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Analisi delle poesie di D'Annunzio, Saba, Corazzini, Pascoli ,Montale, Ungaretti, Gozzano, Dispense di Letteratura Italiana

Analisi del testo complete per preparazione esame di Letteratura Italiana (antologia delle poesie dei suddetti autori)

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 13/07/2018

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Scarica Analisi delle poesie di D'Annunzio, Saba, Corazzini, Pascoli ,Montale, Ungaretti, Gozzano e più Dispense in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Gabriele D’annunzio -La pioggia nel pineto Parafrasi 1. Taci. Sulle soglie 2. del bosco non sento 3. delle parole pronunciate 4. da esseri umani, ma sento 5. delle parole inusitate («più nuove»), 6. sussurrate da gocciole e foglie 7. lontane. 8. Ascolta. Piove 9. dalle nuvole sparse. 10. Piove sulle tamerici 11. salmastre e aride, 12. piove sui pini 13. dai tronchi a scaglie e dagli aghi pungenti, 14. piove sui mirti 15. divini, 16. sulle ginestre brillanti 17. di fiori raccolti a grappoli, 18. sui ginepri fitti 19. di bacche profumate, 20. piove sui nostri volti 21. silvestri, 22. piove sulle nostre mani 23. nude, 24. sui nostri vestiti 25. leggeri, 26. sui pensieri freschi 27. che l’anima rinnovata dall’amore fa nascere, 29. sui sogni e le illusioni («la favola bella») 30. che ieri 31. t’illusero, che oggi m’illudono, 32. o Ermione. 33. Senti? La pioggia cade 34. sulla solitaria 35. vegetazione 36. con uno scrosciare costante 37. che varia nell'aria 38. solo a seconda che le foglie 39. siano più o meno fitte. 40. Ascolta. Risponde 41. a questo pianto il canto 42. delle cicale 43. che né la pioggia portata dall’Austro, 44. impauriscono 45. né il cielo grigio. 46. E il pino 47. ha un suono, e il mirto 48. un altro suono, e il ginepro 49. un altro ancora, come strumenti 50. diversi 51. suonati da innumerevoli dita. 52. E immersi 53. siamo noi nell’anima 54. silvestre, 55. partecipi della vita del bosco; 56. e il tuo volto inebriato 57. è bagnato dalla pioggia 58. come una foglia, 117. silvestri, 118. piove sulle nostre mani 119. nude, 120. sui nostri vestiti 121. leggeri, 122. sui pensieri freschi 123. che l’anima fa nascere 124. rinnovata dall’amore, 125. sui sogni e le illusioni (la favola bella) 126. che ieri 127. m’illusero, che oggi t’illudono, 128. o Ermione. Figure Retoriche • Enjambements vv. 1-2; vv. 2-3; vv. 3-4; vv. 4-5; vv. 6-7; vv. 8-9; vv. 10-11; vv. 12-13; vv. 14-15; vv. 16-17; vv. 18-19; vv. 20-21; vv. 22-23; vv. 24-25; vv. 25-26; vv. 27-28; vv. 33-34; vv. 34-35; vv. 40-41; vv. 41-42; vv. 43-44; vv. 46-47; vv. 47-48; vv. 48-49; vv. 49-50; vv. 53-54; vv59-60; vv. 60-61; vv. 63-64; vv. 65-66; vv. 69-70; vv. 71-72; vv. 77-78; vv. 81-82; vv. 83-84; vv. 85-86, vv. 86-87; vv. 89-90; vv. 90-91; vv. 92-93; vv. 95-96; vv. 98-99; vv. 99-100; vv. 102-103; vv. 104-105; vv. 106-107; vv. 108-109;vv. 112-113; vv. 116-117; vv. 118-119; vv. 120-121; vv. 123-124; • Anaforevv. 8, 40, 65, 88: "Ascolta"; vv. 8, 10, 14, 20, 22, 95, 97, 116, 118: "piove"; • Apostrofiv. 1: "Taci [...]"; v. 8, 40, 65, 88: "Ascolta"; • Anticlimaxv. 76: "s'allenta, si spegne"; v. 79: "risorge, trema, si spegne"; • Epizeusiv. 65: "Ascolta, ascolta [...]"; vv. 94, 115: "chi sa dove, chi sa dove!"; • Personificazionev. 6: "che parlano gocciole e foglie lontane"; • Sineddochev. 81: "fronda" (sta per albero); • Similitudiniv. 58: "come una foglia"; vv. 60-61: "[...] come/ le chiare ginestre"; v. 104: "il cuor nel petto è come pèsca"; v. 107: "son come polle tra l'erbe"; v. 109: "son come mandorle acerbe"; • Onomatopeev. 