran parte degli esseri viventi può essere divisa all’interno di razze, ma non la nostra. E vedremo perché. Secondo il saggio di Johann Friedrich Blumenbach, De generis humani varietate nativa (pubblicato nel 1775) l’umanità doveva essere classificata in un’unica specie suddivisa in 5 razze. Tuttavia tale ipotesi non era affatto un’ipotesi scientifica da validare, ma era messo come dato di per sé. Al giorno d’oggi questo non sarebbe permesso. Il termine razza è stato coniato nel Cinquecento per indicare genericamente la discendenza, ma è entrato nella letteratura scientifica solo a metà settecento con l’opera in 36 volumi historie naturelle di georges louis leclerc, conte di buffon, pubblicata tra il 1749 e il 1789. Linneo infatti nel suo “sistema naturale” che come abbiamo detto ha fondato la buologia moderna, non lo aveva utilizzato, preferendogli la parola varietà. FARE PG 228-229-230. Sono state proposte molte classificazioni razziali. Questa è la stranezza, perché nelle scienze sperimentali un problema si considera risolto quando si è trovata la sua soluzione unica e condivisa nella comunità degli studiosi. Sulla questione della razza invece sono state suggerite molte soluzioni, e quindi inutili. Nel corso del tempo, la fiducia degli antropologi sull’uso del concetto di razza si è andata affievolendo senza tuttavia scomparire. 1684: Francois bernier ci classifica in 4 gruppi: nativi americani, nordafricani, sudasiatici, europei 1721: Richard Bradley ci classifica in bianchi, neri e intermedi 1735: Linneo ci divide in europei, americani, asiatici e africani 1749: Buffon ci divide in lapponi, asiatici, tartari, europei, neri e americani 41 1764: Thomas Pownall ci divide in razza bianca, razza gialla, razza nera 1795: Blumenbach ci divide in razza caucasica, mongolica, etiopica, americana e malese 1798: Immanuel Kant ci divide in razza bianca, nera, mongolica e indù OTTOCENTO: Georges Cuvier, Jean louis armand de quatrefages, paul topinard, ernest theodore hamy e renè verneau propongolo la distinzione in razza caucasoide, razza mongoloide, razza negroide, cambiando sostanzialmente i nomi da quella di Pownall 1845: Jean baptiste julien ci divide in razza bianca, gialla, bruna, rossa e nera 1850: Jean louis rodolphe agassiz abbandona il colorito cutaneo in favore delle aree climatiche abitate dalle popolazioni e ci divide in america occidentale temperata, america meridionale temperata, asia tropicale, asia temperata, asia meridionale temperata, nuova olanda (australia), artico, capo di buona speranza (sudafrica), e america tropicale 1895: thomas henry huxley ci divide in razza australoide, negroide, xantocride (poi europoide) e mongoloide (divisa a sua volta in 10 gruppi) NOVECENTO: colpiscono due classificazioni, quella di Lorenz oken: negri, gli uomini del tatto, gli australiani del gusto, gli americani dell’olfatto e gli europei della vista; e quella di Carl Gustav Craus: etiopi popoli notturni, caucasici popoli diurni, mongoli dell’aurora e americani del tramonto. Ma veniamo a quelle più accademiche: 1900: Josef deniker suggerisce 6 gruppi e 29 razze 1904: wynfrid laurence henry duckworth suggerisce 7 razze 1909: alfred cort haddon 3 razze 1913: vincenzo giuffrida-ruggeri 5 razze 1931: alfred albert hooton tre razze principali, 15 sottorazze, 8 razze composite 1933: george montandon 5 razze 1935: hans weinert 17 razze 1937: egon von eickstedt 4 sottospecie, 38 razze 1941: renato biasutti quattro cicli di forme con 4 rami, 16 ceppi, 53 razze e alcune popolazioni preistoriche e fossili 1950: trevor 5 forme 1959: howells sette ceppi 1959: herbert, kurt, schwidezky 3 razze 1961: garn 9 razze geografiche divise in 20 razze regionali o grandi razze locali, 8 piccole razze locali, 4 razze ibride 1962: stevens-coon 5 razze POI FINALMENTE L’EBBREZZA CLASSIFICATORIA E’ SFUMATA CAZZO, sotto la spinta di conoscenze genetiche che si stavano affermando. Tuttavia si deve ricordare che alcuni studiosi, come herer, come bonnet, come paulucci di calboli avevano criticato la pratica di suddividerci in razze nel 700 i primi 2 e nel 1905 il terzo. L’elevata varietà morfologica osservata tra le popolazioni ha indotto gli antropologi ad affrontare ulteriormente il problema oltre che del suo ordinamento, che essa non fosse da attribuire a origini diverse dei vari gruppi. Questa ipotesi è chiamata della genesi multipla, o poligenismo, che ipotizzava dunque che la nostra genesi non fosse unitaria. In realtà si è scoperto poi che le differenze tra le popolazioni 42 rimessa in discussione di certi aspetti dell’ideologia nazionale o nazionalista – l’etnicità è diventato un valore positivo di identità. Per alcuni studiosi le ideologie etniciste non servono che a chiudere le minoranze nell’arcaismo. Ricercatori più sensibili ai valori del pubblicismo culturale vedono in esse, al contrario, un formidabile serbatoio di alternative ideologiche nella misura in cui la definizione di etnicità è forgiata dall’interno anziché essere attribuita all’esterno. La coscienza etnica sarebbe così il seguito logico di una coscienza di classe. Ciò conferma comunque che, “significante fluttuante per eccellenza”, l’etnia non è niente in sé se non quello che ne fanno gli uni o gli altri. ETNIE MINORITARIE: PROBLEMI ANTROPOLOGICI (patrick williams) Associate l’una all’altra, le nozioni di etnia e di minoranza evocano immediatamente quelle, strettamente legate, di gruppo e relazione. FARE PG 244-245-246 ETNIE MINORITARIE: PROBLEMI GIURIDICI E POLITICI (jean paul razon) Non esistono etnie minoritarie in sé. Esse sono tali in rapporto con altri gruppi, ai quali sono associate all’interno di un insieme retto dalle stesse leggi (stato). Le etnie minoritarie soffrono per l’usurpazione e gli abusi della società globale, essendo i loro propri interessi subordinati agli scopi egemonici degli stati- nazione. Questa dominazione culturale, economica e politica si traduce nella negazione dell’identità delle etnie minoritarie, nel controllo dei loro territori, delle loro risorse, perfino nello spostamento dei loro membri. Riguardo le leggi o i comportamenti, alcuni gruppo (es: pigmei e khoi san) sono oggetto di diverse discriminazioni da parte di tutti o di una parte dei membri della società circostante o sono sottoposti a regolamenti nazionali che sono lontani dalle loro tradizioni e impediscono il funzionamento armonioso del loro percorso economico e sociale (popolazioni nomadi, masai del kenia). Esistono altre minoranze che sono esposte a spoliazioni territoriali o a forme di assoggettamento che minacciano la loro esistenza (indiani dell’amazzonia), o rivendicano la restituzione di tutto o parte dei loro antichi territori (kanak della nuova caledonia, aborigeni australiani, khoi-san). La natura e la portata delle rivendicazioni delle etnie minoritarie possono variare molto, in funzione degli oltraggi inflitti ai loro diritti. Queste rivendicazioni possono limitarsi al conseguimento di garanzie giuridiche di fronte ad alcune minacce, possono mirare alla concezione di diritti particolari, in maniera economica, sociale e politica, a un’eguaglianza di diritti con i cittadini dello stato-nazione dominante; esse infine possono essere portatrici di un’esperienza più radicale di autonomia o indipendenza. Ugualmente i mezzi usati per le rivendicazioni possono andare dall’azione condotta nel quadro della legislazione del paese, fino alla lotta armata. Oltre alle organizzazioni indigene e agli indigenisti nazionali che rappresentano gli interessi delle etnie minoritarie all’interno delle istituzioni politiche, bisogna sottolineare l’importanza delle organizzazioni non governative internazionali. Alcune sono esclusivamente formate da autoctoni, come l’international indian treaty council, creataa nel 1974 in una riserva indiana del dakota, o il world council of indigenous people, fondata nel 1975 durante la prima conferenza internazionale dei popoli indigeni nella colombia britannica. Altre garanriscono la rappresentanza di questi popoli presso le istituzioni le cui decisioni possono determinare