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America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo secolo, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Il libro raccogli una ventina di saggi dedicati al cinema americano contemporaneo del nuovo secolo, in riferimento al contesto sociale e storico, ai generi, alle forme narrative e alla televisione.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 27/01/2020

marco_massironi
marco_massironi 🇮🇹

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Scarica America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo secolo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! In questo libro vengono raccolti differenti saggi con riferimento a diversi film a partire dagli anni 2000, una sorta di mappa in grado di raccontare alcuni aspetti dell’identità americana all’alba del nuovo millennio. La global Hollywood e la global America che fanno da sfondo ai testi e ai contesti indicati rilanciano l’ideologia della Nazione americana dopo il trauma dell’11 settembre che viene subito a segnare questi anni, un trauma che si è subito posto come major event, sia in senso fattuale che simbolico. - PRIMA SEZIONE: Cinema, storia, politica e società, la più nutrita, esplicitamente incentrata sul “contesto”, affronta in vario modo la questione dell’americanness, a partire dai film (e dalle immagini) più direttamente collegati al trauma dell’11 settembre o espressamente mirati a raccontare – significativamente oggi – la storia americana pregressa o ad affrontare questioni di identità sessuale e sociale. - SECONDA SEZIONE: Scritture indipendenti, neoautoriali, indie, affronta da un lato le modalità di scrittura di personalità d’autore, come Wes Anderson o Tarantino evidenziando per esempio in quest’ultimo una dimensione specificamente politica e i caratteri propri di un American director; dall’altro le dinamiche evolutive del concetto stesso di indipendenza e di indie riconoscendo in questo cinema le coordinate di uno sguardo preciso sulla nuova realtà statunitense, come è il caso del cinema di Jason Reitman. La sezione Volti è dedicata al compianto Philip Seymour Hoffman attraverso l’analisi del suo stile di recitazione, ma anche del personaggio/dei personaggi che ha interpretato, cogliendo appieno la vulnerabilità dell’identità americana contemporanea, attraverso una serie di ritratti che toccano diversi momenti e modi di essere americani. - TERZA SEZIONE: Una sezione ulteriore è dedicata a Generi, neo generi, remake, laddove il riferimento alla comicità demenziale viene sviluppato in un’analisi sottile della dimensione di decostruzione della vita sociale operata dalle dinamiche narrative del genere, mentre sul neonoir e sul remake horror vengono condotte riflessioni volte a cogliere le condizioni attuali del paradigma crimine-contesto sociale/città e dell’American Nightmare. - QUARTA SEZIONE: Blockbuster, supereroi, convergenze analizza l’evento mediale della Trilogia del Signore degli Anelli e il caso di Te Dark Night, delineando non soltanto le strategie produttive convergenti alla base dei casi in questione, ma anche evocandone lo sfondo tematico e ideologico. - QUINTA SEZIONE: Narrazioni seriali. Da un lato l’analisi si rivolge più complessivamente allo scenario contemporaneo della serialità televisiva, mostrando come i modelli economici, le strategie di mercato, le policies influenzino non soltanto la programmazione dei palinsensti, ma anche contenuti, forme stilistiche ecc… dall’altro viene affrontato come case study il cult Mad Men, rintracciandovi, insieme alle coordinate produttive, narrative e stilistiche, tematiche legate a precise questioni sociali (come abusi sessuali, omofobia, razzismo, alcolismo), colte attraverso una lente cinica e politically incorrect. 1 RADIOGRAFIA DELL’11 SETTEMBRE: la 25 ora di Spike Lee Nel dicembre del 2002, quando 25th Hour (La 25ª ora) di Spike Lee fece le sue prime apparizioni in un numero limitato di sale statunitensi, la maggior parte delle recensioni si concentrò su una breve sequenza. I due migliori amici di Monty, il protagonista del film, che sta vivendo la sua ultima giornata di libertà prima di essere rinchiuso in prigione per spaccio di droga, stanno discutendo sul futuro del comune amico di fronte a una finestra che si affaccia sul gigantesco buco di Ground Zero. Uno dei due, Frank, è quasi di spalle, simbolo dell’atteggiamento di molti abitanti di New York, e non solo, che non vogliono vedere il segno tangibile della tragedia. Più di un anno era passato dal crollo delle Torri Gemelle, da quell’11 settembre che aveva cambiato non solo la città di New York ma l’intero mondo occidentale. Fu il primo Spike Lee a mostrare in un prodotto di fiction la più diretta conseguenza dell’attentato. Nonostante, per questo e per diversi altri momenti della pellicola, venga considerato un titolo fondamentale per la rappresentazione del post 11 settembre al cinema, La 25ª ora nasce da un romanzo omonimo, di David Benioff, che è, paradossalmente, antecedente agli attentati e punta a rappresentare i bassifondi di New York con i suoi spacciatori e la sua microcriminalità. Spike Lee venne coinvolto soltanto in seconda battuta nella lavorazione del film: il primo a “pensarlo” per il cinema fu Tobey Maguire che ne opzionò i diritti volendone interpretare il protagonista. Rinunciò al progetto quando fu scelto per il ruolo di Peter Parker in Spider-Man (id., 2002) di Sam Raimi. Spike Lee fece una propria radiografia di New York post-attentato, Lo sguardo dello spacciatore Monty, interpretato da un eccellente Edward Norton, che ha una sola giornata per dare l’ultimo addio alla comunità, si sovrappone così a quello del regista che saluta e omaggia la sua New York sventrata, che mai tornerà a essere quella di prima. La 25ª ora, che dà il titolo al film, è quella della resa dei conti, non solo per lo spacciatore, ma anche per i suoi clienti, per l’amico broker (Frank, interpretato da Barry Pepper) e per l’amico professore (Jacob, un intenso, come sempre, Philip Seymour Hoffman), per la fidanzata e addirittura per il padre, che ha approfittato di lui per riuscire a mantenere che saranno il numero diciotto e diciannove delle venti persone estratte vive dalle macerie. i due film di Spike Lee. In La 25ª ora, il vuoto esistenziale degli Stati Uniti è simboleggiato da Ground Zero: fin dai primi fotogrammi lo spettro dell’11 settembre aleggia sul film, anche se non in maniera esplicita. Così in Inside Man, dove il regista decentra la localizzazione degli ambienti a noi noti, rendendo impossibile l’identificazione dei personaggi, creando un’ambiguità tra innocenti e colpevoli e trasmettendo quel senso di terrore nei confronti di un nemico senza volto. GROUND ZERO. L’AMERICA DI SCORSESE IN THE DEPARTED Altro tema portante della cinematografia del nuovo secolo è la violenza, prendiamo come caso quello “The Departed” (2006) il tutto è condito spesso di una violenza cieca e ingiustificata perpetrata però, a differenza della tradizione, anche dai buoni che rischiano di essere travolti nel vortice della brutalità perdendo così sicurezza e autodefinizione. In The Departed – Il bene e il male molti elementi riportano ai film precedenti di Scorsese, così come molti elementi, segnali e