11: "salmastre ed arse"; v. 16: "fulgenti"; v. 19: "coccole"; v. 36: "crepitìo"; v. 82: "crosciare"; v. 85: "croscio"; • Allitterazioni della "s": v. 11: "salmastre ed arse"; vv. 53-54: "noi siam nello spirto/ silvestre"; della "p": v. 12: "piove sui pini"; della "c": v. 45: "né il ciel cinerino"; della "v": v. 55: "d'arborea vita viventi"; della "r": v. 62: "o creatura terrestre"; della "m": v. 74: "dall'umida ombra remota"; della "v-r-d": v. 112: "e il verde vigor rude"; Commento La poesia La pioggia nel pineto viene composta dal poeta a cavallo fra il luglio e l'agosto del 1902, ed appartiene alla sezione centrale di Alcyone (il terzo libro delle Laudi, uscito alla fine del 1903, e composto dal poeta tra il 1899 e il 1903). La raccolta è costituita da una serie di liriche che rappresentano «un susseguirsi di laudi celebrative della natura – e soprattutto dell'estate, dal rigoglioso giugno al malinconico settembre – nella quale il poeta si immerge mirando a realizzare una fusione panica: a sprofondare e a confondersi con tutto – mare, alberi, luci, colori – in un sempre rinnovato processo di metamorfosi che si risolve in un ampliarsi della dimensione umana».1 Sono lodi che celebrano la natura osservata in una vacanza ideale, che inizia a fine primavera nelle colline di Fiesole e termina a settembre sulle coste della Versilia. Il poeta racconta in versi come avviene la fusione dell'uomo con la natura attraverso il superamento della limitata dimensione umana. La lirica più nota e più rappresentativa della raccolta è La pioggia nel pineto, leggendo la quale riusciamo a capire come l'uomo entri in simbiosi con la natura, sottoponendosi a un processo di naturalizzazione, e come la natura subisca a sua volta un processo di antropomorfizzazione. Il poeta e la sua compagna entrano in empatia con la natura e arrivano a condividerne la sua anima pineto colpisce, infatti, per il tema panico-metaforico, per la trasformazione vegetale del poeta e di Ermione. Il termine panismo deriva da Pan (dio greco della natura, per metà uomo e per metà caprone) e si riferisce all'identificazione dell'uomo con la natura, con la vita vegetale. Attraverso i versi 53-55, il poeta ci fa capire che la metamorfosi è ormai al suo culmine: E immersi noi siam nello spirto silvestre, d'arborea vita viventi (vv. 53-55). Il panismo dannunziano è peculiare, perché tende ad umanizzare la natura. Un altro tema molto importante della lirica è quello dell'amore, in quanto il poeta parlando della pioggia estiva refrigerante sottolinea come questa rigeneri non solo la natura, ma rinvigorisca anche l'anima dei due innamorati, i quali continuano ad abbandonarsi alla forza dei sentimenti e dell'amore, ma con la consapevolezza che si tratti soltanto di una favola bella (v. 29) che li ha illusi in passato e continua ad illuderli (vv. 29-32). Colpisce, inoltre, la musicalità che caratterizza l'intera lirica e che è ottenuta attraverso la frantumazione del verso e il ricorso alle rime interne e alle assonanze.C'è un vero e proprio studio del poeta, un virtuosismo basato anche sul principio della ripetizione, che provoca degli effetti ritmico-musicali particolarmente interessanti. Il poeta tende ad imitare i suoni della pioggia e a inventare delle vere e proprie melodie: le parole più nuove a cui fa riferimento il poeta al v. 5 sono anche le parole che creano una musicalità nuova. Per riuscire ad entrare in empatia con la natura il poeta trasforma le sue parole in musica, utilizzando un lessico piuttosto ricercato e musicale, dimostrando di aver fatto suoi gli insegnamenti dei Simbolisti francesi. MEMENTO AUDERE SEMPER Memento audere semper è una locuzione in lingua latina coniata dallo scrittore e poeta italiano Gabriele D'Annunzio. La locuzione significa Ricorda di osare sempre e può essere in qualche modo accostata – anche se in questo caso la funzione esortativa ad assumere dei rischi è decisamente più marcata – a un altro motto latino molto conosciuto: Audentes fortuna iuvat. Desumendola direttamente dall'acronimo MAS, il poeta intendeva rendere omaggio con tale frase allo strumento bellico denominato Motoscafo armato silurante – derivato dalla Motobarca Armata SVAN – in uso nella prima guerra mondiale e poi impiegato in maniera massiccia durante la seconda guerra mondiale. Lo