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Analisi della vita di Italo Svevo e della coscienza di Zeno, Appunti di Italiano

Appunti sulla vita e sul pensiero di Italo Svevo, la connessione con Freud, e analisi della coscienza di Zeno. Vengono analizzati più in dettaglio i capitoli: Prefazione, Preambolo, Il fumo, La morte di mio padre, Storia del mio matrimonio, La moglie e l'amante, Storia di un'associazione commerciale, Psico-analisi

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 20/06/2024

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letizia-masarati 🇮🇹

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Scarica Analisi della vita di Italo Svevo e della coscienza di Zeno e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Italo Svevo 1 Italo Svevo La vita Svevo nasce a Trieste nel 1861, città che faceva ancora parte dell’impero austro-ungarico e che quindi risentiva dell’influenza della lingua e della cultura mitteleuropea. Trieste è una città ricca di fermenti culturali, i suoi caffè sono luoghi di incontro di intellettuali e qui vivono Umberto Saba, che sarà amico di Svevo, e James Joyce, che sarà maestro di inglese di Svevo e primo scopritore della sua opera. Il nome Italo Svevo è uno pseudonimo: il suo vero nome, Ettore Schmitz, tradisce l’origine ebraica; egli era infatti figlio di un commerciante ebreo austriaco e di una madre ebrea italiana. Il suo pseudonimo definisce la sua identità come insieme di culture diverse: quella italiana e quella tedesca. La sua formazione non è quella tradizionale del letterato classico: il padre lo avvia agli studi commerciali perché vuole che subentri a lui nella conduzione della ditta, e per questa ragione lo manda a studiare in Baviera (per imparare la lingua tedesca, lingua commerciale). Rientrato a Trieste, comincia a scrivere e a pubblicare i suoi primi racconti. Nel 1888 comincia a lavorare a un primo romanzo, “Un inetto”, il cui titolo diventerà “Una vita”: è già presente il tema dell’inettitudine e dell’incapacità di adeguarsi alla società, quindi la distanza dell’intellettuale dal mondo del profitto e dell’industrializzazione. Dopo la morte del padre, sposa Livia Veneziani, figlia di un importante imprenditore. Svevo lavora per quasi vent’anni alla Union Bank triestina, filiale di una banca tedesca, e poi comincerà a lavorare nell’industria del suocero; grazie al suo lavoro può viaggiare in Europa e nel frattempo La vita Il pensiero Freud La coscienza di Zeno La Prefazione Preambolo e Il fumo La morte di mio padre La storia del mio matrimonio La moglie e l’amante e Storia di un’associazione commerciale Psico-analisi Italo Svevo 2 dedicarsi alla letteratura, che lo accompagna come vera vocazione. Nel 1898 pubblica il secondo romanzo, “Senilità” (titolo indicativo di una vecchiaia che non è quella anagrafica, ma quella dell’animo: atteggiamento di incapacità di prendere la responsabilità della propria vita). Svevo pubblica il volume a proprie spese, ma il romanzo non ha successo di pubblico e l’autore decide di non pubblicare più nulla, anche se continua a scrivere in privato. In questi stessi anni dichiara il proposito di abbandonare la letteratura e continua a leggere e studiare dei filosofi, in particolare Schopenhauer, Freud (di cui tradurrà anche “L’interpretazione dei sogni”), Darwin e Nietzsche e si avvicina al socialismo. Svevo si appassiona al pensiero di Freud e induce anche suo cognato a sottoporsi alla terapia e a rivolgersi direttamente a Freud a Vienna. Nel 1919 si apre la fase del ritorno alla letteratura: nel giro di tre anni Svevo scrive “La coscienza di Zeno”, che viene pubblicata nel 1923. Svevo è spinto a scrivere ancora dopo la guerra perché sente l’urgenza di comunicare e dare voce al trauma provocato dal conflitto; in questo libro, infatti, emerge la coscienza di un individuo che afferma di essere stato malato e di essere guarito proprio grazie alla guerra, che gli ha permesso di affermarsi economicamente attraverso il proprio lavoro. Tuttavia, la guarigione è solo illusoria, perché per Svevo essa non è che un ritorno alla condizione di malattia, ovvero al mondo di coloro che si ritengono “sani” e vivono nel mondo del profitto economico. Il romanzo viene valorizzato dalla critica di Joyce, che lo fa conoscere anche all’estero, e di Montale: grazie a questi due autori si viene a creare un vero e proprio “caso Svevo”, cioè un dibattito sulla grandezza di Svevo come scrittore. Una delle principali critiche che gli vengono rivolte riguarda la lingua usata nei suoi scritti, che è molto distante dalla lingua letteraria classica, avvicinandosi alla dimensione quotidiana e del parlato. Questa lingua è perfettamente aderente ai contenuti