il loro avvenire. Tra queste ultime l’international workgroup of indigenous people, fondata nel 1968 durante un congresso degli americanisti a copenhagen, e survival international creata a londra nel 1969 rappresentata in una 50ina di paesi. UNA SPIEGAZIONE DEI SIGNIFICATI SESSUALI (sherry beth ortner, harriet whitehead) Da tempo si è riconosciuto che i ruoli sessuali (ossia la diversa partecipazione degli uomini e delle donne alle istituzioni sociali, economiche, religiose, politiche) variano da cultura a cultura. Ciò che non è stato universalmente riconosciuto è il pregiudizio, spesso fondamento dello studio sia sui ruoli sessuali sia di quelli di dominio maschile, che ritiene di sapere cosa gli uomini e le donne “sono”, ossia che il maschio e la femmina sono prevalentemente oggetti naturali piuttosto che costruzioni prevalentemente culturali. Ciò che il genere è e ciò che gli uomini e le donne sono, quali tipi di relazione dovrebbero instaurare tra loro, tutte queste nozioni non riflettono semplicemente dei dati biologici o sono elaborati a partire da questi ultimi, ma sono soprattutto prodotti dei processi sociali e culturali. Pochi antropologi si sono occupati di identificare 45 in modo sistematico i processi culturali e sociali ai quali riferire le nozioni culturalmente mutevoli di sesso e genere. Gli antropologi hanno consentito che il pregiudizio naturalistico dominasse l’ambito del sesso e del genere. Questo testo raccoglie la sfida di correggere questo squilibrio concentrandosi sul genere e la sessualità in quanto costruzioni culturali (simboliche) e indagando le origini, i processi e le conseguenze della loro costruzione e organizzazione. Vari autori cominciano a interrogarsi su che cosa significhino “maschio” e “femmina”, sesso e riproduzione in contesti sociali e culturali dati, piuttosto che assumere, in primo luogo, che si conosca il loro significato. L’approccio al problema del sesso e del genere è perciò una questione di analisi e interpretazione simbolica che consiste nel mettere in relazione tali simboli da un lato con altri simboli e significati culturali, dall’altro con le forme di vita sociale ed esperienza sociale. si ottiene la scoperta, prima non riconosciuta, dei significati transculturali riguardo ai sessi e alla sessualità. CARATTERISTICHE GENERALI DELLE IDEOLOGIE DI GENERE Si deve innanzitutto osservare che il grado in cui le culture hanno nozioni formali altamente elaborate, relative al genere e alla sessualità è variabile. Inoltre, non tutte le culture elaborano nozioni di muliebrità e virilità in termini di dualismo simmetrico. Nella maggior parte dei casi tuttavia le differenze tra uomini e donne sono proprio concettualizzate in termini di insiemi e di opposizioni binarie metaforicamente associate. In primo luogo, in alcuni studi si presenta una versione dell’opposizione “natura-cultura”. In un articolo del 1972 Ortner sosteneva che nel pensiero simbolico esiste una tendenza universale ad associare il maschio alla cultura e considerare invece la femmina più vicina alla natura. Entrambe le autrici suggeriscono che la posizione più rilevante circa l’opposizione tra i sessi tra le popolazioni da esse analizzate (rispettivamente la popolazione di mount hagen in nuova guinea e i maasai africani) è il contrasto tra ciò che strathern chiama “l’interesse personale” e “il bene sociale”. le donne sono considerati inclini a un maggiore coinvolgimento negli interessi privati e particolaristici, che giovano a loro stesse e forse ai propri figli, senza prendere in considerazione più vaste conseguenze sociali, mentre si ritiene che gli uomini abbiano un orientamento più universalistico, più interessato al benessere di tutta la società. Questo probabilmente è legato a una distinzione sociologica dei sessi assai diffusa: quasi universalmente gli uomini controllano la sfera pubblica in cui si amministrano gli interessi universalistici, e quasi universalmente le donne sono collocate o relegate nella sfera domestica, incaricate del benessere delle loro famiglie. In questo modo abbiamo un’intuizione sociologica centrale: quella secondo cui la sfera sociale associata prevalentemente ai maschi include anche la sfera associata prevalentemente alle femmine, e per questo motivo dal punto di vista culturale le viene accordato un valore più alto. C’è poi una tendenza generale a definire gli uomini in termini di categorie di status e di ruolo (es: guerriero, cacciatore, statista, anziano e simili) che poco hanno a che fare con le loro relazioni con le donne. Le donne, al contrario, tendono a essere definite quasi esclusivamente in termini relazionali in particolare con appellativi che si riferiscono a ruoli parentali (es moglie, madre, sorella) che a un attento esame risultano incentrati sul rapporto che esse hanno con gli uomini. La tendenza a rifrangere l’immagine delle donne attraverso i diversi modi in cui esse sono collegate agli uomini è illustrata con particolare chiarezza dall’analisi delle culture polinesiane condotta da ortner e shore. Nel caso polinesiano osservano che le categorie di parentela femminili (moglie e sorella) dominanti il concetto polinesiano di donna, includono, tra l’altro, un importante distinzione tra donne che, da qualsiasi punto di vista dell’io maschile, sono sessuate e donne che non lo sono. La distinzione tra donne sessuate (mogli) e donne non sessuate (sorelle), ma soprattutto la relativamente maggiore preminenza culturale delle sorelle ha vaste implicazioni per la valutazione culturale polinesiana delle donne e per i modelli delle relazioni tra i sessi. Ci sono molti casi in cui troviamo una separazioni concettuale tra un “mondo degli uomini” e un “mondo dei rapporti eterosessuali”. Associati a questo modello sono i temi della riproduzione sessuale maschile, o almeno il controllo rituale maschile sulla riproduzione femminile. Anche i rapporti sessuali maschili tendono a essere una questione culturale, sia come ideale positivo, sia come minaccia culturalmente enfatizzata. Il modello può essere considerato anche come una trasformazione particolare della più generale tendenza a definire le donne in termini di rapporto con gli uomini (il mondo dei rapporti eterosessuali) in opposizione alla definizione degli uomini in termini di occupazioni di ruoli o status esclusivamente maschili. Gli stessi assi che dividono il maschio dalla femmina intersecano anche le categorie di genere, determinando al loro interno distinzioni e gradazioni. Sia strathern che shore spiegano chiaramente questo modello. Strathern rileva tra la popolazione di mount hagen una serie di opposizioni che distinguono il maschio dalla 46 femmina. Non soltanto la propensione per il bene sociale (uomo) e bene privato (donna), ma anche investitori e consumatori, successo e insuccesso, prestigio e spazzatura. Ma ella sottolinea che queste categorie valgono non solo in opposizione tra uomini e donne, ma servono per differenziare anche gli stessi uomini tra loro (es: ci sono uomini grandi come uomini spazzatura), e in circostanze meno frequenti anche le donne (es: chi aiuta il marito con gli investimenti vs chi consuma e basta). Analogamente shore dimostra che la questione del comportamento sessuale che nelle samoa divide gli uomini dalle donne, genera anche delle gerarchie interne nel mondo maschile e femminile. Ciò suggerisce che molti degli assi relativi alle sfere di genere in realtà non sono relative solo a esse, ma sono condivisi da altre importanti sfere della vita sociale. I CONTESTI SOCIALI DELLA CULTURA DI GENERE L’obiettivo di questo testo è quello di sollevare interrogativi sui principi della creazione e trasformazione delle ideologie di genere. Un esame delle ricerche suggerisce un certo numero di ambiti del sociale che appaiono cruciali nel modellare le questioni di genere e sessualità in una prospettiva culturale. Esaminiamo questi ambiti cruciali: 1: PARENTELA E MATRIMONIO Anche nelle monografie più convenzionali siamo sicuri di trovare le donne nella sezione sulla parentela e il matrimonio. Comunque in