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Analisi d'autore e di alcuni testi del Lasca e di Masuccio Salernitano, Appunti di Letteratura Italiana

Analisi del profilo degli autori Antofrancesco Grazzini e Masuccio Salernitano con analisi di alcuni testi (novelle) sulla base delle sbobbine

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 05/06/2024

aleducato2
aleducato2 🇮🇹

Anteprima parziale del testo

Scarica Analisi d'autore e di alcuni testi del Lasca e di Masuccio Salernitano e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! ANTONFRANCESCO GRAZZINI, DETTO IL LASCA! VITA Antofrancesco Grazzini, detto il Lasca, è uno dei padri fondatori dell'Accademia della Crusca nato nel 1504 figlio di un notaio e quindi di condizione medio elevata e di una madre proveniente da una famiglia nobile. È un personaggio caratterizzato da un forte dinamismo culturale essendo scultore, letterato e organizzatore di eventi culturali. Fonda l'Accademia che si presenta esattamente all'inizio come una serie di circoli intellettuali, che esitevano già nel 400, che si danno delle regole e creano delle vere e proprie istituzioni (più o meno serie). Ogni memebro della sua accademia doveva darsi un nome relativo al mondo marino, nome di pesci, tanto che per questa ragione Antofrancesco Gazzini prende il romignolo di “Lasca” (che autoricamente fa rifermento al cervellino piccolo che l'animale aveva ed è un nome che veniva dato alle persone di poca intelligenza). Questo fa già comprendere che la natura di questa Accademia è burlesca e giocosa, non troppo seria. Fonda questa Accademia nel 1540, insieme ad alcuni amici che condividevano con lui una passione per la letteratura del volgare fiorentino, un gruppo di filoquattrocentisti che non sono propriamente propoensi ad accettare queste forme di letteratura classicheggiante che nel periodo del Rinascimento si stanno imponendo in tutta la penisola. Nonostante Firenze rimanga un centro di sperimentazzione per le forme del volgare e per la letteratura in particolare, in tutta Italia comincia a svilupparsi l'idea che la lingua e la letteratura dovesse sempre più essere legata ai classici riscoperti della letteratura latina e greca e che la letteratura aulica e importante non potesse essere più rappresentata da un linguaggio volgare, bensì in primissimo luogo da latino. Si instaurano delle vere e proprie norme e regole da seguire che si alternano tra la volontà di creare un latino letterario per permettere ai letterati di comunicare tra loro e scrivere in una lingua che tra loro fosse comprensibile, e la creazione delle tesi bembiane sulla lungua e sul volgare stesso. Questo non accade solo per la lingua, ma anche per la serie di generi lettari che venivano prodotti. Ad esempio la novella, che a noi interessa, non era parte dei generi della tradizione classica (infatti esistevano delle forme classiche di novelle, racconti molto brevi, che però non avevano creato delle regole e delle definizioni chiave perché si identificassero come tali, ragion per cui non erano propriamente riconosciute come genere letterario). E allo stesso modo anche nella sperimentazzione dei generei letterari, Firenze diviene un centro importantissimo, soprattutto per le commedie e poi anche per novelle. Quindi la Toscana è un po' ribelle nei confronti del nuovo senso classico anche se ovvio che con il passare del tempo coglierà anche la città fiorentina, anche grazie all'influsso politico e culturale della famiglia Medici al potere (dal 400 fino al primo 500). Sappiamo che però la situazione della famiglia e del potere alla signoria dei Medici, non è sempre tranquillo: dopo varie cacciate dalla città e dopo il ritorno trionfante dall'elezione di Papa Leone X (il figlio di Lorenzo de Medici), vari omicidi in famiglia, di comincia a delineare un momento di istabilità politica e di preoccupazione. In questo contesto emerge il rampollo di un ramo cadetto della famiglia, ancora un Cosimo de Medici, diventa il signore della città e si apre il periodo in cui la Toscana diviene un ducato, sotto il suo potere. In questa fase la cultura fiorentina