indizi riportano ad altri momenti della Storia americana es: la scelta della colonna sonora Gimme Shelter, una sorta di canzone della fine del mondo, nel senso di apocalisse legato all’era del Vietnam. L’universo concentrazionario del film, in cui si fronteggiano forze dell’ordine e criminali, con armi, obiettivi e modalità tanto interscambiabili quanto la loro condizione etica, costituisce una rappresentazione estrema, esacerbata, urlata, di una nazione giunta a una sorta di ground zero della moralità. l’ambientazione bostoniana (e south-bostoniana, in particolare), è location ricorrente nel cinema (come nella televisione e nella popular culture) post 11 settembre, laddove l’Irish- americanness dei suoi abitanti diventa elemento cruciale e metonimico per rappresentare la crisi dell’americanness tutta, in particolare nel crime o gangster movie, anche d’autore, come è il caso per esempio di Mystic River (Clint Eastwood, 2003), oltreché di The Departed. Nei dialoghi all’interno del film è spesso sottolineato l’ideale di nazione “in this country”, una guerra che si combatte non soltanto con l’uso di armi ma anche l’uso di computer e cellulari creano e distruggono contatti e persone con semplici comandi. il film è davvero un ritratto dell’America contemporanea, post 11 settembre. Se è vero che Scorsese non ha fatto un film esplicitamente sull’11 settembre, è pur vero che il clima di catastrofe morale che impregna The Departed parte da lì, come molti critici hanno sottolineato, ma anche che arriva lì. La caduta di Queenam, dal tetto di un grattacielo, è memore dell’immagine in tutti impressa delle riprese del crollo delle torri, quando, dopo le fiamme, si vede un uomo che cade. L’impossibilità di distinguere, appunto, tra il Bene e il Male, tra le forze dell’ordine e quelle del disordine, tra eroe positivo e eroe negativo, l’attrazione e il risucchio fatale di un universo nell’altro, giungono ad annientare ogni possibile orizzonte morale. Ciascun personaggio risulta parimenti dannato, fin dall’inizio. Il parallelismo evidente dei due personaggi dei poliziotti rivali, Sullivan (Matt Damon) e Costigan (Leonardo di Caprio), li rende l’uno il doppio dell’altro (a cominciare dalla somiglianza fisica, per proseguire con la condivisione della stessa donna, fino al rincorrersi e raggiungersi, con il ricongiungimento finale nella morte), facendo esplicitamente riferimento alla scissione di un unico soggetto morale dato come perduto, dannato. La frantumazione del senso morale, quella stessa del soggetto perso negli inferi della sua dannazione emerge dalla regia scorsesiana, dalla sua scrittura, dal suo stile. I telefoni sono gadget simbolici del mondo contemporaneo su cui si costruisce il montaggio al punto che il film può essere definito a mobile-phone drama. Il ricorso a strutture forti della narrazione classica, come il montaggio alternato, perdono qualsiasi funzione costruttiva rispetto allo spazio-tempo del racconto, divenendo figure dell’instabilità, della distruzione. TORRI CHE CROLLANO, GUERRA AL TERRORE E IMMAGINI REDACTED. RIFLESSIONI SULL’IMMAGINARIO BELLICO DOPO L’11 SETTEMBRE. L’11 settembre si può considerare il primo media event ad accadere in un paese mediale rinnovato, La Guerra del Golfo (1990-1991) con la sua peculiare trattazione mediatica, fondata sui saldi principi dell’onnipresenza e dell’onnipotenza della televisione, viene appunto indicata come la prima effettiva Tv War della Storia. Alla Guerra d’Iraq, la guerra in quest’ottica maggiormente significativa, è stata riservata non a caso l’emblematica etichetta di YouTube War30, che, seppur tramite una formula semplificatoria, tende a rimarcare come i flussi comunicativi che la caratterizzano non siano più identificabili con vettori che trasportano materiali prodotti in modo esclusivo dalle fonti televisive, poiché implementati da una vasta gamma di differenti affluenti mediali, di cui la piattaforma di file-sharing è certo uno di quelli dalla portata più energica. Redacted è un film diretto e scritto da Brian De Palma incentrato sulla guerra in Iraq. La vicenda su cui il film si concentra è relativa a un fatto di cronaca realmente accaduto nel 2006 e orbita attorno ad alcuni militari statunitensi, di stanza presso un checkpoint a Samarra, in Iraq, che violentano a turno una quindicenne e, dopo aver ucciso lei e i componenti della sua famiglia, ne bruciano il corpo. Com’è noto, ciò che rende il film un inesauribile spunto di riflessione e, al contempo, ciò che ha probabilmente contribuito a renderlo piuttosto inadatto alla circolazione in sala, sono principalmente le sue modalità di rappresentazione: Redacted è un film di finzione, pensato però come un «potpourri (insieme variegato di soggetti) iconico», un «involucro mediale» costituito dal montaggio di immagini eterogenee, cioè prodotte tramite differenti dispositivi tecnici e riconducibili a molteplici fonti audiovisive. LE due guerre combattutute dagli Stati Uniti in due decadi differenti mostrano anche l’evoluzione mediatica, nella Guerra del Golfo avevamo il punto di vista quasi unico della CNN, dieci anni dopo si assiste a una pluralizzazione dei punti di vista, cambiando anche la percezione dell’accaduto da parte degli spettatori. Nell’inventario mediale di Redacted, lo si è notato in precedenza, sono presenti molti contributi che afferiscono a un livello amatoriale della produzione di immagini: novità a suo modo epocale, tratto distintivo della Guerra d’Iraq rispetto ai conflitti che hanno avuto luogo prima dell’11 settembre. Testimonianza parola chiave tra soggetti e media FARE LA DIFFERENZA: ZERO DARK THIRTY Il paradigma visivo della società digitale del networking, dell’appiattimento, della socialità mediatica, dell’amatoriale e della frantumazione dello spazio e del tempo (compreso quello della contemplazione: siamo, appunto, nel flusso) sembra definire una figura di spettatore poco incline a riconoscere nella rappresentazione cinematografica un luogo di possibilità rispetto al racconto del reale: è come se nel corso degli ultimi quindici anni, dopo la stagione postmoderna, la digitalizzazione avesse definitivamente bruciato (dentro il mito di un realismo ingenuo) un certo paradigma rappresentazionale, e si fosse imposto una specie di platonismo selettivo, ponendo fine a quel rapporto di “fiducia” (e, sull’asse dello spettatore, di credenza) che, lungo il Novecento, ha garantito certe possibilità “realiste” nel rapporto tra cinema, spettatore e società. Zero Dark Thirty (2012) Kathryn Bigelow, caratterizzato da una tensione costante tra documento e rappresentazione, tra la consapevolezza dell’alterità irriducibile del mondo reale e la volontà di dare testimonianza dei fatti, mediatici e non, che vi accadono. In particolare, Zero Dark Tirty offre l’occasione per una riflessione in merito al «tratto elaborativo dell’immagine, ciò che ne riqualifica la prestazione referenziale», vale a dire la capacità di «intercettare il mondo, di esplorarlo e di ridescriverlo»12 sulla base di un principio della differenza tra modelli, regimi, stili e tecnologie della rappresentazione. Sullo sfondo dello scenario mediale contemporaneo, alimentato da convergenze e indifferenze, il cinema può farsi valere come un’alternativa preziosa, anche se al costo di