ogni caso anche perché le relazioni di parentela e matrimonio richiedono sempre di specificare se gli attori coinvolti siano maschi o femmine, quindi quantomeno sono sempre stati implicitamente strutturati secondo il genere. L’organizzazione della parentela e del matrimonio nell’antropologia femminista contemporanea ha rappresentato il luogo canonico da cui iniziare a cercare importanti intuizioni riguardo ai modi in cui le culture costruiscono il genere, la sessualità e la riproduzione. Rubin dice che Sebbene si possa supporre, secondo il senso comune che le nozioni di genere, sessualità e riproduzione riflettano direttamente le forme di parentela, matrimonio e altri legami tra i sessi strutturalmente e affettivamente importanti, le testimonianze etnografiche si sono mostrate deludenti a questo riguardo. Le connessioni per noi ovvie spesso mancano. FARE PG 256 2: LE STRUTTURE DI PRESTIGIO Noi (le tizie che hanno scritto l’articolo) riteniamo che in ogni società data e strutture più importanti per la costruzione culturale del genere sono le strutture di prestigio. All’interno di ciascuna società, il prestigio o “onore sociale” assume qualità leggermente diverse e ricade su persone diverse in gruppi diversi. Chiameremo “struttura di prestigio” l’insieme delle posizioni o dei livelli di prestigio che risultano da un particolare programma di valutazione sociale, i meccanismi con i quali i gruppi di individui raggiungono determinati livelli o posizioni, e le condizioni complessive della riproduzione del sistema degli status. La nostra tesi è che l’organizzazione sociale del prestigio è la sfera della struttura sociale che influisce più direttamente sulle nozioni culturali di genere e sessualità. Questa tesi ha una serie di aspetti correlati. A) un sistema di genere è prima di tutto una struttura di prestigio in sé. Questo è un punto centrale. B) in qualsiasi società le strutture di prestigio tendono reciprocamente verso la coerenza simbolica. C) i costrutti di genere sono in parte funzioni dei modi in cui l’azione maschile, orientata verso il prestigio, si articola (in termini strutturali-funzionali) con le strutture delle relazioni tra i sessi. Consideriamo questi punti uno per volta. A. Non appena spostiamo al centro del progetto analitico il punto secondo cui il genere è una struttura di prestigio, molte caratteristiche delle ideologie di genere in senso transculturale cominciano ad avere senso. In tutte le società conosciute gli uomini e le donne costituiscono i due termini di un insieme di valori valutati in modo differenziale, poiché gli uomini in quanto uomini sono visti come superiori. Si osserverà subito che i concetti usati per distinguere gli uomini dalle donne in termini di valore sociale sono spesso gli stessi che si usano per distinguere altri tipi sociali valutati in modo differenziale, e sono 47 affini e l’enfasi sulla sessualità femminile dominano le nozioni di femminilità, le donne, in generale, vengono considerate e trattate con meno rispetto di quanto non accada nelle culture in cui esse sono viste principalmente come consanguinee. Le donne, sostiene l’autrice, sono considerate “esseri naturali” di tipo diverso rispetto agli uomini, mentre le parenti di sesso femminile sono considerate semplicemente attori sociali diversi. Sistemi di prestigio diversi non soltanto lasceranno il posto centrale a legami diversi tra sessi ma, a seconda del sistema in questione lo stesso legame (fratelli germani, matrimonio) potrà essere dotato di significati differenti. I sistemi basati sulla madre variano molto in relazione a ciò che per madre si intende (es: le culture cattoliche enfatizzano l’aspetto di protezione e allevamento della madre, mentre la cultura americana ne enfatizza la figura autoritaria e manipolatrice). Ancora più mutevoli i sistemi basati sulla moglie: ad avere importanza può essere il semplice fatto di essere sposati, oppure il matrimonio vincola un uomo ai suoi parenti acquisiti nei sistemi brideservice, o ai suoi consanguinei maschi nel sistema bridewealth2; la donna può portare inoltre proprietà e figli. DOV’E’ IL SESSO? Che cosa dire del sesso in tutte queste culture? La dimensione erotica e quella sociale sono troppo profondamente implicate tra loro per essere spacciate come dimensioni completamente diverse. Dagli studi di Nadelson e Brandes emerge che non esiste un giardino di erotismo libero dai condizionamenti sociali, ma piuttosto un mondo di soggetti caratterizzati da ansia per lo status, dall’insistenza sui modi in cui la sfera erotica può costituire una minaccia alle posizioni sociali predilette, e dalla ricerca di una soluzione per prevenire tutto ciò. Nello stesso tempo una breve lista degli attributi personali che diverse culture hanno scelto come eroticamente eccitanti (la carnagione pallida della signora che si ripara dal sole, la muscolatura bestiale dell’uomo di infimo status, la vita stretta, l’addome definito, il piede fasciato di bianco) è sufficiente per portarci a capire che ci troviamo ancora una volta nel territorio del sociale, e più precisamente dello status. 6 MOBILITA’/MIGRAZIONI Lo sguardo comparativo dell’antropologia ha messo in luce molteplici forme di mobilità territoriale sviluppatesi nel corso del tempo. Celebri studi sono stati dedicati a popolazioni il cui modo di vita è legato alla pratica della pastorizia nomade o a comunità itineranti di cacciatori – raccoglitori. Questa specifica attenzione permette di spostarsi da quell’ordine “sedentario” reso oggigiorno universale dalla generalizzazione dello stato nazione, in cui confini, spazi chiusi, norme territoriali definiscono l’identità delle persone secondo un’equazione che fa concidere lo stato con il territorio e con la popolazione. Si studiano così quelle popolazioni marginali che invece hanno ancora una relazione mobile con il territorio, mettendo anche in luce anche i pregiudizi di cui sono stati fatti oggetto da parte del Sistema degli stati. Sono stati per esempio accusati di improduttività, irrazionalità economica, sovra-sfruttamento delle risorse, con conseguenti politiche coercitive rivolte alla loro sedentarizzazione. Come dice il sociologo algerino Abdemalek Sayad, lo Stato pensa a se stesso attraverso l’immigrazione e il suo controllo, in cui i confini sono strumento di costruzione dell’ordine. L’EMIGRAZIONE E LO STUDIO DEGLI AFRICANI IN CITTA’ (Philip Mayer, Iona mayer) Ci sono numerose aree dell’africa in cui l’emigrazione di lavoro è prevalente. Sono aree in cui la popolazione urbana africana consiste per lo più di africani che trascorrono parte della loro vita in città, alternata a periodi passati nell’interland rurale, e che continuano a considerare la campagna da cui vengono 50 2 Si intende con “ricchezza della sposa” una particolare transazione economica che accompagna il matrimonio. Si tratta del versamento di una compensazione matrimoniale dal gruppo dello sposo a quello della sposa. La “dote” è invece una transazione economica che avviene in direzione opposta. come la loro vera casa. Negli studi si è distinto tra la natura durevole dei sistemi sociali urbani e la natura temporanea o mobile degli emigranti. Si tratta di uno dei maggiori contributi teorici apportati di recente da una serie di studi fatti sulle città rhodesiane della Copperbelt3. Questi lavori dimostrano che i sistemi urbani africani dovrebbero essere studiati di per se stessi indipendentemente dal fatto che i loro membri emigrati siano reclutati da un ambiente rurale. Le ricerche nella Copperbelt hanno rinunciato a mettere in relazione l’africano urbano con il suo retroterra tribale. Il principio operativo per lo studio delle città africane è di ignorare ciò che accade al di fuori. D’altra parte, sembra evidente che in regioni di emigrazione di lavoro ci sia motivo di studiare la stessa emigrazione come un elemento supplementare per lo studio delle città e dei sistemi urbani. Lo studio delle strutture durevoli sembra richiedere l’analisi di questo fattore supplementare se si vuole rendere giustizia alle realtà sociali. Per un