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Analisi della Celestina di Fernando de Rojas, Tesi di laurea di Letteratura

Un'analisi storica e del contenuto della Celestina di Fernando de Rojas. Si parte dalla storia della letteratura spagnola fino alla commedia umanistica e alla novela sentimental. Si analizza il contesto in cui visse Fernando de Rojas e si descrive il ritrovamento dell'opera. Vengono affrontate le problematiche suscitate dall'opera, evidenziando i diversi titoli che essa ha visto cambiarsi e le sue caratteristiche fondamentali.

Tipologia: Tesi di laurea

2020/2021

In vendita dal 10/04/2023

Dott.Camilla
Dott.Camilla 🇮🇹

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Scarica Analisi della Celestina di Fernando de Rojas e più Tesi di laurea in PDF di Letteratura solo su Docsity! 1 LA CELESTINA DI FERNANDO DE ROJAS: ANALISI STORICA E DEL CONTENUTO Indice: CAPITOLO 1 – INTRODUZIONE ALLA CELESTINA DI FERNANDO DE ROJAS ....... 1.1. Storia della letteratura spagnola fino a “La Celestina” ..................................................... 1.2. La Spagna di Fernando de Rojas ...................................................................................... 1.3. Dal ritrovamento di una commedia autonoma alla Tragicomedia di Rojas ..................... 1.4. La Celestina: le questioni problematiche ......................................................................... CAPITOLO 2 – DESIDERIO E MAGIA ................................................................................ 2.1. La visione dell’amore ne La Celestina ............................................................................. 2.1.1. Tra amor cortese e amare l’amore ............................................................................. 2.2. Storia della magia e caratteristiche delle streghe ............................................................. 2.2.1. Desiderio, amore e magia nell’opera di Rojas .......................................................... CAPITOLO 3 – MELIBEA: TRA VITTIMISMO E STRATEGIA PER LA LIBERTà ........ 3.1. Philocaptio o passione carnale? ....................................................................................... 3.2. Trasformazione o sovversione? ........................................................................................ Conclusioni .............................................................................................................................. Bibliografia e Sitografia .......................................................................................................... 2 CAPITOLO 1 INTRODUZIONE ALLA CELESTINA DI FERNANDO DE ROJAS Durante questo capitolo, ci si concentra sulla storia della letteratura spagnola, partendo dalle sue origini e arrivando alla commedia umanistica e alla novela sentimental. Successivamente, viene analizzato il contesto in cui visse Fernando de Rojas, tra la fine del 1400 e l'inizio del 1500, periodo di transizione dal Medioevo ai Secoli d'oro, caratterizzato da eventi che portarono alla fondazione dell'Impero Spagnolo a seguito del matrimonio tra i re Cattolici. Sebbene sappiamo poco della vita di Rojas, gli viene attribuito uno dei capolavori della letteratura spagnola: La Celestina, il cui studio sarà l'oggetto della presente tesi. Negli ultimi due paragrafi di questo capitolo, viene descritto il ritrovamento dell'opera, che a oggi non ha un autore certo, da parte di Rojas, la continuità che egli scrisse e pubblicò per la prima volta nel 1499 e le numerose edizioni che si susseguirono nel tempo, ognuna delle quali modificò e ampliò l'opera originale. In particolare, nel terzo ed ultimo paragrafo vengono affrontate le problematiche suscitate da questa opera, evidenziando i diversi titoli che essa ha visto cambiarsi e le sue caratteristiche fondamentali, che potrebbero non essere interamente frutto della tradizione spagnola del tempo. 1.1. Storia della letteratura spagnola fino a “La Celestina” In Spagna, come in altre parti d'Europa, la letteratura tradizionale era di natura principalmente orale e prendeva ispirazione sia dagli avvenimenti storici realmente accaduti che dalla conoscenza e dalla saggezza tramandate dal popolo. Durante il Medioevo, la lirica divenne il genere predominante, grazie alla sua musicalità e alla sua ritmicità. Emergevano una lirica popolare di cui abbiamo poche testimonianze scritte poiché era prevalentemente di origine orale, e una lirica più colta che ebbe origine nella regione francese della Provenza e si diffuse poi in tutta Europa. La lirica tradizionale si contraddistingueva per tre elementi essenziali: la brevità, la semplicità e l'anonimato, poiché il popolo preferiva componimenti brevi che fosse facile ricordare, quindi tutto ciò che era superfluo veniva eliminato, mentre la semplicità, adottata sia nei contenuti sia nella forma, era un'altra caratteristica fondamentale. Queste liriche rappresentavano i sentimenti diffusi tra il popolo e non facevano uso di artifici o convenzioni. Si fa coincidere l'inizio della storia della letteratura spagnola con la comparsa del poema anonimo "Cantar de mio Cd" durante il periodo in 5 Il menestrello o il trovatore che suonava e cantava queste poesie utilizzava una precisione metrica, l'isosillabismo, le rime e la ripetizione di versi. A oggi, sono noti tre libri principali che racchiudono le cántigas della lirica medievale galiziana-portoghese: il Cancionero de Ajuda, il Canconiero Colucci-Brancuti e il Cancionero de la Biblioteca Vaticana. Il Cancionero de Ajuda, il più antico dei tre, è una pergamena incompleta, manoscritta dalla solita persona, che comprende diversi testi poetici d'amore e miniature (Michaelis de Vasconcellos, 2013)4. Il Canconiero Colucci-Brancuti rinvenuto nel 1878 nella biblioteca del Conte Paolo Brancutin di Cagli da cui prende il nome è noto anche come Canconiero de la Biblioteca Nacional de Lisboa dalla cui biblioteca fu acquisito nel 1924. E’ composto da più di trecento pagine che contengono 1567 composizioni e per questo tra i tre libri è quello più fiorente e per questo riesce a comprendere tutti i tre generi: le cántigas de amor, de escarnio e de maldizer (AA.VV., 1949)5. Infine il Cancionero de la Biblioteca Vaticana fu scoperto nel 1840 da Fernando Wolf nella Biblioteca Vaticana a Roma, composta da più di milleduecento cantiche, anche qui comprendenti tutti i tre generi, scritte da due scribi diversi (Deyermond & Taylor, 2007)6. I canti più importanti della lirica galiaco-portoghese traggono origine dalla poesia tradizionale della penisola e sono chiamati cántigas de amigo, ovvero i canti dell'amico o della fanciulla innamorata, composti da poeti colti ma di origine popolare. Essi presentano alcuni aspetti in comune con le jarchas, poiché anche qui il tema centrale è l'amore che la protagonista, spesso una fanciulla innamorata, confida alla propria madre o alla natura come il mare. I componimenti sono semplici e spesso dialogati con ritornelli espressi in coro, dove le strofe si legano in coppia. Le varianti dei cántigas de amigo includono le bailadas, che compendono frequenti riferimenti alla danza, le mariñas, che parlano del mare o della fanciulla che parla al mare, le cantigas de romaría, riguardanti i pellegrinaggi verso gli amanti e gli albas, che narrano della separazione degli innamorati all'alba. Tuttavia, a differenza delle cántigas de amor, de escarnio e de maldizer, non è possibile rintracciare l'origine dei cántigas de amigo nella letteratura dei trovatori provenzali (Mercedes y Gradín, 1998)7. Un esempio di cántiga de amigo è il seguente: 4 Michaelis de Vasconcellos C., 2013. Cancionero de Ajuda. Handcover. 5 AA.VV., 1949. Cancioniero de la Biblioteca Nacional Antigo Colocci-Brancuti. Leitura, Comentários e Glossário por Elza Paxeco Machado e José Pedro Machado. Vol I. Edição da Manhã. 6 Deyermond A.D. & Taylor B., 2007. From the Cancioniero de Vaticana to the Cancionero General: Studies in Honour of Jane Whetnall. Department of Hispanic Studies, Queen Mary and Westfield College, University of London. 7 Mercedes B. y Gradín L., 1998. A cántiga de amigo. Handcover. 