riaffermare ogni volta il proprio modo specifico di pensare la realtà attraverso l’immagine. Il cinema che deve imporsi per differenza, riafferma del cinema alcune facoltà specifiche come quella di ordinare scelta di utilizzare solo materiale d’archivio va proprio in questa direzione: «abbiamo capito che nessuno, per quanto bravo, sarebbe stato credibile nel ruolo di McCarthy. I SEGRETI DI BROCKEBACK MOUNTAIN, L’UOMO, IL MITO Brokeback Mountain (Brokeback Mountain) è un film del 2005 diretto da Ang Lee con Heath Ledger e Jake Gyllenhaal. Racconta la drammatica passione amorosa tra due cowboy ed è ambientato nelle zone rurali e montuose del Wyoming. Nonostante fu accolto da critiche estremamente positive, fu oggetto di critiche perché il film si allontanava parecchio dai canoni mainstream e della Hollywood classica tanto che il progetto fu offerto a molti registi che rifiutarono come per esempio Pedro Almodovar. Il progetto quindi rischiava di bloccarsi, ma alla fine l'intuizione di affidare la storia alla sensibilità di un regista dalla versatilità artistica e adattabilità culturale si rivelerà vincente: fu chiamato Ang Lee, che accettò praticamente subito tanto da ricevere l’oscar nel 2006. LINCOLN, GRIFFITH E NOI, OVVERO: RINASCITA DI UNA NAZIONE? In un articolo per il «New York Times» intitolato Movies in the Age of Obama, Anthony Oliver Scott tenta una mappatura sintetica del cinema nato sulla spinta dell’elezione del quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. La riflessione di Scott, non priva di ovvie semplificazioni ma affascinante, parte dall’idea che l’elezione di Obama sia stata resa possibile non solo dai suggestivi discorsi del candidato o da un’innovativa campagna elettorale, ma anche da un immaginario sedimentato attraverso il cinema. Prese per buone queste premesse, è evidente come, a partire dalla comparsa di Obama sulla scena politica nazionale e internazionale, non si possa non osservare anche un’influenza in senso opposto, che al cinema restituisce ciò che la politica avrebbe attinto da quell’immaginario nella costruzione di un suo leader. Se si guarda agli otto anni precedenti, quelli della presidenza di George W. Bush, non si potrà non notare come il cinema americano ne sia uscito fortemente condizionato. A rendere il cinema hollywoodiano degli anni Zero innegabilmente legato a George W. Bush è però la coincidenza del mandato con l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 e le sue conseguenze sulla politica interna ed estera del paese. Molti film americani di questi ultimi anni, invece, si vorrebbero strettamente influenzati dalla figura di Obama nonostante anche questa presidenza coincida a grandi linee con una circostanza ben precisa che il cinema ha incominciato a trattare in maniera sempre più dettagliata, ovvero la Grande Recessione (crisi finanziaria) cominciata nel 2008. Se c’è un elemento che caratterizza il cinema dell’era Obama, dicevamo all’inizio, non è il racconto della crisi economica. Evidentemente, l’impatto maggiore che l’investitura del primo afroamericano alla guida degli Stati Uniti ha avuto su Hollywood come sul mondo è stato rispetto alle questioni etniche, sono molti i film che trattano della tratta degli schiavi neri es: 12 anni schiavo di Steve Mcqueen del 2012. Tarantino crea invece un discrimine troppo ampio tra il racconto finzionale e il reale svolgersi degli eventi, al punto che lo spettatore non solo non potrà sostituire, a livello di immaginario, come spesso accade, la versione cinematografica (o in generale narrativa) di un fatto con la ricostruzione documentata del fatto stesso (si pensi, tra i molti esempi che si possono fare, proprio ai citati film storici di Spielberg degli anni Novanta), ma sarà costretto a prendere atto della differenza tra l’opera filmica e ciò che egli conosce della fine di Hitler e della Seconda guerra mondiale, in nessun caso compatibile con ciò che Tarantino propone es: Bastardi senza gloria 2009 con cui apre una serie di film di carattere storico. Nel caso di Django Unchained, ambientato pochi anni prima lo scoppio della Guerra di Secessione, le ambizioni di Tarantino sono ancora maggiori: se apparentemente il film è edificato ancora su quel polimorfismo frammentato tipicamente postmoderno, contiene in sé momenti che vanno oltre la rivisitazione ironica e non innocente del passato e si propongono come gesti radicali, che il passato lo sfigurano apertamente18. Nella scena in cui i cavalieri del Klan circondano il carro del dottor Schultz, per esempio, la citazione da Te Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915) è palese. Un discorso esplicitamente politico che si intreccia a una riflessione profonda sul dispositivo e sul linguaggio è anche quello di Clint Eastwood, che a partire dagli anni del secondo mandato di Bush realizza alcuni film che guardano apertamente a immaginari consolidati, a simboli, icone del Novecento es: Invictus del 2009 – storia di Nelson Mandela. LINCOLN, OVVERO: “HOW HE BELONGS TO THE AGES” La figura di Lincoln negli anni della presidenza di Obama è diventata fondamentale nonché essere stata figura portante del cinema delle origini a inizio 900 es: Nascita di una nazione, Lincoln cavaliere della libertà di Griffith del 1930 ecc… - Lincoln 2012 di Spielberg, la pellicola racconta gli ultimi mesi di vita del presidente. Lincoln è figura quasi astratta, scopertamente simbolica Al contempo, lo sforzo mimetico richiesto da Spielberg agli attori assomiglia a quello di un genere che negli anni Duemila ha riscontrato molta fortuna, quello del biopic. L’assurdità di questo mimetismo, che pure si riscontra senza difficoltà nel lavoro meticoloso degli interpreti, si scontra con un problema ovvio: quello di non avere la possibilità di studiare i personaggi se non attraverso qualche fotografia e testimonianze d’epoca. - Munich 2015 di Spielberg se il primo film citato possiamo die che sia specchio dell’era Obama, questo è lo specchio dell’era Bush, constatazione diretta del crollo di molte certezze. Munich è evidentemente un film sull’America frastornata dei primi anni Duemila, ma è anche un film su un cinema che deve guardare alle proprie consuetudini per scoprirle se non ambigue, per lo meno inadatte a raccontare il presente. La realtà non viene mostrata direttamente ma viene immaginata dal protagonista, Il tanto celebrato (soprattutto a partire da Saving Private Ryan [Salvate il soldato Ryan, 1998] e dalla celebre macrosequenza iniziale) realismo spielberghiano qui si arresta di fronte alla parzialità degli strumenti d’informazione e poi dei servizi segreti. con Munich sembra di essere vicini a un modernismo di stampo hitchcockiano (Hitchcock è un punto di riferimento, secondo Menarini, anche dell’ultimo Tarantino), a un racconto che nega al protagonista l’accesso alla verità. Nel finale di Lincoln, altro film profondamente oscuro (la fotografia è di Janusz Kaminski), il presidente, ormai ucciso, viene riportato in vita da un flashback che si sovrappone all’immagine di una fiammella attraverso una dissolvenza incrociata. Il presidente porta trasparenza, illumina. Restituisce luminosità non solo al film stesso, ma anche a tutto il cinema di Spielberg degli anni Duemila, segnato da una «condivisibile e pessimista visione politica del mondo dopo l’11 settembre». In conclusione, come Lincoln guarda in maniera non scontata e contraddittoria a un grande padre della Nazione, così molto cinema americano d’autore, più o meno esplicitamente politico, oggi sembra guardare ai propri padri (Griffith, Ford, Welles, Hitchcock), li interroga, li rilegge in maniera critica e lontana dal manierismo strumentale e dall’ammiccamento cinefilo del postmoderno. 