si irrigidisce per l'eccessivo controllo da parte del potere centrale verso gran parte delle forme del mondo culturale, con azioni di manipolazione letteraria e censura. Antofrancesco Grazzini vive in prima persona questo periodo difficile, soprattutto nella sua personalità di pensatore libero e poco soggiogabile alla volontà dei poteri alti. Nel 1541, dopo che Cosimo mette gli occhi sulla sua Accademia degli umili, diviene Accademia Fiorentina e c'è in essa un controllo diretto del duca. Nell'accademia iniziano ad entrare tutta una serie di amici di Cosimo, poco graditi al Lasca, il quale nel giro di pochi anni viene sbattuto fuori dalla sua Accademia, per 20 anni. E questo accade proprio in relazione al fatto che l'Accademia era divenuta un apparato del ducato sotto il pieno controllo di Cosimo. Dopo 20 anni, aspettando tenacemente riesce a tornare all'interno della propria Accademia e gli in quegli anni si era tenacemente dedicato alla sua produzione commediografa (è forse il più importante commediografo del 500) che ha un discreto successo. Pubblica anche tuttta una raccolta di testi, componimenti che determinano una buona parte della tradizione letteraria del tempo precedente, sui canti carnascialeschi ovvero quelli cantati durante le parate di carnevale. Ma Cosimo gliela fa sequestrare poiché vi è un fascicolo di un compositore del genere i cui eredi al suo tempo si oppongono al potere di Cosimo e quindi si cerca di manomettere questo suo progetto. Alla fine però Antofrancesco Grazzini riuscirà lo stesso a pubblicare la sua opera togliendo quel fascicolo. Negli anni 80 quelle commedie che avevano avuto poco successo vengono raccolte e pubblicate e nell'82 fonda l'Accademia della Crusca, dedita più a questioni linguistiche che letterarie. Nell'84 muore. LA PRODUZIONE LETTERARIA I filoni principali della sua produzione letteraria sono “le Rime Burlesche” e “le Cene”, la sua raccolta di novelle realizzata non come grande progetto letterario, ma raccolte solo in tardo tempo dall'autore e lasciate prima circolare tra gli intellettuali (tanto che esiste un codice Macchiavelliano che ne raccoglie alcune in una cornice provvisoria). Nella cornice si racconta di una brigata che durante le cene decide di mettersi a novellare. Le cene sono 3: – nella prima si raccontano novelle piccole – nella seconda si raccontano novelle mezzane – nella terza cena si novellano novelle più lunghe, delle quali ce ne resta però solo una Questa raccolta fotografa una situazione culturale ben precisa e per questo diviene importantissima per il completamento della tradizione novellustica. Si tratta di un periodo di trasformazione o involuzione della produzione novellistica nello specifico toscana. Sono novelle brillanti ma forse fin troppo sofisticate e raffinate nello stile in cui vengono composte. Nella novellistica del 500 a Firenze e a Siena si continuano a raccontare novelle comiche e novelle di beffa o motto, anche a sfondo sessuale, mentre nel Nord Italia si prediligono le novelle più tragiche o serie (come quelle della IV o X giornata del Decamerone) più consone all'animo classicista del tempo completamente diffuso in tutti gli altri luoghi. Lasca da Fiorentino scrive per lo più novelle di beffa nelle quali però si esaltano caratteri già presenti nella tradizione 3/400esca, con le complicazioni scenografiche delle beffe, l'uso di determinati oggetti, costumi, che compensano con questo piano visivo un piano verbale che manca di qualcosa. Abbiamo già visto quanto nelle novelle come Il Grasso Legnaiuolo o quelle di Bruno e Buffalmacco l'arte della parola sia il mezzo principiale che riesce a far scattare la beffa; qui questo aspetto viene meno. Inoltre Antofrancesco Grazzini presenta questa tendenza di mettere sulla scena sempre protagonisti connessi al mondo dell'arte (cosa che succedeva anche prima, come nel Decameron), artisti suoi conteporanei. Probabilmente un accenno di verità storica sul fatto che nelle brigate di questi artisti vi fosse quest'animo scherzoso e birbone. In questo caso gli artisti creano proprio da sé la scenografia, con statue, immagini