6 “Olas del mar de Vigo, ¿habéis visto a mi amigo? ¡Ay, Dios, que venga pronto! Olas del mar alzado, ¿habéis visto a mi amado? ¡Ay, Dios, que venga pronto! ¿Habéis visto a mi amigo, aquel por quien yo suspiro? ¡Ay, Dios, que venga pronto! ¿Habéis visto a mi amado, por quien tengo gran cuidado? ¡Ay, Dios, que venga pronto!” (Codax, sec. XIII-XIV)8. Durante il Medioevo, uno dei poemi narrativi prettamente orali più caratteristici erano i cántigas de gesta, i quali erano carichi di realismo ma anche esaltazioni storiche e drammaticità. Essi avevano l'obiettivo di raccontare le gesta dei protagonisti, come le gesta di Carlo Magno, l'invasione barbarica, la Reconquista, la nascita del regno di Castiglia, e così via. Alcuni esempi di cántigas de gesta sono il Cantar de mio Cd, il Cantar de Roncesvalles e il Cantar de Rodrigo o Mocedades de Rodrigo, scritti nel periodo compreso tra il 1225 e il 1250. Inoltre, la lirica tradizionale propriamente castigliana offriva una varietà incredibile di temi, come la natura, le celebrazioni di avvenimenti o festività e le tematiche di intrattenimento come la mietitura e la filatura. Tuttavia, le canzoni di tema amoroso erano le più numerose e raccontavano di amori, feste, nascite e morti, gesta eroiche, trionfi e inimicizie attraverso l'uso dell'umorismo e di toni satirici. L'amore veniva presentato come un sentimento senza il quale la felicità non potrebbe esistere. Nel corso del tredicesimo secolo, insieme ai cántigas de gesta, nacque un genere letterario incentrato sulla perfezione morale e sull'insegnamento valoriale, noto come il mester de clerecía. Esso aveva uno scopo educativo e religioso, e riguardava la vita dei santi. Le strofe erano caratterizzate dallo stesso numero di sillabe e i componimenti venivano scritti da chierici anonimi colti con una piena conoscenza del latino. Il mester de clerecía venne definito per la prima volta nel documento più antico di questo genere: il Libro de Alexandre: “Mester traigo fermoso, non es de joglaría, mester es sin pecado, ca es de clerecía; 8 Codax, sec. XIII-XIV. Quantas sabedes amar amigo. Cantiga de Amigo V. 7 fablar curso rimado por la cuaderna vía, a sílabas contadas, ca es gran maestría.” (Marín, 2002)9. Però i temi religiosi non erano gli unici affrontati, infatti nel Libro de Alexandre possiamo vedere che venivano esaltate le azioni di Alessandro Magno. Nel Libro de Apolonio, un’altra importante testimonianza dei mester de clerecía; datato approssimativamente intorno al 1250 ha lo scopo di diffondere una morale ben specifica e cioè che il male porta sempre ad una punizione, mentre il bene ad una ricompensa, assicurato dalla divina provvidenza (Cabañas, 1998)10. Durante il quattordicesimo secolo, la produzione letteraria dovette adeguarsi all'aumentato potere della borghesia, portando alla transizione del mester de clerecía da tematiche religiose a tematiche maggiormente profane. L'abbandono della regolarità metrica a favore di una maggiore elasticità diede origine al poeta Juan Ruiz, autore del Libro de Buen Amor (forse scritto nel 1330), in cui l'amore è la tematica principale. L'amore è presentato come la forza che influenza le azioni degli uomini, in quanto visto come un misto tra spirituale e carnale, una via di mezzo tra l'amor cortese e l'amore tra Dio e gli uomini. A differenza delle precedenti opere del mester de clerecía, le tematiche sono maggiormente profane. Originariamente senza titolo, il libro venne attribuito a Juan Ruiz in seguito alla sua pubblicazione (Arcipreste de Hita, 1998)11. Nel tredicesimo secolo, insieme alla prosa letteraria, si diffuse anche la letteratura cavalleresca, che ebbe una grande diffusione soprattutto nel sedicesimo secolo. I poemi trattavano le imprese dei cavalieri medievali, come nel caso del Libro del cavallero Zifar, probabilmente scritto verso la fine del 1200 o l'inizio del 1300 da Ferrand Martínez, un chierico di Toledo. Nel prologo, l'autore colloca l'opera sotto il papato di Bonifacio VIII. Il libro ci è giunto in due manoscritti conservati presso la Biblioteca Nazionale spagnola e francese, entrambi costellati da numerose illustrazioni che rappresentano le vicende narrate. Il libro rappresenta una novità per quanto riguarda lo stile rispetto alle precedenti opere della prosa letteraria dell'epoca (González, 2010)12 . Durante il Quattrocento si diffuse la poesia colta, principalmente all'interno delle corti nobiliari, che comprendeva tematiche amorose secondo la tradizione dell'amor cortese. La poesia era composta secondo i canoni dell'arte real e dell'arte mayor. La poesia popolare, invece, derivava 9 Marín M., Libro de Alexandre, pag 754-762, in Alvar C. y Megías J.M., 2002. Diccionario filológico de literatura medieval española. Nueva Biblioteca de Erudición y Crítica. 10 Cabañas P., 1998. Libro de Apolonio. Editorial Castalia. 11 Arcipreste de Hita R., 1998. Libro de buen amor. Editorial Juventud. 12 González C., 2010. Libro del caballero Zifar. Cátedra, Madrid. 10 L’era dei monarchi cattolici rappresenta un passo decisivo verso nuove forme rinascimentali che si diffusero per tutto il XV secolo per raggiungere la loro massima affermazione con il regno di Carlo I nel secolo successivo (Graziani & Vuelta Garcia, 2019)19. E’ proprio in questo periodo di transizione tra il Medioevo e il Rinascimento, che visse Fernando de Rojas dal 1465 e il 1541, autore della celebre opera La Celestina (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)20, uno scritto di profondo spessore umanistico caratterizzato dall’esaltazione dell’amore carnale e di un obiettivo moralistico, dove i personaggi sono il prodotto di questo mondo, vittime di questa società dove i valori sono in crisi e che provoca insicurezza e pessimismo negli uomini, di cui andrò a parlare approfonditamente nel paragrafo successivo. 1.3. Dal ritrovamento di una commedia autonoma alla Tragicomedia di Rojas Fernando de Rojas fu uno scrittore spagnolo che nacque in un paesino a pochi chilometri da Toledo a Puebla de Montalbán, di cui non si sa quasi nulla, se non che, come dicevo, è l’autore di una delle maggiori opere della letteratura spagnola: la Celestina (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)21 sebbene all’epoca egli non si prese il merito poiché per il lavoro di giurista che svolgeva, come si dichiara nella lettera “El auctor a un su amigo”, non poteva scrivere commedie (Rojas, 1500)22. Probabilmente verso i quindici o sedici anni il giovane autore si immatricolò presso l’Università di Salamanca e come tutti gli studenti salmantini prima di entrare alla prestigiosa Facoltà di Diritto dovette frequentare per tre anni la Facoltà delle Arti (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)23, anni durante i quali si avvicinò alle commedie di Plauto e Terenzio, che ivi venivano rappresentate, come sottolinea Justo Garcìa Soriano nel suo libro “El teatro universitario y humanìstico en España: estudios sobre el origen de nuestro arte dramático; con documentos, textos inéditos y un catálogo de antiguas comedias escolares” (Soriano, 1945)24. 19 Graziani M., Vuelta Garcia S., 2019. Storiografia e teatro tra Italia e penisola iberica. Biblioteca dell’Archivum romanicum. 20 Ruiza M., Fernández T., Tamaro E., 2004. Biografia de Fernando de Rojas. Biografìas y Vidas. La enciclopedia biográfica en lìnea. Barcelona, España. 21 Ibidem. 22 Rojas F., 1500. Celestina: comedia de Calisto y Melibea. Toledo, Pedro Hagembach, El auctor a un su amig. 23 Ibidem. 24 Soriano J.G., 1945. El teatro universitario y humanìstico en España: estudios sobre el origen de nuestro arte dramático; con documentos, textos inéditos y un catálogo de antiguas comedias escolares. Talleres tipográficos de R. Gómez, pag 57-70. 11 Appartenente ad una famiglia di conversos, in particolare di ebrei convertiti (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)25, risentì dell’influenza dei “nuovi cristiani” che assunsero un ruolo importante nella Spagna reconquistada caratterizzata da un profondo rinnovamento sociale, politico e religioso (Green, 1947)26. Fu testimone in un processo dell’Inquisizione, sposo di Leonor A’Lvarez, alla quale lascia tra i libri letterari che studiò, anche La Comedia de Calisto y Malibea, di sua produzione (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)27. Ma l’idea originale di questa grandissima opera non fu del tutto sua. Verso il 1497 Fernando de Rojas, allora studente di legge presso l’Università di Salamanca (Gargano, 2008)28 si ritrovò a leggere una commedia non terminata di autore sconosciuto che narra la storia di un amore tra un giovane aristocratico di nome Calisto e la nobile e bella fanciulla di nome Melibea tra i quali avviene un drastico e repentino cambiamento a seguito dell’entrata in scena della vecchia Celestina fatta conoscere a Calisto da Sempronio, uno dei suoi servi. Da questo momento in poi la storia si interrompe senza lasciare traccia degli avvenimenti successivi. La trama che accenna a quella dei romanzi sentimentali e il dramma tipico della commedia latina, medievale e umanistica italiana (Stäuble, 1970)29 lasciano pensare che l’autore sconosciuto di questo abbozzo di opera non sia stato estraneo all’ambiente universitario dove venivano al tempo toccati tali temi; Rojas decise di scrivere la continuazione del manoscritto approfittando di una vacanza, e perché risultò colpito dai personaggi e dalla storia tortuosa, come lui stesso commenta nella lettera che ho già precedentemente citato “El autor a un su amigo”: “Yo vi en Salamanca la obra presente. Movíme a acabarla por estas razones: la primera, que estó en vacaciones; otra, que oy su inventor ser ciente...” (Rojas, 1500)30 25 Ibidem. 26 Green O. H., 1947. “Fernando de Rojas, converso and hidalgo”. University of Pennsylvania Press, pag 187. 27 Ibidem. 28 Gargano A., 2008. Le arti della pace. Tradizione e rinnovamento letterario nella Spagna dei re cattolici. Liguori editore, cap VII. 29 Stäuble A., 1970. La commedia umanistica del Quattrocento. Scholary Journals, pag 145-195. 30 Ibidem, El autor a un su amigo. 