antropologo potrebbe essere davvero stimolante ridefinire concetti come personalità sociale, ruolo, status o campo sociale, in modo da porsi in grado di rispondere a una situazione in cui Ego abitualmente va e viene tra la società urbana e la società tribale. A questo fine sembrerebbe necessario mettere a fuoco contemporaneamente entrambe le parti dell’intero campo di attività di Ego, la parte cittadina più quella rurale. Com’è possibile farlo? Non è facile assumere le due parti nel concetto di un’unica struttura sociale. Sarebbe difficile scoprire dei collegamenti logici tra tutti i ruoli tribali e tutti i ruoli urbani. Nessuno si preoccupa di cercare quella connessione logica dei ruoli che sarebbe necessaria per rendere il campo di emigrazione una struttura unitaria. Normalmente si suppone che l’emigrazione in quanto tale riguardi un individuo in due strutture separate, e che le strutture comprese nell’intero campo di emigrazione siano più di due quando è più di una società tribale rurale a mandare emigranti in città. Fino a che noi insistiamo sul fatto che il modello deve essere quello di una struttura sociale organica, lo stesso concetto di una società più ampia quale quella definita dai confini moderni degli stati non necessariamente ci consente di fare a meno del modello pluralistico e di adattare il ruolo di emigrante entro un modello unitario. I flussi migratori normalmente vanno e vengono attraverso i confini degli stati. Sembra allora che non sia ragionevolmente possibile sperare di studiare un campo che comprenda la città più l’hinterland rurale con la sua circolazione personale come una struttura sociale, e che quindi sia giustificato ricercare un metodo alternativo di approccio. Un metodo alternativo pensato qui suggerito sarebbe quello di studiare gli emigranti stessi, tracciandone le reti di relazione dal punto di vista personale o egocentrato, osservando inoltre le loro parti nei vari sistemi strutturali. Il campo migratorio in questo senso non è un’unità strutturale, ma un campo attraversato da persone che emigrano. Il punto di partenza è l’osservazione del fatto che gli individui che svolgono un ruolo nella città A svolgono anche ruoli nelle società tribali B, C o D. Il luogo in cui è più pratico iniziare lo studio è la città per la più densa concentrazione di emigranti rispetto alla parte rurale. Tuttavia quando scegliamo la città dobbiamo stare attenti a non confondere lo studio dell’emigrazione con quello profondamente diverso dello studio dei sistemi sociali localizzati in città, in quanto tali. L’obiettivo dello studio dell’emigrazione richiede che si ponga l’attenzione sui legami extraurbani degli emigranti che risiedono in città. I legami extraurbani sono quei vincoli che durante il periodo di permanenza in città continuano a legare Ego a specifici sistemi tribali fuori dalla città e gli permettono, quando è il momento, di riprendere il suo posto in una specifica comunità tribale. In questo articolo riporteremo i dati emersi nel corso di uno studio sull’emigrazione da noi condotto in una città del sudafrica, east london, nella Provincia del Capo, tra il 1955 e il 1959. Questa città è un’importante polo marittimo industriale con circa 60.000 emigranti di colore per lavoro. MODELLI DI ALTERNANZA E CAMBIAMENTO In alcune ricerche urbane, i doppi ruoli dell’emigrante di lavoro sono stati ricomposti sul piano teorico con l’uso del concetto di alternanza. Così Ego quest’anno svolge ruoli nella società urbana, l’anno prossimo tornerà a svolgerne altri nella società rurale. Oppure quest’alternanza può esserci dal mattino alla sera. In esplicito contrasto a questi modelli di alternanza si è posto un altro tipo di modelli che possiamo chiamare “del cambiamento unidirezionale”. Qui l’idea era che l’emigrante, sotto l’influenza della città, possa gradualmente abbandonare insieme sia i ruoli che le norme tribali. Il concetto alla base era un mutamento 51 3 Gli antropologi che si sono occupati di questi studi appartengono alla scuola di manchester, la cui ricerca si è orientata ai mutamenti socio culturali dell’africa connessi a una forte urbanizzazione e all’spansione dello sfruttamento minerario nell’africa australe. lento che piano piano avveniva. Lo studioso Gluckman, rifiutando invece questa lentezza di mutamento, sostiene che quando un emigrante entra in città egli si detribalizza, ossia è al di fuori della tribù, sebbene non al di fuori dell’influenza della tribù (viceversa chi esce dalla città si deurbanizza). Gluckman quindi postula l’alternanza come un movimento tra due sistemi sociali distinti. Il modello criticato da Gluckman si basava largamente sul concetto di cultura in mutamento. Il movimento ipotizzato era quello che portava da una condizione culturale a un’altra, fino alla completa detribalizzazione. Il modello di alternanza da lui proposto, al contrario, si basava su un’alternanza tra campi sociali: l’uno ogni volta che l’emigrante è in città, e l’altro, ogni volta che è nell’hinterland. Contemporaneamente, i lavori di Epstein e di Mitchell hanno introdotto un modello di alternanza in qualche modo differente, un modello che unisce più strettamente i concetti di relazioni sociali e cultura. Esso postula il coinvolgimento (in città) in differenti insiemi di relazioni che di per sé determinano differenti modelli di comportamento. Viene messo in evidenza il fatto che un individuo, anche quando si trova in città può ancora comportarsi in modo altalenante: può cioè muoversi avanti e indietro tra comportamenti urbani e tribali a seconda della situazione contingente; può seguire volentieri modelli tribali nella sua vita domestica urbana anche se non può farlo sul lavoro per esempio. Questo principio operativo è stato definito “selezione situazionale”: cioè l’individuo seleziona modelli di comportamento appropriati all’insieme delle relazioni in cui la situazione lo impone in un determinato momento. Tuttavia la rappresentazione statica e schizoide della personalità sociale dell’emigrante che ne deriva non ci aiuta molto a capire quel significativo processo di mutamento sociale che può propriamente essere definito processo di urbanizzazione degli emigranti, ossia un cambiamento negli equilibri tra legami intraurbani e legami extraurbani. Si potrebbe dire che una popolazione emigrata in città diventa genuinamente urbana, o si urbanizza effettivamente, quando questo cambiamento si è realizzato e quindi, rispetto ai legami intraurbani quelli extraurbani sono ridotti a una proporzione trascurabile. In sostanza la persona non è più soggetta alle attrazioni dell’interland rurale. In sud africa, dove le città create dagli europei hanno una storia più vecchia delle altre, si dà ormai per scontato che gli abitanti africani di ogni città importante siano totalmente urbanizzati. Nello studio di un qualsiasi tipo di emigranti in città, dunque, un problema cruciale sembrerebbe essere quello di determinare quanto l’attrazione dell’hinterland si indebolisca, ammesso che ciò si verifichi. Nella misura in cui si indebolisce, la personalità sociale dell’emigrante cambia in qualche modo. Se si indebolisce a sufficienza, il suo ruolo come migrante si esaurisce. Tuttavia il concentrarsi sui soli legami intraurbani non può metterci in grado di valutare per induzione quanto l’attrazione dell’interland possa essere indebolita. Il coinvolgimento attivo nei sistemi sociali urbani non è indice di un non coinvolgimento nei sistemi extra urbani. I legami extraurbani possono essere contemporaneamente compresi in quelle stesse azioni che indicano partecipazione a un sistema urbano. Si può assolvere un ruolo urbano e un ruolo rurale passu passu. Per esempio un uomo che è giunto in città per guadagnare denaro per mantenere la sua famiglia residente nell’hinterland rurale quando lavora e assume il suo ruolo urbano, sta anche assolvendo contemporaneamente il ruolo extraurbano di mantenere la sua famiglia. Se stiamo studiando il fenomeno dell’emigrazione contano entrambi i ruoli. DUE SITUAZIONI LOCALI COMPARATE: EAST LONDON E LA COPPERBELT