per rendere meglio la beffa che però sono anche definiti da un senso di terrore, un senso horrorifico e inquietante (ad esempio torna l'elemento della “testa di luccio” presente nella novella di Ganfo e Zenobi, che diffonde un senso di dolore che si trasmette benissimo attraverso la novella di Sercambi; vi sono scene di umiliazione volti a danneggiare pubblicamente il beffato). lui nel letto crede che a “galoppare” lì su siano la figlia e la madre, per cui “minaccia” quasi la suocera dicendogli che stia attenta a non mettere sua moglie incinta. Madonna Antonia, che contrariamente a quanto si possa pensare è contenta che la figlia ha avuto un rapporto buono e sereno, stava sull'altra sponda del letto, vicina ai due amanti, così che a ciò che ha detto il marito Falananna essa possa rispondere, fingendo che il Berna fosse lei. Allora la suocera risponde che non stava facendo niente se non fargli i massaggini al pancino perché la “donna del corpo”(=la matrice che la rende donna, l'utero) le ha dato tanti disagi e stava quasi per farla morire metaforicamente(ha il ciclo). A questo punto allora Falananna corre e si agita dicendo che prima che muoia si debba confessare e che quindi correrà a chiamare un prete. Allora si alza cercando il lume, per far luce e la moglie fa riferimento a una tale: Santa Nafissa era una santa burlesca e una figura pagana e islamica del Settimo secolo, che era stata conosciuta e portata in Europa con la storia che questa era stata posseduta da una divinità pagana e aveva elargito le proprie grazie ad interi conventi e che era la sacra protrettrice del sesso e dell'utero. A questo proposito la donna la prende in cosiderazione e la loda perchè le ha fatto la grazia di non farla stare più male e di resuscitarla, così invita il marito a mettersi di nuovo a dormire. La mattina dopo si alza verso le tre dle pomeriggio, fa colazione e torna a dormire, perché ha passato tutta la notte insonne, e si comporta esattamente come se fosse a casa sua. E i due amanti continuano a vedere tutte le notti Un giorno mentre Falananna si trovava in Santo Spirito, ascolta una predica durante la messa la quale ribadisce un concetto comune nel Medioevo, ovvero il fatto che la vera vita non è quella mondana, anzi, è come una morte, che poi porta alla vera vita in pace se si è in grazia di Dio in cui non si dovrà più aspettare la morte. Dopo aver ascoltato quella predica allora gli venne il desiderio di morire e di vevere una vita priva di problemi, e passa le sue giornate evocando la morte e chiedendo di morire, lasciando il lavoro. Le due donne avevano provato in tutti i modi a suggerirgli un modo per poterlo far fuori ma nessuno gliene piaqque, ragion per cui chiedono aiuto al Berna, per farlo fuori a tutti i costi. I tre si inventano una figura di un frate confessore, fra Bartolo, che ha modo di farlo morire in pace con Dio avendolo fatto già a Napoli e Milano, il quale è ovviamente il Berna travestito con un saio e un barbone finto. Allora il Berna gli dice che deve fingersi davvero morto, “non facendo sentimento alcuno” (=senza dare segni vitali). La moglie farà finta di essere disperata, dovrà chiamare i vicini che la aiuteranno a lavare, vestire e preparare il cadavere per la sepoltura verranno i frati e i sacerdoti per il rito del funerale. Tutto questo è come Falananna immagina assolutamente entusiasta il suo funerale e vuole che anche tutta la compagnia di tessitori a cui apparteneva partecipasse a questo rito. Il Berna gli dice che sì, avverrà tutto così, verrà sepolto e morirà dopo 24h dalla sepoltura, ma prima sentirà tutto come se fosse vivo ma lui dovrà sempre coportarsi da morto. L'idea è quindi quella di seporlo vivo e di usare una lapide in marmo che si dice essere così pesante che dall'interno è impossibile da aprire, lo si può fare solo dall'esterno, così anche nel caso in cui il marito avesse cambiato idea sarebbe morto lo stesso. Questa situazione, del protagonista che vuole la morte e ancora da vivo di prepara a morire, è topica nella novelle, l'abbiamo già vista nella novella di Ganfo in Sercambi ed è presente anche in