12 L’opera fu pubblicata per la prima volta a Burgos nel 1499 ed in essa manca almeno il primo foglio poiché comincia direttamente con “Argumento del primero acto desta Comedia” (Rojas, 1499)31 e contiene sedici atti. L’anno successivo, nel 1500, fu pubblicata una nuova edizione a Toledo in cui possiamo esporre ulteriori interessanti contenuti tra i quali: a) Il titolo: “Comedia de Calisto y Melibea, la cual contiene, demás de su agradable estilo, muchas sentencias filosofales y avisos muy necesarios para mancebos, mostrándoles los engaños que están encerrados en sirvientes y alcahuetas.” (Rojas, 1500)32. b) La lettera di cui parlavo prima “El autor a un su amigo”: “Suelen los que de sus tierras absentes se fallan considerar de qué cosa aquel lugar donde parten mayor inopia o falta padezca para con la tal servir a los conterráneos, de quien en algún tiempo beneficio recebido tienen; y viendo que legítima obligación a investigar lo semijante me compelía para pagar las muchas mercedes de vuestra libre liberalidad recebidas, asaz vezes retraído en mi cámara, acostado sobre mi propia mano, echando mis sentidos por ventores y my juyzio a bolar, me venía a la memoria no sólo la necessidad que nuestra común patria tiene de la presente obra por la muchedumbre de galanes y enamorados mancebos que posee, pero aun en particular vuestra mesma persona, cuya juventud de amor ser presa se me representa aver visto y dél cruelmente lastimada, a causa de le faltar defensivas armas para resistir sus fuegos, las quales hallé esculpidas en estos papeles, no fabricadas en las grandes herrerías de Milán, mas en los claros ingenios de doctos varones castellanos formadas...” (Rojas, 1500)33; c) Undici ottave acrostiche che lasciano intendere che l’autore dell’opera è proprio Fernando de Rojas: “El bachiller Fernando de Rojas acabó la Comedia de Calisto y Melibea y nació la Puebla de Montalbán” (Rojas, 1500)34; d) Successivamente è possibile trovare la formula di esordio: 31 Rojas F., 1499. Celestina: comedia de Calisto y Melibea. Burgos, Friedrich Biel. 32 Ibidem. 33 Ibidem, El autor a un su amigo. 34 Ibidem. 15 “Así que viendo estas contiendas, estos dísonos e varios juicios, miré a dónde la mayor parte acostaba e hallé que querían que se alargase en el proceso de su deleite destos amantes, sobre lo cual fui muy importunado. De manera que acordé, aunque contra mi voluntad, meter segunda vez la pluma en tan extraña labor e tan ajena de mi facultad, hurtando algunos ratos a mi principal estudio, con otras horas destinadas para recreación; puesto que no han de faltar nuevos detractores a la nueva adición”. (Rojas, 1502)41. Dopo aver terminato la Tragicomedia, Rojas abbandonò la città in cui aveva frequentato l’università per far ritorno al paese di origine, per poi nel 1508 trasferirsi di nuovo, ma questa volta in un posto molto distante dalla sua città natale, a Talavera de la Reina; qui sposò Leonor A’Lvarez dalla quale ebbe dei figli, che come lui apparteneva ad una famiglia di conversi (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)42. Morì nel 1541 lasciando alla moglie in eredità anche la sua biblioteca costituita da molti libri di legge che riguardavano la sua professione, ma anche opere quali romanzi cavallereschi, letture dottrinali che lasciavano intendere un’apertura titubante alle novità intellettuali, e una copia della sua opera La Celestina (Gargano, 2015)43. 1.4. La Celestina: le questioni problematiche Nel 1499 a Burgos viene pubblicata per la prima volta Celestina: Comedia de Calisto y Malibea (Rojas, 1499)44, o meglio conosciuta come La Celestina, con il quale è universalmente noto come capolavoro della letteratura spagnola, opera maestra di straordinaria erudizione, frutto della fine del XV secolo, e per questo infatti ancora conserva numerosi aspetti medievali. E’ composta da sedici atti, della quale venne pubblicato anche un facsimile a cura della Hispanic Society of America di New York (Olivetto, 1998)45. Siccome mancano le pagine iniziali non è riportato il nome dell’autore, ed ha inizio direttamente con il primo atto, ma visto l’enorme successo ne venne subito pubblicata una 41 Ibidem, prologo. 42 Ibidem. 43 Gargano A., 2015. Ancora con Petrarca e La Celestina: il mondo come campo di battaglia fra “Conscripta remedia” e “laberinto de errores”. in Petrarca e l’Umanesimo nella Penisola Iberica. Quaderns d’Italia, pag 152. 44 Ibidem. 45 Olivetto G., 1998. Ejempòares de Celestina de la Colleción Fulché-delbosc en la Biblioteca Nacional de la Repùblica Argentina. Publicacions Universitat de Valencia, pag 71. 16 nuova edizione nel 1500 a Toledo nella stamperia di Pedro Hagembach (Rojas, 1500)46 il cui unico esemplare noto si trova nella biblioteca Bodmeriana a Cologny, in Svizzera. L’anno successivo a Siviglia venne nuovamente pubblicata un’edizione (Rojas, 1501)47 sulle quali figura una lettera che l’autore scrisse per un amico e gli acrostici del nome dell’autore stesso, non volendo Rojas stesso apparire esplicitamente come autore dell’opera (Samonà & Lobera Serrano, 1994)48. Questi acrostici secondo l’umanista, drammaturgo e poligrafo spagnolo Alonso de Proaza, che si occupò di correggere il racconto, possono essere interpretati con “El bachiller Fernando de Rojas, nacido en la puebla de Montalvàn” (Westerveld, 2014)49 ipotizzando così la paternità di Fernando de Rojas. Nel prologo l’autore dice di essersi limitato a continuare una storia che disse di aver trovato, ipoteticamente attribuita a Juan de Moena e a Rodrigo de Costa (Rojas, 1501)50. Dalle ricerche più recenti, è ormai certo che l'opera sia stata scritta dallo stesso Rojas, la cui commedia di Calisto y Melibea è stata trovata insieme ad altre opere castigliane e tradotte dall'italiano e dal latino, che avevano avuto un'influenza significativa sulla sua cultura letteraria. Questi ritrovamenti sono stati fatti tra i libri letterari che Rojas ha lasciato in eredità alla moglie (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)51. Successivamente al 1502 venne pubblicata una nuova edizione dal titolo Tragicomedia de Calistro y Melibea o Libro de Calixoto y Melibea y de la puta veja Celestina (Rojas, 1502)52. Primo evidente cambiamento si può ravvisare nel titolo che cambia da Comedia a Tragicomedia, genere che sarà teorizzato nel secolo successivo (Graziani & Vuelta Garcia, 2019)53. La definizione di “Tragicomedia” è motivata dalla presenza di personaggi nobili e popolari che affrontano vicende eroiche ed immorali tipiche della commedia che però sfociano in una tragedia quando viene uccisa la stessa Celestina da parte dei due servi e l’arresto e decapitazione degli assassini, per poi culminare nella morte accidentale di Calisto e nel suicidio di Melibea (Rojas, 1502)54. 46 Ibidem. 47 Ibidem. 48 Samonà C. & Lobera Serrano F.J., 1994. La Celestina de Fernando de Rojas. Milano, Rizzoli, pag 7. 49 Westerveld G., 2014. Tres autores de La Celestina: Alonso de Cardona, Juan del Encina y Alonso de Proaza. Lulu Press Inc. 50 Ibidem, El autor a un su amigo. 51 Ibidem. 52 Ibidem. 53 Ibidem. 54 Ibidem. 17 Inoltre nel prologo l’autore particolarmente sensibile alle opinioni dei lettori racconta di essersi sentito obbligato ad apporre alcune modifiche come quella di aver allungato di un mese l’amore della coppia protagonista e la conseguente aggiunta di cinque nuovi atti tra il quattordicesimo e il quindicesimo conosciuti come Tratado de Centutio, come pure il ritocco dei sedici atti precedenti dando all’insieme un tono didattico-moralizzante (Rojas, 1502)55. Quindi gli atti passano da sedici a ventuno in questa nuova ristampa, per poi diventare ventidue nella nuova edizione di Valencia del 1514. In particolare viene aggiunto un prologo dopo le ottave acrostiche e altre tre ottave prima delle canzoni di Proaza (Rojas, 1514)56. Le diverse edizioni, traduzioni, i temi principali dell’opera come l’amore, la fortuna, la magia, la morte, i personaggi principali e il genere di appartenenza, sono stati studiati da diversi approcci e punti di vista, ma la questione di come l’opera drammatica possa essere stata scritta, in un paese in cui la tradizione teatrale nel XV secolo non si era ancora diffusa, è ancora irrisolta (Russel, 2013)57. Il titolo dell'opera, inizialmente denominata Comedia de Calisto y Melibea, fu modificato successivamente in La Celestina, in seguito alla centralità drammatica attribuita al personaggio della vecchia mezzana da parte degli studiosi e dai lettori. L'opera segue un preciso schema in cui i personaggi sono animati dai temi dell'amore, del denaro e della morte. Vi sono due ritmi principali: uno preparatorio che contiene gli indizi e gli avvenimenti degli eventi futuri, associati in particolare alle visite e ai convegni in casa di Melibea, e uno centrale che costituisce il punto d'arrivo. La Celestina racconta la storia delle vicissitudini di donne che esprimono le proprie preoccupazioni e le proprie intenzioni in uno spazio tipicamente femminile, nella stessa città spagnola, con frequenti cambiamenti di scena, tra le dimore nobili degli innamorati, la casa della vecchia mezzana e il giardino di Melibea (Russel, 2013)58. A riguardo il drammaturgo, storico del teatro e critico della letteratura spagnola Francisco Ruiz Ramón scrive: Rojas crea el espacio y el tiempo.. siempre que es necesario, pero segùn una necesidad que nunca es arbitraria o caprichosa, sino enteramente relacionada con la acción y su desarrollo.. utilizando el espacio como lugar ideal, no material.. La ruptura de la continuidad de la acción por un período 55 Ibidem. 56 Rojas F., 1514. Tragicomedia de Calisto y Melibea. Valencia, Juan Joffre. 