Se ci si propone di esaminare i legami extraurbani dei residenti in città e valutarli in relazione a quelli intraurbani, sembra ragionevolmente certo che i quadri che ne risulteranno per città africane moderne diverse varieranno notevolmente. Può variare la natura e la qualità stessa dei legami di ciascuna categoria. Come nota Mitchell: “l’insieme complessivo degli imperativi esterni è probabilmente unico per ogni città”. Può perciò essere utile comparare east london con il tipo di città della copperbelt studiato da mitchell, gluckman e epstein. Nel caso di east london i legami intraurbani sono molto meno densi, d’altra parte, i legami extraurbani sembrano importi più facilmente all’attenzione di quanto non avvenga nella copperbelt. I LEGAMI INTRAURBANI Gli studi sulla copperbelt dimostrano che in certe interazioni in città i lavoratori attribuiscono ancora primaria importanza alle loro rispettive identità tribali, ma che il lavoro industriale li coinvolge anche in nuovi insiemi di relazioni, in cui alla fine essi diventano consci della rilevanza delle categorie tribali. È sul lavoro dunque che si possono vedere questi africani residenti in città formare associazioni tipicamente 52 La maggior parte della gente caraibica vive in zone rurali e si dedica all’agricoltura. Poiché ho lavorato tra queste persone, divenne indispensabile per me fare ricerca anche riguardo al cacao, allo zucchero, al rum e al caffè. Facendo ricerca nei caraibi in modo approfondito ci si chiede in quali modi, al di là di quelli ovvi, il mondo esterno e quello europeo siano diventati interconnessi o addirittura congiunti; quali forza oltre a quelle militari ed economiche abbiano mantenuto questa intima interdipendenza e come i profitti fluissero nella direzione stabilita da coloro che esercitavano il potere. Porsi queste domande acquista un significato allorchè si vogliano conoscere le storie dei prodotti che le colonie forniscono alle metropoli; nel caso dei caraibi sono stati per lungo tempo spezie, caffè, cacao e soprattutto zucchero e rum; poi anche coloranti come l’indaco, l’anatto e il sommaco, vari amidi farinacei, bauxite, catrame, petrolio, frutti come la banana, l’ananas, la noce di cocco. Il bene richiesto in modo massiccio in tutte le epoche è stato lo zucchero. I caraibi hanno sempre avuto una parte importante nell’economia di questo prodotto, nonostante l’importazione dello zucchero in europa non sia legata solamente a lì. Quando si cerca di mettere in relazione il consumo con la produzione per collegare la colonia con la metropoli ci si scontra con la possibilità che l’una o l’altra sfuggano dalla messa a fuoco. Per tutto il tempo che rimasi a Barrio Jauca lavorai nei campi e svolsi tutta la manutenzione per ottenere il prodotto finito senza macchinari, ma solo manualmente. Naturalmente lo zucchero non era prodotto per i portoricani: essi consumavano soltanto una frazione del prodotto finito. Portorico aveva prodotto canna da zucchero e zucchero per 4 secoli, sempre per consumatori residenti altrove. Se non ci fossero stati consumatori ad attenderla altrove, estensioni di terra, di lavoro, di capitale così ingenti non sarebbero mai state fatte confluire nella canna da zucchero. Eppure ho visto consumare zucchero dappertutto intorno a me. La gente masticava la canna ed era esperta non solo dei tipi che meglio si addicevano a questo consumo, ma anche su come masticarla al meglio per estrarre il liquido verdastro all’interno. La Compagnia prese provvedimenti per evitare che le persone le mangiassero, ma comunque si riusciva sempre a prenderne qualcuna. Era possibile assistere e osservare l’applicazione delle moderne tecniche di polverizzazione, utilizzate per liberare il saccarosio in stato liquido dalle fibre vegetali, la purificazione e la condensazione, il riscaldamento che causava l’evaporazione e, con il successivo raffreddamento una nuova cristallizzazione, e infine lo zucchero marrone centrifugato che a quel punto era spedito a nord per un’ulteriore raffinazione. Non ricordo però di aver mai sentito qualcuno che parlasse del processo di raffinazione o che si domandasse ad alta voce dove mai fossero i consumatori di una quantità di zucchero così grande. Erano a conoscenza del fatto che ci fosse un mercato dello zucchero, ed erano coscienti di come le loro sorti fossero in mano ad altri, potenti e stranieri. A quei tempi non avevo considerato come mai la domanda di zucchero fosse cresciuta sempre di più nel corso dei secoli. Mi ero detta: chi non ama il dolce? Ora mi sembra che la mia mancanza di curiosità fosse ottusa. Fu solo quando cominciai a conoscere meglio la storia caraibica e la relazione tra produttori nelle colonie e banchieri, imprenditori e gruppi diversi di consumatori nella metropoli che cominciai a domandarmi che cosa la domanda realmente fosse, fino a che punto potesse essere considerata come naturale e che cosa si intendesse con parole come gusto, preferenza e addirittura “buono”. Gli abitanti di Barrio Jauca non erano agricoltori per i quali la produzione di beni agricoli costituiva un fatto commerciale, né erano contadini tradizionali che aravano un suolo che fosse loro. Erano braccianti agricoli che non possedevano né la terra, né alcun’altra proprietà produttiva e che dovevano vendere il loro lavoro per mangiare. Erano dei lavoratori salariati che vivevano come operai e lavoravano in una fabbrica costituita dal campo. Mentre il mio interesse per la storia e per i prodotti della regione caraibica cresceva, incominciai a imparare cose riguardanti le piantagioni. Esse furono impiantate per la prima volta nel xvi secolo e furono riempite con schiavi africani per lo più. Nonostante molto fosse cambiato, esse erano ancora lì, quando 30anni fa arrivai a portorico per la prima volta. Insieme alle piantagioni rimanevano anche i discendenti di quegli schiavi, e, come seppi poi, i discendenti dei portoghesi, dei giavesi, dei cinesi e degli indiani che furono portati nella regione sotto contratto per coltivare e macinare la canna. Mi sembrava che il mistero legato a ciò che vedevi, canne che crescevano nei campi e allo stesso tempo zucchero bianco nella mia tazza dovesse anche accompagnare la vista di metallo fuso, o meglio, di minerale ferroso da un lato e un paio di manette o una catena dall’altro. Per impressionante che fosse, il mistero non era semplicemente tecnico, ma si riferiva anche al fatto che persone completamente sconosciute le une alle altre erano state legate attraverso lo spazio e il tempo non solo da connessioni politiche ed economiche, ma anche dalla catena di legami mantenuta dalla loro produzione. Lo zucchero è il simbolo di un processo storico vecchio almeno quanto i 55 tentativi dell’europa di espandersi al di fuori di se stessa alla ricerca di nuovi mondi. Spero di riuscire a spiegare ciò che lo zucchero, un bene così coinvolto in una lunga storia di relazioni mutevoli tra popoli, culture e sostanze, rivela un mondo esteso e complesso. Il come e perché lo zucchero abbia raggiunto una posizione di eccezionale importanza presso le popolazioni europee che un tempo quasi non lo conoscevano, rimangono ancora poco chiari. Quella fonte di dolcezza legò l’europa a diverse regioni coloniali dal xv secolo in poi, mentre il passare dei secoli non faceva altro che sottolineare ancora di più la sua importanza anche quando le politiche cambiavano. Simultaneamente ma nel senso opposto le colonie producevano ciò che quei consumatori consumavano. Il desiderio di sostanze dolci si sviluppò e aumentò costantemente; molti prodotti differenti furono utilizzati per soddisfarlo con il risultato che l’importanza della canna da zucchero variò a seconda dei periodi. Poiché lo zucchero sembra soddisfare un particolare desiderio di dolcezza, è importante capire le condizioni della sua domanda, come essa aumenti e in quali condizioni ciò avvenga. Per rispondere a questi quesiti in un contesto storico specifico prenderò in considerazione la storia dello zucchero in gran bretagna, in modo particolare tra il 1650, quando