2 DJANGO UNCHAINED: TARANTINO COME AMERICAN DIRECTOR Django Unchained (id., 2012), aiuta forse a ricollocarlo dove serve, nel novero dei grandi American director della storia del cinema. Il western appare come il genere hanno avuto un peso e una visibilità che i loro colleghi dei decenni precedenti difficilmente hanno raggiunto. Il ruolo dello sceneggiatore negli anni ha assunto grande importanza tanto che molti registi affermati si sono fatti le ossa proprio come sceneggiatori, soprattutto oggi dove talvolta le produzioni in serie prevalgono sui film il ruolo dello sceneggiatore è fondamentale. Il caso più eclatante è ovviamente quello di Robert McKee, uno dei più famosi guru dello scriptwriting americano, che gira il mondo con un fitto programma di conferenze e seminari, seguito e osannato come un santone di una chiesa New Age. na figura centrale è senza dubbio quella di Wes Anderson, innanzitutto regista, ma regista-sceneggiatore, che dimostra sempre un notevole interesse verso i problemi della costruzione del racconto. Ed è proprio su un film scritto e diretto da Anderson che intendo concentrarmi ora. il regista lavora spesso con personaggi in miniatura, non reali e privi di vita contro diciamo a un gusto contemporaneo che predilige personaggi veri che si evolvono nel corso della vicenda. Ciò che ora mi interessa è piuttosto l’idea dell’importanza che, nel cinema di Wes Anderson, riveste la riproduzione in scala, a fine ludico, del mondo reale es: nel film Bottle Rocket del 1996 c’è una scena significativa, uno dei personaggi sta svaligiando un alloggio e mentre si muove rapido di qua e di là si ferma a osservare un gruppo di soldatini su una mensola, è un passaggio che contiene molto del futuro del cinema di Wes Anderson, l’ironia spiazzante, L’impossibilità di tracciare un confine netto tra infanzia ed età adulta. I personaggi caratterizzati da tic ossessivo- compulsivi e/o manie nerd. L’autobiografismo e la passione per il vintage anni Settanta, il decennio in cui Anderson è cresciuto. E c’è, appunto, il fascino della miniaturizzazione del mondo. I modellini ritornano in diversi dei film successivi del regista. Ciò che sto cercando di dire è che l’approdo di Anderson all’animazione, con Fantastic Mr. Fox (id., 2009), e specificamente alla stop-motion animation, ossia l’animazione di pupazzi tridimensionali disposti all’interno di un plastico, è stato un passaggio naturale, preparato dalle “miniature” dei film precedenti. Non per niente, in Fantastic Mr. Fox, nella stanza di Ash, il figlio di Mr. Fox, c’è un plastico per il trenino elettrico, che la giovane volpe e suo cugino Kristofferson guardano girare. Successivamente, per ben quattro volte nel corso del film, un treno passa sullo sfondo, a sottolineare in maniera esplicita il fatto che il profilmico è fatto di modellini e diorami. In Fantastic Mr. Fox troviamo gli stessi dialoghi elaborati, sempre sull’orlo del surreale, dei lungometraggi in live action di Anderson. I temi nei suoi film si ripetono spesso, come per esempio il rapporto tra genitori e figli e la presenza di un adolescente irrequieto. La sceneggiatura – lo abbiamo già ricordato – è tratta da un libro di Roald Dahl. Ma Anderson fa propria la storia di partenza, stravolgendola e trasformandola. Se Mr. Fox è stretto nella scelta tra essere selvaggio ed essere civile, non è solo perché è una volpe che porta la cravatta e firma una rubrica sul quotidiano del bosco, ma anche perché è americano. La contrapposizione tra il territorio tame (“addomesticato”, “civilizzato”) e quello wild (“selvaggio”), tra la società dei bianchi e il mondo primigenio al di là della Frontiera, infatti, rappresenta uno degli architravi della cultura americana. Il film, dunque, è incentrato su un eroe costruito secondo i dettami dei manuali di sceneggiatura, un eroe che deve cambiare, che ha di fronte a sé una scelta difficile: essere un animale selvaggio oppure un buon padre di famiglia. Se osserviamo l’organizzazione del racconto, notiamo che si presenta quale esempio cristallino di quella che Robert McKee chiama l’architrama (in sostanza, il racconto classico), con un’armonica orchestrazione di punti di svolta, atti, e incontri tra trama principale e subplot. Peraltro, così come fonde, in un unico universo, America ed Europa, Anderson fa anche coabitare epoche differenti. AMERICAN INDIE: IL CASO DI JASON REITMAN INTORNO A JUNO E UP IN THE AIR Il termine indie ha subito trasformazioni rilevanti che nel corso di alcuni anni ne hanno mutato via via il significato. Da pura contrazione di “independent” (e quindi indicatore di una qualsiasi espressione testuale, sia essa cinematografica, musicale o letteraria che agisce fuori da un sistema produttivo commerciale) a parola in grado di indicare, a seconda di chi la usa, un genere, uno stile o un più generale contesto che non si oppone più al mainstream, ma ne fa parte a vari livelli. Possiamo distinguere varie fasi di questa evoluzione: - La prima, che coincide principalmente con gli anni Ottanta, interessa il cinema indipendente come oggetto “di qualità” che agisce effettivamente fuori dai contesti produttivi e distributivi tradizionali e che comprende nei suoi esponenti di punta personaggi come Jim Jarmusch. Stile minimale e in chiaro dialogo con il cinema d’autore europeo e asiatico, narrazione ellittica ed episodica, lontana dalla ricerca della trasparenza, e interesse a documentare realtà e contesti non raccontati dal cinema mainstream nonostante siano già presenti casi in cui i confini non sono così tracciabili, come nel cinema dei fratelli Coen. - La seconda, quella in cui il concetto di indipendenza si complica, comincia simbolicamente alla fine degli anni Ottanta, con il grande successo di pubblico e critica – la vittoria della Palma d’Oro al festival del cinema di Cannes – di Sex, Lies, and Videotape (Sesso, bugie e vidotape, Steven Soderbergh, 1989). Il Sundance Festival nello Utah diventa per eccellenza il momento in cui il cinema indie riesce a trovare una vetrina espositiva a livello internazionale. Le grandi case di distribuzioni incominciano a finanziare, riuscendo a trovare posto anche nel mainstream grazie a successi come Pulp Fiction (1994). - La terza, ancora in atto, è identificabile con l’emergere dell’indiewood, un termine che attraversa a varie riprese tutti gli anni Novanta5 e che vuole indicare un “luogo” ormai istituzionale: una zona grigia dove le componenti stilistiche e tematiche del cinema indie sono assorbite dal cinema mainstream. Per arrivare al caso di Jason Reitman, su cui ci concentreremo analizzando nello specifico Juno (id., 2007) e Up in the Air (Tra le nuvole, 2009) occorre però effettuare una ricognizione su come l’indie si sia evoluto negli anni. Negli anni Novanta una serie di fattori – non solo cinematografici7 – contribuiscono all’espansione della nicchia