57 Russel P.E., 2013. Fernando de Rojas, La Celestina. Comedia o Tragicomedia de Calisto y Melibea. Barcelona, Castaia. 58 Ibidem. 20 Calisto muore accidentalmente dopo aver goduto di un mese di incontri clandestini con Melibea nel suo giardino. La giovane donna, impazzita per la sfortuna, si suicida in presenza del padre, che viene lasciato immerso nel dolore e nella confusione: “...Toma, padre viejo, los dones de tu vegez. Que en largos días largas se sufren tristezas. Rescibe las arras de tu senectud antigua, rescibe allá tu amada hija. Gran dolor lleuo de mí, major de ti, muy mayor de mi vieja madre. Dios quede contigo e con ella. A él ofrezco mi ánima. Pon tú en cobro este cuerpo, que allá baxa.” (Rojas, 1502)65. Maria Rosa Linda de Malkiel, nel suo libro dei primi anni sessanta intitolato "La Originalidad Artistica De La Celestina", ha svolto un'attenta analisi delle sezioni e delle note dell'opera. Grazie a questa sua analisi, è possibile appurare l'appartenenza dell'opera alla sfera drammatica. Maria Rosa Linda de Malkiel definì "La Celestina" non come un dialogo retorico o una novella dialogata, ma come una commedia umanistica. Ciò è evidente nell'uso delle didascalie, delle battute o dei monologhi, che gli autori rivolgono direttamente al pubblico, ovvero elementi che caratterizzano un genere teatrale nato e sviluppato durante il periodo umanistico (De Malkiel, 1962)66. Uno dei primi quesiti che è possibile porsi è se si tratti di un romanzo in prosa oppure di un’opera teatrale visto che in alcuni momenti è possibile ritenere che l’autore stia parodiando la finzione sentimentale che si trova nel Cárcel de amor di Diego de San Pedro (De San Pedro & Núñez, 1492)67 opera di cui Fernando de Rojas possedeva una copia nella sua biblioteca personale (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)68; tuttavia esistono alcune caratteristiche secondo le quali è possibile ricondurre l’opera nel quadro della commedia umanistica che veniva letta ad alta voce ma non si rappresentava tra cui il fatto che l’opera sia costruita per intero sul dialogo dei personaggi e ambientata in un tempo abbastanza breve, il fatto che il tema principale si basa sull’appagamento dell’amore, la sete di denaro, la magia e la morte sono dettagli che danno da pensare che il valore dell’opera lo si accolga leggendola (De Malkiel, 1962)69. La maggior parte dei critici ha accettato e riconosciuto l’appartenenza di La Celestina al genere drammatico di cui l’autore aveva palesemente conoscenza delle tecniche e soprattutto 65 Ibidem, XX atto. 66 De Malkiel M.R.L., 1962. La Originalidad Artística de “La Celestina”. El Colegio de Mexico, pag 268. 67 De San Pedro D. & Núñez N., 1492. Cárcel de amor. Siviglia. 68 Ibidem. 69 Ibidem, pag 264. 21 la sua dipendenza dalla commedia romana e umanistica, ma non sono riusciti a comprendere come fosse possibile che l’opera avesse subito determinate influenze se la tradizione teatrale non fiorì prima della fine del quindicesimo secolo (Stäuble, 1970)70 e quindi dopo la produzione di questo capolavoro: sono state fatte ipotesi secondo le quali l’autore avesse avuto modo di essere stato a contatto con la commedia latina e in particolare con Plauto e Terenzio visto che questi venivano letti e insegnati nelle università del tempo (Ruiza, Fernández, Tamaro, 2004)71 e si presume che tali commedie venissero rappresentate già alla fine del quindicesimo secolo e, inoltre, per quanto concerne la commedia umanistica, si presume che anch’essa sia una delle fonti principali sulle quali getta le basi La Celestina. Tuttavia se le commedie romane e umanistiche erano così conosciute, dovrebbe essere semplice ravvisare tali influenze in altre opere spagnole, ma ciò non è affatto facile, per cui è stato ipotizzato che il testo originale de La Celestina sia stato composto altrove, dove la tradizione drammatica era già conosciuta e diffusa, come ad esempio in Italia, perché in Spagna il padre del teatro spagnolo è considerato Juan del Encina (Bertini, 1945)72, per il suo predominio dei valori lirici nell’arte e per il suo linguaggio arcaico e tipicamente dialettale, che nel 1496 pubblicò il suo Canconiero dove incluse alcuni parti drammatiche, ma non ha nulla a che vedere con la complessità de La Celestina che venne stampata pochi anni dopo (Bertini, 1945)73. Infatti la conoscenza dei modelli antichi non impedì a Rojas di alterarli e personalizzarli ad esempio inserendo la morte violenta come elemento innovativo mai riscontrato nelle produzioni antecedenti. Tra gli studiosi che si occuparono di capire se La Celestina comprendesse delle caratteristiche comuni alla tradizione drammatica italiana vi fu Álvaro Alonso che nel 2010 sottolineò un’immagine descritta nell’opera delle mani di Melibea ovvero: “Los manos pequeñas en mediana manera, de dulce carne acompañadas; los dedos luengos; las uñas en ellos largas y coloradas, que parecen rubìes entre perlas...” (Rojas, 1502)74. Tale immagine, mancando nella letteratura castigliana dell’epoca, è però riscontrabile all’interno delle opere liriche italiana della prima metà del sedicesimo secolo, così la 70 Ibidem. 71 Ibidem. 72 Bertini G.M., 1945. Teatro spagnolo del primo rinascimento. Juan del Encina, Gil Vincente. Bartolome de Torres Naharro. Zanetti editore. 73 Bertini G.M., 1945. Teatro spagnolo del primo Rinascimento: Juan del Encina, Gil Vincente, Bartolomé de Torres Naharro. Stamperia editrice già Zanetti. 74 Ibidem, atto I. 22 medesima descrizione sarebbe legata ad una tradizione trecentesca. Per cui Alonso conclude che la descrizione delle mani di Melibea da parte di Calisto potrebbe avere un’origine italiana (Alonso, 2010)75. La stessa figura di Calisto è conforme alle caratteristiche dell’innamorato secondo la tradizione cortese dove la figura della dama è oggetto di venerazione, la donna è vista come promulgatrice di una straordinaria virtù di nobilitare l’animo, al punto che risulta difficile distinguere tra passione d’amore e fede religiosa: “Entrando Calisto en una huerta en pos de un halcón suyo, halló ahí a Melibea, de cuyo amor preso, comenzole de hablar...” (Severin, 1991)76. Per poi proseguire: “En esto veo, Malibea, la grandeza de Dios.” (Rojas, 1502)77. Così quello che inizia come una vera confessione di fede finisce per diventare una caduta nella lussuria; infatti con La Celestina entriamo in un contesto irto di enigmi e problemi. Dalla lussuria passiamo alla cupidigia con la morte della vecchia mezzana e dei due servi, con conseguente vendetta delle loro amate: la morte accidentale di Calisto spinge al suicidio Melibea e alla disperazione il padre Pleberio (Russel, 2013)78. Nell’opera manca un qualsiasi riferimento ad un possibile matrimonio tra i due innamorati, così è già di per sé condannabile un amore come questo senza chiare finalità socialmente consacrate (Mancini, 1985)79: la sua fine tragica potrebbe rappresentare un forte ammonimento per tutti coloro che perseguono le medesime modalità, ai seguaci dell’amor cortese come se fosse un esempio da non seguire se non ci si vuole imbattere in tragiche conseguenze, come già affermava al tempo Rojas (Rojas, 1502)80, e scrive a riguardo sempre Francesco Capecchi: “I casi così sospinti e forzati.. si trasformano nel corso non più frenabile del destino e, in una nemesi tragica che pare insorgere dal mistero delle cose, più che dalla giustizia punitiva di un Dio, Calisto e Melibea precipitano e scompaiono nel vuoto annientatore della catastrofe.” (Capecchi, 1966)81. Per cui è il finale tragico potrebbe essere dovuto dagli errori commessi dai personaggi che sono stati 75 Alonso A., 2010. Perlas y rubíes: una imagen italiana entre Santillana y la Celestina. Petrarca Library. 76 Ibidem, argumento del primer acto de esta comedia. 77 Ibidem, atto I. 78 Ibidem. 79 Mancini G., 1985. Cultura e attualità nella Celestina. Universidad de Pisa, pag. 236. 80 Ibidem, prologo. 81 Ibidem, pag 13. 