cominciò a essere un prodotto relativamente comune, e il 1900, quando lo zucchero si era ormai stabilito come parte costante della dieta di ogni famiglia operaia. È possibile mostrare come certi gruppi di persone che inizialmente non conoscevano lo zucchero abbiano gradualmente cominciato a utilizzarlo fino al punto da diventarne consumatori giornalieri in poco tempo. Per la verità vi sono numerose prove che con il passare del tempo molti consumatori di zucchero avrebbero voluto con piacere consumarne più di quanto potessero permettersi, mentre quelli che già lo consumavano regolarmente sarebbero stati disposti a rinunciare a questa abitudine soltanto con riluttanza. È necessario dire quel che basta per cogliere le differenze esistenti tra i tentativi di piantagione sperimentati dagli spagnoli verso la fine del xvi secolo e i risultati ottenuti dagli inglesi nel corso del xvii e xviii secolo. Queste differenze riguardano non solo i cambiamenti delle dimensioni delle piantagioni, ma anche quelle del mercato. Verso il 1680, subito dopo aver sconfitto commercialmente i portoghesi prima e i francesi poi, gli inglesi abbandonarono i mercati continentali per concentrarsi sul mercato interno in espansione. Dopo il 1660 le importazioni inglesi di zucchero superarono sempre le importazioni complessive di tutti gli altri prodotti coloniali. Non ci fu solo una crescita delle piantagioni, ma anche molta varietà nei prodotti stessi. Le piantagioni tuttavia erano imprese ad alto rischio, e per quanto esse potessero generare enormi profitti le bancarotte erano un fatto consueto. Lo zucchero non fu mai un investimento sicuro. I rischi assunti da imprenditori e piantatori singoli in alcune colonie furono però controbilanciati sul lungo periodo dal costante aumento della domanda. Un mercato di massa emerse però soltanto piuttosto tardi. Fino al xviii secolo lo zucchero rimase realmente il monopolio di una minoranza privilegiata e venne utilizzato essenzialmente come una sostanza medicinale, come spezia o elemento decorativo. Dalla metà del xviii in poi, la produzione saccarifera in seno all’economia dell’impero venne considerata man mano più importante dai governanti e dalle classi dirigenti inglesi. Solo apparentemente questa è una contraddizione. Infatti Mentre la produzione diventava economicamente significativa tanto da influenzare decisioni politiche, militari ed economiche il consumo da parte dei potenti diventava man mano meno importante. Le masse popolari inglesi consumavano quantità costantemente maggiori di zucchero e ne desideravano più di quanto potessero permettersi. Così con l’aumento dei consumi, i centri di produzione si assestarono gradualmente sempre più vicine al mercato inglese fino a quando, dopo il 1585 londra divenne il centro di raffinazione più importante d’europa. “non comprare i beni finiti altrove, non vendere nessuno dei tuoi prodotti tropicali altrove, stiva tutto in navi inglesi: per circa due secoli questi comandamenti legarono proprietari di piantagioni e proprietari di manifatture, mercanti e vascelli da guerra, schiavi giamaicani e stivatori di liverpool, monarca e sudditi tra loro. Le ingiunzioni mercantiliste però non servirono sempre gli interessi della stessa classe. se a un certo punto la logica mercantilistica aveva protetto i proprietari di piantagioni chiudendo il mercato a produttori di canna stranieri, in un altro momento essa difese i proprietari delle raffinerie dai produttori stranieri di beni finiti. In generale però si può notare che i duecento anni durante i quali la logica mercantilistica persistette furono segnati dalla graduale decadenza della classe dei piantatori seguita dalla loro improvvisa scalata al potere statale e dalla crescita più o meno stabile dell’importanza degli industriali capitalisti e dei loro interessi in madrepatria. Il mercantilismo giunse definitivamente ai suoi ultimi giorni verso la metà del xix secolo mentre era ormai la logica del libero scambio a definire le dinamiche del commercio dello zucchero. A quei tempi lo zucchero e altri beni di consumo simili erano diventati ormai troppo importanti per permettere ad arcaiche forme di protezionismo di minacciare la futura reperibilità di risorse necessarie alla 56 metropoli. Lo zucchero smise così di essere un bene di lusso e una rarità per diventare la prima merce esotica prodotta in vasta scala per la necessità di una classe di lavoratori proletari. Ma torniamo alle piantagioni. Poiché gran parte del processo di trasformazione industriale della canna avveniva nelle piantagioni è sensato considerarle come una sorta di sintesi tra il campo e la fabbrica. Ossia si associa il bruto lavoro agricolo con una profonda maestria artigianale per produrre il manufatto. La specializzazione di capacità e mansioni, la divisione della manodopera in turni e in squadre distinte per età, sesso e condizioni individuali e l’importanza data alla puntualità e alla disciplina sono caratteri che almeno nel xvi secolo erano più solitamente associati con l’industria che con l’agricoltura, anche se ovviamente non possono essere considerate come le industrie europee o della storia occidentale. Le piantagioni vennero per lo più considerate come il sottoprodotto dello sviluppo industriale europeo che come un elemento integrante del generale processo di sviluppo che portò dalla bottega alla fabbrica. FARE PG 318-319 È necessario capire il fascino particolare dello zucchero. Da un lato diventa indispensabile spiegare come e perché il mercato inglese dello zucchero e di altri simili mercanzie sia cresciuto così rapidamente tra il 1650 e la metà del xix secolo. Dall’altro bisogna descrivere un po' più approfonditamente le relazioni tra questo atipico sistema agricolo delle colonie e il capitalismo. Schiavi e forzati, al contrario di quanto accade a lavoratori liberi, non hanno niente da vendere, nemmeno il proprio lavoro e sono al contrario venduti, comprati e scambiati. Come i proletari però, si contrappongono ai servi feudali perché non hanno proprietà. Il legame tra gli schiavi dei caraibi e i proletari europei era un legame produttivo e quindi anche un legame di consumo, creato da un unico sistema di cui entrambi erano parte. Entrambi producevano e entrambi consumavano poco di ciò che producevano. Entrambi erano espropriati dei loro attrezzi. Secondo alcuni autorevoli studiosi essi formavano un unico gruppo differendo soltanto nel modo in cui partecipavano al sistema internazionale di divisione del lavoro che altri avevano creato per loro. La connessione inglese tra produzione e consumo di zucchero si saldò nel xvii secolo quando la gran bretagna acquisì le barbados, la giamaica e altre “isole dello zucchero”, acquisì nuovi schiavi africani, irruppe nel dominio portoghese del commercio continentale dello zucchero, e cominciò a costruirsi un grosso mercato interno. Con il secolo xviii l’espansione dell’economia d’oltremare cominciò a riflettersi in cambiamenti del consumo inglese. Il significato dello zucchero nella vita dei britannici cambiò radicalmente. Lo zucchero e altre importazioni a esso collegate (rum, melassa, sciroppo) erano tra le più importanti. Lo storico economico inglese d.c. coleman ritiene che addirittura tra il 1650 e il 1750 il consumo individuale di zucchero sia salito più rapidamente di quello del pane, della carne e dei latticini. Nel xix il protezionismo dello zucchero cominciò a cedere il passo al libero scambio. Questi fatti accaddero però soltanto dopo accesissime contese tra i diversi settori tra le classi capitaliste britanniche. La tratta degli schiavi destinata alle colonie britanniche terminò nel 1807; la schiavitù stessa fu abolita tra il 1834 e il 1838. In entrambe le questioni il futuro delle colonie dello zucchero figurava come un problema importante. Per quanto l’industria anglocaraibica continuasse a procurare la maggior parte dello zucchero consumato in gran bretagna il suo dominio si restrinse. Ciò fu dovuto a diversi fattori: in primo luogo il perfezionamento sul continente delle tecniche d’estrazione dello