di mercato della cultura indipendente. Prima di tutto, alcuni testi fondamentali capaci di ottenere un importante successo di pubblico. Oltre ai film di Steven Soderbergh e Quentin Tarantino vale la pena citare l’effetto che nel mondo della musica ebbe la pubblicazione di Nevermind dei Nirvana, poi il successo del formato MTV e l’acquisto di Miramax (fratelli Wenstein) da parte della Disney, i stabilisce un format inedito, quello dell’indie blockbuster. Un film costruito appositamente per essere venduto come un film indie. I Film Indie vengono prodotti a basso costo con grande margine di guadagno e diversi attori decidono di prendere parte a questi film accrescendo la loro credibilità artistica. I registi che hanno beneficiato di questo favorevole contesto, quelli che potremmo definire per certi versi la “prima generazione” di registi indie, hanno potuto sperimentare con il linguaggio cinematografico e proporre storie che prima non trovavano spazio nel mercato. Possiamo citare, per esempio, il lavoro di Quentin Tarantino (facente parte insieme a un grande come Soderberg di registi della Generazione X), volto alla destrutturazione del racconto e all’uso della citazione; Il prodotto indie diventa l’unione di capitali mainstream ed espressioni artistiche indipendenti e i protagonisti di questi film sono spesso disillusi e aspettano una grande occasione che non arriverà mai. Il caso di Jason Reitman è emblematico di questo rinnovamento per cui l’indie diventa elemento interno al sistema di produzione statunitense. Il suo cinema, infatti non è stato subito riconosciuto come il prodotto di un autore. I due film che analizzeremo in queste pagine, Juno e Tra le nuvole non sono solo diversi stilisticamente, ma rappresentano l’evoluzione dell’indie come prodotto di sistema e prodotto autoriale. In quanto film che meglio si presta all’analisi del cinema indie come di una sensibilità identificabile, Juno evidenzia nuove criticità e nuovi problemi. Jason Reitman racconta la storia di questa adolescente, che si connota attraverso uno stile di vita e uno stile di consumo prettamente indie, attraverso una narrazione tradizionale, che non sfida lo spettatore. Juno risponde a una logica di sistema e il successo è dovuto a caratteristiche della trama e del racconto. Mentre Tank You for Smoking aveva avuto un successo di nicchia, da dark comedy pensata personaggi di uscire dai sentieri battuti del mainstream. Il suo corpo più volte esposto senza pudore mettendolo anche in rapporto con la sfera sessuale es: scena iniziale di “Onora il padre e la madre” oppure Boogie Nights (1997), dove l’attore recita la parte di Scotty J., a partire dal modo in cui Paul Tomas Anderson lo colloca all’interno del quadro. Il titolo italiano diventa didascalicamente Boogie Nights – L’altra Hollywood, e Scotty è uno dei tanti personaggi che ruotano intorno a quel mondo a sé che è il cinema porno tra gli anni Settanta e Ottanta. ensiamo per esempio a Happiness di Todd Solondz, dove il personaggio del molestatore telefonico, e la scena della masturbazione ed eiaculazione, sono tra gli elementi più disturbanti del film. Anche qui, il paffuto ragazzone dall’aria un po’ ebete sembra uscire da una sorta di trance esistenziale solamente quando è sessualmente eccitato. E se, come scrive Mosher, il suo personaggio è «uno dei più memorabili pervertiti della storia del grande schermo», è anche perché la perversione è esperita da un corpo non attraente che, se pur non esplicitamente mostrato, è costantemente percepito dallo spettatore. Non è improbabile che Spike Lee, scegliendo Hoffman per The 25th Hour (La 25a ora, 2002), per il ruolo del professore Jacob Elinsky, abbia pensato alle sue precedenti apparizioni in Happiness e in Boogie Nights. Anche in questo caso il personaggio ha come caratteristica più evidente la propria incompiutezza in termini di relazioni sentimentali, ma soprattutto sessuali (incontro con la studentessa). a sua versatilità e sensibilità gli hanno permesso anche di incarnare figure maschili più convenzionali e ordinarie. Uomini non belli, non eccezionali, vagamente nevrotici, al centro di vicende che raccontano la quotidianità dell’America degli anni Duemila. Un’America senza mitologie né eroi, usurata dalla routine, impelagata nella difficile tessitura di relazioni umane all’interno di una società sempre più disumanizzata. L’ordinary man è una tipologia di personaggio che emerge in filigrana nella filmografia di Hoffman. Ritorniamo nuovamente al corpo, elemento centrale dell’attorialità di Hoffman. Non solo il suo è un corpo ineludibile, ma è anche estremamente plasmabile. In Capote, l’attore, notevolmente dimagrito, incarna in maniera del tutto plausibile l’eccentrico scrittore americano. Una performance che gli è valsa il primo Oscar nel 2006: un premio ovvio, considerata la fascinazione dei giurati dell’Academy per le interpretazioni che si poggiano su tangibili sacrifici dell’attore, di cui la variazione di peso sembra quella più apprezzata. La actorly tranformation non è certo nuova sugli schermi hollywoodiani (pioniere è stato De Niro, con la sua interpretazione di Jake La Motta in Raging Bull [Toro scatenato, Martin Scorsese, 1980]), ma negli ultimi anni è indubbio che rappresenti, nelle prospettive dell’industria cinematografica come nella percezione dello spettatore. 4 I FARRELLY E ALTRI STOOGES: LA DEMENZA COME FATTORE DI DECOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE Per iniziare questo discorso partiamo da un film, Idioterne (idioti) del 1998 di Lars Von Trier che arriva con ritardo ad affrontare un tema che il cinema americano sembrava, nel ’98, avere già ampliamente metabolizzato a un livello per così dire mainstream. Non ci riferiamo al caso fin troppo evidente di Forrest Gump (id., Robert Zemeckis, 1994)3, ovvero a quella sorta di “idiot performant” che informa di sé buona parte della cultura americana (recuperato, per esempio, anche da Joel e Ethan Coen in gran parte dei loro film) e che in qualche modo rappresenta una versione idealizzata della condizione del soggetto postmoderno. Per comprendere dunque la portata del fenomeno e le sue coordinate in termini sintetici, ci si può riferire all’attore che meglio di ogni altro ha saputo incarnare lo spirito comico del tempo che va dalla metà degli anni Novanta all’inizio del nuovo secolo, Jim Carrey. Dall’altro lato, Carrey ha iniziato negli anni Ottanta e si è inserito in quel vastissimo alveo di comicità irriverente che ha trovato i suoi momenti più celebri nel cinema di John Landis e nelle trasmissioni del Saturday Night Live, avendo in figure come John Belushi e Andy Kaufman i suoi punti di riferimento. Da lì vengono i vari Dan Ackroyd, Bill Murray, Steve Martin, Marty Short e attorno a quella stessa factory sono in qualche modo cresciuti i vari Jeff Daniels, Adam Sandler, Ben Stiller, Jack Black, Seth Rogen, Vince Vaughn, Steve Carrell, Owen e Luke Wilson, e tutta la schiera di attori e autori che hanno animato le serie degli American Pie e degli Scary Movie. Del resto, la figura di Jim Carrey era letteralmente esplosa fra il 1993 e il 1994, allorché – da attore semisconosciuto – si è trovato a interpretare, nello stesso anno (escono tutte nel ’94) ben tre commedie che condividono fra loro ben più di