25 Nella sua opera "La Celestina", Fernando de Rojas non descrive dettagliatamente Melibea, ma la lascia emergere attraverso i punti di vista degli altri personaggi e le diverse opinioni che si fanno di lei e del suo innamoramento. Lo stesso avviene per la vecchia Celestina, che viene descritta in modi diversi, talvolta come una fattucchiera e talaltra come un'imbrogliera. Melibea è una giovane di nobili origini, che incarna l'ideale di donna del tempo. Non si lascia facilmente abbindolare dalle lusinghe di Calisto e resta ferma nelle sue decisioni. Infatti, è solo dopo un lungo periodo di tempo che il sentimento amoroso tra Calisto e Melibea prende forma, poiché all'inizio lei si mostra quasi indifferente alle attenzioni dell'uomo. Calisto, invece, è afflitto dal mal d'amore, che nasce dalla contemplazione della persona amata e diventa per lui quasi un'ossessione, come dichiara nel primo atto. Il mal d'amore è un elemento presente nell'intera opera e rappresenta il suo intento tragico. Già nel primo incontro Calisto le dichiara il suo amore esagerato dicendole: “En esto veo, Melibea, la grandeza de Dios.” (Rojas, 1502)87. Per poi continuare: “En dar poder a natura que de tan perfecta hermosura te dotase, y hacer a mí, inmérito, tanta merced que verte alcanzase, y en tan conveniente lugar, que mi secreto dolor manifestarte pudiese. Sin duda, incomparablemente es mayor tal galardón que el servicio, sacrificio, devoción y obras pías que por este lugar alcanzar tengo yo a Dios ofrecido. ¿Quién vio en esta vida cuerpo glorificado de ningún hombre como ahora el mío? Por cierto, los gloriosos santos que se deleitan en la visión divina no gozan más que yo ahora en el acatamiento tuyo. Mas, ¡oh triste!, que en esto diferimos: que ellos puramente se glorifican sin temor de caer de tal bienaventuranza y yo, mixto, me alegro con recelo del esquivo tormento que tu ausencia me ha de causar.” (Rojas, 1502)88. Calisto inizia a soffrire di insonnia, mancanza di appetito, sospira profondamente, il suo battito accelera ed il respiro anche, soffre di attacchi di pianto o di risate e si sente a suo agio solo quando parla della sua dama, come se tutto il resto lo disturbi, sapendo già che la sua assenza provocherà in lui tormento. Però il rifiuto dell’amante provoca in Calisto una reazione di rabbia accesa che porta ad augurare la morte al suo servo, a seguito della quale cade in una profonda tristezza in cui l’unico suo desiderio che esprime è restare solo e al buio: “Cierra la ventana y deja la tiniebla acompañar al triste y al desdichado la ceguedad. Mis pensamientos tristes no son dignos de luz. ¡Oh 87 Ibidem, atto I. 88 Ibidem, atto I. 26 bienaventurada muerte aquella que, deseada a los afligidos, viene! ¡Oh, si vinieseis ahora, Crato y Galieno médicos, sentiríais mi mal! ¡Oh, piedad de Seleuco, inspira en el plebérico corazón, por que, sin esperanza de salud, no envíe el espíritu perdido con el del desastrado Píramo y de la desdichada Tisbe!” (Rojas, 1502)89. Calisto si comporta più come un amante ed è riconosciuto tale da Sempronio, il suo servo che anch’esso si rende conto che ha perso la ragione e teme per la sua vita, che possa uccidersi ritenendo il suo comportamento fuori dal normale, non avendo mai avuto prima d’ora una reazione simile. A riguardo Sempronio afferma: “¡Oh desventura! ¡Oh súpito mal! ¿Cuál fue tan contrario acontecimiento que así tan presto robó el alegría de este hombre y, lo que peor es, junto con ella el seso? ¿Dejarle he solo o entraré allá? Si le dejo, matarse ha, si entro allá, matarme ha…” (Rojas, 1502)90. Sempronio spesso lascia Calisto sfogarsi in lunghi monologhi in cui esalta il sentimento che prova, ed è proprio così apparendo debole ed in pericolo di vita di fronte ai suoi servi che li costringe moralmente ad aiutarlo nel suo intento. Qui vediamo espressamente riportate le caratteristiche tipiche dell’amor cortese in cui l’uomo tende ad idealizzare la donna ed a vederla come portatrice di caratteri divini, infatti Calisto paragona il suo stato a quello dei santi che si dilettano nella visione divina e la vede come una soddisfazione talmente grande da non poter essere paragonabile al più grande servizio e ai sacrifici derivanti dalla devozione offerta a Dio. Melibea è come l’oggetto dei desideri quasi irraggiungibile vista l’apparente distanza ideale che separa i due amanti, e così come il fatto che la loro relazione fosse segreta, l’esclusione del riconoscimento sacro del vincolo amoroso e la sofferenza che provoca questa relazione, sono tutte caratteristiche dell’opera che possiamo assimilare alla cultura e la letteratura europea dal XII secolo in poi. L’amore platonico tra i due evolve e si trasforma in una passione carnale che infrange la morale cristiana e il codice tipico dell’amor cortese, e si va a caratterizzare di incontri carichi di erotismo in cui Calisto è incapace di respingere il desiderio ardente di possedere l’amante: “Perdona, señora, a mis desvergonzadas manos, que jamás pensaron de tocar tu ropa con su indignidad y poco merecer. Ahora gozan de llegar a tu gentil cuerpo y lindas y delicadas carnes.” (Rojas, 1502)91. 89 Ibidem, atto I. 90 Ibidem, atto I. 91 Ibidem, atto XIV. 27 Le mani di Calisto non riescono ad essere fermate dalla fanciulla che vi si oppone: “...no me quieras robar el mayor don que la natura me ha dado.” (Rojas, 1502)92. Ma alla fine non riesce a mantenere la discrezione che ogni donna dovrebbe avere, e vi cede ed ordina alla sua serva Lucrecia di allontanarsi per non essere testimone di un atto tanto osceno quanto più che mai voluto, andando a peccare e deludere la sua famiglia a cui confesserà a malincuore prima di lasciarsi morire. Rojas lascia intendere che dietro agli incontri segreti nel giardino di Melibea ci sia più che altro una voglia di possesso dell’amante piuttosto che un sentimento innocente d’amore vero. Nelle notti di piacere Melibea si sente una donna desiderata, capace di scegliere per se stessa, padrona del suo destino visto che fino a quel momento si è sempre sottoposta ai valori familiari, e brama per accendere il desiderio dell’uomo. Il desiderio e la passione tra Calisto e Melibea è talmente forte che non riesce nemmeno ad aspettare la consacrazione del loro vincolo in matrimonio scatenando il dispiacere dei genitori di Melibea, che pensavano già a farla sposare. A riguardo Melibea, poco prima di uccidersi afferma parlando con Lucrezia: “…Déjalos parlar, déjalos devaneen…Calisto es mi ánima, mi vida, mi señor, en quien yo tengo toda mi esperanza…En pensar en él me alegro, en verlo me gozo, en oírlo me glorifico…No piensen en estas vanidades ni en estos casamientos, que más vale ser buena amiga que mala casada…” (Rojas, 1502)93. E’ strano come tutto possa essere opera della magia, infatti a parer mio è proprio il desiderio umano naturale a farsi strada ad un certo punto nel corpo e nella mente di Melibea, è come se la magia svanisse e venisse sostituita dal desiderio e dalla voglia irrefrenabile d’amore che probabilmente se Calisto avesse perseguito tenacemente il suo intento e avesse corteggiato la fanciulla, l’avrebbe fatta innamorare senza bisogno di aiuto alcuno. Infatti subito dopo la primissima dichiarazione d’amore di Calisto, Melibea si dimostra curiosa: “¿En qué, Calisto?” (Rojas, 1502)94. Melibea risponde interessata a saperne di più a Calisto che le dichiara di vedere in lei la grandezza di Dio, lo lascia parlare forse perché stuzzicata all’idea di essere corteggiata o forse perché inconsciamente vede in lui delle caratteristiche che lo rendono attraente, che lo rendono un potenziale amante. Così a Celestina non resta che accrescere ed ingrandire qualcosa che è già innescato nella 92 Ibidem, atto XIV. 93 Ibidem, atto XVI. 94 Ibidem, atto I. 30 In questo panorama culturale europeo spicca un genere letterario caratterizzato da una visione dell’amore come sentimento capace di nobilitare l’uomo; tale concezione sentimentale e letteraria dell’amore la possiamo definire appunto “amor cortese”, dove per “cortese” si fa riferimento al pubblico elitario di corte, che si ravvisa in tutta la produzione letteraria culminante nel Rinascimento. Questo termine è stato ideato per la prima volta nel 1883, sebbene tale concezione fosse già pienamente diffusa dal XII secolo, dal critico francese Gaston Paris nel suo articolo “Études sur les romans de la Table Rotonde: Lancelout du Lac, II: Le comte de la charrette” il quale afferma che l’amor cortese è una venerazione della donna che conduce alla nobilitazione dell’animo (Paris, 1883)101. A riguardo afferma: “..cet amour courtois... c’est une passion simple, ardente, naturelle, qui ne connaît pas les subtilités et les raffinements de celui de Lancelot et ne Guenièvre.” (Paris, 1883)102. Per cui Paris definì l’amor cortese individuando quattro caratteristiche fondamentali: l’illegittimità e la furtività; la differenza di rango sociale tra uomo e donna; la nobilitazione dell’uomo attraverso il servizio amoroso nei confronti della donna; infine l’amore come arte e dunque come insieme di regole da rispettare (Paris, 1883)103. L’amor cortese è un desiderio spontaneo, forte, di possesso, non rispetta i vincoli sacri del matrimonio, e prevede un’ambivalenza tra desiderio dell’oggetto d’amore e la sua visione come essere spirituale che lo rende quasi irraggiungibile, sublime e divino secondo il quale l’uomo è indubbiamente inferiore e si presta al suo servizio, proprio come se stesse mettendo in atto un “culto” della donna, al fine di cercare di soddisfare ogni suo desiderio con coraggio e onore. A riguardo lo scrittore, filosofo e saggista Denis De Rougemont, nella sua opera “Amore e l’Occidente” scrive: “L’amor cortese oppone una fedeltà indipendente dal matrimonio legale e fondata sul solo amore. Si giunge a dichiarare che amore e matrimonio non sono compatibili.” (De Rougemont, 1998)104. Questi aspetti, come abbiamo detto, si possono ravvisare nel primissimo stadio della relazione tra Calisto e Melibea, in cui la loro interazione è caratterizzata da un corteggiamento assiduo di Calisto che vede in Melibea caratteristiche divine. 101 Paris G., 1883. Études sur les romans de la Table Rotonde: Lancelout du Lac, II: Le comte de la charrette. Paris, F. Vieweg, Libraire- Éditeur, pag 488. 102 Ibidem, pag 519. 103 Ibidem. 104 De Rougemont D., 1998. L’amore e l’Occidente. Biblioteca Univ. Rizzoli, pag 78. 