del romanzo e alla denuncia della società. Svevo muore nel 1928 in seguito alle complicazioni dovute a un incidente d’auto. Il pensiero Nella cultura di Svevo confluiscono filoni di pensiero contraddittori e, a prima vista, difficilmente conciliabili: da un lato il positivismo, il pensiero di Darwin, il marxismo; dall’altro il pensiero negativo di Schopenhauer e di Nietzsche. Abbiamo poi l’influenza di Freud, che racchiude in sé l’esigenza di ricondurre a chiarezza scientifica lo studio dell’inconscio, ma anche quella di sottolineare i limiti della ragione e della volontà rispetto al potere delle pulsioni e alla forza dell’inconscio. Questi spunti sono assimilati da Svevo in un modo originale: Dal positivismo e da Darwin, ma anche da Freud, Svevo riprende la propensione a valersi di tecniche scientifiche di conoscenza e il rifiuto di qualunque ottica di tipo metafisico, spiritualistico o idealistico. Ma di Darwin respinge l’ottimismo e la fiducia nel progresso. Italo Svevo 5 narratore autodiegetico che racconta le proprie vicende a ritroso. All’ordinato susseguirsi degli avvenimenti secondo una disposizione lineare subentra un continuo intersecarsi di eventi secondo diversi piani temporali: il presente della narrazione e il passato (il tempo della coscienza). Inoltre, non è stabilita nessuna gerarchia tra gli eventi, poiché il narratore è inattendibile e, narrando egli stesso il decorso della sua malattia, il lettore non è in grado di comprendere quali sono gli eventi realmente significativi e quali no —> c’è un grande dislivello di consapevolezza dell’io narrante nei riguardi della propria vicenda e dei risvolti psicologici sulla sua salute mentale. Il romanzo inizia con una prefazione del dottor S. (l’iniziale rimanda a Sigmund Freud) e un Preambolo, seguiti poi da una serie di capitoli monotematici (Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale, Psicoanalisi). La coscienza di Zeno si presenta come una memoria inviata da Zeno stesso allo psicoanalista che lo ha in cura, il dottor S. Questa pratica non è ortodossa, non fa parte della terapia psicoanalitica teorizzata da Freud perché nella psicoanalisi deve emergere l’inconscio attraverso le libere associazioni (si dà molta importanza agli aspetti non controllabili e non logici, come il sogno), mentre la scrittura si presta a dare ordine, dare un senso e razionalizzare. La scrittura, come viene spiegato nel capitolo iniziale intitolato Prefazione, deve essere un preludio alla psicoanalisi; tuttavia, Zeno rimarrà deluso dalla cura e abbandonerà il trattamento. In conseguenza di ciò, lo psicoanalista promette di pubblicare la memoria del paziente “per vendetta”. A parte questo capitolo iniziale, scritto per mano dello psicoanalista, tutta la restante narrazione è attribuita a Zeno. Zeno è pertanto il protagonista-narratore, ma egli è un narratore non attendibile perché è un nevrotico e spesso opera la rimozione degli eventi più traumatizzanti della sua vita, che vengono sepolti nell’inconscio, dal quale riemergono mascherati nel linguaggio oscuro e simbolico dei sintomi, dei lapsus, dei sogni. Il nevrotico non potrà perciò essere mai un testimone attendibile dei fatti che sono in relazione con la sua nevrosi. Poiché il narratore non è attendibile, il lettore non potrà mai prendere per buone le interpretazioni e le ricostruzioni stesse degli avvenimenti e del proprio comportamento effettuate da Zeno. Questo aspetto viene messo in evidenza dallo psicoanalista nella Prefazione, tuttavia neppure lui è attendibile perché non si attiene all’ortodossia freudiana, pubblica le memorie “per vendetta” e ha un interesse economico. Il dottor S. è un deliberato rovesciamento ironico della figura dello psicoanalista che mostra lo scetticismo di Zeno, ma anche di Svevo, nei confronti della psicoanalisi come cura, ma anche della nozione stessa di ciò che è “malato” e di ciò che è “sano”. Inoltre, il lettore non può affidarsi a dei punti saldi e quindi deve costantemente avanzare delle personali ipotesi interpretative, anche perché l’autore non interviene mai a fornire ulteriori spiegazioni. La Italo Svevo 6 narrazione è quindi organizzata in modo da richiedere una continua collaborazione del lettore alla ricostruzione del significato di quanto sta leggendo. In tal senso “La coscienza di Zeno” appare come un esempio tipico di opera aperta: un’opera, cioè, il cui significato non è univoco, secondo le intenzioni stesse dell’autore. Il romanzo si conclude con Zeno che immagina l’esplosione di una bomba atomica, che possa distruggere completamente il mondo così come lo conosciamo perché esso si rigeneri. Soltanto da questo cataclisma potrà nascere un mondo purificato e incontaminato in cui l’uomo può provare a vivere in modo più sano, lontano da ogni malattia. È una distopia, una conclusione immaginaria e pessimista, perché mostra come non ci sia una soluzione realistica. La Prefazione La coscienza di Zeno inizia con una Prefazione fittizia firmata dal dottor S., lo psicoanalista che ha avuto in cura il protagonista del romanzo. Il dottor S. dichiara di pubblicare il memoriale del suo paziente per vendetta, dato che Zeno ha rifiutato di proseguire una cura che, secondo il medico, stava invece dando buoni frutti. All’inizio, il medico si presenta come narratore e come destinatario del memoriale di Zeno, che viene definito una “novella”: il termine rimanda alla narrativa di genere fantastico, quindi il criterio della verosimiglianza e della veridicità del manoscritto (come Manzoni) viene definitivamente abbandonato. Già da questo elemento, come dalle motivazioni del terapeuta, possiamo comprendere che l’autore sta mettendo in guardia il lettore sull’attendibilità della narrazione. In seguito, il dottore parla dell’antipatia che il paziente aveva nei suoi confronti e con una reticenza suggerisce al lettore che questo sentimento fa parte del processo del transfert: esso si instaura perché il paziente riversa i suoi sentimenti nei confronti dell’analista, a volte quasi di innamoramento, a volte di odio o rivalità. Il malato ha bisogno della figura su cui proiettare i propri sentimenti perché in questo rapporto, il paziente rivive i traumi infantili (per Freud, in particolare, era importante il rapporto con i genitori) —> l’odio che Zeno prova verso il suo terapeuta è l’odio del bambino verso il genitore. Inoltre, il dottore mette in guardia il lettore sulla prassi non convenzionale di far scrivere al paziente le proprie “memorie” o “autobiografia”, termini che richiamano a dei fatti personali del narratore e che quindi sembrano avere la veridicità del fatto vissuto; tuttavia, nella conclusione egli parla di “verità e bugie”, presentando quindi la narrazione che il lettore sta per leggere come un’autobiografia falsata dalla coscienza del narratore che interpreta la sua vita a volte in modo non aderente alla realtà —> narratore inattendibile. Italo Svevo 7 Il dottor S., oltre ad essere il primo destinatario delle confessioni di Zeno, comparirà anche come personaggio del romanzo, ed è la prima volta che uno psicoanalista fa il suo ingresso nella narrativa italiana. La coscienza di Zeno è il primo romanzo che ricorre alla psicoanalisi freudiana come strumento di conoscenza della realtà, in un’epoca nella quale essa era ancora sconosciuta in Italia. Svevo fa della psicoanalisi un uso duplice: da una parte si serve delle categorie freudiane per creare psicologie verosimili e attendibili, ma dall’altra nega che sia possibile guarire davvero dalla nevrosi, e anzi ridicolizza il dottor S. e le sue analisi. Svevo scredita quindi il terapeuta. Del resto, Zeno si dichiarerà effettivamente guarito, nel finale del libro, quando interromperà la cura. Inoltre, anche la narrazione di Zeno è inattendibile perché l’obiettivo del protagonista è quello di dimostrare a se stesso e al medico la sua guarigione, a dispetto dell’opinione del proprio analista: tuttavia, nonostante le proprie assicurazioni, egli si tradisce molte volte, lasciando emergere una rete di lapsus, bugie, atti mancati, e rivelandosi un narratore inattendibile, che interpreta i fatti in funzione della propria malattia. Preambolo e Il fumo Vedere la mia infanzia? Piú di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora. Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso. Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato. Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finí nel sonno piú profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre. Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui! Nel dormiveglia ricordo che il Italo Svevo 10 di essere un inetto e diventare “sano”, ma alla fine tutti i tentativi falliscono —> “Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? […] Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute” (Il fumo). I tentativi falliscono perché tutta la società è malata —> la società capitalistica che ci offre un modello di uomo vincente ed affermato attraverso il profitto, uomo che si identifica nel suo ruolo e nel suo lavoro, ma è solo un’illusione di “sanità”; il malato alla fine è solo un individuo più sensibile e più consapevole della falsa sanità degli altri uomini. Il fumo è il simbolo di un bisogno, della ricerca di indipendenza e autonomia, del rinnovamento di sé. Verso la conclusione, sempre parlando del bambino, viene introdotto il concetto dell’ereditarietà della malattia, che deriva sia dai geni, ma anche dal fattore ambientale: si avanza la concezione dell’essere umano che è determinato e influenzato fin dalla nascita e che è costretto a percorrere una vita segnata dal dolore e dai traumi. Nel caso di Zeno, egli ha sviluppato il vizio del fumo rubando i mozziconi di sigari dimenticati sul posacenere dal padre: capiamo dunque che il fumo è un rapporto diretto con la figura autoritaria del padre e manifesta il desiderio inconscio di imitare e sostituirsi al padre. La morte di mio padre Mia madre era morta quand’io non avevo ancora quindici anni. Feci delle poesie per onorarla ciò che mai equivale a piangere e, nel dolore, fui sempre accompagnato dal sentimento che da quel momento doveva iniziarsi per me una vita seria e di lavoro. Il dolore stesso accennava ad una vita più intensa. Poi un sentimento religioso tuttavia vivo attenuò e addolcì la grave sciagura. Mia madre continuava a vivere sebbene distante da me e poteva anche compiacersi dei successi cui andavo preparandomi. Una bella comodità! Ricordo esattamente il mio stato di allora. Per la morte di mia madre e la salutare emozione ch’essa m’aveva procurata, tutto da me doveva migliorarsi. Invece la morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva piú ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte piú importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata Italo Svevo 11 magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c’era piú una dimane ove collocare il proposito. Tante volte, quando ci penso, resto stupito della stranezza per cui questa disperazione di me e del mio avvenire si sia prodotta alla morte di mio padre e non prima. Sono in complesso cose recenti e per ricordare il mio enorme dolore e ogni particolare della sventura non ho certo bisogno di sognare come vogliono i signori dell’analisi. Ricordo tutto, ma non intendo niente. Fino alla sua morte io non vissi per mio padre. Non feci alcuno sforzo per avvicinarmi a lui e, quando si poté farlo senz’offenderlo, lo evitai. All’Università tutti lo conoscevano col nomignolo ch’io gli diedi di vecchio Silva manda denari. Ci volle la malattia per legarmi a lui; la malattia che fu subito la morte, perché brevissima e perché il medico lo diede subito per spacciato. Quand’ero a Trieste ci vedevamo sí e no per un’oretta al giorno, al massimo. Mai non fummo tanto e sí a lungo insieme, come nel mio pianto. Magari l’avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato. Era difficile di trovarsi insieme anche perché fra me e lui, intellettualmente non c’era nulla di comune. Guardandoci, avevamo ambedue lo stesso sorriso di compatimento, reso in lui piú acido da una viva paterna ansietà per il mio avvenire; in me, invece, tutto indulgenza, sicuro com’ero che le sue debolezze oramai erano prive di conseguenze, tant’è vero ch’io le attribuivo in parte all’età. Egli fu il primo a diffidare della mia energia e, - a me sembra, - troppo presto. Epperò io sospetto, che, pur senza l’appoggio di una convinzione scientifica, egli diffidasse di me anche perché ero stato fatto da lui, ciò che serviva - e qui con fede scientifica sicura - ad aumentare la mia diffidenza per lui. Egli godeva però della fama di commerciante abile, ma io sapevo che i suoi affari da lunghi anni erano diretti dall’Olivi. Nell’incapacità al commercio v’era una somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza. Già quello che ho registrato in questi fascicoli prova che in me c’è e c’è sempre stato - forse la mia massima sventura - un impetuoso conato al meglio. Tutti i miei sogni di equilibrio e di forza non possono essere definiti altrimenti. Mio padre non conosceva nulla di tutto ciò. Egli viveva perfettamente d’accordo sul modo come l’avevano fatto ed io devo ritenere ch’egli mai abbia compiuti degli sforzi per migliorarsi. Fumava il giorno intero e, dopo la morte di mamma, quando non dormiva, anche di notte. Beveva anche discretamente; da gentleman, di sera, a cena, tanto da essere sicuro di trovare il sonno pronto non appena posata la testa sul guanciale. Ma, secondo lui, il fumo e l’alcool erano dei buoni medicinali. In quanto concerne le donne, dai parenti appresi che mia madre aveva avuto qualche motivo di gelosia. Anzi pare che la mite donna abbia dovuto intervenire talvolta violentemente per tenere a freno il marito. Egli si lasciava guidare da lei che amava e rispettava, ma pare ch’essa non sia mai riuscita ad avere da lui la confessione di alcun tradimento, per cui morí nella fede di essersi sbagliata. Eppure i buoni parenti raccontano ch’essa ha trovato il marito quasi in flagrante dalla propria sarta. Egli si scusò con un accesso di distrazione e con tanta costanza che fu creduto. Non vi fu altra Italo Svevo 12 conseguenza che quella che mia madre non andò piú da quella sarta e mio padre neppure. Io credo che nei suoi panni io avrei finito col confessare, ma che poi non avrei saputo abbandonare la sarta, visto ch’io metto le radici dove mi soffermo. […] Insomma io, accanto a lui, rappresentavo la forza e talvolta penso che la scomparsa di quella debolezza, che mi elevava, fu sentita da me come una diminuzione. Ricordo come la sua debolezza fu provata allorché quella canaglia dell’Olivi lo indusse a fare testamento. All’Olivi premeva quel testamento che doveva mettere i miei affari sotto la sua tutela e pare abbia lavorato a lungo il vecchio per indurlo a quell’opera tanto penosa. Finalmente mio padre vi si decise, ma la sua larga faccia serena s’oscurò. Pensava costantemente alla morte come se con quell’atto avesse avuto un contatto con essa. […] In questo capitolo si ha la rappresentazione del padre come patriarca; il figlio, che per tutta la vita ha combattuto contro questa figura, ora che è morto, non c’è più nulla dove collocare il suo proposito: non c’è più una figura a cui contrapporsi, e questo denota che il figlio non è autonomo, ma vive in funzione di dimostrare qualcosa al proprio padre. Zeno vive la morte del padre in modo molto diverso rispetto a quella della madre, della quale conserva ancora un buon ricordo, e pensando a lei pensa di poter realizzare ancora sé stesso (da parte della madre sentiva una fiducia nel proprio divenire, proprie possibilità). Il padre, invece, si è sempre voluto presentare al figlio come un patriarca e un uomo di successo. Il figlio si sente inetto, non adeguato alle aspettative di forza e responsabilità del padre e accusa apertamente il proprio padre di aver sempre manifestato una sfiducia nei suoi confronti e di aver sottovalutato le sue capacità. Il padre viene considerato il primo responsabile dell’inettitudine del figlio a causa del peso delle sue aspettative. Tuttavia, Zeno fa un ritratto del padre che sembra voler capovolgere questa sua immagine autoritaria, e quindi ci fa comprendere che dietro la facciata di uomo forte, si nasconde un debole, e Zeno crede di aver quindi ereditato la sua debolezza proprio dal padre: per esempio, anche il padre era dipendente da fumo, alcool e donne, come Zeno lo è dalle sigarette. Inoltre, padre e figlio sono accumunati dall’incapacità negli affari, per cui la gestione del patrimonio viene affidata all’Olivi. Il protagonista smonta pezzo per pezzo questa figura che sembrava così solida. Il lettore non sa se credere al narratore o pensare che sia un’interpretazione del figlio per giustificare in questo modo il suo comportamento e sminuire la figura paterna. Avevamo tanto poco di comune fra di noi, ch’egli mi confessò che una delle persone che più l’inquietavano a questo mondo ero io. Il mio desiderio di salute m’aveva spinto a studiare il corpo umano. Egli, invece, aveva saputo eliminare dal suo ricordo ogni idea di quella spaventosa macchina. Per lui il cuore non pulsava e non v’era bisogno di ricordare valvole e Italo Svevo 15 lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz’obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. Le mie lacrime erano amarissime—> questa dimenticanza è un segnale da cui traspare il latente desiderio di Zeno per la morte del proprio padre, con conseguente senso di colpa. Ricordando questo momento della sua vita, compare l’immagine della locomotiva (come nel Preambolo): Scrivendo, anzi incidendo sulla carta tali dolorosi ricordi, scopro che l’immagine che m’ossessionò al primo mio tentativo di vedere nel mio passato, quella locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un’erta, io l’ebbi per la prima volta ascoltando da quel sofà il respiro di mio padre. Vanno così le locomotive che trascinano dei pesi enormi: emettono degli sbuffi regolari che poi s’accelerano e finiscono in una sosta, anche quella una sosta minacciosa perché chi ascolta può temere di veder finire la macchina e il suo traino a precipizio a valle. Davvero! Il mio primo sforzo di ricordare, m’aveva riportato a quella notte, alle ore più importanti della mia vita. Successivamente arriva il dottore Coprosich, che viene descritto fisicamente, con un’attenzione particolare ai suoi occhi: i suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici. Erano degli occhi spiacevoli allora —> Zeno comincia a trasferire sul dottore l’immagine paterna: è un sostituto del padre e nei suoi confronti comincia a nutrire dei sentimenti di ostilità, perché si sente da lui scrutato, giudicato; questo perché si sente in colpa e crede che il medico lo stia accusando di non essersi occupato con abbastanza premura del padre. Il dottore effettivamente lo rimprovera di non essere stato chiamato per tempo: Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz’occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto. Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell’avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt’al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla. Italo Svevo 16 Ad un certo punto il dottore vuole tentare una cura estrema, con un salasso, ma Zeno lo supplica di non applicare al padre le sanguisughe, che gli avrebbe dato un minimo di sollievo e gli avrebbe consentito di riprendersi almeno per un periodo di tempo, perché ritiene che sia una sorta di accanimento terapeutico, che non ci sia ormai più speranza e che far tornare il padre in sé gli provocherebbe solo un’inutile sofferenza. Dietro a queste giustificazioni, che appaiono piene di pietà e compassione, si cela inconsciamente in desiderio di morte per il padre: Ero pieno di terrore all’idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire […] Poteva esserci un’azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz’avere la minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare - con quell’affanno! - la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato. Io odio quell’uomo perché egli allora s’arrabbiò con me. È ciò ch’io non seppi mai perdonargli. Egli s’agitò tanto che dimenticò d’inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora. Me lo disse proprio così, crudamente. Infine, il padre si riprende. Passa del tempo e un giorno il dottore consiglia all’infermiere e al figlio di far stare il padre coricato il più a lungo possibile per migliorare la circolazione. Il padre all’inizio si mostra docile, ma poi inizia a ribellarsi e il figlio è costretto a tenere stretta la camicia di forza del padre; tuttavia, mette in questo atto un eccesso di forza e di zelo, impedendo al padre di respirare e muoversi liberamente. Il padre: con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto! —> Zeno interpreta il gesto del padre come uno schiaffo volontariamente dato come una punizione nei suoi confronti. Zeno scrive: mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi —> emerge il senso di colpa che aveva cercato di allontanare, come se il padre avesse capito che il figlio voleva la sua morte. Anche se il padre è morto, Zeno gli parla e cerca di giustificarsi, dicendo che era stata colpa del dottore, ma poi si rende conto che: Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza! —> il figlio continua a manifestare il rapporto conflittuale con il genitore anche dopo la morte, e più che provare tristezza e dolore per la mancanza del padre, sente il venir meno di questa figura alla quale si era sempre opposto e nei riguardi della quale sentiva sempre di dover dimostrare qualcosa. Italo Svevo 17 Il figlio descrive il corpo del padre come “superbo e minaccioso”, ma la sua è una percezione falsata; La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo —> attenzione sulle mani del padre (come “Uno, nessuno e centomila”). Dopo la morte del padre, ha inizio un processo di innocentizzazione: il figlio rimuove tutti i sentimenti negativi che aveva provato nei confronti della figura paterna e al funerale riesce a ricordare un padre debole e buono, molto diverso dalla figura minacciosa che era stato in vita: Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte. —> Zeno afferma di ricordare suo padre in tal modo fin dall’infanzia, ma questa è evidentemente una contraddizione, perché lui sta rileggendo in un’ottica completamente diversa il suo passato (e questo disorienta lo spettatore). Rimuovendo l’aggressività e i sensi di colpa, Zeno si sente una persona buona e anche il ricordo del padre diventa un ricordo buono. Alla fine, Zeno ritrova persino la fede, che era sempre stata oggetto di contrasto con il padre dal momento che Zeno rideva di ogni pratica religiosa; ora, nel dialogo con Dio ritrova una comunicazione con il padre che in realtà non aveva mai avuto. La storia del mio matrimonio Dopo l’episodio della morte del padre, si aprono tre capitolo monotematici (La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale) in cui la vicenda si sviluppa in una successione temporale sufficientemente lineare, dato che il criterio della disposizione cronologica si associa a quello della disposizione per argomento. Zeno narra come egli, da scapolo impenitente, decida improvvisamente di sposarsi. Lo psicoanalista spiegherà questa sua decisione con la necessità che Zeno aveva di un sostituto del padre (tale spiegazione sarà riferita da Zeno stesso nel capitolo Psicoanalisi). Infatti, egli conosce, prima ancora della futura sposa, il suo futuro suocero, Giovanni Malfenti, da lui ammirato per l’abilità negli affari. Giovanni Malfenti quotidianamente incontrava i suoi compagni d’affari in un caffè e anche Zeno comincia a frequentare questo caffè ed ad entrare in confidenza con lui, perché vuole carpire da lui i segreti di un commerciante di successo e annota su un’agendina i suggerimenti che Giovanni gli dà per cercare di trovare una propria strada per Italo Svevo 20 opportunistico; allo stesso modo, il matrimonio viene visto come una mera pratica borghese che nulla ha a che vedere con il sentimento. Zeno, nonostante sia un inetto, riesce a combinare un giusto matrimonio, a differenza di quello di Ada e Guido Speier: il loro matrimonio non funzionerà perché il marito inizia a tradirla, lei si ammalerà e finiranno anche per perdere il patrimonio perché Guido si dimostra incapace di amministrare i propri beni e inadatto agli affari. Questo matrimonio, che sembrava partito con le migliori premesse, finisce per essere un matrimonio infelice, al contrario di quello di Zeno che poteva essere una tragedia, ma si rivela invece un successo —> se non che Zeno finirà per tradire la moglie. La moglie e l’amante e Storia di un’associazione commerciale Se il desiderio di Zeno di trovare la salute lo spinge a sposare Augusta, sin dal viaggio di nozze iniziano a manifestarsi dei segnali di sofferenza verso questo legame. Questi si manifestano attraverso dei sintomi nevrotici: manie di persecuzione (in viaggio di nozze attraverso l’Italia pensa alle difficoltà e ai pericoli del viaggio, agli incontri che può fare e a quello che la gente comincia a pensare di lui) e fobie ricorrenti, come la paura di invecchiare e il pensiero ossessivo della morte imminente. Non appena Augusta si accorge di queste crisi, lo sostiene e lo soccorre con il suo affetto. Zeno giustifica le sue fobie dicendo che non ha paura di morire per lui, ma perché è geloso che sua moglie, dopo la sua morte, possa avere un altro uomo; maschera la sua fobia con la gelosia, ma la fobia è il sintomo di un disagio profondo nella relazione. Da un lato ama la moglie e le è grato per uscire dalla sua inettitudine, dall’altro sente che il matrimonio è una prigione. Infatti, Zeno tradirà la moglie con Carla, una giovane donna molto povera, ma bella e con un grande talento nel canto. Zeno si pone nei suoi confronti con l’atteggiamento di un benefattore, ma allo stesso tempo pretende di avere Carla sempre a sua disposizione come un oggetto. Tuttavia, poiché il suo rapporto con l’amante finisce per essere un elemento che mette in pericolo l’apparente sanità della vita e del matrimonio borghese di Zeno, egli si propone di lasciare Carla, ma ogni volta che le vede diventa l’ultima, come con le sigarette. Essendo un inetto, Zeno è incapace di prendere la decisione definitiva e nel frattempo oscilla tra Carla e la moglie, che comunque non vuole abbandonare e con la quale il rapporto procede bene. Alla fine sarà Carla a lasciarlo per il suo maestro di canto. Nel capitolo Storia di un’associazione commerciale si ritrova la figura di Guido, che diventa anch’egli una figura sostitutiva del padre, l’immagine dell’uomo sano a cui Zeno cerca di opporsi. Zeno narra di aver completamente dimenticato ogni antica rivalità verso Guido, che è Italo Svevo 21 diventato suo cognato e che aveva fondato un’azienda commerciale e aveva proposto a Zeno di entrare in società con lui. Tuttavia, Guido non è un grande imprenditore e i suoi affari vanno molto male, anche perché preferisce passare il tempo a caccia, pesca e tradire la moglie; si susseguono vari crisi economiche, a cui inizialmente Ada pone rimedio intervenendo con il proprio patrimonio per salvare la ditta. Guido cade in depressione e arriva a fingere il suicidio per impietosire la moglie ed estorcerle ancora denaro per la sua ditta; ad un certo punto Guido mette Zeno al corrente dei suoi debiti e gli racconta del suo piano per un terzo tentativo di suicidio. In quell’occasione, Zeno gli suggerisce una sostanza che può usare a piccole dosi in modo da simulare un tentato suicido e in questo modo provoca inavvertitamente la morte di Guido, che assume una dosa troppo forte e muore perché, a causa di un nubifragio, i soccorsi arrivano in ritardo. Quello che sembrerebbe un atto involontario da parte di Zeno nasconde invece un atto mancato, perché nel suo suggerimento si manifesterebbero tutto il suo odio e la sua invidia repressi nei confronti di Guido. Alla morte del cognato, il primo pensiero di Zeno è quello di speculare in borsa per ricostituire il patrimonio di Guido e di Ada, dando prova di una straordinaria energia e vitalità. Al funerale di Guido, poi, Zeno ha un lapsus freudiano e segue il corteo funebre sbagliato, accorgendosene solo una volta giunto al cimitero. A questo punto egli avrebbe potuto ugualmente recarsi sulla tomba dell’amico, ma sceglie di non perdere altro tempo e dedicare tutte le sue energie per recuperare i soldi che Guido aveva perso. In questo, egli si mostra abile e capace, ma il lettore comprende che questa sua volontà è dettata solamente dal desiderio di dimostrare ad Ada che ha scelto l’uomo sbagliato da sposare; Ada si accorge di tutti questi meccanismi e li rivela apertamente a Zeno, dicendogli che ha fatto bene a non andare al funerale perché tanto lui non voleva bene a Guido, ma anzi lo odiava. Psico-analisi Questo capitolo è scritto sotto forma di diario che Zeno invia al dottor S., il quale dalla Svizzera chiede di inviare le sue considerazioni postume alla terapia. In questo capitolo il tempo della narrazione torna ad essere quello dello Zeno anziano che scrive al suo dottore e sono presenti anche le date (dal 3 maggio 1915 al 24 marzo 1916). Zeno ha attraversato l’esperienza della terapia psicoanalitica, rimanendone deluso e dichiarando che ora, in assenza dello psicoanalista, potrà parlare “sinceramente” della storia della sua cura (“Scriverà intanto sinceramente la storia della mia cura. Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro”) —> paradossalmente, in queste pagine Zeno appare come ancora meno attendibile perché si manifesta pienamente nella sua malattia, sebbene egli ritenga di essere completamente guarito, e anzi di non essere mai stato malato (con un sillogismo scorretto egli Italo Svevo 22 afferma che, se non è guarito, significa che non è mai stato malato, mentre invece in realtà questo significa che egli è tuttora malato). Zeno afferma di aver fornito allo psicanalista delle immagini falsate e sminuisce anche gli episodi che potevano apparire come i più significativi nella storia dello sviluppo della sua malattia. Inoltre, Zeno espone in modo caricaturale la dottrina del dottor S., che assomiglia grossolanamente al complesso di Edipo teorizzato da Freud. Lo psicoanalista, infatti, interpreta ogni azione di Zeno in quest’ottica (es. il vizio del fumo, la trascuratezza nel curare suo padre, il rapporto con il vecchio Malfenti e con Guido, ecc.). Osservando le date del diario, si nota come Zeno ha attraversato la prima guerra mondiale, che lo ha sorpreso mentre era in villeggiatura nella campagna di Lucinico, sul Carso, separandolo dalla famiglia a causa della linea del fronte, ma anche dall’amministratore Olivi. Zeno è quindi libero di darsi all’attività speculativa, che gli procura ingenti guadagni ed egli è così convinto di aver finalmente raggiunto la “salute”, non perché egli ha tratto guadagno mentre molti sono diventati miseri con la guerra, ma perché egli è “veramente” sano: è diventato abile nel commercio, ha raggiunto una posizione agiata, può ora dirsi inserito correttamente in un mondo borghese e ha raggiunto anche lo statuto della figura del padre —> secondo alcune interpretazioni, Zeno si sente completamente guarito perché ora egli è un malato perfettamente inserito in una società altrettanto malata. Zeno, comunque, nel raccontare del suo successo economico, sembra non rendersi minimamente conto di essersi arricchito sulle spalle di coloro che ha ridotto alla miseria. Zeno sostiene che il proprio terapeuta sia un “sognatore ipnagogico”, vale a dire che egli sogna e induce anche gli altri a sognare perché pretende di curare la malattia, invece di persuadere il paziente che egli è finalmente guarito. Secondo Zeno, in questo consiste la guarigione ed ora egli pensa alla sua malattia come se fosse un’illusione. Addirittura, egli sembra rileggere tutta la sua vita nell’ottica dei nuovi avvenimenti che hanno segnato il suo destino: egli dice che il dottore dovrà riconsegnarli il manoscritto in modo che lui possa riscriverlo alla luce dei nuovi avvenimenti e dice “forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso”. Zeno sembra beffarsi del terapeuta e lo scusa “di vedere nella vita stessa una malattia”: a questo punto introduce il concetto della vita come malattia. La vita e la mattia sono accumunate dallo stesso procedimento “per crisi e lisi”, vale a dire che prima ci sono dei momenti traumatici di crisi che vengono seguiti dalla cessazione lenta e graduale della febbre di una malattia (la lisi). Tuttavia, a differenza delle malattie, la vita conduce sempre irrimediabilmente alla morte. Questo accumunare la vita e la malattia sembra un tentativo di Zeno di rifugiarsi semplicemente nella constatazione del male di vivere, senza prendere davvero coscienza della propria malattia e quindi assumendo un atteggiamento fatalista che costituisce una resistenza all’analisi e al
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