un’aria di famiglia. Due di essi, Ace Ventura: Pet Detective (Ace Ventura – L’acchiappanimali, Tom Shadyac, 1994) e The Mask (Te Mask – Da zero a mito, Chuck Russell, 1994) sono praticamente film gemelli, benché nati da presupposti completamente differenti. In entrambi i casi, il personaggio di Carrey è quello di un disadattato completamente alienato, la cui comicità è prevalentemente di natura corporea e deriva dal modo formidabile con cui Carrey riesce a fornire un correlativo plastico, attraverso spasmi di ogni forma e natura. Ma fra i tre del 1994, il film di Carrey più interessante ai fini del discorso che stiamo dipanando è sicuramente il terzo, quello che lo vede al fianco di Jeff Daniels, Dumb & Dumber (Scemo e più scemo, 1994) diretto da due figure destinate a lasciare un segno, Bobby e Peter Farrelly. Ancora una volta è la televisione a fornire la spinta propulsiva a una piccola rivoluzione nel campo della comicità cinematografica. I fratelli Farrelly, infatti, nascono e crescono artisticamente nella squadra di sceneggiatori di una serie culto della NBC, Seinfeld (1989-1998), poco nota in Italia ma di formidabile successo negli USA (durante il periodo di messa in onda vincerà una quantità impressionante di Emmy Award e Golden Globe). L’ultimo lungometraggio di Peter e Bobby Farrelly, The Three Stooges (I tre marmittoni, Bobby e Peter Farrelly, 2011), rappresenta un ritorno alle origini nella forma di omaggio. Tre dementi che – come i Blues Brothers – devono trovare i soldi per salvare l’orfanotrofio dove sono cresciuti e dove continuano a vivere anche da adulti (in attesa di un’adozione che non arriverà mai). Così escono nel mondo e ne combinano di tutti i colori, dimostrando la propria assoluta inadeguatezza, ma anche e soprattutto strappando uno dopo l’altro tutti i veli sotto cui si nasconde l’esistenza delle persone apparentemente normali. Un omaggio alle forme più elementari e popolari di comicità. COLLATERAL O LE MAPPE URBANE DEL DELITTO Analizziamo in questo paragrafo il genere noir, una variante del genere letterario poliziesco, nato dalla combinazione di due temi, il crimine e la città, Collateral (id., Michael Mann, 2004) è esemplare al riguardo: da una parte una vera e propria poesia d’amore per Los Angeles scritta con la luce, dall’altra un esempio perfetto di lirismo visivo che fa da trait d’union estetico alla rappresentazione della città e del crimine. inevitabile cogliere una serie di sfumature e tradurle in chiave fotografica. L’arcobaleno cromatico di Collateral ci restituisce luci fredde (in metropolitana), calde (negli uffici dello studio legale), morbide (nel jazz club), dure (in ospedale e all’obitorio), intermittenti (in discoteca), diffuse (nell’appartamento di lusso della seconda vittima), metalliche (in aeroporto). Questa è Los Angeles secondo Michael Mann: una notte sfaccettata e variopinta come il giorno. Una notte dove, in senso letterale e metaforico, ne succedono di tutti i colori. I personaggi si muovono e operano in spazi e luci fra loro molto differenti, che vanno dalla miseria dell’abitazione dove alloggia la prima vittima del killer all’estrema raffinatezza di quella in cui vive la seconda. Quindi ci troviamo di fronte a una situazione abbastanza caotica, quindi necessario orientare lo spettatore nel migliore dei modi. Negli anni Ottanta assistiamo a un fenomeno cui è stato dato il nome di transference: per catturare il fuorilegge, il poliziotto deve psicologicamente mettersi nei suoi panni. Quali bussole sono presenti in Collateral? A quali metodi si ricorre per tracciare sulla superficie della città un diagramma narrativo in grado di contenerne i tratti più dispersivi e centrifughi? Cominciamo dai personaggi. Protagonista del film è un tassista, ovvero una figura dotata di due tratti, entrambi appartenenti alla sua sfera professionale, essenziali a cogliere e comprendere la complessità della metropoli. Il primo riguarda la sua conoscenza della città: per lavoro Max deve avere una mappa mentale di Los Halloween – Te Beginning è, infatti, al contempo un remake e un prequel dell’opera carpenteriana; l’intera prima ora del film del 2007 è infatti dedicata alla messa in scena di una serie di eventi soggetti a ellissi nel film di Carpenter. 4 FILM COME EVENTO MONDIALE. LA TRILOGIA DE IL SIGNORE DEGLI ANELLI 2000-2003 Film evento che eccede a partire dalle dimensioni: oltre nove ore di durata, che diventano undici nella versione extended, incasso che si avvicina ai 4 miliardi di dollari ai quali vanno aggiunti gli introiti relativi alla vendita delle versioni home video e del merchandising ufficiale. Essendo girato interamente in Nuova Zelanda ha contribuito al rilancio della cinematografia dell’Oceania. L’utilizzo pervasivo di tecnologie digitali per ricreare il panorama della Terra di mezzo e le avventure dei suoi abitanti è, come vedremo, al centro di molti saggi sul film e costituisce certamente l’elemento figurativo più rilevante per gli studiosi che si sono cimentati con l’analisi dell’estetica jacksoniana. In quest’ottica, il primato delle tecnologie digitali ne la trilogia de Il signore degli anelli sembra presupporre un’esplorazione dei confini della nozione di cinema come medium specificamente fotografico, introducendo elementi di eccesso figurativo rintracciabili per esempio nell’utilizzo di attori “virtuali”. Franchise, tecnologia e adattamento saranno le chiavi attraverso le quali saranno messe in luce alcune specificità de Il signore degli anelli, che ne fanno un oggetto particolarmente significativo all’interno del panorama del cinema contemporaneo. I primi dieci minuti circa de Il signore degli anelli – La compagnia dell’anello non sembrano derivare univocamente da uno scritto tolkieniano preciso. Il prologo del romanzo-matrice è costituito da una serie di informazioni circa la storia dell’anello e delle popolazioni che abitano la Terra di mezzo redatte in uno stile più vicino alla (pseudo) storiografia che all’epica; inoltre, è bene ricordare che una larga parte degli eventi narrati da Tolkien sono una prosecuzione diretta di quelli contenuti ne Lo hobbit, il romanzo per ragazzi che il professore oxfordiano aveva pubblicato nel 1937. La mappa ritratta nell’incipit de Il signore degli anelli - La compagnia dell’anello attesta un primo dato che vedremo essere fondamentale: la Terra di mezzo rappresentata nei film di Jackson è un mondo alternativo ma consistente, reale, finito. Prima di ricongiungersi con l’incipit del romanzo, il film di Jackson presenta un’ulteriore strategia di interfaccia. Nella parte conclusiva del prologo viene introdotto il personaggio di Gollum, il repellente essere che si è impadronito per caso dell’anello perduto. Lo studio dei cosiddetti media franchise è uno dei terreni di indagine più fertili per i film studies nell’ultimo decennio. Il signore degli anelli ha generato a partire dalla sua prima apparizione nelle sale una mole notevole di testi secondari ed espansioni di vario tipo: dai videogiochi al merchandise, l’esplosione paratestuale generata dal successo della saga è certamente paragonabile a quella di altri blockbuster, tanto da fare dell’opera di Jackson un oggetto di studio privilegiato. Lo stesso Tolkien fa della Terra di mezzo l’oggetto di una serie di narrazioni