31 Il codice delle relazioni cortesi subisce una forte influenza della società feudale in cui il cavaliere prestava servizio per il suo signore per conto del quale doveva combattere e gareggiare in tornei. Spesso si innamorava della figlia del signore, di classe sociale superiore, così il cavaliere si poneva l’obiettivo di conquistare il suo amore, di dimostrarle il suo valore, la sua forza e il suo coraggio, di esaudire le sue volontà: il fine ultimo del cavaliere cortese non è tanto quello di cedere ai desideri della carne, quando di ottenere il cuore della donna. Nel 1185 lo scrittore e religioso francese Andrea Cappellano, ha composto il “De amore” (Cappellano, 1996)105 ovvero un’opera che possiamo considerare un resoconto dettagliato dei precetti di quello che solo successivamente venne definito “amor cortese”, che diventò un punto di riferimento per tutto il tredicesimo e quattordicesimo secolo, al di là delle diverse censure ecclesiastiche che ricevette, come la condanna pubblica da parte del vescovo di Parigi nel 1277. Composta in latino verso il 1185, è suddivisa in tre libri che si presentano come una vera e propria enciclopedia dell’amore che verte attorno a due temi principali: il rapporto d’amore di subordinazione del cavaliere con la sua amata, e la necessità di costituirsi al di fuori del matrimonio per mantenere la sua autenticità (Cappellano, 1996)106. L’autore dedica questa trilogia all’amico Gualtieri, ciambellano del re di Francia, al fine di educarlo in materia; infatti l’opera è anche conosciuta con il titolo “Gualtieri” (Cappellano, 1996)107. Il primo libro del “De amore” tratta della natura dell’amore, delle sue caratteristiche quali la passione e i turbamenti che vi scaturiscono. Seguono inoltre una serie di consigli utili e diversi a seconda del tipo di rapporto amoroso e della classe sociale di appartenenza che sia di ceto sociale superiore o inferiore, e vengono indicate specifiche tecniche di corteggiamento. Il secondo libro verte su alcuni consigli su come si conserva e come si coltiva l’amore, e alcune possibili cause scatenanti la sua fine, e si conclude con una serie di regole da rispettare, tra le quali: “Per ragioni di matrimonio non è giusto rinunciare all’amore; chi non è geloso non può amare; nessuno può amare se non lo spinge l’amore; l’amore è sempre bandito dalle dimore dell’avidità; l’amore divulgato raramente è destinato a durare; il facile possesso svilisce l’amore, il difficile lo fa prezioso; ogni amante impallidisce sotto gli occhi dell’amante; alla vista improvvisa dell’amante trema il cuore dell’amante; solo la gentilezza rende le creature degne d’amore; non dorme e non mangia chi è tormentato dal desiderio d’amore; qualunque azione dell’amante finisce nel pensiero 105 Cappellano A., 1996. De amore. Se. 106 Ibidem. 107 Ibidem. 32 dell’altro; piccolo indizio getta l’amante in atroci sospetti.” (Cappellano, 1996)108. Cappellano specifica che la relazione deve essere necessariamente extraconiugale e quindi avvenire al di fuori del matrimonio, ma quest’amore deve essere pudico, puro, sincero, privo di inganni, deve causare malessere in assenza dell’altro e pensieri ossessivi che vertono l’amante, proprio come succede a Calisto e Melibea nel corso dei dialoghi con gli altri personaggi e monologhi che sostengono in solitudine. Infine inaspettatamente diverso dagli altri è il terzo capitolo, una sorta di ritrattazione di quanto precedentemente affermato nei primi due capitoli da cui qui l’autore prende le distanze condannando l’amore al di fuori del vincolo sacro come immorale e vizioso ed esaltando la vita religiosa, probabilmente per paura di subire la condanna della Chiesa per il contenuto poco ortodosso (Cappellano, 1996)109. A riguardo afferma: “Leggi questo libro non per cercare attraverso il suo insegnamento di vivere la vita degli amanti, ma per rinunciare ad amare... così avrai il premio eterno e meriterai maggiore gloria da Dio, perché Dio preferisce chi non pecca, pur potendo peccare.” (Cappellano, 1996)110. Così è indubbia l’influenza di quest’opera sui principi e le regole dell’amor cortese, tramandando la convinzione che l’amore non passa inosservato al cuore nobile, gentile, che lo utilizza a suo favore per il rafforzamento della morale. Tuttavia ne “La parodia de la ficcion sentimental en la «Celestina»” della critica letteraria e medievalista María Eugenia Lacarra, scavando più a fondo nell’opera di Rojas, emerge nell’esaltazione di Calisto l’assenza di un qualsiasi elogio del carattere virtuoso di Melibea e la mancanza di una promessa di essere prestante al suo servizio, così come invece richiede la tradizione cortese (Lacarra, 1989)111. Inoltre Calisto appare tutt’altro che discreto e prudente, bensì si dimostra irrispettoso e volgare, esibizionista ed estremamente diretto, una persona egoista, e così di dimostra appunto quando ricerca l’aiuto di Celestina e delle sue doti magiche. Piuttosto che donare e donarsi alla fanciulla risulta una persona più concentrata su di sé, anzi che soffermarsi su ciò che prova a livello sentimentale. Calisto si rivolge a Melibea definendola un “premio” e non tanto come ad una meta irraggiungibile: 108 Ibidem, pag 157-158. 109 Ibidem. 110 Ibidem, libro III. 111 Lacarra M.E., 1989. La parodia de la ficcion sentimental en la «Celestina». Publicacions Universitat de Valencia. 35 impossibilitata nella vita terrestre. 2.2. Storia della magia e caratteristiche delle streghe Come dicevo, un ulteriore tema oltre all’amore e alla morte è quello della magia, tema che ancora oggi ci appare così sconosciuto e insolito, ma in passato particolarmente diffuso specialmente nella cultura popolare (Travaglini, 2016)120 dovendo spesso colmare lo spazio lasciato da vuoti ideologici come ad esempio la religione o come magra consolazione per una società in crisi e persone insicure, e andando a colmare i vuoti di tutto ciò che non si sapeva spiegare, attribuendo la causa a fenomeni soprannaturali. Così la magia prese campo anche nelle opere letterarie medievali e rinascimentali che prevedono spesso una grande attenzione nei confronti dell’elemento magico (Ernst & Giglioni, 2012)121. Con il termine “magia” si indicano tutte quelle pratiche magiche, di divinazione e guarigione che venivano praticate in tutta Europa tra il XV e il XX secolo, da parte delle cosiddette “streghe”. L’idea che oggi abbiamo delle streghe si basa sui documenti del diciassettesimo e diciottesimo secolo quando la Chiesa era impegnata a distruggere i seguaci superstiti del Paganesimo sostenuta da tutti coloro che praticavano la professione medica che avevano individuato nelle streghe dei rivali pericolosi visto che molte persone al tempo vi si affidavano per essere curate (Murray, 1972)122. Il primo accenno storico alla caccia alle streghe si ha nel II millennio a.C. quando una tra le più antiche raccolte di leggi scritte ovvero il Codice di Hammurabi condannava la magia e le conseguenze dannose che provocava, infatti la consultazione di profeti ed indovini avveniva già nell’antico Egitto quando veniva chiesto loro accertamenti sugli eventi futuri o interpretazioni dei sogni. Uno dei più antichi profeti di alto rango di cui si è a conoscenza oggi fu il figlio del re, Ra-hotep, il Maggiore dei Veggenti o Gran Sacerdote di Eliopoli. Esistono anche numerosi riferimenti a profeti, indovini e maghi nel Vecchio Testamento, come ad esempio Giuseppe che era un indovino, sapeva interpretare i sogni, e compiva prodigi straordinari per mezzo della sua bacchetta (Esodo, 4:17-19)123. In particolare il quindicesimo secolo è un periodo che ha visto un progressivo incremento delle credenze e pratiche magiche anche nei ceti più elevati della società oltre che tra il popolo (Parri, 120 Travaglini G., 2016. Le origini della magia. Arti magiche, rituali e misteri nella Mesopotamia, antico Egitto e nel mondo classico. Cerchio della Luna editore. 121 Ernst G. & Giglioni G., 2012. I vincoli della natura. Magia e stregoneria del Rinascimento. Carocci editore, pag. 119-134. 122 Murray M., 1972. Il Dio delle streghe. Ubaldini editore, pag. 140. 