zucchero di barbabietola voluto dalla politica economica di napoleone e l’espansione dell’industria della barbabietola da zucchero in europa, quindi lo sviluppo di nuove colonie saccarifiche all’interno dell’impero britannico, come mauritius o figi, e infine la crescita della produzione altrove (es cuba) resa possibile in gran parte dall’uso defli schiavi. Dopo l’abolizione della schiavitù a cuba, avvenuta nel 1884, tutto lo zucchero caraibico fu prodotto da manodopera proletaria. Sebbene siano stati fatti dei commenti sulla curiosa associazione esistente tra zucchero e schiavitù, si è mostrata scarsa attenzione per i problemi di manodopera creati dalle successive emancipazioni avvenute nella regione caraibica. Quando il mercato mondiale dello zucchero si aprì vi era ancora bisogno di trovare la manodopera, sia per le zone nuove che stavano iniziando a produrre la canna (mauritius, natal, figi), sia per quelle vecchie in cui era stata abolita la schiavitù (giamaica, triniland, ecc). la contesa politica tra le classi capitaliste della metropoli e i piantatori delle colonie fu in parte sedata facendo ricorso a fonti di manodopera esterne, ma politicamente facilmente accessibili. La sconfitta delle politiche protezionistiche che imponevano una tassazione preferenziale per lo zucchero delle indie occidentali fu controbilanciata da una vittoria nel campo dell’importazione di manodopera che fu soggetta a una regolamentazione meno rigida e 57 chiuso, come recinto di ricerca ben determinato, a immagine del biotopo che ha sostituito il giardino zoologico come contesto privilegiato per l’osservazione dei primati. La difficoltà che si ha nel superare il metodo malinowskiano è dovuta al fatto che per gli antropologi africanisti formati da malinowski e in particolare per Nadel, il metodo funzionale corrispondeva al carattere insulare dei trobriandesi, e non a una qualsiasi forzatura antropologica operata dal maestro. D’altronde, alle prese con lo studio della società nupe della nigeria nadel si trovava disarmato. Il regno nupe era al tempo stesso una società troppo complessa per farne l’oggetto di uno studio intensivo e localizzato, e troppo elementare , in quanto non disponeva di archivi scritti, per utilizzarvi il metodo storico. la realtà sociale nupe avrebbe dovuto spingere nadel ad abbandonare il funzionalismo a favore di un altro metodo. Ma i suoi legami sia personali che istituzionali con malinowski lo hanno condotto da un lato a mettere in evidenza l’embricazione del regno nupe in insiemi più vasti e dall’altro, a identificare il concetto di cultura tribale e area culturale. IL RITORNO DEL DIFFUSIONISMO FARE DA PG 334 A 341 8 DIVERSITA’ E RELATIVISMO Può essere utile a questo punto riavvolgere il nastro alle origini della disciplina antropologica. Sicuramente una certa sensibilità antropologica ha già le sue radici in Erodoto, ma l’origine accademicamente riconosciuta della disciplina risale a Tylor alla metà dell’xix. Tylor non solo ha introdotto una nuova definizione di cultura in senso antropologico (vedi cap 1), ma ha espresso la convinzione che l’antropologia potesse offrire all’umanità un contenuto riformista all’umanità su un piano sociopolitico e culturale. Erodoto dal canto suo era convinto che occorresse viaggiare e fare esperienza sul campo per rendere conto del relativismo secondo il quale le manifestazioni culturali hanno validità e significato solo all’interno del loro contesto. In che modo il suo spirito relativistico può connettersi allo spirito riformatore di Tylor? Protagora, amico di Erodoto sosteneva che l’uomo è misura di tutte le cose. Tale affermazione è stata aspramente combattuta con l’accusa di esprimere un relativismo contraddittorio e facilmente confutabile. Protagora ebbe da pericle il compito di redigere la costituzione della città di turii, una colonia panellenica, ovvero pluriculturale, che necessitava di una legislazione interculturale. Protagora non ebbe molta fortuna: condannato per empietà, morì probabilmente in un naufragio. L’auspicio è che l’antropologia culturale possa avere migliore sorte nel favorire democrazie cosmopolite dove necessariamente occorre coniugare i diritti universali dell’uomo con la valorizzazione del pluralismo culturale. LA NUOVA TURII (Leonardo Piasere) “PROTAGORISTI” A protagora era stato affidato il compito di scrivere la costituzione della colonia panellenica di turii. “panellenica” sta a indicare che al suo interno sono fluiti coloni da ogni parte della grecia. Convinto democratico, protagora propugnava una legislazione per turii che oggi potremmo chiamare interculturale, che tenesse in considerazione le leggi delle città di provenienza dei nuovi coloni, nonché alcune della magna grecia. Quello che protagora praticava era un relativismo che non aveva paura di sporcarsi le mani nella politica; anzi, era un relativismo che considerava la partecipazione politica dei singoli alla democrazia come un modo per raggiungere la virtù (aretè). Nel famoso mito di prometeo ed epimeteo, raccontato da protagora a socrate nel “protagora” di platone, ermes viene mandato da zeus a portare il pudore (aidòs) e la giustizia (dìke), dal momento che essi non sanno stare insieme, e, dispersi, rischiano l’estinzione a opera delle belve. E tutti devono averle, non come le arti che vennero distribuite a pochi perché ritenuti sufficienti. Tutti devono avere pudore e giustizia, altrimenti una città non può funzionare. Era un relativismo che per turii, per la prima volta nella storia occidentale, prevedeva la scuola per tutti i figli dei cittadini a spese della città, cioè la scuola pubblica (ma non obbligatoria) anche per chi non ne avesse i mezzi. Protagora, che predicava che ogni uomo è misura di tutte le cose e che ha in sé virtù politica e che 60 per questo è degno di ascolto, e che la stessa virtù politica non deve essere appannaggio di pochi ma è insegnabile e quindi acquisibile, doveva sembrare un pedagogo molto pericoloso, di fronte a chi per esempio sancirà che gli uomini sono schiavi per natura (aristotele). Ovviamente protagora fu accusato di incoerenza. Infatti il relativismo sarebbe coerente solo se tutti gli uomini fossero relativisti. Basta un aristotele per renderlo incoerente. Il problema dell’incoerenza del relativismo è lo stesso dell’incoerenza della democrazia: è giusto ammettere alle elezioni un partito che predica la cancellazione della democrazia e l’avvento del totalitarismo? Se non lo si ammette, non si è democratici, ma se lo si ammette si rischia di perdere la democrazia, com’è successo in germania con hitler. Ma ormai la retorica della democrazia è talmente potente che nessuno si scaglia contro la sua incoerenza logica. La lotta contro il relativismo serve per bloccare nuove forme di democrazia da insituire nel villaggio globale. Lotta a cui partecipano tutti i principali poteri planetari esistenti. La lotta al relativismo serve a bloccare, a tenere inchiodata sul terreno la riflessione sul relativismo stesso, proprio ora che la richiesta di relativismo aumenta per l’aumento della contrazione spaziotemporale dei rapporti umani. Invischiati nella difesa del relativismo nei loro panphlet, gli antropologi si dimenticano però spesso di proporre nuove riflessioni su come sfruttare il relativismo, ossia su come avanzare sulla via della democrazia globale ed essere ancora “protagoristi”. È stato molto difficile nella storia costruire le democrazie monoculturali, ma ora la sfida è costruire democrazie cosmopolite, cioè democrazie costruite anche sulla presa in considerazione dell’esistenza della lotta per l’identità, oltre che di tutto il resto. Riportiamo le parole di Clyde Kluckhohn, uno dei costruttori del concetto di relativismo culturale, il quale nel 1944, in piena guerra al nazifascismo, scriveva: VEDI PG 347-8 il passo. I DIRITTI DELL’UOMO E I DIRITTI DEI POPOLI Il relativismo culturale nasce nell’antropologia moderna con Franz Boas, che nel suo libro “the mind of primitive man”, del 1911, dimostra in modo inconfutabile la falsità delle teorie biologiche sulla