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Analisi del prof. Pupo sul romanzo del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Sbobinature di Letteratura Contemporanea

Il documento contiene le sbobinature riguardo alle lezioni che il prof. Pupo ha svolto sul romanzo del Gattopardo. Gli appunti sono organizzati secondo il seguente schema usato anche a lezione: introduzione, lettura parti del testo (con relativa pagina segnata) e commento.

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 21/07/2023

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francesco-dominelli 🇮🇹

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Scarica Analisi del prof. Pupo sul romanzo del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e più Sbobinature in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa Quando Tomasi scrisse l’opera negli anni della vecchiaia, metà anni 50, pubblicato postumo nel 58, morto lui nel 57. Abbiamo stesure diverse, sia dal punto di vista cronologico ma anche dal punto dal supporto materiale. C’è un primo manoscritto, tra il 54-56, che contiene solo le prime 4 parti (l’opera si articola in parti, non in capitoli), quindi una prima porzione del testo. C’è una seconda stesura, più lunga nel contenuto e sono 6 parti, in forma dattiloscritta, realizzata su dettatura dal suo allievo Francesco Orlando. Ci sono più copie di questo tipo, tra il 56-57, inviate poi agli editori oltre che ad amici. C’è una terza stesura manoscritta in cui si legge il romanzo nella sua interezza, di 8 parti, finito di scrivere nel 57. Era stato dedicato al figlio adottivo Gioacchino. In questa vicenda di stesura entrano in gioco il figlio adottivo e l’allievo. Per la pubblicazione del testo si deve parlare di un primo mandato, nel cui l’opera ha avuto un grande successo con 100mila copie, primo grande best seller del tempo, primo caso letterario del dopoguerra. Tra le case editrici che l’hanno rifiutato sono Mondadori prima e Einaudi dopo, ed è importante ricordare in questo caso il pensiero di Vittorini che lo rifiuta perché non lo riteneva compatibile con l’orientamento della colonna da lui gestita per Einaudi, non lo trova abbastanza sperimentale. Infatti, il romanzo si presenta come stile del romanzo ottocentesco, e questo non era in linea con la scrittura richiesta da Vittorini. Alla fine, si accorda con la Feltrinelli grazie a Bassani, che aveva a ricevuto una copia dattiloscritta, ed è lui che mette a confronto la copia con il manoscritto integrale così da far venire fuori il testo della prima edizione della Feltrinelli, per queste azioni sono venuti fuori situazioni di carattere filologiche in primis. Grande successo di pubblico, amplificato dal film di Visconti che ha radicato nell’immaginario collettivo la storia narrata nell’opera, nonostante le problematiche relative alla fedeltà. Il Gattopardo tratta di materia storica, l’oggetto è la rovina della classe nobiliare, in particolare una famiglia aristocratica siciliana, durante una fase di transizione in Italia che vede il passaggio al sud d’ Italia dai Borboni ai Savoia, quindi dal regno delle due Sicilie al regno d’Italia, con la monarchia di Vittorio Emanuele II. Si assiste così alla crisi della classe nobiliare aristocratica con la famiglia protagonista dei Salina, che ne costituisce anche un esempio. Il cuore storico è la crisi, uno sfondo di cambiamenti istituzionali, all’alba dello stato. Alla base della critica ci si pone il problema se questo sia un romanzo storico. A prima vista sembra proprio cosi, se non ché le questioni in sede critica non sono molte pacifiche sul/col suo genere, e non era d’accordo neanche lo stesso autore che in una lettera diceva che non voleva si credesse fosse un romanzo storico, perché è solo ambientato storicamente ma non si fa nessun riferimento a personaggi storici in modo particolare, nessuna rappresentazione diretta ad esempio all’impresa dei mille, viene solo ricordato l’evento, che è oggetto di discussione tra i personaggi, ma non è l’evento in primo piano, ma la riflessioni private del principe Salina. (Anche se c’è stato critico come Accetti, autore di un buon romanzo storico, che considerò l’opera come un romanzo storico.) C’è chi ha detto che si tratta di storico e autobiografico psicologico insieme, un incontro di più generi. C’è poi nella critica una parte che lo mette nell’idea di essere un romanzo antistorico. Per quest’ultimo genere si intende un romanzo che può avere le caratteristiche del romanzo antistorico in cui si registra una determinata visione della storia abbastanza alternativa, una visione idealizzante, retorica, diversa da quella ufficiale, quasi personale, che non ammette possibilità di cambiamenti nel tempo, anzi quasi peggioramenti. Il romanzo antistorico ha una visione ingenuamente progressista, l’idea che si guardi alla storia come un processo che va verso il meglio, in particolare quello personale, una visione quindi ottimistica, che rappresenta un effettivo progresso rispetto al passato, una conquista. Un modo di vedere la storia come un raggiungimento, quasi un superamento. Il romanzo antistorico si fa porta voce di una visione demistificante, alternativo alla visione ufficiale, molto più lucida. C’è stato un critico che ha individuato tre romanzi antistorici: il Gattopardo, I vecchi e i giovani, e Viceré, che hanno una visione forte personale sulla visione storica generale. Si mette in evidenza un comportamento della classe dirigente che viene stigmatizzato, è il cosiddetto trasformismo, ovvero un atteggiamento della classe dirigente che tende a cavalcare il cambiamento, mantiene la propria natura adattandosi ai tempi nuovi, conserva i suoi privilegi cavalcando il cambiamento, quasi ad avere una falsa rivoluzione. Questa pratica non porta acqua al mulino del progresso. Che porti al miglioramento delle cose, ma porta ad una falsa trasformazione, è una faccia dell’immobilismo, metti in atto una stasi. Questa visione è stata definita anche come contro scrittura o contro narrazione, poiché vediamo le cose da un’altra prospettiva particolare, quasi anticonformismo. Per capire questa visione negativa progressista possiamo fare dei riferimenti alla poesia della Ginestra del Leopardi nei versi della quale critica chi pensa che la storia sia un percorso ascendente, invita a non avere fiducia nell’uomo, così notiamo che la storia in effetti è così, come il trasformismo. Ora, a tutto questo qualcuno potrebbe fare un’obiezione: chi è il protagonista del romanzo? È il principe Fabrizio di Salina, un esponente aristocratico, e tutti gli eventi sono filtrati attraverso i suoi occhi; quindi, da una parte c’è una visione lucida della situazione storica ma dall’altra c’è il pensiero della visione storica del principe; quindi, alla lucidità si accompagna un po' di nostalgia, perché è consapevole di ciò che gli sta accadendo e rimpiange la sua stagione migliore. Questa visione non soltanto appartiene alla aristocrazia. Don Fabrizio è una proiezione biografica del Tomasi stesso, anche egli era di origine aristocratica, e il personaggio rappresenta un uomo esistito, ovvero il bisnonno di Tomasi autore; quindi, la nostalgia è anche dell’autore stesso, e così anche l’autore guarda con nostalgia ad un mondo nobiliare che con eventi come Garibaldi va in crisi, verso la fine. Quindi abbiamo da una parte la dinastia dei Salina, poi fuori dal romanzo, in ambito storico reale, abbiamo la dinastia dei Tomasi di Lampedusa. Questa dinastia viene fondata nel 1500, da Mario Tomasi, in Sicilia. Poi ci sono due momenti nel loro albero genealogico, un primo ramo che si situa nel 1600, uno di questi avi antenati è Giulio, che aveva diversi titoli, colui che assomma tutti i titoli, e poi un gemello Carlo, che insieme, fondano la città di Palma Montechiaro. Questa dinastia si dedica più alla religione che alla guerra/politica; infatti, su 8 figli ben 7 entrano in convento, e lui si dedica alle azioni pie, per questo viene detto il duca santo. Tra le sue figlie avremo, Isabella Tomasi, sorella del card. San Giuseppe Maria Tomasi, ovvero suor Maria Crocifissa della Concezione, mistica del periodo, venerabile. Poi un altro ramo, nel 1800, abbiamo il bisnonno di Tomasi di Lampedusa, Giulio Fabrizio Tomasi, che è l’antenato a cui si ispira l’autore per il personaggio-protagonista, appassionato di astronomia, come il protagonista del reale. Lo stemma della famiglia Tomasi campeggiava su uno sfondo azzurro un leopardo, il felino esistente che ha affinità con il gattopardo dell’alano di casa viene defenestrata e l’autore riconosce la forma del gattopardo; quindi, dà l’idea che è ormai divenuto uno scarto. (si parla di signoria, di potere, che è in gioco nella storia, che viene sbeffeggiata dalle bertucce sulle pareti, consapevoli che riprenderanno loro, appena fuori dal salone, il potere del luogo.) Passiamo ora alla famiglia dei Salina, ci vengono presentati già i primi componenti. Lo sguardo dal tetto si abbassa verso il pavimento, dove sono presenti i familiari. I due coniugi, il principe Fabrizio e la moglie Mariastella, hanno sette figli, a quanto detto dal principe, ma i conti non sembrano tornare delle volte perché le ragazze di solito presenti sono 3, Concetta, Caterina, e Carolina, ma la più importante nella narrazione è Concetta; oltre loro però ci viene citata un’altra sorella lontana invece, con una sua vita già avviata, Chiara. Allora le ragazze sono state ritirate dal convento perché a Palermo ci sono dei disordini, siamo infatti alle battute precedenti allo sbarco di Garibaldi in Sicilia; quindi, abbiamo le rivolte dei vari liberali che vogliono far cadere la monarchia borbonica. Poi vediamo i figli maschi, abbiamo Paolo, Giovanni e Francesco Paolo. Si parla qui del primogenito, che ci viene presentato sotto una certa ironia, perché si parla qui di malinconia metafisica, quindi di passioni, pensieri, effimeri, che sono per Fanny, un’araldica, ovvero una cugina di primo grado di Paolo, sua fidanzata; l’altro pensiero è il suo cavallo, Guiscardo, che nel romanzo l’animale è simbolo di stupidità; ma sono pensieri che non sono niente con le passioni valenti di don Fabrizio, che si eleva sopra le passioni mondane e terrene, quindi nei suoi confronti si prova una certa pena. Al di sotto di quell’Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da più di un mese, dal giorno dei “moti” del quattro aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal convento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l’intimità collettiva del Salvatore. I ragazzini si accapigliavano di già per il possesso di una immagine di S. Francesco di Paola; il primogenito, l’erede, il duca Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di farlo in presenza dei genitori, andava palpando attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasigari; nel volto emaciato si affacciava una malinconia metafisica: la giornata era stata cattiva: “Guiscardo”, il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena, e Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di fargli pervenire il solito bigliettino color di mammola. A che fare, allora, si era incarnato il Redentore? (pag.32) Vediamo ora l’aspetto del capo famiglia, notando che ha ereditato qualcosa dai propri genitori. Lui, il Principe, intanto si alzava: l’urto del suo peso da gigante faceva tremare l’impiantito e nei suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l’orgoglio di questa effimera conferma del proprio signoreggiare su uomini e fabbricati. Adesso posava lo smisurato Messale rosso sulla seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva posato il ginocchio, e un po’ di malumore intorbidò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto. Non che fosse grasso: era soltanto immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari; le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare in cerchio. Quelle dita, d’altronde, sapevano anche essere di tocco delicatissimo nel maneggiare e carezzare e di ciò si ricordava a proprio danno Maria Stella, la moglie; e le viti, leghiere, i bottoni smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e “cercatori di comete” che lassù, in cima alla villa, affollavano il suo osservatorio privato si mantenevano intatti sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calante di quel pomeriggio di Maggio accendevano il colorito roseo, il pelame color di miele del Principe; denunziavano essi l’origine tedesca di sua madre, di quella principessa Carolina la cui alterigia aveva congelato, trent’anni prima, la corte sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui fermentavano altre essenze germaniche ben più incomode per quell’aristocratico siciliano nell’anno 1860, di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchissima ed i capelli biondi nell’ambiente di olivastri e di corvini: un temperamento autoritario, una certa rigidità morale, una propensione alle idee astratte che nell’habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano. (pag.32-33) Ce lo presenta con una figura imponente, immenso e fortissimo, altissimo, tanto da sfiorare con la testa i lampadari delle case dei “comuni mortali”, possiamo vedere l’incarnazione del principe di autorità, ma è una presenza che può presentare solo nella sua casa ma non fuori nella società a causa del contesto storico; aveva delle dita potenti e agili tanto da girare le posate, ma che sono al tempo stesso delicate, amante dell’astronomia, tanto che aveva un suo osservatorio. Vediamo i colori, i quali sono quelli di una persona che fa eccezione nel mondo meridionale, ovvero di pelle bianca, capelli biondi, occhi chiari, e un colorito roseo, poiché è figlio di una principessa tedesca. Per quanto riguarda il carattere abbiamo dei tratti riconducibili alla madre (intellettualismo culturale) come il temperamento autoritario, che si è trasformato in prepotenza capricciosa a contatto con il mondo siciliano (cliché), poi abbiamo una rigidezza morale, che è scaduta a solo scrupolo, lo noteremo nel suo incontro con la prostituta, e infine la passione per le idee, la vocazione per la matematica applicata agli astri, di qui per il pragmatismo, il buon senso pratico, di parenti e amici; dal padre invece prende la sensualità e il fascino, si dimostra un buon donnaiolo, oltre all’amante altre donne frequentate. Il principe allora è ben consapevole della crisi della sua fascia sociale, sta perdendo feudi, si sta impoverendo il suo casato, e di fronte a questa crisi non sa porre un rimedio, si pone inerte, rassegnato a questa decadenza. Questa sua mancanza di presa di posizione possiamo vederla come una conseguenza della sua mancanza di pragmatismo e di amore per l’astrattismo, con la testa fra le stelle non sa come sistemare le questioni. Ma anche la sensualità paterna è una causa di questa rinuncia all’azione per cambiare il destino del suo casato, poiché si accontenta di solo di quei determinati piaceri. Il primo episodio vero e proprio del romanzo è il ritrovamento del soldato borbonico ritrovato morto nel giardino della villa nei pressi di Palermo, ma viene fuori perché è un ricordo del principe, questo defunto morto nei moti del 4 aprile, zuffa di san Lorenzo, come la definisce il principe. Però come arriva a questo ricordo? Tramite associazione di odori, quando entra nel giardino, insieme a Bendicò, post rosario, attratto dai forti odori, untuosi, carnali e lievemente putridi, una associazione di idee lo porta al fetore del corpo morto trovato un mese prima nel giardino da un russo servo di casa in maniera pietosa, tutto sfracellato, ricoperto dalle formiche. Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni d’idee. “Adesso qui c’è buon odore, ma un mese fa…” Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del 5° Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. (pag.35) E a proposito di questa zuffa nella mente del principe che si pone i perché e i come di questo defunto, si svolge questo dialogo immaginario tra lui stesso e il cognato, don Ciccio Malvica, fratello della moglie, che è il classico conversatore, incapace di una visione lungimirante, incapace di incidere sulla realtà e lasciare la porta aperta di riprendere la sua egemonia. Vediamo come si svolge questo dialogo interiore. “Ma è morto per il Re, caro Fabrizio, è chiaro” gli avrebbe risposto suo cognato Màlvica se Don Fabrizio lo avesse interrogato, quel Màlvica scelto sempre come portavoce della folla degli amici. “Per il Re, che rappresenta l’ordine, la continuità, la decenza, il diritto, l’onore; per il Re che solo difende la Chiesa, che solo impedisce il disfacimento della proprietà, mèta ultima della ‘setta’.” Parole bellissime queste, che indicavano tutto quanto era caro al Principe sino alle radici del cuore. Qualcosa però strideva ancora. Il Re, va bene. Lo conosceva bene il Re, almeno quello che era morto da poco; l’attuale non era che un seminarista vestito da generale. E davvero non valeva molto. “Ma questo non è ragionare, Fabrizio,” ribatteva Màlvica. (pag.36) Si pone delle domande don Fabrizio, ad esempio il perché è dovuto morire quell’uomo, mentre don Ciccio risponde che è successo ciò per il re, idealizzando il ruolo del re come difensore della Chiesa, della proprietà, del suo ceto nobiliare. Dall’altra parte don Fabrizio si mostra scettico verso la prospettiva positiva e idealizzata del cognato sulla sua visione del monarca, così vediamo la differenza tra i partigiani appartenenti a quel ceto e tra appartenenti a quel ceto con uno sguardo critico dall’interno, riconoscendo la futura crisi che si sta presentando. Ora siamo arrivati al ricordo del defunto nel giardino, notiamo che il romanzo allora sia costellato di segni di morte, come notiamo dall’intero capitolo dedicato alla morte del principe Salina; un tema abbastanza caro nel romanzo, anzi assistiamo nel corso del romanzo a un’aspirazione, un corteggiamento da parte del principe alla morte. Notiamo anche vari riferimenti a temi psicanalitici. Ora un’altra finestra si apre nella memoria di don Fabrizio, ovvero le udienze che gli ha concesso il re Borbone, per assonanze con il motivo della morte del soldato nel giardino, cioè la monarchia, ma in particolare una in cui ha mostrato la contrario Tancredi lo è e reagisce alla crisi familiare, così da essere ammirato da don Fabrizio ed essere preferito al primogenito Paolo, descritto come un babbeo. Ci avviciniamo ora alla scena che avviene tra i due, scena clou del capitolo, il dialogo tra zio e nipote. Qui don Fabrizio si sta facendo la barba e gli compare allo specchio la figura del nipote Tancredi, che parlando di cosa ognuno dei due hanno fatto la sera prima, il nipote lo prende in giro, tirando frecciatine, perché lui ha saputo e visto il suo tradimento, dandogli dei “ruderi libertini", perché si concede a dei piaceri libertini alla sua veneranda età pur avendo 55 anni, una battuta che sente pesante ma che non può rispondere per la verità detta. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. “Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?” “Buon giorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo.” […] “E chi erano queste conoscenze, si può sapere?” “Tu, zione, tu. Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!” […] Il Principe si sentiva offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto, aveva ragione lui. (pag.49) Quindi la simpatia verso il nipote deve mescolarsi con un senso di inferiorità e di invidia sessuale per il suo fascino e la sua giovane età. Terminata questa prima parte di dialogo, si arriva al punto in cui al perché Tancredi è venuto in visita allo zio, ovvero che vuole unirsi ai ribelli, cioè coloro che vogliono detronizzare il re Borbone. Di fronte a questo desiderio il principe si dispiace sia per il tradimento alla nobiltà e sia perché teme per la vita del nipote perché potrebbe finire come il soldato morto nel giardino. Rivendica infatti il fatto che lui dovrebbe stare dalla parte del re, che non viene citato, e Tancredi chiede quale re, mostrando così il suo intento di mettersi dalla parte dei Savoia; e questo è un atteggiamento che potrebbe essere buono per la nobiltà. “Ma perché sei vestito così? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?” Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. “Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti.” Il povero Salina si sentì stringere il cuore. “Un duello?” “Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi. Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi.” Il Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.” Gli occhi ripresero a sorridere. “Per il Re, certo, ma per quale Re?” Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?” (pag.49-50) Focalizziamo l’attenzione su “quelli ti combinano la Repubblica”. Quindi è interesse della nobiltà stare dalla parte dei rivoluzionari per evitare la perdita dei privilegi nobiliari, e Tancredi indica la via per addomesticare la rivoluzione, per evitare che abbia delle conseguenze gravi sui loro privilegi. Siamo allora di fronte ad un “trasformismo immobilismo”, ovvero illudersi di poter cavalcare il cambiamento, una capacità di adattamento. Questo progetto è un’illusione, fallace, perché si mostrerà poi che Tancredi ha torto, che la rivoluzione non può essere addomesticata, che la nobiltà non può saltare sul carro dei vincitori; infatti, alla fine la storia ha dimostrato che la nobiltà sarà senza poteri. Quindi la frase di Tancredi è fraintendibile se viene affidata all’autore è come se lui avesse un’idea immobilistica della storia, ma non è così, il mito della Sicilia immobile resta un mito. Tancredi è portatore di ideologia detta gattopardismo. L’illusione appartiene a Tancredi, che influenza anche il principe per un po’ di tempo, fino a che si ricrede, notando che il nipote non è stato per niente lungimirante. È una logica quella di Tancredi dell’utilitarismo, del compromesso. Vediamo il pensiero del principe, il quale vede la rivoluzione come una commedia, con qualche minimo cambiamento come macchie di sangue, ma tutto rimane così, e così notiamo con questo pensiero come la frase di Tancredi penetra nel pensiero di don Fabrizio. Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelatrici di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. (pag.55) Vediamo ancora come il pensiero di Tancredi penetra in don Fabrizio, notiamo ciò nel dialogo con Padre Pirrone, il quale si lamenta che tutto quello che hanno si consumerà, finirà, perché la nobiltà si sta unendo ai liberali. Ma il principe gli risponde che la nobiltà deve adattarsi alla realtà, e quindi arrivare al compromesso, presentato come palliativo, che la farà durare molto di più. “Non siamo ciechi, caro Padre, siamo soltanto uomini. Viviamo in una realtà mobile alla quale cerchiamo di adattarci come le alghe si piegano sotto la spinta del mare. Alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l’immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no. Per noi un palliativo che promette di durare cento anni equivale all’eternità. (pag.59) Vediamo un altro incontro nel laboratorio. Un brano importante che ci inizia alla passione astronomica del protagonista del romanzo. Ambedue placati, discussero di una relazione che occorreva inviare presto a un osservatorio estero, quello di Arcetri. Sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili in quelle ore ma presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi come Stella credeva: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli. “Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest’osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell’altro si fondono in una tranquilla armonia. Il problema vero, l’unico, è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte.” (pag.60) Le fanfaronate di Bendicò, il cane, e la “sanguinarietà” del fuoco, sono immagini che ricordano la violenza della storia, come le morti degli innocenti, le violenze che si consumano, distruzioni e scorrerie, ma anche alle irrazionalità della storia, incursioni senza controllo. A fronte di tutto questo, cioè la storia che distrugge, in alternativa ci sta il cielo che è qualcosa che è profondamente razionale, ovvero il cielo della scienza, dove si muovono traiettorie sempre uguali che rispondono ai calcoli precisi, e lo guarda per esorcizzare l’angoscia che lo tormenta della distruzione della sua classe, lo calma come una medicina, un palliativo. Terminiamo il capitolo, queste 24h iniziali, con la recita del rosario, come è iniziato. Ma prima di mettersi a recitare il rosario ci sono due micro-episodi: il primo riguarda un atteggiamento polemico di Paolo verso il bel Tancredi, poiché è geloso della sua poca considerazione, così sfoga il suo risentimento nei confronti del rivale. La gelosia personale, il risentimento del bigotto contro il cugino spregiudicato, del tonto contro il ragazzo di spirito si erano travestiti in argomentazione politica. Don Fabrizio ne fu tanto indignato che non fece neppure sedere il figlio: “Meglio far sciocchezze che star tutto il giorno a guardare la cacca dei cavalli! Tancredi mi è più caro di prima. E poi non sono sciocchezze. Se tu potrai farti fare i biglietti di visita con ‘Duca di Querceta’ sopra, e se quando me ne andrò erediterai quattro soldi, lo dovrai a Tancredi ed agli altri come lui. Vai via, non ti permetto più di parlarmene! qui comando io solo.” Poi si rabbonì e sostituì l’ironia all’ira. “Vai, figlio mio, voglio dormire. Vai a parlare di politica con ‘Guiscardo’, v’intenderete bene.” (pag.63-64) Si critica quindi l'atteggiamento di Tancredi, quello di aver tradito la causa dei Borboni, e così si mostra indignato. Ma don Fabrizio risponde che è preferibile la ribellione di Tancredi rispetto alla mediocrità sua, di Paolo, il quale viene invitato a parlare di politica con il cavallo, proprio perché non ne capisce niente. Oltre tutto aggiunge che Tancredi ha il merito di garantire a Paolo stesso un futuro in ambito aristocratico, per questo dovrebbe esserne grato. In effetti Paolo strumentalizza la politica per sfogare un risentimento personale, un’invidia e una gelosia nei confronti di Tancredi per il fato di essere il prediletto del padre. Ora l’altro episodio riguarda una comunicazione di Malvica, il cognato, fratello della moglie, aristocratico di una pasta mediocre rispetto a don Fabrizio. In questo biglietto scrive che sono sbarcati i piemontesi, ovvero i Garibaldini a Marsala, e Malvica sta fuggendo sui legni inglesi, e invita anche il principe a fare lo stesso, ma don Fabrizio lo critica e gli dà del coniglio. Ancora un po’ stordito il Principe aprì la lettera: “Caro Fabrizio, mentre scrivo sono in uno stato di prostrazione estrema. Leggi le terribili notizie che sono sul giornale. I Piemontesi sono sbarcati. Siamo tutti perduti. Questa sera stessa io con tutta la famiglia ci rifugieremo sui legni inglesi. Certo vorrai fare lo stesso; se lo credi ti farò riservare qualche posto. Il Signore salvi ancora il nostro amato Re. Un abbraccio. Tuo Ciccio.” Ripiegò il biglietto, se lo pose in tasca e si mise a ridere forte. Quel Màlvica! Era stato sempre un coniglio. (pag.64) Allora dopo questo doppio giudizio sprezzante si prepara alla preghiera nel salotto, e concentra lo sguardo su Vulcano, divinità pagana vivente sull’Etna, L’episodio successivo vede don Fabrizio a colloqui con padre Pirrone, nel quale sappiamo dei sentimenti di Concetta verso Tancredi, e di questo fatto la ragazza non informa il principe ma si confida con padre Pirrone che riferisce al principe dopo il bagno mentre si asciuga. Mentre il Gesuita sedeva egli incominciò per proprio conto alcuni prosciugamenti più intimi. “Ecco, Eccellenza: sono stato incaricato di una missione delicata. Una persona sommamente cara a voi ha voluto aprire a me il suo animo e affidarmi l’incarico di far conoscere i suoi sentimenti, fiduciosa, forse a torto, che la stima della quale sono onorato…” […] Si tratta della signorina Concetta.” Pausa. “Essa è innamorata.” Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si sentì invecchiato di colpo; dimenticò le miglia che percorreva cacciando, i “Gesummaria” che sapeva provocare, la propria freschezza attuale al termine di un viaggiolungo e penoso; di colpo vide sé stesso come una persona canuta che accompagna uno stuolo di nipotini a cavallo alle capre di Villa Giulia. (pag.83-84) Vediamo le reazioni di don Fabrizio. La prima reazione è assolutamente negativa, si sente invecchiato di colpo, un colpo basso, perché vede la figlia in età in cui si sposa e sente pesanti allora i suoi 45 anni, e questa sensazione di invecchiamento si pone sul piano delle relazioni esistenziali, ovvero che la figlia si può sposare, ma poi si aggiunge anche il piano politico, ovvero che Concetta abbia scelto Tancredi, e questo è un problema perché lui ha altri progetti per il nipote, e questo innamoramento si pone come un ostacolo ai suoi piani. Tancredi doveva avere un’altra donna per i suoi obbiettivi, tanto che per lui sogna una vita di successo, un alfiere contro la rivoluzione, una donna con caratteristiche ben precise, una donna congeniale, brillante, e ricca, che Concetta non ha perché ha una dose minima a disposizione, non può garantire un patrimonio a Tancredi, e i soldi conteranno moltissimo nel futuro dei nobili, in particolare per i nobili Salina che hanno un patrimonio che sta decadendo. Tancredi, secondo lui, aveva dinanzi a sé un grande avvenire; egli avrebbe potuto essere l’alfiere di un contrattacco che la nobiltà, sotto mutate uniformi, poteva portare contro il nuovo ordine politico. Per far questo gli mancava soltanto una cosa: i soldi; di questi Tancredi non ne aveva, niente. E per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse. Treno di casa… e Concetta con tutte le sue virtù passive sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritrosa com’era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, cioè una palla di piombo al piede del marito. (pag.85-86) Così inizia a nominarne altre, come Maria Santa Pau, brutta sì, ma di buono partito, per l’amore si può aspettare. “La vedete voi, Padre, Concetta ambasciatrice a Vienna o a Pietroburgo?” La testa di Padre Pirrone fu frastornata da questa domanda. “Ma che c’entra questo? Non capisco.” Don Fabrizio non si curò di spiegare e si ringolfò nei suoi pensieri. Soldi? Concetta avrebbe avuto una dote, certo. Ma la fortuna di casa Salina doveva essere divisa in otto parti, in parti non eguali, delle quali quella delle ragazze sarebbe stata la minima. Ed allora? Tancredi aveva bisogno di ben altro: di Maria Santa Pau, per esempio, con i quattro feudi già suoi e tutti quegli zii preti e risparmiatori; di una delle ragazze Sutèra, tanto bruttine ma tanto ricche. L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta. Lo sapeva lui che cos’era l’amore… e Tancredi poi, davanti al quale le donne sarebbero cadute come pere cotte… (pag.86) Ad un certo punto sente il rintocco di un mortorio che lo allontana dai pensieri negativi da una parte, ma dall’altra lo porta ad identificarsi con il morto (corteggiamento della morte). Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio”. Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affaticato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era mancata la forza di aspettare la pioggia. “Beato lui” pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette. “Beato lui, se ne strafotte ora di figlie, doti e carriere politiche.” Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. “Finché c’è morte c’è speranza” pensò; poi si trovò ridicolo per essersi posto in un tale stato di depressione perché una sua figlia voleva sposarsi. (pag. 86-87) (La contemplazione delle stelle è un avvicinamento alla situazione di morte, l’anticamera della morte.) Vediamo un altro episodio metaforico che ci fa capire cosa sta bollendo nella pentola di Tancredi. Siamo nel giardino di Donnafugata, il principe si sofferma a guardare una fontana di Anfitrite abbracciata da Nettuno, spirito sensuale, lo intercetta in questo frangente il nipote, che viene rimproverato per la vista di quelle indecenze non buone per la sua età, e invitato a vedere le pesche forestiere, ovvero un innesto di azioni forestiere. Ma ciò è una metafora, ovvero il matrimonio tra Tancredi e Angelica, che appartengono a classi diverse, aristocratico e borghese, è metafora dell’innesto della classe borghese sulla nobiltà decaduta. Il significato di questa metafora è implicito, deve ricavarlo solo il lettore: l’innesto è un amore meditato, in parole povere un matrimonio combinato, costruito sulla base di interessi comuni delle due famiglie, Salina e Sedara, la prima per riprendere il patrimonio in decadenza, la seconda per ottenere il titolo aristocratico, reciprocamente conveniente per tutti e due. Andarono a guardare le “pesche forestiere.” L’innesto dei gettoni tedeschi, fatto due anni prima, era riuscito perfettamente; le pesche erano poche, una dozzina sui due alberi innestati, ma erano grandi, vellutate e fragranti; giallognole con due sfumature rosee sulle guancie sembravano testoline di cinesine pudiche. […] “Vedi! così mi piaci, zio; così, nella parte dell’agricola pius che apprezza e pregusta i frutti del proprio lavoro, e non come ti ho trovato poc’anzi mentre contemplavi nudità scandalose.” “Eppure, Tancredi, anche queste pesche sono prodotte da amori, da congiungimenti.” “Certo, ma da amori legali, promossi da te, padrone e dal giardiniere, notaio; da amori meditati, fruttuosi…” (pag.88) Angelica quindi è stata invitata insieme al padre, don Calogero, che si presenta davanti la nobiltà. Don Fabrizio non era vestito in modo solenne, mondano, ma per mettere a suo agio gli ospiti mette un abito più modesto, di pomeriggio. Quando viene annunciato Calogero e lo vede vestito in frac, a don Fabrizio viene un colpo perché è più elegante di lui; ciò rappresenta davvero il tempo mutato, don Calogero incarna lo spirito dei tempi nuovi, ambizione della gens nuova, borghesia che si arricchisce e ricerca il primato. Si consola però don Fabrizio per come gli sta male il vestito all'invito. Su di un solo particolare transigeva: non si metteva in abito da sera per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano. […] Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: “Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frack!” […] Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala. Quello era stato un avvenimento previsto, non solo, ma anche lontano e invisibile. Adesso, sensibile com’egli era, ai presagi e ai simboli, contemplava la Rivoluzione stessa in quel cravattino bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua. Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera. (pag. 89-90) L’ultima parte del capitolo ci porta in primo piano l’importanza dei conventi, soprattutto nella vita delle ragazze della classe nobiliare. Un ambiente quello dei conventi protagonista in quel periodo storico che notiamo in un episodio di uno scontro raccontato da Tancredi, che mostra come questi luoghi sono stati ormai svuotati dal loro essere, e ne parla con un certo erotismo. “Io non avevo ancora questo impiastro sull’occhio e mi son divertito un mondo, signorina, mi creda. Le più grandi risate le abbiamo fatte la sera del 28 Maggio, pochi minuti prima che io fossi ferito. Il Generale aveva bisogno di avere un posto di vedetta in cima al Monastero dell’Origlione: picchia, picchia, impreca, nessuno apre; era un convento di clausura. Tassoni, Aldrighetti, io e qualche altro tentiamo di sfondare la porta con il calcio dei nostri moschetti. Niente. Allora corriamo a prendere una trave di una casa bombardata vicina e finalmente, con un baccano d’inferno la porta viene giù. Entriamo: tutto deserto; ma da un angolo del corridoio si odono strilli disperati: un gruppo di suore si era rifugiato nella cappella ed esse stavano lì ammucchiate vicino all’altare; chissà cosa te-mes-se-ro da quella diecina di giovani esasperati. Era buffo vederle, brutte e vecchie com’erano, nelle loro tonache nere, con gli occhi sbarrati, pronte e disposte al… martirio. Guaivano come cagne. Tassoni, quel bel tipo, gridò: ‘Niente da fare, sorelle, abbiamo da badare ad altro; ritorneremo quando ci farete trovare le novizie!’ E noi tutti a ridere che si voleva mettere la pancia in terra. E le lasciammo lì con la bocca asciutta per andare a far fuoco contro i regi dai terrazzini di sopra.” (pag.95) C’è Tancredi che vuole entrare con la forza nel convento di clausura femminile, e racconta ad Angelica, molto eccitata, come hanno sfondato il portone e potuto vedere lo spettacolo delle vecchie suore da una parte angosciate per ciò che le sarebbe potuto capitare, ma d’altro un sentimento di scoperta di cose potrebbero capricci), ma anche le varie espressioni della natura che lo portano lontano dalla realtà di Donnafugata. I due cacciatori allora sbucano nel silenzio della Sicilia pastorale, sembra quasi un incontro con una realtà non tanto reale, quasi un’irrealtà. Da una parte c’è questa campagna assolata, silenziosa, sempre più luminosa e calorosa nel corso giornaliero, e dall’altra c’è Donnafugata con il suo palazzo, i nuovi ricchi e i vari fastidi. Queste due realtà a confronto si rivelano del tutto lontane, incommensurabili, anzi la compagna della Sicilia pastorale poiché è immutabile, così permanente, diventa il luogo che permette al principe di dimenticare Donnafugata, di puntare un cannocchiale rovesciato su Donnafugata, suoi problemi che aveva suscitato e tutto ciò che gravita intorno ad essa. Così l’immersione nella campagna adempie la stessa funzione delle stelle, cioè permette l’esercizio del patos della distanza, gli permette di godere dei piaceri di quel patos. Un simile topos letterario lo ritroviamo in Calvino, nel Barone Rampante, con l’allontanamento di Cosimo dalla realtà terrena tramite la nuova vita sugli alberi, quindi una distanza in verticale, dall’alto. Anche l’idea del cannocchiale rovesciato è un’espressione che rimanda a Pirandello, alla novella di Un personaggio in cerca di autore, con il dottor Fileno e la sua lente che rimpicciolisce, un modo per esorcizzare ciò che ci fa soffrire. Ed è proprio quello che succede in questo caso, perché il cacciatore immerso in questo mondo idilliaco guarda Donnafugata come se appartenesse al passato e fosse così ormai distante dalla vita. A questo però si contrappone il mutamento della storia, di cui don Fabrizio ne è testimone e non può negare. Nel termine “campagna” è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro: la boscaglia invece, aggrappata alle pendici di un colle, si trovava nell’identico stato d’intrico aromatico nel quale la avevano trovata Fenici, Dori e Ioni quando sbarcarono in Sicilia, quest’America dell’antichità. Don Fabrizio e Tumeo salivano, scendevano, sdrucciolavano erano graffiati dalle spine tal’e quale come un Archedamo o un Filostrato qualunqui erano stati stancati e graffiati venticinque secoli prima; vedevano le stesse piante, un sudore altrettanto appiccicaticcio bagnava i loro abiti, lo stesso indifferente vento senza soste, marino, muoveva i mirti e le ginestre, spandeva l’odore del timo. Le improvvise soste pensose dei cani, la loro patetica tensione in attesa della preda era identica a quella dei giorni in cui per la caccia s’invocava Artemide. Ridotta a questi elementi essenziali, col volto lavato dal belletto delle preoccupazioni, la vita appariva sotto un aspetto tollerabile. (pag.114) La Sicilia pastorale è la stessa identica che poteva essere sperimentata dagli antichi già 25 secoli prima, vediamo quindi un immobilismo storico. Date queste premesse possiamo capire quello che ci viene proposto. Abbiamo una sospensione dell’azione, come la discesa in giardino e il ricordo del soldato morto precedenti, c’è allora una sequenza memoriale, l’azione si ferma e abbiamo la scena del ricordo. Ci viene detto che la campagna non gli dava quel senso di rassicurazione e consolazione fino a poco tempo prima, l’estate prima, questo effetto si era fatto sentire in precedenza, adesso no, perché non glielo permettono i vari pensieri. I fastidi attanagliano l’animo di don Fabrizio, come formiche che si muovono per assaltare una lucertola morta. Una scena che poi avverrà realmente ai due cacciatori nel momento del loro riposo pomeridiano, assaltati dalle formiche per le loro briciole. Don Fabrizio ne aveva avuto parecchi di fastidi in questi due ultimi mesi: erano sbucati da tutte le parti come formiche all’arrembaggio di una lucertola morta. (pag.106) Se il calore meridiano addormentava gli uomini, niente invece poteva fermare le formiche. Richiamate da alcuni chicchi di uva stantia che don Ciccio aveva risputato via, le loro fitte schiere accorrevano, esaltate dal desiderio di annettersi quel po’ di marciume intriso di saliva di organista. Si facevano avanti colme di baldanza, in disordine ma risolute. (pag.116) Un’ immagine quindi metaforica e successivamente reale. E materializza così una sorta di formicaio interiore con i pensieri fuorvianti. Le preoccupazioni sono allora, dopo la rivoluzione borghese, Tancredi e la sua infatuazione, Concetta e il suo amore per il cugino, gli scrupoli e l’ambito politico, le mille astuzie alle quali doveva sottostare, quest’ultime sono il corrispettivo della logica del baratto, è questo infatti che esige astuzia per affrontare i problemi. Alcuni erano spuntati fuori dai crepacci della situazione politica; altri gli erano stati buttati addosso dalle passioni altrui; altri ancora (ed erano i più mordaci) erano germogliati dal suo proprio interno, cioè dalle irrazionali reazioni sue alla politica ed ai capricci del prossimo (capricci chiamava, quando era irritato, ciò che da calmo designava come passioni). (pag.107) Questa astuzia si presenta anche sul piano del linguaggio, nello scambio verbale. Abbiamo una prova. Arrivano le lettere di Tancredi da Caserta che il principe legge a tutta la famiglia raccolta, in questo caso l’astuzia si traduce in precauzione verbale. Infatti, elimina con le sue cesoie tanto le spine e i boccioli maturi, censura ciò che può far spiacere ad Angelica, così provvede a tagliare anche i boccioli. Qui richiama alla pittura con una madonna con le rose che paragona ad Angelica. Ma chiudiamo questa prima parte con la più importante delle lettere, ovvero dove Tancredi chiede a don Fabrizio di poter sposare Angelica, chiede se può chiedere lui la mano di Angelica. C’è un foglio di questa lettera che diciamo costituisce un commento politico alla vicenda, al possibile matrimonio, la proposta matrimoniale avanzata. Tancredi si abbandonava a lunghe considerazioni sulla opportunità, anzi sulla necessità che unioni tra famiglie come quella dei Falconeri e quella dei Sedàra (una volta si spingeva fino a scrivere arditamente “casa Sedàra”) venissero incoraggiate per l’apporto di sangue nuovo che esse recavano ai vecchi casati, e per l’azione di livellamento dei ceti che era uno degli scopi dell’attuale movimento politico in Italia. (pag.110) Tancredi così dice che le unioni verso il matrimonio di famiglia sono raccomandate perché permettono di riscattare la nobiltà e permette una buona alleanza tra i due ceti. Questa può essere interpretata anche come un’atra lezione che Tancredi fa al principe. La reazione del principe a questa lettera è particolare. La prima lettura di questo straordinario brano di prosa diede un po’ di capogiro a Don Fabrizio. Egli notò di nuovo la stupefacente accelerazione della storia; per esprimersi in termini moderni diremo che egli venne a trovarsi nello stato d’animo di una persona che credendo, oggi, di esser salito a bordo di uno degli aerei paciocconi che fanno il cabotaggio fra Palermo e Napoli si accorge invece di trovarsi rinchiuso in un apparecchio supersonico e comprenda che sarà alla meta prima di aver avuto il tempo di farsi il segno della croce. (pag.111) Si mette a confronto questo aereo pacioccone con l’apparecchio supersonico, il primo è quello che permette lo spostamento da un continente all’altro, il secondo invece sono quelli di piccolo calibro. Questo è un pensiero che fa il narratore sulle riflessioni di don Fabrizio, è quindi un pensiero anacronistico perché mette in risalto la velocità degli elementi aereodinamici con il ritmo alto del cambiamento storico. Vediamo allora un don Fabrizio molto lucido che nota come cambia veloce la storia, con quale intensità. Ci interessa inoltre il tipo di paragone con gli aerei, che è anacronistico rispetto al tempo della storia raccontata, del periodo in cui è ambientata; infatti, c’è uno sfasamento rispetto a quel periodo di rivoluzione, e questo anacronismo lo vediamo anche in altri casi, come ad esempio il lapsus freudiano di don Fabrizio, anche se Freud non c’era ancora a quel tempo. Venne mostrata a Don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata completata entro