123 Esodo, 4:17-19 36 2018)124. Molti di questi praticanti, che in Spagna erano chiamati “curanderos” venivano arrestati e puniti con l’accusa di praticare atti di stregoneria sfociando in vere e proprie persecuzioni da parte soprattutto della Chiesa cattolica denominate “caccia alle streghe” la quale causò tra le trentacinquemila e le centomila vittime, che ebbe il suo picco massimo nel tredicesimo secolo dove la stregoneria era perseguitata perché veniva definita un’eresia e una setta. Nel corso del Medioevo infatti, la Chiesa acquisendo sempre più potere, al fine di poterlo mantenere dovette combattere ed eliminare le eresie ovvero tutti coloro che avevano un pensiero difforme rispetto a quello che veniva professato, così nel 1231 vennero istituiti i tribunali dell’Inquisizione quindi dei tribunali che prevedevano una condanna per tutti coloro che non rispettavano i dogmi cattolici e la conseguente condanna a morte. Nel 1252 l’Inquisizione acquisendo la legalità, diede il potere al papa Innocenzo IV di autorizzare al compimento di torture violente al fine di far parlare i sospettati nonostante la maggior parte delle volte le accuse fossero infondate, e vedendo quindi la confessione di persone effettivamente innocenti ma che confessavano pur di sottrarsi da tali torture, prevedendo anche confische dei loro beni, ed esproprio della loro dignità, compiendo dopo appena due secoli decine di migliaia di vittime. Approssimativamente intorno al 1324 fu scritto da Bernard Gui, colui che forse è il più famoso inquisitore medioevale, il manuale dell’inquisitore “Pratica inquisitionis heretice pravitatis” in cui l’autore definì alcune sezioni che trattano di magia demoniaca appresa o negromanzia e forme più prettamente popolari di stregoneria, conosciuto come uno dei manuali inquisitori più letti e diffusi dell’età medioevale (Guidonis, 2018)125, secondo solamente al “Directorium inquisitorum”, conosciuto oggi come il manuale dei processi dell’inquisizione spagnola, scritto verso il 1376 da Nicolas Eymerich ed esito dalla consultazione di numerosi testi di magia confiscati agli stregoni e alle streghe accusate (Eymerich, 2018)126. Bernard Gui presenta nel suo libro una descrizione diversa della stregoneria che viene condannata dall’inquisizione, che prevede invocazioni di demoni e la loro adorazione, bensì egli descrive una ritualità meno complessa che prevede l’ausilio di materiali di uso comune quali capelli, erbe e unghie, con la finalità di cura delle malattie, individuare brutti mali, suscitare l’amore tra le coppie e ottenere fertilità ma nonostante ciò, precisa, ugualmente di natura demoniaca (Bailey, 2006)127. Nonostante le dure persecuzioni gli antichi culti pagani continuarono a sopravvivere nascosti dalla società che doveva garantire almeno apparentemente il rispetto per la Chiesa, così nel corso del 124 Parri I., 2018. La magia nel Medioevo. Carocci editore, pag. 172-175. 125 Guidonis B., 2018. Pratica inquisitionis heretice pravitatis. Forgotten Books. 126 Eymerich N., 2018. Directorium inquisitorum R.P.F. Nicolai Eymerici Ord. Praed. S. Theol. Mag. Inquisitoris Haereticae Prulalitatis in Regnis Regis Aragonum. Forgotten Books. 127 Bailey M.D., 2006. Bernard Gui. Iowa State University, Digital Repository, pag 465. 37 Quattrocento si era costituita l’immagine della “strega” ovvero di colei che si pensava avesse stretto un patto col Diavolo rifiutando la fede cristiana, colei che incarnava il male, come ci risulta dai documenti dei processi inquisitori che ci fungono oggi da testimonianza. Infatti non sono pochi i casi documentati dall’egittologa e antropologa britannica della persecuzione e condanna a morte delle streghe nel suo celebre libro del 1921 “Le streghe nell’Europa Occidentale” in cui si occupa di rendicontare le deposizioni delle accusate di stregoneria a partire dal XV secolo (Murray, 2012)128. Secondo la Murray i rituali di stregoneria sarebbero riconducibili ad un’antica pratica culturale risalente a prima del Cristianesimo, che lei definisce “culto di Diana” in riferimento alla protettrice delle donne, vergine, cacciatrice, Signora delle selve, e le cosiddette streghe rappresenterebbero al di là dei pregiudizi comunemente diffusi le seguaci di questo antico culto diffuso in tutta Europa occidentale fin dalle civiltà pre-agricole. Siccome per i cristiani ogni divinità diversa dalla loro era nemica, le streghe erano considerate quindi seguaci del nemico e quindi attribuibili al Diavolo. Tuttavia per secoli chi praticava la stregoneria, sia uomo che donna, fu onorata, consultata affinché eliminasse il dolore, accrescesse la fertilità sia della donna che delle terre, le vennero chiesti suggerimenti per affrontare situazioni difficili o per prevedere eventi futuri, ed erano diffuse sia tra il popolo, che tra le corti dei re (Murray, 1972)129. I primi processi contro le streghe iniziarono nel 1408 in Lorena, poi la Chiesa si mosse contro Giovanna d’Arco e seguaci nel 1431, contro Gilles de Rais e la sua congrega nel 1440, contro le streghe di Brescia nel 1457 e così via (Murray, 1972)130. Nel 1410 era stata emanata una legge che entrò in vigore proprio nel periodo in cui visse Fernando de Rojas che prevedeva la condanna a morte per coloro che mettevano in atto pratiche occulte come magie e incantesimi, un obiettivo che si erano preposti anche alcuni papi come Eugenio IV e Clemente V, al fine di reprimere quelle che venivano chiamate comunemente “streghe”. Tra il 1435 e il 1437 il religioso e frate tedesco Johannes Nider scrisse il “Formicarius” cioè un trattato nel quale non negava l’esistenza della magia e delle streghe ma anzi ne sosteneva l’esistenza; se ne occupò specificamente nella quinta parte del libro e fa chiarezza sulla loro diffusione nel corso del quindicesimo secolo (Nider, 2010)131. Un altro tra i primissimi libri mai stampati di stregoneria fu il “Fortalitium Fidei” scritto nel 1494 da Alphonso de Spina, vescovo, predicatore e scrittore spagnolo in cui nell’ultimo libro di cui è composta l’opera, l’autore tratta del diavolo e dei demoni (De La Espina, 2014)132. 128 Murray M., 2012. Le streghe nell’Europa Occidentale. Terra di Mezzo editore, pag. 193-201. 129 Ibidem, pag 140. 130 Ibidem, pag. 20. 131 Nider J., 2010. Formicarius deontologia streghe. Macchina del tempo libri. 132 De La Espina A., 2014. Fortalitium Fidei. Kessinger Publishing, LLC. 40 Celestina come una maestra d’azione che vive in un mondo di desideri caratterizzato da lussuria e avidità, ha capacità di improvvisazione e padroneggia la seduzione e l’intelligenza pratica (De Malkiel, 1962)142, caratteristiche facilmente attribuibili ad una manipolatrice, ad una persona che si serve delle debolezze altrui per raggirarle, e Calisto imprigionato in un amore folle, non mostra il minimo dissenso all’idea di mettersi tra le grinfie di una personalità simile per sedurre la bella Melibea. La maggior parte degli autori che vedono l’elemento magico come qualcosa di accessorio all’opera ritengono che Melibea alla fine sia vinta dall’amore visto e che abbia tutto il tempo per affrontare una trasformazione psicologica che le potrebbe permettere naturalmente di provare un’attrazione nei confronti di Calisto (Botta, 1994)143. La magia sembra relegata solamente a Celestina, al suo modo di vivere, agli oggetti di cui fa uso, per ricrearsi una magia è necessaria una persona che la chiede ed una che la compie: in questo caso è proprio Calisto, frettoloso ed impulsivo, egoista e narcisista, incapace di modificare autonomamente le situazioni avverse e che necessita sempre di conferme da parte dei suoi servi, a rappresentare il prototipo di una persona che potrebbe richiedere una magia in suo aiuto (De Malkiel, 1962)144. Così la magia mostra allo stesso tempo sia la grandezza che i punti di debolezza dei personaggi poiché se da un lato abbiamo Celestina che con grande potenza è in grado di mettere in atto un incantesimo amoroso, dall’altra abbiamo la necessità di rivolgersi ad un metodo magico e l’incapacità di rassegnarsi ai limiti della condizione umana da parte di Calisto. Anche Celestina non è completamente sicura delle sue capacità, infatti quando parte per recarsi a casa di Melibea per scagliarle contro l’incantesimo alla fine del terzo atto si dimostra sicura e fiduciosa, per poi ritrovarla in preda a quella che sembra essere una crisi d’ansia all’inizio del successivo atto, temendo di essere scoperta e di essere condannata dai persecutori delle pratiche magiche del tempo, ed è forse un tentativo da parte dell’autore di diffondere la credenza che non si può essere totalmente sicuri nemmeno della magia; a riguardo Celestina afferma: “...¿iré o tornarme he? ¡Oh dudosa y dura perplejidad! ¡No sé cuál escoja por más sano! ¡En el osar, manifiesto peligro; en la cobardía, denostada, perdida! ¿A dónde irá el buey que no are? Cada camino descubre sus dañosos y hondos barrancos. Si con el hurto soy tomada, nunca de muerta o encorozada falto, a bien librar. Si no voy, ¿qué dirá Sempronio? Que todas éstas eran mis fuerzas, saber y esfuerzo, ardid y ofrecimiento, astucia y solicitud. Y su amo Calisto, 142 Ibidem, pag. 222. 143 Ibidem, pag. 47. 144 Ibidem. 41 ¿qué dirá?, ¿qué hará?, ¿qué pensará, sino que hay nuevo engaño en mis pisadas y que yo he descubierto la celada por haber más provecho de estotra parte, como sofística prevaricadora? O si no se le ofrece pensamiento tan odioso, dará voces como loco, dirame en mi cara denuestos rabiosos. Propondrá mil inconvenientes que mi deliberación presta le puso, diciendo: «Tú, puta vieja, ¿por qué acrecentaste mis pasiones con tus promesas? Alcahueta falsa, para todo el mundo tienes pies, para mí lengua; para todos obra, para mí palabras; para todos remedio, para mí pena; para todos esfuerzo, para mí faltó; para todos luz, para mí tiniebla...” (Rojas, 1502)145. Inizialmente Melibea non crede alle sue parole nonostante la grande astuzia e le sue capacità manipolative, e la condanna: “¡Quemada seas, alcahueta falsa, hechizera, enemiga de la honestidad, causadora de secretos yerros!” (Rojas, 1502)146. Ma alla fine Melibea cede e ne viene sconfitta, lascia parlare Celestina e cade vittima del philocaptio affrontando un vero e proprio cambiamento di cui non ne sarà mai pienamente consapevole in quanto si limita a descrivere l’amore che prova come “mi terrible passion” (Rojas, 1502)147 senza poter nemmeno sospettare che si tratti di un incantesimo d’amore. Negli ultimi anni alcuni studiosi tra i quali Peter Russel e Patrizia Botta ritennero che questo tema non fosse solamente un elemento accessorio alla vicenda, quindi non solo qualcosa che non è indispensabile ma semplicemente abbellisce l’opera, ma inoltre specificarono che solamente la presenza di questo elemento magico è in grado di spiegarla nel complesso con la sua ambiguità e quindi dare alla luce un’interpretazione completa (Russel, 2011)148 (Botta, 1994)149. Il tema magico è strettamente collegato a Celestina, la cui prima descrizione viene introdotta subito nel primo atto. Celestina fu fatta conoscere a Calisto dal suo servo Sempronio che la dipinse come una brutta maga, e a riguardo afferma: “Yo te lo diré. Días ha grandes que conozco en fin de esta vecindad una vieja barbuda que se dice Celestina, hechicera, astuta, sagaz en cuantas maldades hay. Entiendo que pasan de cinco mil virgos los que se han hecho y deshecho 145 Ibidem, atto IV. 146 Ibidem, atto IV. 147 Ibidem, atto X. 148 Ibidem, pag. 31. 149 Ibidem. 42 por su autoridad en esta ciudad. A las duras peñas promoverá y provocará a lujuria si quiere” (Rojas, 1502)150 E’ dunque difficile mantenere le distante dall’elemento magico visti i numerosi riferimenti nell’opera che secondo la Botta coincidono con quelli citati in tutti i processi inquisitori e nei trattati di magia dell’epoca (Botta, 1994)151 tra i quali quali: “huesos de corazón dc ciervo, cabezas de codornices. sesos de asno, te - la de caballo, mantillo de niño, haba morisca, guija marina, soga de ahorcado, flor de yedra, espina de erizo, pie de tejón. granas de hele- cha, y piedra del nido del águila” (Rojas, 1502)152. Nel primo atto, nel corso del dialogo tra Parmeno e Calisto, il primo fornisce i riferimenti più importanti descrivendo la vecchia Celestina, la casa in cui vive, gli oggetti di cui si serve per mettere in atto i suoi incantesimi, e i poteri magici di cui è dotata, le magie che ha eseguito come dipingere lettere con lo zafferano o il vermiglio sulle mani dei loro clienti, dare loro cuori di cera o pieni di aghi per ostacolare le relazioni amorose, crea immagini di argilla o piombo, pronuncia incantesimi disegnati per terra ecc. A riguardo Parmeno afferma: “...Tiene esta buena dueña al cabo de la cuidad, allá cerca de las tenerías, en la cuesta del río, una casa apartada, medio caída, poco compuesta y menos abastada. Ella tenía seis oficios; conviene saber: labrandera, perfumera, maestra de hacer afeites y de hacer virgos, alcahueta y un poquito hechicera... Y en su casa hacía perfumes, falsaba estoraques, menjuí, animes, ámbar, algalia, polvillos, almizcles, mosquetes. Tenía una cámara llena de alambiques, de redomillas, de barrilejos de barro, de vidrio, de arambre, de estaño, hechos de mil facciones... Aparejos para baños, esto es una maravilla: de las hierbas y raíces que tenía en el techo de su casa colgadas, manzanilla y romero, malvaviscos, culantrillo, coronillas, flor de saúco y de mostaza, espliego y laurel blanco, tortarosa y gramonilla, flor salvaje e higueruela, pico de oro y hojatinta...” (Rojas, 1502)153. Continua dicendo: 150 Ibidem, atto I. 151 Ibidem, pag. 49. 152 Ibidem, atto I. 153 Ibidem, atto I. 45 proficui anch’essi incapaci di confessare, stessa cosa succede a Calisto che muore con la colpa di aver sfruttato le abilità della vecchia mezzana, e infine pure Melibea vittima innocente del patto magico si suicida ritenendosi colpevole. E’ possibile che Rojas condanni le conseguenze del perseguire irresponsabilmente i propri desideri dimenticando i propri limiti e quelli della condizione umana, tuttavia non sappiamo ad oggi cosa pensasse a riguardo Rojas. M. Ruggiero ne “La Celestina: Didacticism One More” ritiene che Rojas non abbia scritto una satira contro le conseguenze dell’utilizzo di pratiche magiche o per mettere in guardia dai possibili pericoli, ma abbia utilizzato un metodo per rendere l’opera più efficace, grazie ai suoi elementi di ambiguità (Ruggiero, 1970)165. Visti gli innumerevoli accenni al tema magico anche al di là dell’incantesimo vero e proprio di Celestina, la magia non può essere considerata un tema marginale dell’opera, bensì trasversale che la colora da cima a fondo, sia nella versione originale del 1499, sia in quelle successive rivisitate, confermando la volontà dell’autore di sottolinearne l’importanza, qualsiasi fosse il messaggio che intendesse diffondere. Se l’elemento magico permea l’intera opera, come dicevo, credo che però ad un certo punto esso lasci il posto al desiderio che come un fuoco si accende e continua ad ardere fino alla fine del racconto, quando addirittura Melibea si uccide incapace di sopportare la perdita di Calisto. Il suicidio di Melibea però a differenza delle altre morti non è frutto dei peccati di inganno e stregoneria di cui sono vittime Celestina, Calisto, Sempronio e Parmeno, potrebbe infatti essere conseguenza di un amore folle anch’esso considerato un peccato degno di condanna. 165 Ruggiero M., 1970. “La Celestina: Didacticism Once More”. Romanische Forschungen, pag 56- 64. 46 CAPITOLO 3 MELIBEA: TRA VITTIMISMO E STRATEGIA PER LA LIBERTA’ 3.1. Philocaptio o passione carnale? Le azioni di Melibea nei confronti di Calisto possono essere interpretate come Philocaptio ovvero una tecnica usata per catturare o preservare l'amore, piuttosto che come semplice passione carnale. Sebbene ci siano certamente aspetti passionali ed erotici nella loro relazione, l'uso di varie tattiche da parte di Melibea per manipolare e controllare gli affetti di Calisto suggerisce un approccio più calcolato. Questo è in contrasto con le espressioni di passione più aperte e spontanee tra gli altri personaggi, come Elicia e Sempronio, o Parmeno e Areusa. La stessa cameriera di Melibea, Lucrecia afferma che la passione di Melibea rappresenta un caso di Philocaptio: “El seso tiene perdido mi señora. Gran mal ay. Cautiuadola ha esta fechizera.” (Rojas, 1502). Lucrecia è l’unica testimone dell’incantesimo che ha subito Melibea, ma nonostante ciò non lo dirà mai a nessuno poiché da Celestina anch’essa si è fatta corrompere, e perché ammetterlo vorrebbe dire ammettere la propria slealtà. Pleberio attribuisce la morte di sua figlia alla forza dell’amore e non ad un incantesimo, infatti a riguardo afferma: “¿quién forzó a mi hija a morir, sino la fuerte fuerza de amor?” (Rojas, 1502) e questo dimostra, secondo Russel, un ulteriore prova della pericolosità della magia, che si insidia dappertutto, rendendo il padre inconsapevole che tale incantesimo fosse finito proprio nella sua stessa casa e avesse colpito proprio sua figlia (Russel, 2011). Alan Deyermond ne “Melibea: eye de la scriptum ligata de La Celestina” esprime la sua tesi secondo la quale l’incantesimo che Celestina fa immergendo la matassa in olio diabolico, permetterebbe al Diavolo di entrare in quel filo e di agire qualora venga toccato, infatti ciò ha permesso che Melibea resti sola con Celestina e secondo Deyermond ciò non è un puro caso, ma fa paerte del piano diabolico, inoltre, una volta che anche Melibea tocca il filo, diventa vittima di una misteriosa passione proprio da esso provocata (Deyermond, 2012), e infatti successivamente Melibea ammette: “Madre mía, que comen este corazón serpientes dentro de mi cuerpo.” (Rojas, 1502). 47 3.2. Trasformazione o sovversione? Sulla base di una interpretazione della storia di Calisto e Melibea, è possibile affermare che essa comporta sia trasformazione che sovversione. Da un lato, la storia prevede una trasformazione del personaggio di Calisto mentre passa da un amante ingenuo e idealista a una figura disperata e alla fine tragica, mentre Melibea viene trasformata dalle sue esperienze con Calisto e diventa più assertiva e indipendente. D'altra parte, la storia è anche sovversiva nella sua rappresentazione dell'amore, poiché sfida le idee tradizionali di corteggiamento e le norme sociali attraverso la sua rappresentazione della storia d'amore appassionata e illecita tra Calisto e Melibea, che alla fine porta a tragiche conseguenze. Infatti Celestina riesce a combinare l’incontro tra Calisto e Melibea ma la situazione non evolve nel migliore dei modi poiché durante una lite per la ripartizione del guadagno tra Sempronio, Parmeno e Celestina, i due servi la uccidono, così provano a scappare saltando da una finestra, ma siccome si feriscono fanno in tempo ad essere raggiunti dalle guardie che li condannano a morte. Calisto cade accidentalmente mentre scavalca il muro di casa di Melibea che disperata si suicida gettandosi dalla torretta di casa di fronte agli occhi impotenti del padre che condanna la tristezza e l’ingiustizia che deve subire. 50 Rojas F., 1514. Tragicomedia de Calisto y Melibea. Valencia, Juan Joffre. Ruiza M., Fernández T., Tamaro E., 2004. Biografia de Fernando de Rojas. Biografìas y Vidas. La enciclopedia biográfica en lìnea. Barcelona, España. Russel P.E., 1978. Temas de La Celestina. Libros Ambigú. Russel P.E., 2013. Fernando de Rojas, La Celestina. Comedia o Tragicomedia de Calisto y Melibea. Barcelona, Castaia. Russell P.E., 2011. La magia: tema integral en La Celestina. Estudios sobre La Celestina. Spagna, Istmo. Samonà C. & Lobera Serrano F.J., 1994. La Celestina de Fernando de Rojas. Milano, Rizzoli. Samonà C., 2006. Fernando de Rojas: La Celestina. Introduzione di Carmelo Samonà, traduzione di Antonio Gasparetti, a cura di Francisco J. Lobera Serrano. 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