altre novelle della tradizione. Un altro punto di congiunzione con la novella del Ganfo è quella in cui il grate ad un certo punto afferma sicuro al Falananna “tu sei morto” e da quel momento si ritiene tale: è ancora una volta messo in chiaro la forza della parola, secondo cui se si pronuncia una determinata formula con sicurezza si afferma esattamente ciò che si vuole dire e si crede che la realtà di quelle sia vera. Però il frate da cui è vestito il Berna gli spiega che sarebbe stato morto, solo se non si fosse comportato da vivo perché in quel caso finirebbe all'inferno, per cui deve fingersi proprio morto. Inoltre il povero ingenuo viene umiliato sempre più prima di essere sepolto venendo coperto di escrementi, perché prima aveva chiesto alla moglie di preparargli un pranzo prima di morire, lei lo fa rendendolo enorme, e quando finisce di mangiare, quando non può più muoversi, si ricopre dei suoi stessi escrementi. Mentre trasportano il “morto” verso il lugo della sepoltura, la gente chiedeva chi fosse e chi lo seguiva rispondeva “Falananna” e venenendolo a sapere che fosse “morto” un suo amico che gli aveva prestato del denaro che non l'aveva più visto indietro, lo maledice dicendo che questo debito sarà un peccato che graverà sulla sua anima. Allo stesso modo di Ganfo che si sveglia dalla sua finta morte e risponde a tono alla nobildonna sulla questione della pelliccia, anche Falananna si sente in dovere di risponedere e dire la propria. Infatii Falananna gli chiede “perché non me lo hai chiesto quando ero vivo” invece di disturbarlo adesso che è morto. La gente intorno ha un momento di shock, infatti quelli che portavano lo guardavano spaventati e lasciarono andare la bara e colui che gli aveva lanciato quella maledizione perse il senno per il terrore e l'assurdità della situazione. Vedendo la gente che urlava intorno a lui Falananna diceva di non preoccuparsi, che lui fosse morto e che potevano portarlo alla sua tomba e fare come se non fosse successo nulla. I colleghi tessitori conoscendo la natura sciocca di Falananna si avvicinano a lui e gli chiedono che follia stesse mettendo in scena. Quello continuando a dire di essere morto scatenerà l'impazienza degli uomini con i bastoni dei torchi lo prenderanno a bastonate. Allora Falananna esce dalla bara e inizia a scappare, notando che ha del sangue sulla testa, e accusa gli uomini di averlo resuscitato e dice che li avrebbe portati davanti alla giustizia per questo affronto. Una brigata di ragazzi allora lo insegue cercando di lapidarlo e gridandogli dietro “al pazzo al pazzo” , perché si è stufi del suo comportamento. Falananna continua a correre fino a quando non raggiunge il ponte vicino la piazza in cui si trovava e vede un carro alla fine del ponte, di qua d'Arno, allora decide di salirci su, ma per sventura dal ponte finisce nel fiume, nell'Arno. A questo punto Il Lasca ci introduce l'avvento di un uomo, un fiammigo che era abile nell'arte del realizzare i “fuochi lavorati” di cui deve fare dimostrazione alla signoria e in particolare doveva mostrare un olio che si diceva prendesse fuoco subito a contatto con l'acqua. Allora il fiammingo prova nel fiume l'olio, senza sapere che ci fosse il Falananna, e tutto il fiume divampò accompagnato dalla meraviglia e dallo stupore dei fiorentini. Flananna cade esattamente nel momento in cui il fiammingo getta il suo olio ardente che si espande per tutto il fiume e ci rimane secco. Della gente che si trovava sui pontili dell'Arno prova a salvarlo, ma invano perché nonostante provassero a tirargli adosso dell'acqua, il fuoco che si alimentava con l'acqua, aumentava sempre di più ed egli muore arso vivo. Alla fine della novella il lasca ci dice che da questo avvenimento è nato il detto “chi casco in Arno e arse”, un proverbio diffuso dell'epoca che evidenziava il paradosso del cadere in un fiume e bruciare, connesso alla sfortuna paradossa di molti uomini. Così i due amanti in conclusione vengono descritti come felici e contenti, tra le richezze del Falananna, e alla popolazione dle villaggio spiegano quello che è successo ripetendo le stesse