il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse. (pag.120) In questo episodio arriva questa lettera in Comune dai Girgenti che si fa garante di un finanziamento a favore di una fognatura a Donnafugata, che sarebbe stata completata entra il 1961, e questo è un lapsus che Freud spiegherà anni dopo. È un lapsus che rivela i pensieri inconsci di Sedara, i reali pensieri, ovvero che la fognatura si terminerà molto avanti, facendo una promessa che sa benissimo di non mantenere, e sa benissimo di ingannare i destinatari; abbiamo così un altro esempio di mala fede, più o meno consapevole. Potremmo dire anche che Tancredi, in modo manzoniano, affermi che questo matrimonio sa da fare. E quindi quella di Tancredi è una ragionata passione. Alla condivisione però della lettera con la moglie Maria Stella, ella accusa Tancredi di essere un traditore, e Angelica viene insultata come una poco di buono. Ma ancora in questo caso don Fabrizio prende le parti del nipote, mostrando di ammirarlo ancora. “Ed io che avevo sperato che sposasse Concetta! Un traditore è, come tutti i liberali della sua specie; prima ha tradito il Re, ora tradisce noi! Lui, con la sua faccia falsa, con le sue parole piene di miele e le azioni cariche di veleno! Ecco che cosa succede quando si porta nella casa gente che non è tutta del vostro condividere il pensiero dei forestieri, ma tacciano esprimendo scetticismo. Allora a questo punto i forestieri decidono di anteporre la matematica alla retorica. Le arti del Trivio (grammatica/lingua latina- retorica – dialettica/filosofia) e Quadrivio (aritmetica – geometria – astronomia – musica) sono le arti liberali. Le seconde sono quelle scientifiche, le prime quelle letterarie. La retorica è l’arte della persuasione, rinunciano così a persuadere, e passano alla matematica ma violentando la matematica stessa con l’imbroglio elettorale. Dopo il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si posero all’opera ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; “sì” 512; “no” zero. (pag.121) Don Ciccio Tumeo continua ancora ad essere l’uomo dell’Ancient Regime, che denuncia l’imbroglio e sfoga il suo diritto al voto, alla sua opinione e alla sua libertà. Si pone anche contro chi ha permesso questo imbroglio, ovvero Sedara, aggiungendo anche la figlia agli insulti. Io, Eccellenza, avevo votato ‘no’. ‘No,’ cento volte ‘no’. […] e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco! Per una volta che potevo dire quello che pensavo quel succhiasangue di Sedàra mi annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella… (e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!” (pag.122-123) È significativa l’insistenza sul tempo, in particolare si pone attenzione sul vento lercio, sporco, forte, (pag.119 e poi 123 e questo vento lercio non può essere solo una mera notazione metereologica, ma acquista un valore simbolico indicando il clima di concussione in cui si svolgono le elezioni e che porta alla presenza di una neonata, ovvero la buona fede, cioè l’onesta. Accigliato e pelli-chiaro procedeva cauto verso il Municipio e spesso con le mani si proteggeva gli occhi per impedire che quel ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via, gli cagionasse quella congiuntivite cui era soggetto; e andava dicendo a Padre Pirrone che senza vento l’aria sarebbe stata come uno stagno putrido ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé molte porcherie. (pag.119) Don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due ragazzini con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. (pag.121) A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso sapeva chi era stato strangolato a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata, la buonafede. (pag.123) Il principe ammira Tumeo di fronte a questa indignazione perché si è comportato in maniera più signorile, si è dimostrato snob. Un termine questo anacronistico, perchè nel lessico 800esco il termine snob significava devoto, affezionato, in questo caso ai Salina, rispetto invece al significato odierno. Il principe anzi cerca di calmarlo riproponendogli un ritorno alla caccia. Don Ciccio si era sfogato; ora alla sua autentica ma rara personificazione del “galantuomo austero” subentrava l’altra, assai più frequente e non meno genuina dello “snob”. […] Beninteso la parola “snob” era ignota nel 1860 in Sicilia. […] lo “snob” essendo infatti il contrario dell’invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi differenti: era chiamato “devoto”, “affezionato”, “fedele”. (pag.125) La seconda domanda che pone a don Ciccio riguarda don Calogero per conoscere la persona, dal suo punto di vista, in prossimità del matrimonio. Si chiede e interroga tanto, ma è normale questo atteggiamento? Questa insistenza di domande tradisce un formicolio nell’animo del principe, rappresenta e conferma quindi un fastidio questo matrimonio, perché ad egli non scende più il rospo del contratto matrimoniale, perché implica, richiede, un cedimento alla realtà borghese, che non è il massimo per don Fabrizio, e si presenta quindi un po' masochista questo interesse. E Tumeo come potrebbe rispondere? “Don Ciccio, statemi a sentire. Voi che vedete tante persone in paese, che cosa si pensa veramente di don Calogero a Donnafugata?” A Tumeo, in verità, sembrava di aver già espresso con sufficiente chiarezza la propria opinione sul sindaco, e così stava per rispondere quando gli ribalenarono in mente le vaghe voci che aveva inteso sussurrare circa la dolcezza degli occhi con i quali Don Tancredi contemplava Angelica; ed allora venne assalito dal dispiacere di essersi lasciato trascinare a manifestazioni tribunizie che forse puzzavano alle narici del Principe se quel che si assumeva era vero; e ciò mentre in un altro compartimento della sua mente egli si rallegrava di non aver detto nulla di positivo contro Angelica; anzi il lieve dolore che ancora sentiva al suo indice destro gli fece l’effetto di un balsamo. […] “La verità, Eccellenza, è che don Calogero è molto ricco, e molto influente anche; che è avaro (quando la figlia era in collegio lui e la moglie mangiavano in due un uovo fritto) ma che quando occorre sa spendere; […]poi quando è amico, è amico, bisogna dirlo; […] Questo è don Calogero, Eccellenza, l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così. (pag.126-127) Ne parla male, come già fatto in precedenza per l’imbroglio elettorale, dove ha dimostrato già disonestà, e non potrebbe ribadire se non che c’è occhio dolce da parte di don Tancredi per Angelica. Di fronte a ciò non può esagerare su don Calogero. E quindi ammette che don Calogero è l’uomo nuovo. È un’ammissione realista da parte di don Ciccio, perché ammette che l’uomo uomo può essere lui, mostrando un po' di critica, ma una distanza più contenuta. Poi il discorso passa a toccare altre figure: la moglie di don Calogero, donna Bastiana, che è impresentabile. (pag.128) Di lei, infatti, c’è una descrizione impietosa, don Ciccio è spietato nel farla, la presenta come un essere volgare e ignorante, buona soltanto a soddisfare piaceri sessuali. Pare che donna Bastiana sia una specie di animale: non sa leggere, non sa scrivere, non conosce l’orologio, quasi non sa parlare: una bellissima giumenta, voluttuosa e rozza; è incapace anche di voler bene alla figlia; buona ad andare a letto e basta. (pag.128) E rincara la dose chiamando in causa il nonno materno di Angelica, il padre di Bastiana. Notiamo così che le origini di Bastiana, e naturalmente di Angelica, sono tanto povere e umili, un affittuario. E don Calogero, in riferimento alla storia di Peppe Mmerda, suo suocero e padre di Bastiana, acquista una connotazione mafiosa, in quanto mandante dell’uccisione di Peppe Mmerda, un soprastante che lavorava per Salina. “Del resto” continuava “non potrebbe essere altrimenti. Lo sapete, Eccellenza, di chi è figlia donna Bastiana?” Voltatosi, si alzò sulla punta dei piedi e con l’indice mostrava un lontano gruppetto di case che sembravano scivolare giù dal dirupo di un colle ed esservi a mala pena inchiodate da un campanile miserabile: un borgo crocifisso. “È figlia di un vostro affittuario di Runci, Peppe Giunta si chiamava e tanto sudicio e torvo era che tutti lo chiamavano ‘Peppe ‘Mmerda’. Scusate la parola, Eccellenza.” E, sodisfatto, avvolgeva attorno a un suo dito un orecchio di Teresina. “Due anni dopo la fuga di don Calogero con Bastiana lo hanno trovato morto sulla trazzera che va a Rampinzeri, con dodici ‘lupare’ nella schiena. Sempre fortunato don Calogero, perché quello stava diventando importuno e prepotente.” (pag.128) La famiglia di Angelica si presenta con dei tratti ignoranza, volgarità e violenza, e ciò ci porta a ritenere il formicolio di Fabrizio abbastanza giustificato, voleva infatti conferma da don Ciccio. Il matrimonio che si prospetta tra i due non può che essere visto da Ciccio in modo negativo, sembra qualcosa di inaccettabile, tanto che lo porta ad indignarsi, (pag130) infatti ammette l’azione seduttiva, come oggetto di conquista, e non accettabile come prospettiva di unione matrimoniale, vedendo una fine catastrofica delle famiglie, una crisi definitiva. Il semplice pensiero di un matrimonio meditato fra un Principe di Falconeri e una nipote di Peppe ‘Mmerda non traversò neppure l’immaginazione di quei villici che rendevano così alle case feudali un omaggio equivalente a quello che il bestemmiatore rende a Dio. (pag.129) “Questa, Eccellenza, è una porcheria! Un nipote, quasi un figlio vostro non doveva sposare la figlia di quelli che sono i vostri nemici e che sempre vi hanno tirato i piedi. Cercare di sedurla, come credevo io, era un atto di conquista; così, è una resa senza condizioni. È la fine dei Falconeri, e anche dei Salina!” (pag.130-131) Andiamo all’ultimo episodio, il colloquio tra il principe e don Calogero. Con che animo va incontro a don Calogero? Ce lo dice il narratore con delle immagini. ragazza verso il centro nascosto del ciclone sensuale, ed Angelica, in quel tempo, voleva ciò che Tancredi aveva deciso. […] Partivano accompagnati da mademoiselle Dombreuil o da Cavriaghi (Padre Pirrone con la sagacia del suo Ordine si rifiutò sempre a farlo), talvolta da tutti e due; la decenza esteriore era salva. Ma nel palazzo non era difficile di fuorviare chi volesse seguirvi: bastava infilare un corridoio (ve ne erano lunghissimi, stretti e tortuosi con finestrine grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia), svoltare per un ballatoio, salire una scaletta complice, e i due ragazzi erano lontano, invisibili, soli come su un’isola deserta. (pag.159-160) Notiamo le scorribande dei ragazzi, così fanno irruzione in una stanza appartamentino. Un primo centro dove si concentra l’energia erotica di tutto il palazzo e di tutti gli episodi è un appartamento sadico erotico, dove l’eros assume una sfumatura perversa. È quindi una tappa del viaggio sensuale che arriva a turbare lo stesso Tancredi, come se avesse osato. Una volta la sorpresa fu di colore diverso. In una stanza della foresteria vecchia si avvidero di una porta nascosta da un armadio; la serratura centenaria cedette presto a quelle dita che godevano nell’intrecciarsi e soffregarsi per forzarla: dietro, una lunga scala stretta si svolgeva in soffici curve con i suoi scalini di marmo rosa. In cima un’altra porta, aperta, e con spesse imbottiture disfatte, e poi un appartamentino vezzoso e strambo, sei piccole camere raccolte attorno a un salotto di mediocre grandezza, tutte e il salotto stesso con pavimenti di bianchissimo marmo, un po’ in pendio, declinanti verso una canaletta laterale. Sui soffitti bassi bizzarri stucchi colorati che l’umidità aveva fortunatamente resi incomprensibili*; sulle pareti grandi specchi attoniti, appesi troppo in giù, uno fracassato da un colpo quasi nel centro, ciascuno col contorto reggi-candela del Settecento. […] Tancredi, inquieto, non volle che Angelica toccasse un armadio a muro del salotto; lo schiuse lui stesso. […] dentro vi era un fascio di piccole fruste, di scudisci in nervo di bue, alcuni con manici in argento, altri rivestiti sino a metà da una graziosa seta molto vecchia, bianca a righine azzurre, sulla quale si scorgevano tre file di macchie nerastre; attrezzini metallici inspiegabili. Tancredi ebbe paura, anche di sé stesso, comprese di aver raggiunto il nucleo segreto centro d’irradiazione delle irrequietudini carnali del palazzo. “Andiamo via, cara, qui non c’è niente d’interessante.” (pag.162-163) Però questo non cambia, non modella, nel comportamento i due amanti anzi, nell’appartamento successivo scoprono nuove storie, così che rimane l’alone sadico con il sanguinamento del palato della donna nell’appartamento successivo. Angelica si mostra anche più intraprendente rispetto a Tancredi. Sfida, invita, stuzzica Tancredi con vari riferimenti. Un giorno, non il cervello di Tancredi che in questo non aveva nulla da dire, ma tutto il suo sangue aveva deciso di finirla: quella mattina Angelica, da quella bella canaglia che era, gli aveva detto: “Sono la tua novizia,” richiamando alla mente di lui con la chiarezza di un invito, il primo incontro di desideri corso fra loro; e già la donna resa scarmigliata si offriva, già il maschio stava per sopraffare l’uomo, quando il boato del campanone della chiesa piombò quasi a picco sui loro corpi giacenti, aggiunse il proprio fremito agli altri; le bocche compenetrate dovettero disgiungersi per un sorriso. (pag.165) I ragazzi che si muovono in questo labirinto, con Angelica Sedara che ricorda tanto l’Angelica di Ariosto, che però non giunge all’amore, con l’episodio del castello di atlante, (ricerca). Anche qui abbiamo un inganno, i giorni dell’esplorazione sono i più felici ma il desiderio non viene appagato perché i due giovani vivranno un matrimonio. C’è un altro significato più importante da mettere in evidenza, Ambientato in un altro appartamento, quello della violenza auto-masochista. Siamo nell’appartamento del masochismo, luogo di penitenza e di espiazione del duca santo, Giulio, del 600, dedito ad opere, e qui lo si immagina fustigarsi, redimere i suoi possedimenti feudali, le sue ricchezze che si vedono attraverso le finestre della stanza. Cosa succede? L’indomani della loro scoperta dell’appartamentino enigmatico i due innamorati s’imbatterono in un altro frustino, di carattere ben diverso. Questo, in verità, non era negli appartamenti ignorati ma anzi in quello venerato detto del Duca- Santo, il più remoto del palazzo. Lì, a metà del Seicento un Salina si era ritirato come in un convento privato ed aveva fatto penitenza e predisposto il proprio itinerario verso il Cielo. […] Accanto al cadavere divino pendeva giù da un chiodo una frusta col manico corto dal quale si dipartivano sei strisce di cuoio ormai indurito, terminanti in sei palle di piombo grosse come nocciole. Era la “disciplina” del Duca-Santo. In quella stanza Giuseppe Corbera, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne, come