transmediali: romanzi come Lo hobbit, testi di pseudo-storia come Il Silmarillion, e raccolte di poesie come Le avventure di Tom Bombadil25 afferiscono al medesimo universo finzionale rappresentato dalle vicende del mondo immaginario costruito da Tolkien. L’uso della tecnologia è stato oggetto di numerosi studi, risultati più spettacolari e più ampiamente discussi dell’utilizzo di strumenti digitali derivano dalla capacità di questi dispositivi di costruire immagini illusorie del corpo umano in particolare nelle varie scene belliche. l’utilizzo delle scene di massa come strumento di costruzione dell’epico, può essere interpretato come un tentativo di sintetizzare quella lotta dell’individuo contro un destino nefasto incipiente che, secondo la studiosa Jane Chance caratterizza la poetica tolkieniana. TUTTO SI TIENE, TUTTO SI DISTRUGGE. IL SUPERHERO MOVIE CONTEMPORANEO E IL CASO DI THE DARK NIGHT. Se si intende il termine blockbuster «come costellazione di forme testuali e di intrattenimento, nonché come rete di flussi monetari e merceologici», riflettere sulle opere dedicate ai supereroi, sintomo più evidente del cinema mainstream hollywoodiano, diventa fondamentale all’interno di un’analisi del contemporaneo, specie se si considera che sono questi film a dettare spesso la linea evolutiva di molte grandi produzioni che in qualche modo sono loro debitrici. Alcuni vedono un filo diretto tra il blockbuster contemporaneo e il cinema epico mitologico, storico e religioso del passato. Puntando su alcuni elementi costituitivi del racconto epico cinematografico quali la figura dell’eroe o la durata del film superiore alla media, Santas si focalizza su due costanti particolarmente significativi se applicate al contesto seriale e transmediale del blockbuster supereroico contemporaneo: da un lato l’“unified action”, dall’altro i “multiple plots”. Una pellicola che nasce come sorta di film definitivo sull’uomo d’acciaio che solo i timori dei produttori porteranno quasi subito a spezzare in due progetti distinti (girati contemporaneamente), Superman: Te Movie e Superman II. Il dittico non nasce come prodotto seriale: lo sforzo produttivo è pensato per essere concentrato in un’opera sola, unica, megaproduzione figlia di un’epoca appena precedente la rivoluzione dell’high concept movie. Oggi invece alla diffusa tradizione del sequel si accompagna quella di universi narrativi coerenti in grado di espandersi parallelamente, esattamente come nel fumetto. Questo tipo di strategia si intensifica negli anni Duemila, quando Joe Quesada, allora editor-in-chief Marvel, decide di aumentare i legami tra le diverse collane e, di conseguenza, il numero di crossover tra esse. Contemporaneamente viene lanciata l’etichetta Ultimate Marvel, pensata per riscrivere le origini di molti dei personaggi più noti della casa editrice. A inaugurare il marchio sono gli X-Men e Spider-Man, non a caso le prime due collane di lì a poco adattate per il cinema. Il progressivo incupimento del prodotto diviene esplicito, e la parola “dark” e le sue derivazioni, dall’uscita di The Dark Knight (Il cavaliere oscuro, Christopher Nolan, 2008) in avanti, è sempre più spesso sfruttata dalle grandi produzioni, non solo a tema supereroico. Non è solo una questione di trame, che vedono l’eroe cadere, il mondo attorno a lui farsi più minaccioso, le certezze sgretolarsi in virtù di uno spaesamento prima di tutto etico. Sono i film stessi a rinunciare agli ammiccamenti ironici, ai caratteristi comici, al diffuso accento complice e sarcastico tipico del postmoderno. Spesso la trama dei blockbuster può essere definita pretestuosa o labile al limite dell’inesistenza: in questo caso si manifesta fino in fondo come già raccontata. I film che vedono come protagonisti i supereroi sono da ricondurre al genere fantascientifico, volendo trovare parentele più strette, si può citare sicuramente il disaster movie es: 2012 (2009 regia di Roland Emmerich). . Se è evidente come nel corso degli anni Ottanta e Novanta l’action movie si sia «progressivamente andato delineando come il megagenere per eccellenza del cinema occidentale», grazie a un costante «percorso di ibridazione dei generi tradizionali», è altrettanto naturale vedere sotto lo stesso segno unificante tutto il blockbuster contemporaneo. Il cinema di supereroi, è forse ovvio dirlo, non fa genere a sé, ma va letto in perfetta continuità con le produzioni spettacolari odierne, serializzate e ibride, da Transformers ai Pirati dei Caraibi, da Harry Potter a Mission: Impossible, da Die Hard a 007. Peraltro, gli elementi semantici distintivi del filone supereroico del blockbuster americano non sono direttamente generati dal cinema stesso (come per esempio accade per molti dei generi classici: si pensi al noir), bensì appartengono all’iconografia dei fumetti da cui sono tratti. Il pubblico riconosce quindi in un film un’opera appartenente al filone esclusivamente perché riconosce, e ama riconoscere, il personaggio o i personaggi già molto noti che vengono trasposti in esso. Non a caso il superhero movie non ha prodotto, al momento, nessun protagonista originale, se non in chiave parodica es: Hancock (2008 di Peter Berg) o volutamente decostruttiva es: Unbreakable (2000 di Shyamalan). Se alla fine degli anni Novanta Batman Forever (id., 1995) e Batman & Robin (id., 1997) di Joel Schumacher avevano deprezzato la promessa di un cinema al contempo spettacolare e autoriale, la rinascita del filone si lega invece a nomi di chiara fama come Singer e Raimi. ossessioni della contemporaneità. Radicale, violento, dominato dalle ombre, esempio perfetto di «autorialità mainstream» capace di intercettare le opacità del contemporaneo rivestendole di maschere e mantelli. 5 LA SERIALITA’ TELEVISIVA AMERICANA: PRODUZIONE Per quanto riguarda le modalità di trasmissione, negli Stati Uniti esistono tre tipi di televisione: broadcast television, basic cable e premium cable. La prima è quella che da noi sarebbe definita commerciale e generalista, le altre due invece sono a pagamento: per la basic è necessario un abbonamento mensile, a cui poi si devono aggiungere ulteriori sottoscrizioni per avere accesso ai canali premium. La broadcast television è dominata da quattro grandi players, le cosiddette Big Four: ABC, CBS, NBC e FOX. Tutte queste reti appartengono a conglomerate mediali che, in ambito televisivo, assumono la forma di network. La broadcast ha due caratteristiche principali: è gratuita ed è generalista. Ciò significa che la sua unica fonte di finanziamento è la vendita di spazi pubblicitari e che il suo target è un pubblico di massa. la televisione commerciale deve produrre show che raggiungano il maggior audience possibile, nel rispetto delle regolamentazioni federali. Le cose, poi, si complicano ulteriormente con l’arrivo della cable television. L’ascesa della televisione via cavo basic, introdotta nel 1948 come una forma di televisione a sottoscrizione, rappresenta una svolta anche per la televisione commerciale, che si ritrova di fronte a un nuovo competitor. Questa competizione sfocia in un nuovo tipo di programmazione, quello che Robert J. Thompson ha definito la Second Golden Age, a partire dagli anni 80. Come sottolinea Thompson, è la cable che si inserisce sulla scia della broadcast television: è infatti NBC che, sotto pressione per la nuova competizione con le reti via cavo, inizia un processo di ridefinizione del mezzo attraverso programmi come Hill Street Blues prima e ER poi. È solo dalla fine degli anni Novanta che la basic e la premium cable iniziano a recuperare terreno, basti pensare a casi come HBO, Showtime e, più di recente, AMC e Starz, ognuna con un fine ben preciso. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, i canali basic cable puntano a strategie di branding, i canali cable iniziano a offrire sempre più programmi originali, concentrandosi in particolare sulla produzione di hit series, nella speranza che queste ripaghino la rete con il valore di un brand es: Breaking Bad (2008-2010). I tipi di televisione finora descritti non sono compartimenti separati, ma sono costantemente messi in relazione (e in competizione) attraverso pratiche di ritrasmissione quali la syndication e lo streaming di contenuti over-the-top. La syndication è la rivendita di show ad altre emittenti; In un certo senso, la syndication abbatte le barriere fra i tipi di televisione appena descritti, in particolare fra basic e premium. diritti di ritrasmissione dei contenuti, dai film alle serie TV, vengono venduti a Netflix da network. In particolare, nel 2011, Netflix annuncia la produzione della sua prima serie originale, House of Cards (id., 2013-presente). Ciò che attira particolarmente l’attenzione è la portata del progetto: Netflix, battendo sul tempo concorrenti quali AMC ed HBO, raggiunge infatti un accordo stimato intorno ai cento milioni di dollari con la casa di produzione Media Rights Capital per due stagioni da ventisei episodi complessivi. Data la dipendenza finanziaria dalle sottoscrizioni mensili e l’assenza di interruzioni pubblicitarie (compensate però da un ingente product placement) e di regolamentazioni FCC, le serie originali Netflix sembrano porsi in diretta competizione con la produzione premium cable. Quality e high concept la quality television diventa una sorta di genere a sé stante incarnato perfettamente dal marchio HBO, emittente che fissa lo standard per una tipologia di prodotto che si avvicina più allo stile cinematografico che a quello tradizionalmente televisivo: alti budget, valorizzazione delle singole personalità autoriali, stili visivi e narrativi che ricalcano i ritmi dilatati del grande schermo. High concept fa riferimento a oggetti seriali caratterizzati da un’alta vendibilità es: Lost MAD MEN: CONTESTO, STILE, BRAND il cinema non è la sola forma di comunicazione che sfrutta a piene mani l’allargamento esponenziale delle possibilità o erte dalle nuove tecnologie. Su unfferte dalle nuove tecnologie. Su un binario parallelo, infatti, si pone l’industria della serialità televisiva, il cui funzionamento appare sempre più in grado di esaltare le peculiarità strutturali del mediascape contemporaneo, tanto da metterne in luce i nodi industriali e culturali in maniera altrettanto se non più profonda di quanto faccia il cinema, soprattutto grazie alle diverse specificità che la dimensione seriale porta con sé. A questo proposito ci sembra di capitale rilevanza porre l’attenzione su un caso specifico come Mad Men, dal quale partire per mettere a fuoco alcuni dei principali funzionamenti alla base della serialità televisiva americana. Mad Men (2007-2015) va in onda nel prime time sul canale basic cable AMC e nonostante non sia stata un fallimento dal punto di vista degli ascolti, ma anzi abbia posizionato il main event serale della rete in una zona di tutto rispetto, la serie ha però col tempo trovato nella critica il suo maggior alleato, arrivando a vincere moltissimi riconoscimenti. Va da sé che un’opera del genere per avere successo non può ambire alla massima fetta di pubblico possibile. Lo stile dello show emerge da ogni scena, segnalandosi per una fotografia estremamente ricercata, scenografie ricostruite in maniera maniacale e una regia elegante e dai caratteri spiccatamente cinematografici. Anche per via di tali marche stilistiche, della trattazione di particolari tematiche (abusi sessuali, omofobia, razzismo, alcolismo) e di un registro cinico e politically incorrect, Mad Men sceglie con accuratezza il proprio pubblico, in modo da non dover far ricorso ai tradizionali espedienti delle serie tv. La serie si caratterizza per una narrazione abbondantemente corale in grado di coprire tutte le tipologie di individui che popolano il contesto di riferimento; è però attraverso il protagonista che la narrazione si dipana e che si declinano le cifre fondamentali dello show. Don Draper direttore creativo dell’agenzia Sterling/Cooper, self made man per antonomasia, è portatore di una personalità multiforme e frammentaria in cui si riflettono la dimensione pubblica e quella privata. Nella definizione della sua identità, in pieno boom economico, l’automobile non è solo il simbolo di uno status, ma anche il tramite che porta Don nei luoghi che lo definiscono: la città e la periferia. La metropoli newyorkese è il luogo del lavoro, della modernità, delle trasgressioni e delle tentazioni. La campagna al contrario è il luogo delle certezze e degli affetti ma anche simbolo di un sogno americano mai compiutamente realizzato. Esattamente all’interno di questa dicotomia Mad Men rilancia quella tra uomo e donna, tra Don e la moglie Betty Draper, la più classica delle donne trofeo, costretto in uno stereotipo asfissiante, vittima di una repressione culturale e sessuale che ne impedisce l’emancipazione e che riduce il suo personaggio a un gioco di ruoli alternato tra moglie e madre. Come ideale contraltare di Betty c’è Peggy Olson, non a caso pienamente inserita nella vita metropolitana e che da semplice segretaria della Sterling/Cooper arriva a diventare uno dei principali copywriter dell’agenzia. Mad Men è dunque lo spazio dove, attraverso una diegesi tutt’altro che lineare, si ragiona sulla Storia: è dalla relazione tra le storie e la Storia che germinano i conflitti principali; è dai grandi eventi dell’America di quegli anni (la morte di Marilyn Monroe, quella di JFK, la guerra in Vietnam, i movimenti studenteschi) che trovano linfa vitale le svolte narrative dell’universo della serie. Oggi Matthew Weiner è uno dei maggiori showrunner in circolazione, una delle personalità più ricercate e acclamate del panorama televisivo, padre di una delle serie più innovative degli ultimi anni e con all’attivo un passato da produttore esecutivo e sceneggiatore di The Sopranos (I Soprano, 1999-2007), una delle serie televisive più importanti degli ultimi quindici anni. Per la realizzazione della serie Mad Man, Weiner dovette lottare per cercare qualcuno che si fidasse del progetto perché la sua reputazione era spesso legata alla realizzazione di comedy. L’AMC (American Movie Classics) è stata fondata come una premium cable nel 1984 dalla Rainbow Media, rimanendo pay sino al 1987 quando i direttori di rete e produzione decisero di trasformarla in un canale basic per darle una maggiore visibilità. La scelta si rivelò vincente: gli spettatori della rete passarono infatti da sette milioni di abbonati a trentanove milioni, ovvero il numero di abitazioni munite di tv via cavo. L’elemento
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