parole del Falananna, dicendo che davvero in corso d'opera era resuscitato e poi solo dopo erano venuti a sapere della sua morte nell'Arno. Il Berna, ancora vestito da Frate, vede il marito dell'amante e comincia a provare pietà per il monto solo esteriormente per nascondere la vittoria e la gioia interiore e va a consolare le due donne. I due amanti si godono anche le dicerie del popolino in quanto alcuni pensano che sia stata opera di una strega che lo ha fatto bruciare nell'Arno; altri che sia stato un atto di negromanzia, altri pensano che sia stato un atto di illusione diabolica. Pochi giorni dopo spogliando il testamento del Falananna, che aveva lasciato tutto alla moglie ormai vedova, si celebra il matrimonio, una volta chiesto il permesso a Madonna Antonia la madre, tra Mante e il Berna che ebbero una vita felice, piana di “roba” e di figlioli. CONSIDERAZIONI Avendo analizzato moltissime novelle di beffa, abbiamo notato come il realizzare una complicità con il Beffatore, con l'ingegnoso e brillante personaggio che fa divertire e senza il quale non ci fosse stato nessuna trama, mentre non avremmo mai dovuto empatizzare con lo sciocco, che se non capisce la beffa merita di essere beffato. In questo caso la situazione agli occhi di noi lettori si presenta più ambigua e questo perché la scelta da fare tra mettersi dal lato del beffatore o dal lato del beffato è più complicata. Sembra quasi che Il Lasca voglia dare una visione diversa rispetto a quella che potrebbe legarsi ai cliché della tradizione. – innanzi tutto sembra che il Lasca volgia rompere l'idea che sempre il realizzare una beffa a discapito di qualcuno che ha devvero del problemi dal punto di vista mentale, che non riesce a fargli cogliere le cose più semplici che ci siano come in questo caso, possa mettere in risalto l'intelligenza del beffatore, perché qui non accade. I due amanti non devono nemmeno escogitare chissà che grande piano perché sanno che il marito è così stuoido che non se ne accorge e così il volerlo beffare non fa altro che accrescere la loro crudeltà ai nostri occhi. E già solo per questo il lettore non li apprezza. – Sembra venir fuori dall'idea del Lasca, sulla base dell'ispirazione del Sercambi e delle novelle del Ganfo, una sorta di sfiducia e disillusione dell'incanto dell'idea dell'umanità, mettendone in risalto tutti gli aspetti negativi, una grande immagine della negatività dei rapporti umani. – Sempre in relazione a Sercambi è evidente alla fine della novella vedere come nel Ganfo la popolazione ha dell'affetto, tanto che dopo che egli si rende conto di non essere più morto, la comunità lo riporta a casa e a tutti importa che lui se ne renda conto e che non si uccidi sotterrandosi vivo; Qui invece no, a nessuno importa della fine che possa fare Falananna, anzi, ci sono coloro che vogliono vederlo morto stecchito e che fanno di tutto affinché lui si convinca a morire. E quando si ci rende conto che in realtà è vivo lo rincoronno, lo prendono a bastonate, lo picchiano e solo quando è troppo tardi c'è altra gente che vorrebbe aiutarlo, una volta varvato il fiume che lo porta via dal suo luogo, ma non possono più far nulla. Non si pensa infatti che il Lasca consideri queste dinamiche come giuste o divertenti, o che le condivida in questo senso, ma utilizza ancora il metodo del paradosso per cercare di mostrare l'assurdità della situazione dire alla brigata della cornice che questa è una storia che li farà ridere moltissimo. – Inoltre il Lasca realizza anche delle similitudini con la novella di Triunfo da Camerino di Giovanni Sabatino degli Arienti, una novella in cui si prospettano grandi risate verso la figura di un uomo che viene considerato pazzo perché fa delle cose che non stanno ne in cielo ne in terra secondo chi lo guarda e sulla base della “presa in giro” di qualcuno di superiore (vuoi per rango nel caso di Triunfo, vuoi per intelligenza nel caso di Falananna) si vuole determinare il riso degli altri, non notando quanta tristezza e verità vi sia dietro quegli stessi atti immorali che si fanno.
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