si dice. Invece le zolle erano sfuggite e molte di quelle che da lassù si vedevano appartenevano ad altri, a don Calogero anche; a don Calogero, cioè ad Angelica, quindi al loro futuro figlio. L’evidenza del riscatto attraverso la bellezza, parallelo all’altro riscatto attraverso il sangue diede a Tancredi come una vertigine. (pag.163-163) Che Tancredi pensa che la bellezza di Angelica, il loro matrimonio, possa redimere le terre che prima erano appertinente ai Salina, adesso in mano a don Calogero, così come il sangue del duca santo aveva redento le terre dei suoi antenati. È importante questa redenzione delle terre perché ci fa capire che questo viaggio non è solo il desiderio erotico, ma il vero oggetto è il desiderio di Tancredi di continuare ad esercitare il potere sugli uomini e sulle terre, di indossare l’abito dell’uomo di potere. Potremmo immaginare allora che Tancredi faccia vedere questo appartamento per dimostrare alla figlia di don Calogero, per esibire, la ricchezza passata della sua classe, un modo per sentirsi di nuovo all’altezza della loro potenza. La frusta la possiamo vederla significativa sia sul piano sessuale che sul piano politico. Così si riprende una rivincita nel matrimonio che un po’ lo umilia perché è un matrimonio declassante, che poco sopporta anche lo zio come lo stesso Tancredi, che condivide la mentalità nobiliare. In questo viaggio si prende la rivincita perché corre il rischio di consumare un rapporto prima del matrimonio, corre il rischio di rindossare i panni del signorotto sulle contadine, è una regressione all’Ancient regime con tutti i suoi privilegi. La ferita al labbro è un suggello. Angelica non capiva ed alzato il capo sorrideva, bella ma vacua, lui si chinò e così genuflessa com’era le diede un aspro bacio che la fece gemere perché le ferì il labbro e le raschiò il palato. (pag.164) Ritorniamo ora su don Fabrizio in questa quarta parte. Abbiamo un dialogo sulla Sicilia e sui siciliani tra il principe e il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, il quale a un certo punto si presenta a Donnafuguata per fare una proposta al principio, ovvero quella di accettare la nomina a senatore nel nuovo parlamento italiano, che lo avrebbe, secondo lui, anche lusingato. Ma il colpo di scena è il rifiuto di questa proposta, e durante questa parte don Fabrizio fa un discorso con il quale giustifica il suo rifiuto, illustra le sue ragioni. Ma prima di trattare questa parte veniamo a caratterizzare la figura dell’interlocutore, questo cavaliere di Montuolo. Rampollo di una di quelle famiglie della piccola nobiltà piemontese che viveva in dignitosa ristrettezza sulla propria terra, era la prima volta che si trovava ospite di una grande casa e questo raddoppiava la sua timidità. (pag.171) Si presenta come una figura continentale (si ricordi uno dei due ufficiali della visita a casa), ovvero estranee alla Sicilia. Ma anche don Fabrizio non è del tutto siciliano, figlio di una madre tedesca. Vediamo che l’impatto con l’isola è traumatico per il cavaliere, perché si rende conto di trovarsi di fronte ad una regione caratterizzata dalla presenza del fenomeno del brigantaggio, gliene fa proprio parola Tancredi quando lo accompagna nei dintorni di Donnafugata. Si passava davanti a un divertente palazzo con la facciata adorna di maldestri bugnati. “Questa, caro Chevalley, è la casa del barone Mùtolo; adesso è vuota e chiusa perché la famiglia vive a Girgenti da quando il figlio del barone, dieci anni fa, è stato sequestrato dai briganti.” Il piemontese cominciava a fremere. “Poverino! chissà quanto ha dovuto pagare per liberarlo!” “No, non ha pagato nulla; si trovavano già in difficoltà finanziarie, privi di denaro contante come tutti qui. Ma il ragazzo è stato restituito lo stesso; a rate, però.” “Come, principe, cosa intende dire?” “A rate, dico bene, a rate; pezzo per pezzo. Prima è arrivato l’indice della mano destra. Dopo una settimana, il piede sinistro ed infine in un bel paniere, sotto uno strato di fichi (si era in agosto) la testa; aveva gli occhi sbarrati e del sangue rappreso all’angolo delle labbra. Io non l’ho visto, ero un bambino allora, ma mi hanno detto che lo spettacolo non era bello. Il paniere era stato lasciato su quel gradino lì, il secondo davanti la porta da una vecchia con uno scialle nero sulla testa: non la ha riconosciuta nessuno.” Gli occhi di Chevalley si irrigidirono nel disgusto; aveva già udito narrare il fatto ma adesso, vedere sotto questo bel sole, lo scalino sul quale era stato deposto il dono insolito era un’altra cosa. La sua anima di funzionario lo soccorse: “Che polizia inetta avevano quei Borboni. Fra poco quando verranno li hanno ormai abituati ad essere dominati; e a queste ragione storiche se ne aggiungono altre. “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; (pag.178-179) D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo. (pag.180-181) Arriviamo alle conseguenze che si hanno sul carattere dei siciliani, in primis è il fatalismo che si traduce nel non fare, il sonno, la preferenza per ciò che è già passato, per ciò che è defunto. Per non parlare poi della vita difficile e dura a causa del clima per metà anno caldo estivo torrido. Ora c’è un'altra caratteristica per questo carattere statico, ovvero una sorta di presunzione, perché il siciliano si convince che questi oggettivi difetti siano invece dei pregi; quindi, non accetta che qualcuno gli chieda di cambiare, non accetta che gli venga chiesto un cambiamento alla sua presunta perfezione. Su questa presunzione racconta un aneddoto sulla visita di alcuni ufficiali inglesi in visita dal principe, i quali chiedono perché tutto questo sporco in città. Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare’. […] ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; (pag.183) Ultimo passaggio della quarta parte è all’alba, quando il cavaliere al mattino successivo sta per partire e attraversa il paese per arrivare alla partezza. Vediamo prima una descrizione del mondo di Donnafugata, del paesaggio umano soprattutto, delle condizioni di miseria degli uomini disoccupati e le varie malattie. Intravista nel chiarore livido delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle “trazzere”. Gli uomini, abbrancato lo “zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee. (pag.184-185) E di fronte a questa scena che si nota una concezione differente sul cambiamento, con da una parta la positività, la speranza e il buon prospetto del cavaliere, rispetto ad un pessimismo di fondo e di orgoglio popolare. Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto.” Il Principe era depresso: “Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà, empre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.” (pag.185) La quinta parte è uno spazio di secondaria importanza nell’economia generale del romanzo, tanto è vero che anche l’autore avesse delle perplessità nell’inserirlo, però effettivamente noi che lo leggiamo possiamo capire che il romanzo si potrebbe leggere anche senza questa parentesi. Non è molto funzionale alla vicenda del romanzo. Riguarda principalmente padre Pirrone, e non compare mai don Fabrizio. Si caratterizza per l’ambientazione rustica. L’interlocutore è un plebeo. Riscontriamo allora un capitolo plebeo contadino in un romanzo nobiliare. Si tratta di un viaggio di rango minore, di padre Pirrone a san Cono, paese natale, nei pressi di paleremo. E in questi giorni di soggiorno padre Pirrone si angustia un po’, si deve dare da fare per risolvere dei problemi familiari. Ma notiamo prima un discorso apologetico sulla nobiltà con don Petrino, il quale chiede dell’animo della nobiltà in questo periodo con un tono quasi provocatorio. “Ma, Padre, tu che vivi in mezzo alla ‘nobbiltà’, che cosa ne dicono i ‘signori’ di tutto questo fuoco grande? Che cosa ne dice il principe di Salina, grande, rabbioso e orgoglioso come è?” “Vedete, don Pietrino, i ‘signori’ come dite voi, non sono facili da capirsi. Essi vivono in un universo particolare che è stato creato non direttamente da Dio ma da loro stessi durante secoli di esperienze specialissime, di affanni e di gioie loro; essi posseggono una memoria collettiva quanto mai robusta e quindi si turbano o si allietano per cose delle quali a voi ed a me non importa un bel nulla ma che per loro sono vitali perché poste in rapporto con questo loro patrimonio di ricordi, di speranze, di timori di classe. […] Sono differenti; forse ci appaiono tanto strani perché hanno raggiunto una tappa verso la quale tutti coloro che non sono santi camminano, quella della noncuranza dei beni terreni mediante l’assuefazione. Forse per questo non badano a certe cose che a noialtri importano molto; chi sta in montagna non si cura delle zanzare delle pianure, e chi vive in Egitto trascura i parapioggia. Il primo però teme le valanghe, il secondo i coccodrilli, cose che invece ci preoccupano poco. Per loro sono subentrati nuovi timori che noi ignoriamo: ho visto Don Fabrizio rabbuiarsi, lui uomo serio e saggio, per un colletto di camicia mal stirato; e so di certo che il principe di Làscari dal furore non ha dormito tutta una notte perché ad un pranzo alla Luogotenenza gli avevano dato un posto sbagliato. Ora, non vi sembra che il tipo di umanità che si turba soltanto per la biancheria o per il protocollo sia un tipo felice, quindi superiore?” […] “Ma se è così, Padre, andranno tutti all’inferno!” “E perché? Alcuni saranno perduti, altri salvi, a secondo di come avranno vissuto dentro questo loro mondo condizionato. Ad occhio e croce Salina, per esempio, dovrebbe cavarsela; il giuoco suo lo gioca bene, segue le regole, non bara; il Signore Iddio punisce chi contravviene volontariamente alle leggi divine che conosce, chi imbocca volontariamente la cattiva strada; ma chi segue la propria via, purché su di essa non commetta sconcezze, è sempre a posto. Se voi, don Pietrino, vendeste cicuta invece di mentuccia, sapendolo, sareste fritto; ma se avrete creduto di essere nel vero, la gnà Tana farà la morte nobilissima di Socrate e voi andrete dritto dritto in cielo con tonaca e alucce, tutto bianco.” […] Benché possa non sembrare, sono meno egoisti di tanti altri: lo splendore delle loro case, la pompa delle loro feste contengono in sé un che d’impersonale, un po’ come la magnificenza delle chiese e della liturgia, un che di fatto ad maiorem gentis gloriam, che li redime non poco; […] Fata crescunt Don Fabrizio ha protetto e educato il nipote Tancredi, per esempio, ha insomma salvato un povero orfano che altrimenti si sarebbe perduto. Ma voi direte che lo ha fatto perché il giovane era anche lui un signore, che non avrebbe messo un dito all’acqua fredda per un altro. È vero, ma perché avrebbe dovuto farlo se sinceramente, in tutte le radici del suo cuore gli ‘altri’ gli sembrano tutti esemplari mal riusciti, maiolichette venute fuori sformate dalle mani del figurinaio e che non val la pena di esporre alla prova del fuoco? (pag.195-196) Perché non dobbiamo meravigliarci di ciò? Perché pur non essendo un aristocratico rustico si è sempre messo dalla parte del principe, i suoi dissensi ha dovuto sempre metterli a tacere per convenienza, e questo è un discorso solidale anche se nella sostanza egli non è così sincero con ciò che dice. Vediamo questo discorso di difesa sulla ideologia nobiliare, e pur mancando don Fabrizio viene richiamato lo stesso. Può essere visto una sorta di similitudine con il capitolo precedente, perché padre Pirrone, che non è un aristocratico tesse un elogio dell’aristocrazia, come don Fabrizio non del tutto siciliano che tesse un elogio invece dei siciliani. È solidale con l’aristocrazia ma è dalla parte della nobiltà. Ne parla con don Petrino, non suo parente, ma anche lui plebeo, il quale dopo un po' di discorso l’interlocutore si addormenta, così da avere una sorta di presenza assenza. Allora vediamo l’introduzione del concetto di memoria collettiva di una classe, da tenere presente nel punto di morte del principe che farà una sorta di bilancio sulla sua esistenza e sulla storia della sua famiglia. Importante notare che il mondo dei nobili è una categoria a parte che va giudicata con un metro dalla parte del papa. Questo è lo sfondo storico. Il fattaccio di Aspromonte è un fatto legato alla figura di Garibaldi, pronto a liberare Roma, che viene ferito ad un piede per essere fermato dal governo. Per “mondo” intende la nobiltà, l’aristocrazia, che era costituita da 200 persone, élite della società, un mondo che è sulla via del tramonto, del declino, e lo notiamo nella festa perché si congratulano tra loro per il fatto di esistere ancora. La festa risponde alle abitudini aristocratiche, anche se si tenta anche di dimenticare e anestetizzare il dolore della scomparsa e della decadenza della nobiltà, ma c’è anche l’esigenza di presentare Angelica alla società aristocratica. C’è un altro particolare, ovvero il fatto che i Salina si presentano puntualmente proprio quando comincia la festa, non osservano il costume della pratica tarda, l’ “arrivo dei nobili”, perché sanno che i Sedara avrebbero preso alla lettera l’indicazione dell’invito, questo perché non sono interni a questo mondo, non conoscono le abitudini, non conoscono le regole non scritte, “mai ad una festa puntuali, ma in ritardo”, quando un festa ha già perso parte del suo calore (esempio crack su don Calogero). Erano soltanto le dieci e mezza, un po’ presto per presentarsi a un ballo quando si è il principe di Salina che è giusto giunga sempre quando la festa abbia sprigionato tutto il proprio calore; questa volta però non si poteva fare altrimenti se si voleva esser lì quando sarebbero entrati i Sedàra che (“non lo sanno ancora, poveretti”) era gente da prendere alla lettera l’indicazione di orario scritta sul cartoncino lucido dell’invito. (pag.212) Si mostra ancora la differenza tra le due famiglie nonostante l’avvicinamento. Come nel modo di apparire, come don Fabrizio, perché si preoccupa del frak di don Calogero, che gli è rimasto impresso, che rappresenta l’ascesa della nuova classe, quella borghese. Don Fabrizio pregustava l’effetto che la bellezza di Angelica avrebbe fatto su tutta quella gente che non la conosceva e quello che la fortuna di Tancredi avrebbe fatto su quelle stesse persone che lo conoscevano troppo. Un’ombra però oscurava la sua soddisfazione: come sarebbe stato il frack di don Calogero? Certo non come quello che aveva avuto addosso a Donnafugata: egli era stato affidato a Tancredi che lo aveva trascinato dal miglior sarto ed aveva perfino assistito alle prove; ufficialmente era sembrato contento dei risultati, l’altro giorno, ma in confidenza aveva detto: “Il frack è come può essere; il padre di Angelica manca di chic”. Era innegabile. Ma Tancredi si era reso garante di una perfetta rasatura e della decenza degli scarpini. Era già qualche cosa. (pag.213) Vediamo la chiusura del paragrafo con la vicenda del viatico. Da inizio ad un’atmosfera mortuaria che si respira poi nel continuo del romanzo, a partire dal ballo, e il viatico è un primo indizio di questo campo semantico della morte. Lì dove la discesa dei Bambinai sbocca sull’abside di S. Domenico, la carrozza si fermò: si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; dietro un chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso, e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino di argento. Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia; era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s’inginocchiò sul marciapiede, le signore fecero il segno della croce, lo scampanellare dileguò nei vicoli che precipitavano verso S. Giacomo, la calèche con i suoi occupanti gravati di un ammonimento salutare s’incamminò di nuovo verso la meta ormai vicina. (pag.213) Il capitolo è incorniciato dell’evento della morte, abbiamo questo agonizzante in questo primo momento, e poi i carretti dei macellai. Sono anche figure di anticipazione alla morte del principe nel capitolo successivo. Lo scampanellio ricorda un memento mori, il ricordo che si deve morire. Dopo questo viaggio abbiamo l’ingresso nel palazzo, con la presenza dei padroni di casa. Due aristocratici piuttosto anziani, dalla espressione arcigna, non tanto simpatici. Ci viene presentata questa altra figura del colonello, che è legato al fatto di Aspromonte, colui che ha mandato i bersaglieri a cacciare al generale la pallottola che arresta la marcia di Garibaldi. “Ed aspettiamo anche il colonnello Pallavicino, quello che si è condotto tanto bene ad Aspromonte.” Questa frase del principe di Ponteleone sembrava semplice ma non lo era. In superficie era una costatazione priva di senso politico tendente solo ad elogiare il tatto, la delicatezza, la commozione, la tenerezza quasi, con la quale una pallottola era stata cacciata nel piede del Generale; ed anche le scappellate, inginocchiamenti e baciamani che la avevano accompagnata, rivolti al ferito Eroe giacente sotto un castagno del monte calabrese e che sorrideva anche lui, di commozione e non già per ironia come gli sarebbe stato lecito (perché Garibaldi ahimè! era sprovvisto di umorismo.) In uno strato intermedio della psiche principesca la frase aveva un significato tecnico e intendeva elogiare il Colonnello per aver ben preso le proprie disposizioni, schierato opportunamente i suoi battaglioni ed aver potuto compiere, contro lo stesso avversario ciò che a Calatafimi era tanto incomprensibilmente fallito a Landi. In fondo al cuore del Principe, poi, il Colonnello si era “condotto bene” perché era riuscito a fermare, sconfiggere, ferire e catturare Garibaldi e ciò facendo aveva salvato il compromesso faticosamente raggiunto fra vecchio e nuovo stato di cose. (pag.214-215) Il colonello che è un personaggio continentale del romanzo, che si contrappone ai siciliani, come altri che vengono dal nord come Chevaliè, il milanese amico di Tancredi, e Pallavicino, poi avremo il cardinale nell’ultimo capitolo, una lista che viene giudicata dal punto di vista dei siciliani, e spesso il giudizio è piuttosto ironico, sono presentati sotto una visione ironica. Una frase di elogio per questo colonello, però in realtà quella frase aveva un significato tecnico militare, un elogio perché era riuscito dove non erano riusciti altri, ma soprattutto si tratta di un giudizio politico elogiativo, perché il colonello era riuscito così a salvare il compromesso tra il vecchio e il nuovo stato delle cose; torna così la logica del baratto, il risorgimento come risultato di un compromesso. E qui ci sta tutta l’ironia dell’autore della vicenda del risorgimento. Questo colonello è un grazioso vecchietto, con la memoria fissata a quell’avvenimento di maggiore orgoglio della sua vita, con uno sguardo nostalgico, e ne fa una mitizzazione di questo evento. Vediamo ancora l’ironia dell’autore. Le signore di alta nobiltà sono affascinate da questi racconti. Spostiamo lo zoom su Angelica. In un primo momento ci vengono dette le raccomandazioni di Tancredi ad Angelica, si preoccupa dei modi in cui doveva comportarsi. Per esempio, le era stato raccomandato di essere impassibile. Il fidanzato aveva di già insegnato ad Angelica l’impassibilità, questo fondamento della distinzione (“Tu puoi esser espansiva e chiassosa soltanto con me, cara; per tutti gli altri devi essere la futura principessa di Falconeri, superiore a molti, pari a chiunque”), e quindi il saluto di lei alla padrona di casa fu una non spontanea ma riuscitissima mescolanza di modestia verginale, alterigia neo-aristocratica e grazia giovanile. (pag.216) Si raccomanda che non dia troppa confidenza, viene invitata a prendere le distanze, a mostrarsi in qualche modo sempre una futura principessa, consapevole del fatto che ormai faceva parte del mondo della nobiltà, si trattava di un contegno nobile, si trattava di non dare confidenze a chi non se le meritava. Inoltre, raccomanda di non mostrarsi troppo stupiti di fronte allo sfarzo e all’ostentazione, facendo riferimento a cose più belle viste prime, così da mostrarsi provinciale nei gusti, quindi di avere un’esperienza pregressa nel campo di arte. Poiché Tancredi le aveva detto il giorno prima “Vedi, cara, noi (e quindi anche tu, adesso) teniamo alle nostre case ed al nostro mobilio più che a qualsiasi altra cosa; nulla ci offende più della noncuranza rispetto a questo; quindi guarda tutto e loda tutto; del resto palazzo Ponteleone lo merita; ma poiché non sei più una provincialotta che si sorprende di ogni cosa, mescolerai sempre una qualche riserva alla lode; ammira sì ma paragona sempre con qualche archetipo visto prima, e che sia illustre.” Le lunghe visite al palazzo di Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera ammirò ogni arazzo ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano le bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa. (pag.217) Alla fine del capoverso notiamo un aspetto, il fatto che lei si acquista una fama abusivamente. Infatti lei non era una intenditrice d’arte, ma si atteggia cosi per non mostrarsi come ultima arrivata, anche se lo è effettivamente. Le lunghe visite al palazzo di Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera ammirò ogni arazzo ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano le bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa; e financo della fetta di torta che un premuroso giovin signore le portò disse che era eccellente e buona quasi come quella di “monsù Gaston”, il cuoco dei Salina. E poiché “monsù Gaston” era il Raffaello fra i cuochi e gli arazzi di Pitti i “monsù Gaston” fra le tapezzerie, nessuno poté trovarvi da ridire, anzi tutti furono lusingati dal paragone ed essa cominciò già da quella sera ad acquistare la fama di cortese ma inflessibile intenditrice di arte che doveva, abusivamente, accompagnarla in tutta la sua lunga vita. (pag.217) La sala da ballo era tutta oro: liscio sui cornicioni cincischiato nelle inquadrature delle porte, damaschinato chiaro quasi argenteo su meno chiaro nelle porte stesse e nelle imposte che chiudevano le finestre e le annullavano conferendo così all’ambiente un significato orgoglioso di scrigno escludente qualsiasi riferimento all’esterno non degno. Non era la doratura sfacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunto, pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il proprio costo; qua e là sui pannelli nodi di fiori rococò di un colore tanto svanito da non sembrare altro che un effimero rossore dovuto al riflesso dei lampadari. (pag.220) Notiamo un elemento simbolico in questa descrizione, il colore dorato che è sbiadito in contrapposizione ad una doratura sfacciata, che ci dice di questa nobiltà il cui splendore si sta spegnendo. Questo viene ripreso nelle righe successive. Quella tonalità solare, quel variegare di brillii e di ombre fecero tuttavia dolere il cuore di Don Fabrizio che se ne stava nero e rigido nel vano di una porta: in quella sala eminentemente patrizia gli venivano in mente immagini campagnole: il timbro cromatico era quello degli sterminati seminerì attorno a Donnafugata, estatici, imploranti clemenza sotto la tirannia del sole: anche in questa sala come nei feudi a metà Agosto, il raccolto era stato compiuto da tempo, immagazzinato altrove e, come là, ne rimaneva soltanto il ricordo nel colore delle stoppie; arse d’altronde e inutili. Il valzer le cui note traversavano l’aria calda gli sembrava solo una stilizzazione di quell’incessante passaggio dei venti che arpeggiano il proprio lutto sulle superfici assetate, ieri, oggi, domani, sempre, sempre, sempre. (pag.220-221) Mentre nel primo capoverso ci presenta la sala in maniera soggettiva, vediamo il filtro di don Fabrizio che pensa e recupera immagini della campagna. E qui abbiamo una conferma nel colore tenue sbiadito, come il colore delle stoppie nei campi, il giallo tenue delle stoppie, che diviene un paragone con le dorature della sala. C’è un'altra immagine poi che ritorna ai campi, come il valzer e i venti, sentita come una colonna sonora mortuaria. Si tratta di terre percorse da un sole cocente, soprattutto in estate, (riferimenti a pag.69) questo paesaggio arido significa la trascrizione e materializzazione del senso di morte attraverso il clima, con un paesaggio che manca di acqua; così ribadisce quindi l’asse semantico del capitolo della morte, ribadito poi nei paragrafi successivi con i balli che si disegnano nella sala. E fiorisce questo catalogo macabro con una profezia, con il riferimento agli dei sul tetto, l’onnipotenza di quegli dei però era basato sul nulla. La folla dei danzatori fra i quali pur contava tante persone vicine alla sua carne se non al suo cuore, finì col sembrargli irreale, composta di quella materia della quale son tessuti i ricordi perenti che è più labile ancora di quella che ci turba nei sogni. Nel soffitto gli Dei, reclini su scanni dorati, guardavano in giù sorridenti e inesorabili come il cielo d’estate. Si credevano eterni: una bomba fabbricata a Pittsburgh, Penn. doveva nel 1943 provar loro il contrario. (pag.221) Vediamo così un riferimento autobiografico, il riferimento al palazzo di Lampedusa che ha avuto il triste destino nel 43, al bombardamento di Palermo durante la Seconda guerra mondiale. Il principe è sempre assorto nei suoi pensieri, rivolto alle dorature sbiadite, viene distolto da queste riflessioni, pone l’attenzione su don Calogero. “Bello, principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell’oro zecchino!” Sedàra si era posto vicino a lui, i suoi occhietti svegli percorrevano l’ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario. Don Fabrizio, ad un tratto, sentì che lo odiava; era all’affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che adesso incupiva questi palazzi; si doveva a lui, ai suoi compari, ai loro rancori, al loro senso d’inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, Don Fabrizio, gli abiti neri dei ballerini ricordavano le cornacchie che planavano, alla ricerca di prede putride, al disopra dei valloncelli sperduti. Ebbe voglia di rispondergli malamente, d’invitarlo ad andarsene fuori dai piedi. Ma non si poteva: era un ospite, era il padre della cara Angelica. Era forse un infelice come gli altri. (pag.221) Si capisce allora come l’osservazione di don Calogero sia un’osservazione volgare, che ha il potere di far andare su tutte le furie il principe, che viene tentato anche di insultarlo. Lui è insensibile all’arte, ma non all’economia. Mentre don Fabrizio si trova agli antipodi di don Calogero riguardo l’arte e la bellezza. Rinuncia comunque all’offesa e tende a compatirlo. Si sposta ancora lo sguardo su Tancredi e Angelica. Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell’altro. Il nero del frack di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. (pag.221-222) Il primo elemento è l’ossessione di morte che sostanzia i pensieri di don Fabrizio, che gli fanno vedere sotto il segno della morte anche i due innamorati, che sono ignari di quello che gli aspetta, contro l’ottimismo tipico della giovinezza. Notiamo il riferimento letterario a Giulietta e Romeo di Shakespeare, che li presenta allora come degli innamorati ignari di ciò che li attende, sappiamo infatti che poi i due protagonisti non ebbero un lieto fine. Il sentimento dominante di fronte a questi è un sentimento barocco, periodo in cui si vedeva infatti lo scheletro delle persone in piena salute che li circondavano. Dal disgusto però si passa alla compassione, che si riassume poi in una domanda. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? voleva dire esser vili come le pescivendole che sessant’anni fa oltraggiavano i condannati nella piazza del Mercato. Anche le scimmiette sui poufs, anche i vecchi babbei suoi amici erano miserevoli, insalvabili e cari come il bestiame che la notte mugola per le vie della città, condotto al macello; all’orecchio di ciascuno di essi sarebbe giunto un giorno lo scampanellio che aveva udito tre ore fa dietro S. Domenico. Non era lecito odiare altro che l’eternità. (pag.222) Il Tommasi anticipa ciò che avverrà dopo nella narrazione con la morte del principe. A questo punto preferisce isolarsi ancora di più, è meglio stare da soli, e lo fa nella biblioteca della famiglia del palazzo dove può evitare il contatto sgradevole con tutto ciò che gli ricorda la morte. Ma fa un calcolo errato perché si ritrova di fronte ad un quadro che gli ricorda ancora la morte. La biblioteca gli piaceva, ci si sentì presto a suo agio; essa non si opponeva alla di lui presa di possesso perché era impersonale come lo sono le stanze poco abitate: Ponteleone non era tipo da perdere il suo tempo lì dentro. Si mise a guardare un quadro che gli stava di fronte: era una buona copia della “Morte del Giusto” di Greuze. Il vegliardo stava spirando nel suo letto, fra sbuffi di biancheria pulitissima, circondato dai nipoti afflitti e da nipotine che levavano le braccia verso il soffitto. Le ragazze erano carine, procaci, il disordine delle loro vesti suggeriva più il libertinaggio che il dolore; si capiva subito che erano loro il vero soggetto del quadro. Nondimeno un momento Don Fabrizio si sorprese che Diego tenesse ad aver sempre dinanzi agli occhi questa scena malinconica; poi si rassicurò pensando che egli doveva entrare in questa stanza sì e no una volta all’anno. Subito dopo chiese a sé stesso se la propria morte sarebbe stata simile a quella: probabilmente sì, a parte che la biancheria sarebbe stata meno impeccabile (lui lo sapeva, le lenzuola degli agonizzanti sono sempre sudice, ci son le bave, le deiezioni, le macchie di medicine…) e che era da sperare che Concetta, Carolina e le altre sarebbero state più decentemente vestite. Ma, in complesso, lo stesso. Come sempre la considerazione della propria morte lo rasserenava tanto quanto lo aveva turbato quella della morte degli altri; forse perché, stringi stringi, la sua morte era in primo luogo quella di tutto il mondo? (pag.223-224) Abbiamo la descrizione del soggetto di questo squadro. Qui l’autore adotta quello che viene detto il procedimento dell’ekfrasis, la descrizione particolaristica utilizzata dai tempi antichi. Il contenuto di un quadro adesso, che rappresenta la morte di un uomo giusto, che è oggetto di pianto da parte dei familiari, in particolare dalle nipotine che assumono una postura tale che le scopre le carni più del dovuto, e questo ci fa capire che l’interesse del pittore è più libertino che moralistico. Questo è in linea con le scorribande nel palazzo di Donnafugata, dove tutto ci lascia pensare al libertinaggio del 700. Ad ogni modo è interessante che qui c’è la verosimiglianza della pulizia delle lenzuola, ma c’è soprattutto un’anticipazione della morte del principe nel capitolo settimo. Ed è don Fabrizio stesso che ce lo fa capire perché egli si interroga sulla sua futura morte. È interessante anche il fatto che questo quadro si intitolava realmente “Il figlio punito” perché nel resto del quadro c’è il figlio che si pente di fronte alla morte del Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza? (pag.232) Qui viene ad essere personificata la Venere nelle fattezze di una donna con la quale lui vorrebbe incontrarsi in un appuntamento, meno effimero e più impegnativo. Capiamo allora che questo astro è una metafora femminile e si connota ulteriormente perché indica anche la morte personificata. Lei che incontrava anche nelle albe mattutine di Donnafugata prima della caccia. Andiamo alla parte settimana, incentrata sulla morte del principe. C’è un balzo temporale in avanti, sono passati 21 anni, rispetto al ballo. E si narrano le ultime ore di vita del principe. Si precisa allora il cronotopo, lo spazio-tempo della vicenda, perché la stagione è quella estiva, fine luglio, e questa non è una scelta fatta casualmente perché anche il territorio sta morendo per mancanza di acqua, è arido, la siccità che provoca sensazione di morte. Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. (pag.235) Con l’immagine del fluido vitale abbiamo la conferma del fatto che c’è un fluido che sta fuoriuscendo, come se il serbatoio dell’acqua perdesse e lasciasse il principe in uno stato di secchezza, e tutto questo è in sintonia con il clima, con la calura, l’immagine delle ondate di caldo che fa morire anche il paesaggio. Si introduce anche l’immagine barocca dei granelli di sabbia, che passano nella parte inferiore della clessidra, che possono essere paragonati ai giorni, agli attimi di tempo che passano, e la clessidra come simbolo del tempo stesso, della vita. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o d’introspezione, come un ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre stati lì vigili anche quando non li udivamo. (pag.235) L’acqua che scorre fa rumore, e sfrutta i rumori per descrivere le sensazioni del principe nel momento in cui si rende conto di vivere le sue ultime ore di vita, perché questa fuoriuscita del fluido vitale ha un suono che si fa sempre violento e fragoroso, sempre più forte, tanto è vero che si parla del fragore di una cascata che rende bene l’idea di questa fuoriuscita del flusso vitale, piuttosto impietosa. E si arriva a dire che il fiume diviene un oceano, il rumore cresce a dismisura. Oltre tutto la metafora acquatica, in precedenza, è anche nelle particelle che vanno a formare le nubi alzandosi dallo stagno. Mole però, aveva riflettuto, non era la parola esatta, pesante com’era; e granelli di sabbia, d’altronde, neppure: erano più come delle particelle di vapor acqueo che esalassero da uno stagno costretto, per andar su nel cielo a formare le grandi nubi leggere e libere. (pag.235-236) Vediamo che i granelli di sabbia lasciano il posto alle bollicine dello stagno e delle nubi formate. (metafore acquatiche). Ritorna l’immagine della bella che viene corteggiata attraverso la figura dell’astro di venere. Talvolta si sorprendeva che il serbatoio vitale potesse ancora contenere qualcosa dopo tanti anni di perdite. “Neppure se fosse grande come una piramide.” Tal altra volta, più spesso, si era inorgoglito di essere quasi solo ad avvertire questa fuga continua mentre attorno a lui nessuno sembrava sentire lo stesso; e ne aveva tratto motivo di disprezzo per gli altri, come il soldato anziano disprezza il coscritto che si illude che le pallottole ronzanti intorno siano dei mosconi innocui. Queste sono cose che, non si sa poi perché, non si confessano; si lascia che gli altri le intuiscano e nessuno intorno a lui le aveva intuite mai, nessuna delle figlie che sognavano un oltretomba identico a questa vita, completo di magistratura, cuochi, conventi e orologiai, di tutto; non Stella che divorata dalla cancrena del diabete si era pure aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene. Forse solo Tancredi per un attimo aveva compreso quando gli aveva detto con la sua ritrosa ironia: “Tu, zione, corteggi la morte.” Adesso il corteggiamento era finito: la bella aveva detto il suo sì, la fuga decisa, lo scompartimento nel treno, riservato. (pag.236) Si mette in evidenza come dal serbatoio si hanno continue perdite, e si stupisce di quanta forza ed energia possa avere ancora, che danno la certezza di esistere, che si vive nonostante la perdita. (Quello che interessa è anche il pudore verso la morte, che solo Tancredi aveva intuito qualcosa.) Arriva poi la stoccata finale, il corteggiamento era ormai finito perché la donna corteggiata ha detto ora di sì, e non ha solo l’appuntamento ma si mostra addirittura disponibile per la fuga detta fuitina, e partire per una destinazione ignota su di un treno nella loro intimità. Notiamo anche il motivo del viaggio, infatti la morte è l’ultimo viaggio della vita, che però si propone in maniera più prosaica, poiché adesso il vero viaggio è quello della disperazione adesso, quello per Napoli, con la speranza di potersi sottrarre al destino della morte vicina. Era arrivato la mattina da Napoli, poche ore fa; vi si era recato per consultare il professore Sèmmola. Accompagnato dalla quarantenne figlia Concetta, dal nipote Fabrizietto, aveva compiuto un viaggio lugubre, lento come una cerimonia funebre. […] la locomotiva che annaspava su per i pendii favolosi sembrava dovesse crepare come un cavallo sforzato; e, dopo una discesa fragorosa, si era giunti a Palermo. All’arrivo le solite maschere dei familiari con il dipinto sorriso di compiacimento per il buon esito del viaggio. […] e fu allora, dopo esser sceso dal treno, mentre abbracciava la nuora sepolta nelle gramaglie di vedova, i figli che mostravano i loro denti nei sorrisi, Tancredi con i suoi occhi timorosi, Angelica con la seta del corpetto ben tesa dai seni maturi, fu allora che si fece udire il fragore della cascata. Probabilmente svenne, perché non ricordava come fosse arrivato alla vettura; vi si trovò disteso con le gambe rattrappite, col solo Tancredi vicino. […] Era di nuovo perfettamente lucido: notava la conversazione seria che si svolgeva fra Concetta e Francesco Paolo, l’eleganza di Tancredi, il suo vestito a quadretti marrone e bigi, la bombetta bruna; e notò anche come il sorriso del nipote non fosse una volta tanto beffardo, anzi come fosse tinto di malinconico affetto; e da questo ricevette la sensazione agrodolce che il nipote gli volesse bene ed anche che sapesse che lui era spacciato, dato che la perpetua ironia si era adattata ad esser spazzata via dalla tenerezza. (pag.237-238) Allora c’è questo viaggio anche, che lascia stremato il moribondo, tanto è vero che poi alla stazione di Palermo, quando giunge alla fine di questo lungo viaggio in treno, stremato sviene, e si ritrova nella vettura accanto a Tancredi, e capisce dal modo in cui gli rivolge il nipote che non c’è più nulla da fare; infatti, il nipote manca del suo solito tono ironico. L’ironia è stata spazzata via dalla tenerezza, non ha più il coraggio di essere ironico, e qui capisce che il nipote gli vuole tanto bene e che non c’è più nulla da fare. Allora non c’è tempo di tornare a casa, alla villa, ma c’è quest’altro luogo di morte che è l’anonima stanza dell’albergo Trinacria che si affaccia sul mare. (riferimento al nome Trinacria con una possibile morte della regione Sicilia in sintonia con il principe). Ed è interessante il mare che si mostra immobile e appiattito, battuto dal sole, che frustava il mare. Vediamo qui l’immobilità e il silenzio della morte. Perché adesso la faccenda era differente, del tutto diversa. Seduto su una poltrona, le gambe lunghissime avvolte in una coperta, sul balcone dell’albergo Trinacria, sentiva che la vita usciva da lui a larghe ondate incalzanti, con un fragore spirituale paragonabile a quello della cascata del Reno. Era il mezzogiorno di un Lunedì di fine Luglio, ed il mare di Palermo compatto, oleoso, inerte, si stendeva di fronte a lui, inverosimilmente immobile ed appiattito come un cane che si sforzasse di rendersi invisibile alle minacce del padrone; ma il sole immoto e perpendicolare stava lì sopra piantato a gambe larghe e lo frustava senza pietà. Il silenzio era assoluto. Sotto l’altissima luce Don Fabrizio non udiva altro suono che quello interiore della vita che erompeva via da lui. (pag. 236) Si succedono anche diversi medici, manca il medico di famiglia, tra cui un medico testimone di agonie miserabile di un quartiere popolare, non di gente danarosa, e anche per il medico che rimediano si usa una metafora coerente al sistema del capitolo; infatti, anche questo medico sta per lasciare questo mondo come una povera otre consumata che va perdendo le ultime gocce di olio. Anche lui era una povera otre che lo sdrucio della mulattiera aveva liso e che spandeva senza saperlo le ultime goccie di olio. Misurò i battiti del polso, prescrisse delle goccie di canfora, mostrò i denti cariati in un sorriso che voleva essere rassicurante e che invece chiedeva pietà; se ne andò a passi felpati. (pag.239) Si guarda allo specchio e non si riconosce dal volto, e si chiede perché debba morire con la faccia malata e stravolta, e non con il proprio viso. Così ricorda le morti giovani a lui vicine, come paolo il primogenito, cadendo da cavallo, poi soccorso e trovato con una faccia non riconoscile, e il soldato borbonico morto nel giardino, anche lui sfigurato. Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio: riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le guancie infossate, la barba al massimo, un bilancio piuttosto sconsolante quindi. Gli unici momenti che si salvano, queste pagliuzze tra la cenere delle passività, questa cenere rappresenta la vita spesa per situazioni di noia e di dolore, come la presenza della moglie noiosa e del dolore per il figlio morto. E se pensiamo alla cultura letteraria del Tomasi vediamo l’influenza di Schopenhauer e Leopardi. I momenti felici riguardano invece le conversazioni con Giovanni, il figlio preferito, la nascita di Paolo, che riteneva il suo erede, e poi le ore nell’osservatorio per dedicarsi alle stelle. E si chiede se tutti questi momenti felici possono essere anticipazione delle beatitudini mortuarie, vediamo ancora l’idea di morte come consolazione, e anche il culmine di un pensiero pessimista. “Ho settantatré anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due… tre al massimo.” E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare: tutto il resto: settant’anni. (pag.245) C’è poi l’intermezzo dell’organetto, la caccia a Donnafugata e la cittadina stessa, con il feudo e la continuità della storia del suo casato, un periodo freddato, fermo, in contrapposizione al tempo che fugge, vediamo quindi il senso della tradizione che fugge. Nella strada sotto, fra l’albergo e il mare, un organetto si fermò e suonava nell’avida speranza di commuovere i forestieri che in quella stagione non c’erano. Macinava “Tu che a Dio spiegasti l’ale”; quel che rimaneva di Don Fabrizio pensò a quanto fiele venisse in quel momento mescolato a tante agonie in Italia da queste musiche meccaniche. […] Vi erano le prime ore dei suoi ritorni a Donnafugata, il senso di tradizione e di perennità espresso in pietra ed in acqua, il tempo congelato; lo schioppettare allegro di alcune cacce, il massacro affettuoso dei conigli e delle pernici, alcune buone risate con Tumeo, alcuni minuti di compunzione al convento fra l’odore di muffa e di confetture. (pag.244) Notiamo che la donna e l’eros sono assenti, lui che era considerato un donnaiolo, ma presenta un cenno nell’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, in particolare una ultima a Catania. L’aspetto voluttuoso di alcune donne incontrate, quella intravista ancora ieri alla stazione di Catania, mescolata alla folla col suo vestito marrone da viaggio e i guanti di camoscio che era sembrata cercare il suo volto disfatto dal di fuori dello scompartimento insudiciato. (pag.245) Prende pretesto da questo spunto per sviluppare la metafora iniziata precedentemente sul significato dato alla bella donna, che vediamo essere la personificazione della morte stessa, che aveva intravisto alla stazione, ce ne porta infatti la sua descrizione. Si prepara la scena finale, il principe ha un’altra sincope, tutti i parenti intorno piangenti tranne Concetta, e capiamo che lei ancora prova rancore per il padre in coerenza per il suo carattere fiero e non gli ha perdonato il matrimonio sfumato che vagheggiava da tempo, ecco perché si pensa sia riottosa. Nella camera si udiva un sibilo: era il suo rantolo ma non lo sapeva; attorno vi era una piccola folla, un gruppo di persone estranee che lo guardavano fisso con un’espressione impaurita: via via li riconobbe: Tancredi, Concetta, Angelica, Francesco-Paolo, Carolina, Fabrizietto; chi gli teneva il polso era il dottor Cataliotti; credette di sorridere a questo per dargli il benvenuto ma nessuno poté accorgersene: tutti, tranne Concetta, piangevano. (pag.245) L’apparizione finale riguarda la donna che sporge dal letto di morte, che si fa spazio tra i suoi parenti, come il quadro in precedenza, si fa strada quella creatura che ha sembra bramato da tempo, che aveva visto anche a Catania dal treno, ora è venuto a prenderlo. Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva esser vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari. Il fragore del mare si placò del tutto. (pag.246) Questa morte che viene incontro è una morte che si riempie di sensualità, così come quella donna sensuale a Catania, si era prospettata di una cornice di morte, che si avvicina e richiama la bella di cui aveva parlato prima. I due campi semantici di morte e sensualità si interferiscono. Questa immagine rende possibile anche nella conclusione l’unione di altri due campi semantici, quello del viaggio e quello della contemplazione stellare, così che si prolunga la metafora del viaggio e in più si recupera la metafora della stella Venere che gli dà un appuntamento meno effimero. La frase finale significa che si impone il silenzio della morte. Andiamo al capitolo successivo. Anche per questo ultimo capitolo è stato detto che se ne potrebbe a fare meno di questo perché non è funzionale, però a ben guardare questo capitolo conclusivo ci offre delle chiavi di lettura importanti per il significato totale del romanzo, non è proprio qualcosa di isolato, ma ha dei forti legami semantici con il romanzo, come le riflessioni importanti del principe in precedenza, va letto quindi con attenzione. Allora siamo nel maggio 1910, ci siamo spostati di molto rispetto all’azione procedente, siamo a 50 anni precisi dall’inizio del romanzo, e 27 dalla morte dl principe. Possiamo parlare di una circolarità temporale quasi perfetta perché il romanzo inizia e termina a maggio, ma c’è una imperfetta circolarità del luogo, dello spazio. Quest’ultima scena si svolge nella villa Salina, che avevamo conosciuto nella prima parte, però, mentre l’azione iniziale si svolge in un salotto come luogo di adunata in cui si raccolgono tuti, in questa ottava parte l’azione si svolge in un salotto e si sposta dopo nella camera solitaria di Concetta. Quindi questo ci consente di dire che non c’è perfetta chiusura dal punto di vista spaziale. Recuperiamo il tema della religiosità. La famiglia Salina è una famiglia molto religiosa e ce lo conferma non soltanto la preghiera iniziale, ma anche le visite al monastero femminile con la beata familiare; anche se in questa ultima parte la religiosità si è involuta, perché quella delle donne si rivela bigotta, superstiziosa, formalistica, come dice il cardinale in visita. C’è tra le sorelle chi amministra il patrimonio, andato più scemando negli ultimi anni, ed è Concetta, che ha assunto il ruolo di padrona di casa. E in questa ultima parte una buona presenza di ecclesiastici, questo perché c’è una disposizione del papa Pio X che prevede la verifica delle cappelle private delle case nobiliari, un controllo con lo scopo di verificare e controllare i meriti delle persone autorizzate a officiare messe in queste cappelle private ma anche una revisione intesa a controllare l’autenticità delle reliquie e degli oggetti sacri che si veneravano in queste cappelle. Ci sono due visite, quella più importante del cardinale, chiamato ad effettuare il controllo con il suo segretario, e quella che lo precede del vescovo generale che prepara il terreno per l’arrivo del cardinale. Erano giunte in quel periodo delle voci incresciose alla curia, in merito all’autenticità delle reliquie, in particolare alla presenza dell’immagine del quadro sopra l’altare, oggetto di culto delle sorelle Salina. Il vescovo vuole accertarsi personalmente. Le sorelle Salina, Caterina e Carolina, nel frattempo sono indispettite da ciò perché lo considerano un affronto, un’offesa, in particolare dal papa. Abbiamo la visita quindi del vescovo nella cappella, e poi una prima parte per le reliquie religiose e sacre, e poi quelle profane nella camera di Concetta. Il vescovo subito vuole vedere il quadro sull’altare. Quando Monsignore entrò la cappella era illuminata dal sole del pomeriggio calante; e al disopra dell’altare il quadro veneratissimo dalle signorine si trovava in piena luce: era un dipinto nello stile di Cremona e rappresentava una giovinetta esile, assai piacente, gli occhi rivolti al cielo, i molli capelli bruni sparsi in grazioso disordine sulle spalle seminude; nella destra essa stringeva una lettera spiegazzata; l’espressione sua era di trepida attesa non disgiunta da una certa letizia che le brillava nei candidissimi occhi; nel fondo verdeggiava un mite paesaggio lombardo. Niente Gesù Bambini, né corone, né serpenti, né stelle, nessuno insomma di quei simboli che sogliono accompagnare l’immagine di Maria; il pittore doveva essersi fidato che l’espressione verginale fosse sufficiente a farla riconoscere. (pag.253) Abbiamo un’idea dell’immagine dipinta in questo quadro, un soggetto abbastanza profano, ovvero una semplice giovinetta che ha ricevuto da poco la lettera del suo amato per l’appuntamento, così percorso anche da una vena di erotismo. È stata scambiata dalle sorelle per la miracolosa Madonna delle Lettera. “Una immagine miracolosa, Monsignore, miracolosissima!” spiegò Caterina la povera inferma, sporgendosi dal suo strumento di tortura ambulante. “Quanti miracoli ha fatto!” Carolina incalzava: “Rappresenta la Madonna della Lettera. La Vergine è sul punto di consegnare la Santa Missiva ed invoca dal Figlio Divino la protezione sul popolo messinese; quella protezione che è stata gloriosamente concessa, come si è visto dai molti miracoli avvenuti in occasione del terremoto di due anni fa.” “Bella pittura, signorina; qualunque cosa rappresenti è un bel quadro e bisogna tenerlo da conto.” (pag.254) Perché si pensa di proteggere il popolo messinese? Questo per l’avvenimento del terremoto di due anni prima, 1908, e le sorelle ne costruiscono una storia miracolosa che sostituisce la favola mitologica che era istoriata invece sul soffitto di un salotto. incongrui e sotto l’ubiquitaria umidità palermitana la roba ingialliva, si disfaceva, inutile per sempre e per chiunque. (pag.256-257) Già ha indicato il corredo nella cassa, ormai non più utilizzabile, e questo spiega perché teme di aprire le casse, ha paura che saltassero dei ricordi dolorosi che la metterebbero di fronte di nuovo all’immagine di stessa sconfitta sentimentalmente. Non apre le casse ma comunque le tiene li, è una sorta di compromesso, non le apre ma le tiene, così ci testimonia che non ha proprio chiuso con il passato. L’altra reliquia è rappresentata dalla pelliccia malandata di Bendicò imbalsamato, se ne è conservata la pelliccia piena di tarme. Questa pelliccia è l’unico ricordo non doloroso, che non le suscita pena. Se si fosse ben guardato nel mucchietto di pelliccia tarlata si sarebbero viste due orecchie erette, un muso di legno nero, due attoniti occhi di vetro giallo: era Bendicò, da quarantacinque anni morto, da quarantacinque anni imbalsamato, nido di ragnatele e di tarme, aborrito dalle persone di servizio che da decenni ne chiedevano l’abbandono all’immondezzaio: ma Concetta vi si opponeva sempre: essa teneva a non distaccarsi dal solo ricordo del suo passato che non le destasse sensazioni penose. (pag.257) Veniamo ora la visita di Angelica nello stesso pomeriggio del giorno della visita. “Concetta cara!” “Angelica mia! da quanto tempo non ci vediamo!” Dall’ultima visita erano passati soltanto cinque giorni, per esser precisi, ma l’intimità fra le due cugine (intimità simile per vicinanza e per sentimenti a quella che pochissimi anni dopo avrebbe stretto italiani ed austriaci nelle contigue trincee), l’intimità era tale che cinque giorni potevano veramente sembrar molti. […] “Hai ragione” diceva a Concetta mentre si dirigevano allacciate verso un salotto “hai ragione, ma con queste feste imminenti per il cinquantenario dei Mille non c’è più pace. Tre giorni fa figurati che mi comunicano di avermi chiamato a far parte del Comitato di onore; un omaggio alla memoria del nostro Tancredi, certo, ma quanto da fare per me! Pensare all’alloggio dei superstiti che verranno da ogni parte d’Italia, disporre gli inviti per le tribune senza offendere nessuno; premurarsi a far aderire tutti i sindaci dei comuni dell’isola. (pag.258) Ci viene presentato il rapporto di intimità tra Angelica e Concetta. Ci sono i convenevoli di rito e poi la considerazione pungente ironica. Ci spiega la vera natura dei rapporti, oltre le falsità, l’evento di riferimento è la Prima guerra mondiale. Concetta ha ancora risentimento nei suoi confronti perché la vede come la rivale, ma si guarda bene dal rivelarle questo sentimento di avidità. Angelica, in questo momento, fa parte di un comitato di onore per il festeggiamento dei 50 anni della spedizione dei mille, e facendone parte ha il potere di invitare chi le avrebbe fatto piacere alla sfilata e ai festeggiamenti, così che ha deciso di invitare Fabrizietto. A proposito cara, il Sindaco di Salina è un clericale ed ha rifiutato di prender parte alla sfilata; così ho pensato subito a tuo nipote, a Fabrizio: era venuto a farmi visita e tac! lo ho acchiappato; non ha potuto dirmi di no e così alla fine del mese lo vedremo sfilare in palamidone per via Libertà davanti a un bel cartello con tanto di ‘Salina’ a lettere di scatola. Non ti sembra un bel colpo? Un Salina renderà omaggio a Garibaldi, sarà una fusione della vecchia e della nuova Sicilia. Ho pensato anche a te, cara; ecco il tuo invito per la tribuna di onore, proprio alla destra di quella reale.” […] “Carolina e Caterina saranno scontente” continuò a dire in modo del tutto arbitrario “ma potevo disporre di un solo posto: del resto tu ne hai più diritto di loro, eri tu la cugina preferita del nostro Tancredi.” (pag.259) “Ho saputo delle seccature che hai con la Curia. Quanto sono noiosi! Ma perché non me lo hai fatto sapere prima? Qualcosa avrei potuto fare: il Cardinale ha dei riguardi per me; ho paura che adesso sia troppo tardi. Ma lavorerò nelle quinte. Del resto non sarà nulla.” (pag.260) Ci colpisce questo invito e questo suo ipotetico aiuto, come se Angelica calpestasse la sua memoria e inverasse la sua memoria, davvero si fa avanti la realtà degli sciacalli, una seconda morte del principe ancora. Angelica è vedova da tre anni. (si succedono riferimenti a Loira contro il palazzo di Donnafugata.) Importante è il rapporto e la presenza di Tassoni. “Ma che testa ho, cara! Dimenticavo di dirti che fra poco verrà qui il senatore Tassoni; è mio ospite a villa Falconeri e desidera conoscerti: era un grande amico del povero Tancredi, un suo compagno d’arme, anche, e pare che abbia sentito parlare di te da lui. Caro, il nostro Tancredi!” Il fazzoletto col sottile bordino nero uscì dalla borsetta, asciugò una lacrima dagli occhi ancor belli. […] “Signorina,” andava dicendo a Concetta mentre sedeva accanto a lei su di uno sgabellino basso adatto per un paggio e che appunto per questo aveva scelto “signorina, si realizza adesso un sogno della mia gioventù lontanissima. Quante volte nelle gelide notti di bivacco sul Volturno o attorno agli spalti di Gaeta assediata, quante volte il nostro indimenticabile Tancredi mi ha parlato di Lei. (pag.260-261) Lui è un compagno d’arme di Tancredi, al tempo dei moti garibaldini a Palermo, ed era entrato anche a far parte della storiella garibaldina dell’irruzione nel monastero femminile. Tassoni svela un altro altarino su Tancredi successivamente, dopo molti anni da quella storiella, fa sapere che era tutta una invenzione. Per Concetta è un colpo di scena, è un ricordo per lei doloroso. La reazione è abbastanza forte, lei è portata a rivedere il suo passato, questo momento di svolta soprattutto, per cui aveva identificato la causa della sua infelicità con Tancredi ovvero che si fosse comportato male con lei e anche il padre con il matrimonio negato. “E che cosa Le diceva di me il mio caro cugino?” chiese a mezza voce con una timidezza che faceva rivivere la diciottenne in quell’ammasso di seta nera e di capelli bianchi. “Ah! molte cose! parlava di lei quasi quanto parlasse di donna Angelica; questa era per lui l’amore, Lei invece era l’immagine dell’adolescenza soave, di quell’adolescenza che per noi soldati passa tanto in fretta.” Il gelo strinse di nuovo il vecchio cuore. […] “Si figuri che ci raccontò come una sera, durante un pranzo a Donnafugata, si fosse permesso d’inventare una frottola e di raccontarla a Lei; una frottola guerresca in relazione ai combattimenti di Palermo, nella quale figuravo anche io; e come Lei lo avesse creduto e si fosse offesa perché il fatterello narrato era un po’ audace, secondo l’opinione di cinquant’anni fa. Lei lo aveva rimproverato. ‘Era tanto cara’ diceva ‘mentre mi fissava con i suoi occhi incolleriti e mentre le labbra si gonfiavano graziosamente per l’ira come quelle di un cucciolo; era tanto cara che se non mi fossi trattenuto la avrei abbracciata lì davanti a venti persone ed al mio terribile zione.’ Lei, signorina, lo avrà dimenticato.” […] Certo sarebbe assurdo dire che Concetta amasse ancora Tancredi; la eternità amorosa dura pochi anni e non cinquanta; ma come una persona da cinquant’anni guarita dal vaiolo ne porta ancora le macchie sul volto benché possa aver dimenticato il tormento del male, essa recava nella propria oppressa vita attuale le cicatrici della propria delusione ormai quasi storica, storica a tal punto anzi che se ne celebrava ufficialmente il cinquantenario. Ma fino ad oggi quando essa, raramente, ripensava a quanto era avvenuto a Donnafugata in quell’estate lontana si sentiva sostenuta da un senso di martirio subito, di torto patito, dall’animosità contro il padre che la aveva sacrificata, da uno struggente sentimento riguardo a quell’altro morto; questi sentimenti derivati che avevano costituito lo scheletro di tutto il suo modo di pensare si disfacevano anch’essi; non vi erano stati nemici ma una sola avversaria, essa stessa; il suo avvenire era stato ucciso dalla propria imprudenza, dall’impeto rabbioso dei Salina; le veniva meno adesso, proprio nel momento in cui dopo decenni i ricordi ritornavano a farsi vivi, la consolazione di poter attribuire ad altri la propria infelicità, consolazione che è l’ultimo ingannevole filtro dei disperati. (pag.262-263) Sulla base di questo racconto però si rende conto che lei era stata la sua unica avversaria della sua infelicità, il suo carattere impulsivo, il suo avvenire era stato ucciso dalla sua imprudenza. E le viene in mente la vicenda della visita al monastero. In questo frangente Concetta è punita ad avere giudicato il padre oggetto della sua infelicità, è punita da sé stessa, così ci colleghiamo quindi al quadro richiamato nel capitolo precedente. La visita del cardinale. Le tre sorelle Salina, come sappiamo, erano fondamentalmente offese dall’ispezione alla loro cappella: ma, anime infantili e, dopo tutto femminili com’erano, ne pregustavano anche le soddisfazioni marginali ma innegabili: quella di ricevere in casa loro un Principe della Chiesa, quella di poter mostrargli il fasto di casa Salina che esse in buona fede credevano ancora intatto, ed innanzi tutto quella di poter per mezz’ora vedere aggirarsi in casa loro una specie di sontuoso volatile rosso e di poter ammirare i toni vari ed armonizzati delle sue diverse porpore e la marezzatura delle pesantissime sete. […] “Signorina” disse a Concetta che aveva sul volto i segni di una notte insonne “per tre o quattro giorni non si potrà celebrare nella cappella il Servizio Divino; ma sarà mia cura di far provvedere prestissimo alla riconsacrazione. A mio parere l’immagine della Madonna di Pompei occuperà degnamente il posto del quadro che è al disopra dell’altare, il quale, del resto, potrà unirsi alle belle opere d’arte che ho ammirato traversando i vostri salotti. In quanto alle reliquie lascio qui don Pacchiotti, mio segretario e sacerdote competentissimo; egli esaminerà i documenti e comunicherà loro i risultati delle sue ricerche; e
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