razza. (il libro fu uno di quelli messi al rogo dai nazisti). Anche se comunque boas non ha mai usato il termine “relativismo culturale”. Il relativismo culturale balza significativamente sulla scena durante il dibattito che ha circondato la redazione della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quando l’america anthropological association pubblica lo statement of human rights. Nel dibattito che seguì la pubblicazione dello statement sorsero tutte le obiezione di platone e aristotele (voler fare enunciati sulla base di una procedura epistemologica relativistica è contraddittorio e autoconfutante), dall’altro, l’appello degli antropologi americani a non tener conto solo dell’uomo in quanto individuo, ma anche dell’uomo in quanto membro sociale del gruppo di cui fa parte, rischiava di avallare le condizioni di sfruttamento, discriminazione, dominio ecc, che all’interno di un dato gruppo sociale sempre si verificano. Nato come strumento di critica all’etnocentrismo occidentale, il relativismo culturale poteva diventare un’ideologia in sintonia per il mantenimento dei rapporti di dominanza/sottomissione di vario tipo. In ogni caso la riflessione di questi antropologi ha mostrato che una dichiarazione dei diritti dell’uomo non può trascendere, per quanto universale, dalla tensione insita nel fatto che un individuo vive sempre in un gruppo sociale. Hannah Arendt terminò il manoscritto “le origini del totalitarismo” nel 1949, e lo pubblicò nel 1951. Il famoso capitolo 9 di quel libro è intitolato “il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani”. FARE PG 350-351 Tutto questo movimento raggiunge il suo apice il 2 novembre 2001, quando a parigi la conferenza generale dell’unesco proclama la dichiarazine universale sulla diversità culturale, la quale stabilisce che la diversità culturale è “il patrimonio comune dell’umanità” (art. 1) e che il pluralismo culturale ne è la sua espressione politica (art 2). La difesa della diversità culturale diventa allora un imperativo etico (art 4) e ogni persona ha il diritto a un’educazione e una formazione di qualità che rispettino pienamente la sua identità culturale”. Tutte le carte e dichiarazioni regionali fanno uno sforzo notevole per dialogare con la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Diverso appare l’approccio della dichiarazione universale sulla diversità culturale, che fa appello ai diritti umani come garanzia della diversità culturale (art 4); sulla base dell’articolo 27 comma 1 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo4, sancisce che “ogni persona deve poter partecipare alla vita 61 4 Che sancisce che “ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti, di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici” culturale di sua scelta e esercitare le sue attività culturali nei limiti imposti dal rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Nella dichiarazione dei diritti di parigi i diritti dell’uomo non sono un limite oltre il quale la presenza dei popoli non deve andare, ma la diversità culturale entra a far parte dei diritti dell’uomo e “questa diversità si incarna nell’unicità e nella pluralità delle identità dei gruppi e delle società che costituiscono l’umanità” (art 1). E per prevenire un uso perverso del riconoscimento delle diversità, la dichiarazione ora sancisce che “nessuno può appellarsi alla diversità culturale per violare i diritti umani garantiti dal diritto internazionale, né per limitarne la portata (art. 4). Fra le linee d’azione che l’unesco si dà per la realizzazione della Dichiarazione, vi è quello di “avanzare ulteriormente il cammino verso la comprensione e la chiarificazione del contenuto dei diritti culturali come parte integrante dei diritti umani” (punto 4). Oggi è superato il concetto di cultura di stampo essenzialista, della cultura-cassetta con i bordi precisamente definiti, la cultura “compatta”, come la chiama Remotti. Il concetto di cultura-essenza è ampiamente superato dalla dichiarazione sulla diversità culturale, laddove afferma che “la creazione si basa sulle radici della tradizione culturale, ma si sviluppa in contatto con le altre culture” (art 7) dando un’enfasi fondamentale al dialogo interculturale nella creazione stessa delle culture. DIFFERENZA E GERARCHIA Ma un’antropologia che studia le differenze senza tenere conto dei rapporti reali di potere in cui sono immerse le differenze stesse sarebbe un’antropologia che si autoamputa. Infatti la dichiarazione di parigi postula una diversità “neutra”, tipica di una dichiarazione universale, ma l’affermazione di una diversità neutra è impossibile da realizzare in un mondo sociale che spontaneamente gerarchizza la differenza (cit. Simonetta Tabboni in uno studio sull’ambivalenza del rapporto tra differenza e uguaglianza). La differenza, secondo la studiosa, si accompagna costantemente a un’affermazione gerarchica, dal momento che gli uomini non possono pensare la differenza senza associarle un giudizio di superiorità o inferiorità. Come fare allora per riconoscere la differenza neutra, si chiede la Tabboni, e metterla in relazione al diritto di uguaglianza? A suo avviso, i due approcci oggi prevalenti, quello della politica redistributiva e quello della politica del riconoscimento sono per molti versi contraddittori: “le politiche di redistribuzione hanno come scopo l’abolizione delle disuguaglianze che sono la base delle differenze, mentre le politiche del riconoscimento hanno come scopo di sottolineare e assicurare la loro sopravvivenza, che sarebbe eliminata da politiche di ridistribuzione veramente efficaci”. Ma pur contraddittori questi approcci sono entrambi indispensabili, specie ai gruppi più svantaggiati, “per rendere meno gravi le peggiori situaizioni attuali di ingiustizia”. Per cui l’autrice postula che non vi è una soluzione al problema e che bisogna accettare la “normale” ambivalenza tra uguaglianza e differenza, bisogna mantenere una tensione, insita nello spirito democratico, che rifugga da scelte univoche perché “la ricerca della sola uguaglianza abolisce la differenza e le concezioni differenzialiste rinforzano la diseguaglianza”. PROSPETTIVISMO Quindi come articoliamo la dimensione di questi due rapporti di forza nella discussione sul relativismo culturale? Qui ci può venire in aiuto la discussione che eduardo viveiros de castro intesse in una serie di studi di quello che lui chiama il multiculturalismo amerindiano. In molte culture amazzoniche gli uomini e gli animali sono pensati condividere una stessa essenza umana rivestita da corpi diversi. Gli esseri non umani sono quindi persone, per cui quelli che per noi sarebbero dei rapporti tra specie, sono di fatto delle relazioni sociali (vedere testo pg 356). Possiamo notare che la traduzione della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nelle cosmologie amazzoniche suona come una dichiarazione universale dei diritti degli esseri viventi, visto che tutti hanno un’essenza umana. Tutte queste cose a prima vista possono essere portate come esempio di una cosmologia del tutto relativista, a Viveiros de Castro non è d’accordo. Il relativismo è quella teoria che sostiene la “molteplicità di rappresentazioni” circa un unico mondo, ma è proprio questo che in amazzonia non succede. I non umani infatti vedono le cose nello stesso modo delle persone, ma le cose che vedono sono differenti: quello che per noi è sangue per il giaguaro è birra di manioca; quella che per noi è una pozza di fango per i tapiri è una grande casa cerimoniale. Questo non è relativismo perché pensano allo stesso modo, ma avendo un corpo diverso, vedono cose diverse. Non siamo in presenza di una molteplicità di rappresentazioni, ma di una molteplicità di mondi concepiti a partire da un punto di vista, cioè un corpo. Si tratta di prospettivismo. Viveiros de castro costruisce il prospettivismo per inversione rispetto al relativismo; il primo sarebbe caratteristico del multinaturalismo amerindiano, il secondo del multiculturalismo 62
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved