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Analisi dell'opera "Il Gattopardo", Prove d'esame di Letteratura

Libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Tipologia: Prove d'esame

2017/2018

Caricato il 08/03/2018

Polifede95
Polifede95 🇮🇹

4.5

(20)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Analisi dell'opera "Il Gattopardo" e più Prove d'esame in PDF di Letteratura solo su Docsity! Analisi dell’opera Il Romanzo si articola in tre tappe di 35 anni; il 1860, il 1885 (morte del Principe; morte del Bisnonno), ed infine il 1910. Il titolo deriva dall'insegna araldica del Gattopardo, l'animale dai grandi baffi, ritto sulle zampe, che compare nello stemma nobiliare del Principe Fabrizio Corbera di Salina, il protagonista. Se guardiamo alla sua trama, lo possiamo definire un romanzo storico, anche se è troppo introspettivo e psicologico per essere solo un romanzo storico, per questo lo possiamo definire un romanzo sulla società e in particolare sull’aristocrazia Siciliana, negli anni della nascita e dello sviluppo del regno d'Italia. I fatti narrati nel romanzo sono pochi. Dopo lo sbarco dei Garibaldini in Sicilia, Don Fabrizio, rimasto fino a quel momento in posizione di aristocratico distacco, aderisce al nuovo regno d'Italia, un po' per convenienza e un po' perché convinto dell'inutilità dello sforzo umano di cambiare il corso della storia. A differenza dello zio, il nipote Tancredi combatte nelle file Garibaldine, e questo titolo gli aprirà negli anni successivi la strada per una brillante carriera politica. Il principe è un tipico rappresentante dell'aristocrazia feudale ancora potente in Sicilia prima dell'unità d'Italia. Tre sono gli elementi che caratterizzano la sua figura: il primo è l'aspetto fisico imponente, massiccio, autorevole (attraverso cui l'autore sottolinea la sua superiorità intellettuale rispetto agli altri personaggi, spesso piccoli, brutti addirittura deformi); il secondo è l'atteggiamento ironico, che da un lato è il segno della sua superiore consapevolezza, dall'altro nasconde una disperazione profonda, una tendenza alla passività e all'inerzia; il terzo tratto caratteristico della sua figura, infine, è la sensualità, che egli sembra assorbire dal paesaggio e dal clima siciliano. Tomasi ritrae nella figura del Principe il bisnonno Giulio che era un astronomo e nella figura fisica di Tancredi si rifà al figlio adottivo Gioacchino. La famiglia del principe era composta, dalla moglie Maria Stella, da 7 figli (4 maschi e 3 femmine). Altri personaggi che vivono intorno al Principe, sono il nipote prediletto Tancredi Falconeri e l'ecclesiastico di casa, il gesuita Don Pirrone. In estate, la famiglia del Principe Salina, uscita indenne dai rivolgimenti militari e politici, causati dallo sbarco dei Garibaldini, grazie alla protezione degli amici di Tancredi, che nel frattempo è divenuto capitano delle camicie rosse, si trasferisce dalla villa che sorge nei dintorni di Palermo a quella lontana del feudo di Donnafugata, dove solitamente passava la villeggiatura. A Donnafugata, il principe e la sua famiglia, con Tancredi venuto in licenza, vengono accolti dalla banda municipale, dalla popolazione in festa, e dalle autorità capeggiate da un nuovo Sindaco, con la fascia tricolore, Don Calogero Sedara, un uomo di umili origini, ma intelligente, attivo, intraprendente che, con una serie di iniziative audaci e spregiudicate si è enormemente arricchito. L'autore non perde occasione per sottolineare la superiorità aristocratica del Principe su Don Calogero, infatti, il Principe critica in lui i difetti formali, come la rozzezza, l'ignoranza delle buone maniere, i gusti non raffinati (Don Calogero è ricco ma, indossa abiti che non sono cuciti alla perfezione). Nonostante il Principe non ami le persone di umili origini, un affetto particolare lo lega a Don Ciccio Tumeo, con cui effettua divertenti battute di caccia. La caccia, riservata nei paesi a regime feudale soltanto ai nobili, è per Don Fabrizio il godimento del privilegio, la serenità nel sentirsi immerso in un mondo che sembra immobile nell'eternità, la pace nella lontananza dalle preoccupazioni piccole e grandi di Donnafugata. Tancredi, che prima aveva manifestato qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del Principe, volge ora le sue attenzioni verso Angelica, figlia di Don Calogero. Tancredi comunica allo zio l'intenzione di sposare Angelica, con una lettera e lo prega di chiedere a suo nome la mano della signorina, giustificando le nozze tra un Falconeri e una Sedara col livellamento dei ceti imposto dai tempi nuovi. Anche il Principe, sia pure a malincuore, perché vede intaccato il prestigio dell'aristocrazia con queste nozze male assortite, per la grande disparità associata, si adegua ai nuovi tempi e ottiene, oltre all'assenso paterno delle nozze, anche una cospicua dote, quasi a compensare la disparità dei ceti, perché Tancredi è nobile ma praticamente squattrinato, mentre Angelica è umile ma ricchissima. Dopo aver conquistato la Sicilia, il governo manda a Donna Fugata, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, per offrire al Principe, la nomina di Senatore del Regno. Il Principe rifiuta, perché si sente un sopravvissuto del vecchio mondo scomparso e suggerisce di assegnare la nomina a Don Calogero Sedara. Nel novembre del 1862, nei sontuosi saloni della famiglia Ponteleone, si svolge un gran ballo di nobili palermitani a cui partecipano anche i Salina e i due fidanzati, Tancredi e Angelica. Mentre i giovani ballano, il Principe vaga stanco e annoiato da un salone all'altro, assalito dai ricordi del passato e dal pensiero della morte. Solo il ballo con Angelica gli dà un ultimo guizzo di gioiosa vitalità. Nel luglio del 1863, in una stanza dell'albergo Trinacria, a Palermo, sfinito dal faticoso viaggio a Napoli dove si era recato per un consulto medico, il Principe muore assistito dalla quarantenne figlia Concetta, da Tancredi e dal nipote Fabrizietto. A nulla sono valsi i consulti dei medici a Napoli, così di ritorno da quella città, non riesce nemmeno a raggiungere la villa perché è troppo lontana. Egli si rende perfettamente che le sue condizioni si sono aggravate e, senza opporre resistenza, accetta il prete. Poi, astraendosi in se stesso, fa il bilancio consecutivo della sua vita e si accinge ad accogliere la morte senza rimpianti e senza timore, vedendola arrivare più bella di come l'aveva immaginata. Tancredi, il nipote prediletto, fa di tutto per distrarre lo zio dai pensieri lugubri dell'agonia, egli capisce ed è riconoscente, ma preferisce approfittare di quegli attimi, gli ultimi, per ritrovare qualche memoria del passato per tirare le somme dei suoi 73 anni e chiedersi quanti anni felici ha passato. E al ricordo dei lunghi periodi di noia guarda alla morte con maggiore dolcezza, una bella signora che non viene a ghermire, ma a lasciarsi sedurre da quel fiero gattopardo al quale, si prepara ad arrendersi. Nell'ultimo capitolo, e siamo arrivati al 1910, è descritta la patetica esistenza nella villa Salina delle tre vecchie zitelle, figlie del Principe, Carolina, Concetta e Caterina, ormai settantenni. Le tre donne per iniziativa delle autorità ecclesiastiche, impegnate a combattere le superstizioni, sono costrette a disfarsi delle reliquie che una vecchia spacciava loro come autentiche e che esse custodivano gelosamente. Le reliquie, dichiarate false da un sacerdote revisore, vengono buttate nell'immondezzaio, con esse finisce anche il cane Bendicò, grande amico del Principe, l'essere più innocente di tutto il romanzo, morto cinquant'anni prima e fatto imbalsamare perché al Principe dispiaceva seppellirlo e non vederlo più. Con la caduta di Bendicò nella spazzatura, si compie l'atto finale della rovina del mondo del Principe, perché Bendicò rappresenta il simbolo di quel mondo. Questo capitolo è il più tragico di tutto il romanzo, anche del capitolo che descrive la morte del Principe, che nonostante la rovina della sua classe, era rimasto un grande e tutti verso di lui, fino all'ultimo avevano provato un sentimento di rispetto e di timore. Con la sua morte tutto questo mondo finisce e Bendicò rappresenta proprio la fine di ciò che era rimasto. A Donnafugata è riuscito ad impossessarsi, in breve tempo e con poco, di molte terre. Ora le sue rendite sono quasi uguali a quelle di Don Fabrizio. Insieme alla ricchezza però cresca anche la rende conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole. Ha imparato che "un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d'unto; che una conversazione può benissimo non rassomigliare ad una lite fra cani; che dare la precedenza ad una donna è segno di forza e non, come ha creduto, di debolezza; che da un interlocutore si può ottenere di più se gli si dice <non mi sono spiegato bene> anziché <non hai capito un corno>, e che adoperando simili accorgimenti, cibi, donne, argomenti ed interlocutori vengono a guadagnarci a tutto profitto anche di chi li ha trattati bene" (pag.166).sua influenza politica, tanto da dargli la certezza di diventare deputato a Torino. Egli rappresenta l'uomo nuovo, il borghese che sorge dalla rovina della nobiltà feudale. Non si da però delle arie, perché troppo intelligente per farlo. Frequentando Don Fabrizio impara che il fascino scaturisce anche dalle buone maniere e si Pur non approfittando subito di quanto appreso, Don Calogero da allora impara a radersi un po' meglio ed a spaventarsi meno della quantità di sapone adoperato nel bucato. Grazie al fidanzamento della figlia Angelica con Tancredi, viene invitato al ballo dai Ponteleone. Entra nel palazzo "nella di lei (di Angelica) scia, sorcetto custode di una fiammeggiante rosa; negli abiti di lui non vi era eleganza ma decenza sì, questa volta; solo suo errore fu quello di portare all'occhiello la croce della Corona d'Italia conferitagli di recente; essa, per altro scomparve presto in una delle tasche clandestine del frac di Tancredi" (pag.257). Sedara contempla il fasto del palazzo Ponteleone: "i suoi occhietti svegli percorrevano l'ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario". Angelica Sedara Alta, ben fatta, occhi verdi un po' crudeli, mostra apertamente il suo compiacimanto per la posizione raggiunta dal padre. Il suo ingresso alla famiglia dei Salina avviene durante il pranzo ufficiale di Donnafugata, in sostituzione della madre; ma già al suo arrivo lascia tutti con il fiato in gola. Sedotti dalla sua bellezza, gli uomini sono incapaci di notare i non pochi difetti che questa bellezza ha. Tancredi si innamora di lei, ma Angelica ha troppo orgoglio, troppa ambizione per essere capace di avvicinarsi veramente al giovane. Tuttavia è innamorata di lui, dei suoi occhi azzurri, della sua affettuosità scherzosa, di certi toni improvvisamente gravi della sua voce. 
A lei importa poco dei tratti di spirito, dell' intelligenza di Tancredi. In lui vede soprattutto la possibilità di avere un posto eminente nel mondo nobile della Sicilia, mondo che considera pieno di meraviglie e che in realtà è assai differente da quello che immagina. In Tancredi desidera anche un vivace compagno di abbracciamenti. Se per di più è anche intellettualmente superiore, tanto meglio. Quando finalmente don Fabrizio chiede a don Calogero la mano della figlia per conto di Tancredi, dopo i primi incontri, le visite alla Villa Salina divengono sempre più frequenti e permettono ai giovani di prendere gusto a inseguirsi, perdersi e ritrovarsi tra i vari locali del palazzo: "Quelli furono i giorni migliori della vita di Tancredi e di quella di Angelica, vite che dovevano poi essere tanto variegate, tanto peccaminose sull' inevitabile sfondo di dolore. Ma essi allora non lo sapevano ed inseguivano un avvenire che stimavano più concreto benchè poi risultasse formato di fumo e di vento soltanto. Quando furono divenuti vecchi e inutilmente saggi i loro pensieri ritornavano a quei giorni con rimpianto insistente: erano stati giorni del desiderio sempre presente perchè sempre vivo, dei letti, molti, che si erano offerti e che erano stati respinti, dello stimolo sessuale che appunto perchè inibito si era, un attimo, subblimato in rinunzia, cioè in vero amore. Quei giorni furono la preparazione a quel matrimonio che, anche eroticamente, fu mal riuscito". Il ballo a palazzo Ponteleone offre ad Angelica la possibilità di mettere in pratica gli insegnamenti di Tancredi sul modo di comportarsi nell'ambiente aristocratico: per la prima volta la vediamo assumere un contegno adeguato, di orgoglio non più apertamente ostentato. La sua vita matrimoniale però non è senza screzi e incomprensioni, talvolta tradisce il marito, per esempio con Tassoni, ma alla morte di Tancredi, ne gestisce con disinvoltura le glorie passate. Padre Pirrone E’ il gesuita che ha la direzione spirituale generale di casa Salina. Nato a S. Cono, un piccolo paese vicino a Palermo, aveva lasciato la casa paterna a 16 anni, quando era andato nel seminario arcivescovile. Al paese natale era ritornato solo per le nozze delle due sorelle e per la morte del padre. Ciò che più lo preoccupa dello sbarco dei garibaldini in Sicilia è la requisizione dei beni della Chiesa, che con essi sostenta moltitudini di infelici. Per interessamento di un generale amico di Tancredi, non gli viene applicato l'ordine di espulsione stabilito per i gesuiti. Per sette anni aveva tentato di insegnare il latino a Tancredi, subendone i capricci e gli scherzi. Anch'egli aveva sentito il fascino del giovane, ma non condivideva i suoi nuovi atteggimenti politici. E' sempre timoroso nei confronti del Principe Salina e si preoccupa di non offenderlo. Gli è affezionato, nonostante alcune volte abbia sperimentato la sua collera o la sua impudenza, come quando è costretto ad accompagnarlo nel viaggio per Palermo, dove il principe incontra Mariannina. A padre Pirrone si rivolge Concetta per affidargli l'incarico di comunicare al padre il proprio innamoramento nei confronti del cugino Tancredi. Quando, dopo molti anni, padre Pirrone torna al paese per il quindicesimo anniversario della morte del proprio padre Gaetano, viene accolto da tutti festosamente. Alla sera si mette a parlare di politica con alcuni amici, che desiderano conoscere le novità, dato che lui vive tra i "signori": per le notizie ricevute, finiscono con l'andarsene assai più accigliati di quando erano venuti. Rimasto solo con il compaesano don Pietrino, approfittando anche del fatto che quest'ultimo, di fronte ai suoi astratti ragionamenti, ha finito per addormentarsi, espone esplicitamente la propria concezione sugli aristocratici: come vivono, come la pensano i "signori". In realtà sono le idee di Lampedusa, messe in bocca strumentalmente a padre Pirrone. Durante la permanenza a S. Cono il gesuita deve pure occuparsi del matrimonio "riparatore" fra la nipote Angelica ed il cugino Santino. I giovani appartengono a due famiglie rivali, per vecchi rancori sul possesso di un mandorleto. Padre Pirrone riesce a risolvere la "questione" con intelligenza ed astuzia, riportando l'armonia anche fra le due famiglie. Il sacerdote se ne ritorna a Palermo lieto, ma con una amara considerazione: "I gran signori sono riservati e incomprensibili, i contadini espliciti e chiari; ma il demonio se li rigira entrambi attorno al mignolo, egualmente". Maria Stella Corbera E’ la moglie del Principe Fabrizio Corbera di Salina. Tomasi di Lampedusa la descrive all'inizio del romanzo: "La prepotenza ansiosa della principessa fece cadere seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais, mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i figli, servi e il marito tiranno, verso il quale il corpo minuscolo si protendeva in una vana ansia di dominio amoroso" (pag.19). E' soggetta a crisi isteriche ed è proprio una di queste che alla fine induce Don Fabrizio a recarsi a Palermo da Mariannina. Infatti il Principe sta per far rientrare i cavalli in scuderia, quando un grido: "Fabrizio, Fabrizio mio!" gli giunge dalla finestra, seguito da grida acutissime. Al che Don Fabrizio chiude con violenza lo sportello della carrozza, ordinando al cocchiere di partire. Il marito l'accusa di non soddisfarlo nella sua vitalità. Afferma Don Fabrizio: "Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che a letto si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio, e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione, non sa dire che: Gesummaria ! (pag.38)" Viene informata dal marito dell'intenzione di Tancredi di sposare Angelica quando è già a letto. Reagisce subito irosamente, accusando il nipote di essere un traditore, poiché ella aveva sempre sperato che sposasse Concetta. Ritenendo la decisione di Tancredi un'ingiustizia, incita il marito a non portare a termine l'incarico ricevuto dal nipote. Tale atteggiamento iroso ed isterico, costringe il marito ad una falsa reazione violenta, con il risultato di calmare la principessa: "la moglie era spaurita e guaiolava basso come un cucciolo minacciato (pag.124)". Come il marito prevedeva, Maria Stella non solo si tranquillizza, ma si sente anche tutta consolata e orgogliosa di "aver per marito un uomo tanto energetico e fiero". In occasione della prima visita di Angelica a casa Salina, la principessa l'accoglie calorosamente stringendola a sé fortemente: tutte le proprie riserve verso la ragazza non solo sono da lei ritirate, anzi le "aveva addirittura fulminate nel nulla" (pag.168). Ammalatosi di diabete, "si era pure aggrappata meschinamente a questa esistenza di pene". Concetta Corbera Figlia del principe Fabrizio. All'inizio del romanzo Concetta ci appare come una signorinetta orgogliosa e innamorata del cugino. Il padre intuisce i suoi sentimenti durante il pranzo, subito dopo la partenza di Tancredi: parlando di lui, sul volto della figlia nota una certa ansia. Concetta riceve le attenzioni del conte milanese che accompagna il generale garibaldino, invitato da Tancredi alla villa per vederne gli affreschi; ma ella è preoccupata esclusivamente della "brutta cera" del cugino. Nei confronti del padre ha una "perpetua sottomissione", piegandosi ad ogni manifestazione della volontà paterna. Ma un "bagliore ferrigno" brilla nei suoi occhi quando le bizzarrie alle quali ubbidisce sono davvero troppo vessatorie. Non osa confessare al padre il proprio innamoramento per Tancredi e ne incarica padre Pirrone: le attenzioni, gli sguardi, le mezze parole del cugino l' hanno convinta a tale decisione. Non è lieto della notizia Don Fabrizio a cui sembra stare più a cuore il destino di Tancredi di quello della figlia: "timida, riservata, ritrosa, con tante virtù passive, sarebbe stata sempre la bella educanda che era adesso, una palla di piombo ai piedi del marito". Durante il primo pranzo a Donnafugata Concetta sente che il cugino è attratto dalla bellezza di Angelica e spera che egli noti i suoi difetti, la sua differente educazione. Quando il cugino racconta l'episodio dell'assalto ad un convento di clausura, Concetta, con le lacrime agli occhi, ha parole molto dure nei suoi confronti, quasi si sia ormai resa conto della rottura di ogni sentimento fra loro. siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quella del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana: da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto». Quando Chevalley propone a don Fabrizio un seggio nel Senato del nascente Regno d’Italia 0 3 0 0 0 3 0 0(«lei rappresenterà la Sicilia... farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri 0 3 0 1da esaudire») il principe rifiuta, fondamentalmente perché non crede che la Sicilia possa rinascere a nuova vita, e adduce al riguardo diverse motivazioni. In primo luogo una motivazione storica: «Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di 0 3 0 0magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la..., da duemilacinquecento anni siamo colonia». Anche i piemontesi, seppure armati di buone intenzioni, non sono che gli ennesimi stranieri che si propongono al governo dell’isola. In secondo luogo una motivazione psicologica: l’aver chinato sempre la testa davanti al dominatore di turno ha reso il popolo siciliano passivo e sfiduciato, lo ha posto ai margini della storia; la Sicilia, che in un tempo lontano ha vissuto 0 3 0 0 0 3 0 0una splendida civiltà, ora è irrimediabilmente vecchia, non ha più slancio vitale. Infine una motivazione geografica: l’isola vive sei mesi all’anno sotto un sole infuocato, il clima e il paesaggio hanno inciso negativamente sull’animo degli abitanti al pari delle vicende storiche. Per tutte queste ragioni la Sicilia è una terra «immobile», senza prospettive future. Per quel che concerne il carattere dei Siciliani: In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare". Da 25 secoli almeno portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori; nessuna germogliata da noi stessi, nessuna creata in Sicilia. Da 25 secoli noi siamo colonia. La Sicilia viene raffigurata dall’autore come una vecchia «centenaria trascinata in carrozzino... che non comprende nulla, che s'impipa di tutto». Lampedusa definisce «oniriche» tutte le nostre manifestazioni, anche le più violente. Parla di «immobilità voluttuosa», di pigrizia, di sensualità come desiderio di oblio, come desiderio di morte; come desiderio d’immobilità voluttuosa. I termini «morto, morte, defunto» ritornano circolarmente in questo romanzo, perché il romanzo rappresenta la Sicilia dentro una visione cupa del mondo, cupa e senza speranza, dominata da un senso di paralisi e di impotenza, attratta voluttuosamente solo dalla morte e dal nulla. L'amarezza del Principe non consiste nel fatto che la società siciliana finisca nelle mani dei Sedara, ma nel fatto che i Sedara non sono affatto migliori dei Borboni o dei Salina. Con i Sedara la Sicilia cambierà, ma non cambierà in meglio. L'inferno ideologico evocato dal Principe Fabrizio nella celebre conversazione con l'inviato piemontese Chevalley non finisce qui. Noi ci crediamo dèi, noi siamo dèi. La ragione della nostra diversità consiste in quel sentimento di superiorità che barbaglia - scrive l'autore - negli occhi dei siciliani: questo sentimento noi chiamiamo «fierezza», mentre esso è semplicemente «cecità», «i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti». La Sicilia, che Tomasi assume come simbolo, è un luogo della mente e dell'anima, in cui è possibile rappresentare le due facce principali dell'isola, Le due facce sono quella mitica e quella storica. Al mito appartiene l'immagine di una Sicilia inabissata nella sua impenetrabilità, nella sua immobilità - dobbiamo cambiare tutto per non cambiare nulla - di una Sicilia fissata nel suo destino di terra di conquista, estranea e indifferente a tutto ciò che nella storia si muove, cammina e si evolve. Questa è la Sicilia in cui ogni cosa è intrisa di morte (pensiamo al «paesaggio violento e abbacinante di luce). Il potere con i suoi mutamenti, col suo incessante alternarsi di élites di dirigenti, secondo Tomasi si ripropone sempre lo stesso, sempre uguale. I cambiamenti di potere hanno un solo scopo e un solo valore: mantenere quell'immobile equilibrio che il Lampedusa denuncia dall'inizio alla fine del romanzo. Da noi la storia è storia senza progresso, storia in cui non si può e non si deve cambiare nulla. Qui la morte è veramente eterna. Romanzo storico o psicologico? Il Gattopardo è considerato un romanzo storico, perché la vicenda prende le mosse dallo sbarco di Garibaldi in Sicilia che porterà all’annessione dell’isola al regno piemontese dei Savoia. Ma, in realtà, al centro della narrazione ci sono il principe Fabrizio Salina, la sua vicenda interiore, il suo senso di impotenza di fronte a quanto sta accadendo. La vicenda storica è solo un pretesto in quest'opera, un motivo accessorio e caduco, continuamente sopraffatto da quello più autentico e fertile di esiti poetici: il lamento cioè sulla sterilità delle illusioni e dell'agire umano, il senso dell'inevitabile decadere delle cose e degli uomini. La struttura del romanzo La narrazione delle vicende slitta continuamente dal piano della realtà, delle puntuali descrizioni di ambienti e della loro dettagliata rappresentazione a quello della meditazione, dell'immaginazione e della fuga nella memoria e nell'astrazione, per ritornare subito dopo al piano del racconto storico e come tale di nuovo realistico. circolarità della fabula, alla coincidenza fra apertura e chiusura del libro. Comincia con un versetto dell'Ave Maria - Nunc et in hora mortis nostrae, amen - e finisce con una espressione che ci riporta al tema iniziale della inarrestabile e inesorabile caducità delle cose umane - Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida -. La caratteristica più evidente della struttura del libro è il fatto che i singoli episodi sono inseriti nel contesto in modo tale da creare uno svolgimento che non procede in linea retta, ma si snoda invece per continue alternanze in un gioco dialettico di tesi-antitesi, di cui i due capitoli finali si possono ritenere la sintesi. Nel corso della storia scarsi sono i fatti concreti che avvengono nella realtà esterna. Lo svolgimento vario, complesso, spesso addirittura drammatico, è tutto interiore, nel succedersi dei contrastanti stati d' animo che un uomo può assumere, nelle diverse situazioni che la vita presenta, di fronte alla realtà e al problema dell'esistenza. Quella del Gattopardo è dunque una struttura che si snoda per antitesi nella struttura come nel linguaggio. La ragione di questo si spiega col complesso atteggiamento dell'autore nei riguardi della sua materia che si può definire come quello di colui che si sforza di guardare senza emozioni una realtà che lo turba e lo fa soffrire, dominando gli elementi disordinati che ne sono alla base in modo limpido ed armonico. Lampedusa è riuscito dunque ad esprimere la sua dolente visione delle cose non attraverso un monotono e sempre ripetuto lamento sull'infelicità della condizione umana, ma attraverso il quadro complesso di una realtà che, nel continuo succedersi di amarezze- rasserenamenti, presenta, anche nell'assenza di una giustificazione finale, un suo particolare equilibrio. Dal romanzo esce un quadro della realtà che abbraccia tutte le condizioni dell'esistenza, così come Tomasi la concepisce, da quella della giovinezza a quella della maturità con il diverso modo di sentire e concepire la vita che ogni età comporta. Con la vecchiaia e con la morte il quadro, che si era aperto con la descrizione di una maturità ancora estremamente vitale e di una giovinezza fiorente, si conclude, racchiudendo in sè quell'esperienza di tutta una vita, che all'autore stava a cuore di esprimere ANALISI STILISTICA L’antitesi, la lingua, l'ironia, le metafore, l'uso della parentesi. Uno dei tratti caratteristici della prosa del romanzo è ancora una volta proprio l'antitesi (1), che ritorna con frequenza, pur subendo alcune variazioni e gradazioni. Se dal particolare stilistico cerchiamo di risalire all'etimo psicologico, alla radice che sta nell'animo dell'autore, l'uso delle antitesi permette di aprire uno spiraglio sul particolare modo di sentire di Lampedusa. Questa scelta stilistica è omologa alla visione delle cose del narratore, diviso tra elementi contrastanti e sentimenti opposti, che raramente raggiungono una sintesi conclusiva. Elemento interessante del Gattopardo è la lingua, molto composita e complessa che ne rende la prosa sconcertante ad un primo esame critico. Quello usato da Lampedusa è quindi un vocabolario eterogeneo che permette di cogliere i più diversi aspetti della realtà gattopardesca, alla rappresentazione della quale non potevano adattarsi termini esclusivamente aulici oppure soltanto realistici. Facendo un elenco dei termini che colpiscono più facilmente l'attenzione, perchè non usuali, ci troviamo anzitutto di fronte ad una lingua di vocaboli aulici (2), letterari e ovviamente antiquati . D'altra parte è possibile trovare nel testo un tipo di espressioni e vocaboli di natura completamente diversa, vocaboli volgari (3) derivati dalla lingua parlata. Sempre a proposito della lingua è possibile commentare il tono neutro e impersonale delle brevi frasi di commento che consentono all'autore di porsi in qualunque momento al di fuori della vicenda per darne una valutazione intellettuale e perciò di ristabilire immediatamente il distacco tra se stesso e la materia trattata. E' frequente ad esempio in tutto il libro il richiamarsi di Lampedusa a massime generali (4) e norme di vita, enunciate come valide per tutti e ricordate con tono obiettivo. Il romanzo è intessuto da una fitta rete di similitudini, analogie, metafore (5); questo tipo di scrittura serve a mascherare l'implicito, che il lettore attento pero' percepisce da vari segnali: lo si vede a proposito del colloquio con Chevalley, in cui le loro parole servono a mascherare qualcosa che è inconfessabile. Un altro esempio di metafore è costituito dalle immagini femminili e dal linguaggio amoroso con il quale si rivolge alla morte; il corteggiamento di questa non è disgiunto dal corteggiamento della vita, come dimostra il sensualismo lampedusiano che si manifesta non solo nell'attenzione alla donna e all'amore, ma anche nel gusto per i colori, odori e sapori. L'ironia (6)è uno dei tratti salienti dello stile di Lampedusa. Nel romanzo lo stile ironico è pressochè costante, l'autore del Gattopardo esprime la propria superiore consapevolezza attraverso il distacco, che si manifesta in un amaro sorriso dinanzi alle ipocrisie e alle illusioni, piccole e grandi dei personaggi. Un altro accorgimento stilistico che Tomasi usa per dialogare con il lettore e dare la sua valutazione intellettuale delle vicende, è l'uso particolare che egli fa della parentesi (7) attraverso la quale spiega la realtà vera delle cose. Il tono da lui usato è spesso quello del giudice onnisciente che ha con i personaggi gli stessi rapporti che legano la creatura al creatore. 1. l'antitesi è usata per contrapporre idee o elementi divergenti che, messi in contatto con il loro opposto, acquistano maggiore efficacia e maggiore risalto. Ne abbiamo numerosi esempi in tutto il libro, come "silenzio atono o stridore esasperato di voci isteriche", oppure come "la Principessa tese la mano infantile e carezzò la potente zampaccia che riposava sulla tavola", "cinque enormi dita sfiorarono la minuscola scatola cranica di lei". Lampedusa si serve poi dell'antitesi per contrapporre, evidenziandoli meglio, termini distinti, ma anche per definire elementi opposti, ma compresenti nella stessa realtà che egli si sofferma a descrivere, sia essa il paesaggio siciliano, il Palazzo reale o quello di famiglia. Un esempio: "si percorrevano sale di architettura magnifica e di mobilio stomachevole", che si riferisce al passo nel quale Lampedusa descrive le numerose udienze che Ferdinando II gli aveva concesso in passato. Un altro esempio: la descrizione del giardino di villa Salina. In questo caso la tecnica è quella dell'antitesi sostantivo - aggettivo: il giardino è macerato; le rose sono degenerate, arse, mutate in cavoli color carne, oscene.Tra sensualità e morte sembra esistere un rapporto di necessità. Si direbbe che Lampedusa non lo annoveri fra le cose salienti, determinanti della vita: senza assolutamente che ciò implichi una sua misoginia, piuttosto il solito scettico e difensivo disincanto. Non è attraverso l'amore che passa il destino dei personaggi, o se vi passa è perché l'amore è strumentalizzato, più o meno coscientemente, al raggiungimento di certi fini. Sotto questo aspetto, non si trova nel Gattopardo nessuna eco della grande letteratura ottocentesca: il narratore ottocentesco, pur conoscendo l'effimero e ingannevole dell'amore, lo accetta come qualcosa di profondamente costruttivo o distruttivo, ne fa di volta in volta il solco che segna la vita dei personaggi. Invece Lampedusa riduce l'amore ai margini dell'esistenza, come un dato inessenziale e poco incisivo. L'amore nel Gattopardo può essere accensione dei sensi, inoperosa romanticheria, convenzione, calcolo. L'eternità dell'amore dura pochi giorni, lo dice l'autore stesso. Diciamo che l'amore, per Lampedusa, si coglie unicamente nei due poli della sensualità e dell'affetto: il che vale a dire che non esiste. Molte pagine sono dedicate all'amore di Angelica e Tancredi. Don Fabrizio ha compassione per la loro "passeggera cecità". Esseri effimeri "che cercano di godere dell'esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre, prima della culla, dopo gli ultimi strattoni" (pag.266). Quella di Angelica e Tancredi è l'unica vicenda d'amore di qualche peso nel Gattopardo, per il resto, l'amore appare in rapidi accenni ed in episodi insignificanti. Non offre nessun interesse l'amore di Concetta per Tancredi, con relativo sacrificio e acre coltivazione di memorie da parte della ragazza; meno ancora l'amore svenevole, romantico e non ricambiato che per la stassa Concetta nutre Cavriaghi, un nobile piemontese commilitone di Tancredi. Non rientra nel quadro dell'amore la visita del principe della prostituta Mariannina a Palermo. E' un puro sfogo di sensi: la moglie, Stella, non soddisfa la sua vitalità. 1. "I re che incarnano un'idea non possono, non devono scendere per generazioni al di sotto di un certo livello; se no ... anche l'idea patisce"(pag.25). 2. "..in una realtà mobile.. alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l'immortalità, a noi, in quanto classe sociale, no...(pag.55)". 3. quando il principe arriva a Palermo per far visita a Mariannina, le osservazioni sono le seguenti: "..le sue case basse e serrate erano oppresse dalle smisurate moli dei conventi...di questi ve ne erano diecine, tutti immani... erano essi, i conventi, a conferire alla città la cupezza sua e il suo carattere, il suo decoro, ed insieme il senso di morte che neppure la frenetica luce siciliana riusciva mai a disperdere... ed era contro di essi che in realtà erano accesi i fuochi della montagna, attizzati del resto da uomini assai simili a quelli che nei conventi vivevano, fanatici come essi, chiusi come essi, come essi avidi di potere...(pag.35)". L’IRONIA L'ironia è uno dei tratti salienti dello stile di Lampedusa. Nel romanzo lo stile ironico è pressochè costante, l'autore del Gattopardo esprime la propria superiore consapevolezza attraverso il distacco, che si manifesta in un amaro sorriso dinanzi alle ipocrisie e alle illusioni, piccole e grandi dei personaggi. L'ironia è uno dei molti aspetti presenti sia nel film che nel romanzo. Trattandosi però di due livelli comunicativi diversi, quello letterario e quello filmico, i mezzi per ottenere l'ironia differiscono. Per esempio un atteggiamento ironico può essere facilmente reso in un film attraverso lo sguardo, la mimica, il gesto di un attore o un particolare accompagnamento musicale. Molti sono i personaggi e gli episodi caratterizzati da una forte ironia: Per i personaggi: Don Calogero e Padre Pirrone. Per gli episodi: l’arrivo a Donnafugata, il plebiscito, il ballo a palazzo Ponteleone Possiamo dire che il personaggio di Don Calogero Sedara sia attante di molte situazioni ironiche. La goffa entrata di Don Calogero a casa Salina è sottolineata da una vivace musica e il suo grossolano frack è motivo di ironia per gli invitati a cena. Il suo comportamento reverenziale nei confronti del principe è esasperato e inopportuno considerando la sua appartenenza ad un ceto sociale, la borghesia, in crescente ascesa ai danni della nobiltà. Questo suo atteggiamento è evidente al momento della votazione; Sedara dopo aver democraticamente annunciato: "....il primo che arriva vota per primo, perchè qui non si fanno.." (la frase fa intuire che la parola di chiusura sia preferenze) viene interrotto dall'arrivo di Don Fabrizio. Non curante delle sue ultime parole, Don Calogero cerimonioso invita il principe a votare prima degli altri. In risposta a questo atto preferenziale nei suoi confronti Don Fabrizio, rivolto a padre Pirrone, definisce il sindaco con l'ironico appellativo di: " il Cavour di Donnafugata." Molto divertente è la dichiarazione di Don Calogero di una presunta nobiltà della famiglia Sedara: ha tutto documentato, Angelica è la baronessina Sedara del Biscotto. Intuibile è la reazione di Don Fabrizio e di Padre Pirrone, i due fuggono trattenendo a stento le risate, lasciando il povero Sedara solo mentre l'eco delle sue parole rimbomba ancora fra le mura dell'alta stanza. In occasione del ballo a palazzo Ponteleone è invitato anche Sedara, in qualità di futuro suocero di Tancredi. In questo caso il sindaco appare goffo e impacciato, borghese tra i nobili: è un bambino nel paese dei balocchi, abbagliato dallo splendore degli ori del palazzo. L'ironia è concentrata tutta nel suo sguardo estatico di fronte a tanta ricchezza, nel suo sforzo di sembrare all'altezza della situazione; però Sedara, non avezzo alla vita sociale dei nobili, si addormenta su una poltrona, bacia tre volte la mano della padrona di casa anche se il galateo impone solo un accenno al baciamano. L'apice dell'ironia applicata a temi politici è raggiunta nella proclamazione dell'annessione di Donnafugata al Pieminte; protagonista anche qui è Sedara. Il momento solenne è interrotto dall'inopportuna banda; il povero Sedara è anche ostacolato dal continuo spegnersi delle candele che impedisce la lettura degli esiti, per altro, come si saprà, falsati. La scena assume una dimensione quasi grottesca e vanifica tutta la baldanza retorica di Sedara, mentre svela lo scetticismo del narratore nei confronti degli eventi e della credibilità dei loro artefici. Nell'episodio in cui Pallavicino racconta con compiaciuta baldanza l'episodio dell'Aspromonte o l'incontro con Garibaldi, sembra che l'autore estenda il suo scetticismo anche al racconto che i protagonisti fanno degli eventi. Nella lunga seguenza dell'arrivo a Donnafugata, il fotogramma in cui la banda del piccolo paese si appresta a salutare l'arrivo della famiglia Salina concentra in sé tutta la sua ironia nella contrapposizione tra l'esplicita forma di reverenza nei riguardi della nobiltà, anche se in declino, e l'evidente scritta " VIVA GARIBALDO" alle spalle dei suonatori. La stessa musica è elemento ironico. La sua cadenza, ritmata e vivace secondo i modi popolari della banda, tramuta la sfilata solenne dei componenti della famiglia Salina in una specie di "parata da circo". Il tutto è accentuato dalla condizione fisica di questi che impolverati dalla testa ai piedi e provati dal viaggio, sono costretti al cliché della festa d'arrivo. Altro personaggio che concentra in sé una forte dose di ironia è Padre Pirrone. Doveroso è però distinguere l'ironia che caratterizza Sedara da quella di quest'ultimo; in Don Calogero l'ironia è intrinseca nel personaggio, mentre per il gesuita ironico è il rapporto che si è instaurato tra lui e il principe. Non egualitaria è però la relazione tra questi due: Don Fabrizio è sempre attante delle situazioni ironiche, mentre Padre Pirrone subisce e accetta borbottando, consapevole della sua subordinazione. Sono ricorrenti nel film situazioni di questo tipo. Nel viaggio in carrozza per andare a Palermo, nell'ambito di una discussione sulla condizione politica attuale, Don Fabrizio afferma che il mondo senza gesuiti sarebbe migliore. Di risposta il prete abbassa lo sguardo. Non dissimile situazione è quella che si viene a creare nel bagno del palazzo di Donnafugata: Padre Pirrone entra sorprendendo il principe nudo mentre esce dalla vasca da bagno; all'imbarazzo del prete, il principe ribatte dicendo: "..... siete abituato alla nudità degli animi, quella dei corpi è molto più innocente!!". Quindi non è ironico il comportamento di Padre Pirrone, ma il suo modo di sottrarsi ai modi imperiosi e alle pungenti battute di Don Fabrizio. Infatti nella scena della locanda in cui il gesuita parla dell'universo dei nobili, non in presenza del principe quindi non in soggezione, manca di ogni accento ironico. CIBO: vedi “Gelatina al Rhum” 1) La cena in famiglia (pag.25): il ruolo di pater familias del Principe 2) La gelatina al rhum (pag.63), un pranzo familiare. La gelatina al rhum merita attenzione in quanto rappresentazione simbolica di uno spazio architettonico, come una gigantesca roccaforte: «Si presentava minacciosa, con quella sua forma di torrione appoggiato su bastioni e scarpate, dalle pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde di ciliegie e di pistacchi; era però trasparente e tremolante ed il cucchiaio vi si affondava con stupefacente agio. Quando la roccaforte ambrata giunse a Francesco Paolo [... ] essa non consisteva più che di spalti cannoneggiati e di blocchi divelti. Esilarato dall’aroma del liquore e dal gusto delicato della guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allo smantellamento della fosca rocca sotto l’assalto degli appetiti». Questa scena simbolizza la voracità dei nuovi ricchi nei confronti dei beni della vecchia classe nobiliare. L’inoppugnabilità del torrione, con pareti impossibili da scalare e con doppia guarnigione a presidio, come quella dei nobili siciliani, è solo un’illusione ottica e cede, come solo la gelatina può farlo, ad ogni vorace attacco. La consistenza dei torrioni simboleggia una casta destinata all’imminente crollo e l’eleganza dell’aspetto è davvero l’ultimo baluardo di una futile resistenza. 3) Una pasta al pomodoro 4) A Donnafugata: il banchetto e il pasticcio (pag. 69). ”L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”. L’infrazione alle regole dei menù francesi; cibo siciliano come piaceva al principe. Lo scrigno e le sensazioni tutte rinchiuse nell’involucro e represse dalla severità dell’ospite. Pranzo a cui partecipano don Calogero Sedara e la figlia Angelica. Più che alla sala si accenna al cerimoniale («Da sotto i paralumi di merletto i lumi a petrolio spandevano una gialla luce circoscritta; gli smisurati ritratti equestri dei Salina trapassati non erano che delle immagini imponenti e vaghe come il loro ricordo») e alle pietanza servite, tra cui il «timballo di maccheroni». «Tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni [...]”. Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei babelici pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. Il timballo non assume forme architettoniche, ma la foga di alcuni commensali fa ripensare all’assedio della gelatina-fortezza. L’Arciprete «si lanciò a capofitto senza dir parola»; Angelica dimenticò «parte delle proprie buone maniere e divorava con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva». Inoltre i modi rozzi di Angelica, figlia del massimo emblema dei nuovi ricchi ed ella stessa rappresentante del ceto in ascesa, funzionano da anticipazione - Angelica sarà moglie di Tancredi e signora della Villa Falconeri - e alludono, oltre che alla mancanza di raffinatezza che pure al Principe spiace, più sottilmente alla mancanza di nobiltà di spirito dei nuovi ricchi. Nel coltello che squarcia la crosta di «oro brunito» si può vedere l’attacco fin dentro gli organi vitali (fegatini di pollo, massa untuosa, estratto di carne) dell’organismo che rappresenta la classe nobiliare. Il timballo è poi simbolo della ricchezza del casato, tanto che l’organista «pensava che col solo prezzo di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese». Le due composizioni culinarie sono
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