stesso D'Annunzio – la cui residenza del Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera ospita tuttora un esemplare di MAS, il MAS 96 – aveva partecipato al battesimo di fuoco di questo mezzo da guerra, partecipando a quella che passò alla storia come la Beffa di Buccari. Come abbiamo già ricordato memento audere semper è uno dei più celebri motti d’annunziani, un grido di guerra che il poeta coniò in occasione della Beffa di Buccari, una memorabile impresa militare alla quale lui stesso prese parte. In realtà, per quell’impresa diversiva, un motto di guerra c’era già ed era stato coniato dal timoniere del motoscafo anti sommergibile (MAS, come l’acronimo a cui danno luogo le iniziali del motto memento audere semper) che veniva utilizzato nell’azione, era: “motus animat spes” Gabriele D’Annunzio ritenne l’espressione troppo poco energica, non abbastanza virile per un’impresa militare, per questo, all’ultimo momento lo cambiò in “memento audere semper” e lo fece incidere anche sulla tavoletta dietro la ruota del timone di quello stesso motoscafo, il MAS 96 (96, come il più famoso 69, è, tra l’altro, un ambigramma naturale) che attualmente è conservato nel Vittoriale degli Italiani, una casa-museo nei pressi di Gardone Riviera (Brescia), in cui lo stesso D’Annunzio visse per alcuni anni della sua vita. Non solo, il poeta, galvanizzato dall’esito dell’impresa, chiese all’illustratore e pittore Adolfo De Carolis un disegno (vedi l’immagine di copertina, sopra), raffigurante un braccio che emerge dai flutti e stringe una corona di quercia, con il quale arricchire quello • Metonimia “nido… / che pigola” (vv. 13-14); • Sineddoche “al tetto” (v. 5); • Sinestesia restò negli aperti occhi un grido” (v. 15); • Similitudine “come in croce” (v. 9); • Metafore “sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla” (vv. 3-4); “nido” (v.13); “di un pianto di stelle” (v. 23); “atomo opaco del Male” (v. 24); • Personificazione “E tu, Cielo” (v. 21); “Male” (v. 24); • Iperbole “di un pianto di stelle lo inondi…” (v. 23); “atomo” (v. 24); • Enjambements “tanto / di stelle” (vv. 1-2); “tende / quel verme” (vv. 9-10); “addita / le bambole” (vv. 19-20); “mondi / sereni” (vv. 21-22); “inondi / quest’atomo” (vv. 23-24). Commento Nella raccolta Myricae (parola latina, che significa “piccoli arbusti”, citazione virgiliana), Pascoli canta i motivi del mondo della natura, caricandoli di significati simbolici. Infatti, la sua poetica, detta “del fanciullino” (dal titolo di un saggio di poetica, da lui pubblicato nel 1897), consiste nel sapere trovare la poesia negli oggetti quotidiani, nella campagna e nella natura che ci circonda, osservandoli con lo stupore e la meraviglia di un bambino, che consentono di riscoprirne i lati segreti e la purezza originaria. Si tratta di componimenti generalmente brevi e lineari, che rappresentano quadretti di vita campestre che si caricano di significati misteriosi e spesso evocano l’idea della morte. È in quest’ottica che la celebrazione delle piccole cose e del “nido” si può leggere come un baluardo che il poeta erige contro le forze inquietanti e minacciose. Nello specifico, in X Agosto, ricchissima di simboli, Pascoli, come in molti altricomponimenti di Myricae, rievoca la tragedia dell’uccisione di suo padre, avvenuta il 10 agosto 1867, trent’anni prima della stesura della poesia. Il 10 agosto è, però, anche il giorno di San Lorenzo, quello in cui, secondo la tradizione popolare, si verifica il fenomeno delle stelle cadenti. Le stelle che cadono in quella notte, nell’immaginario pascoliano, rappresentano il pianto del cielo sulla malvagità degli uomini: quest’immagine rende l’idea di un cosmo profondamente umanizzato. Prendendo le mosse dalla propria tragica vicenda personale, il poeta affronta igrandi temi del male e del dolore: gli elementi familiari e biografici vengono trasposti su un piano universale e cosmico. Così, la rondine e il padre uccisi, posti in evidente parallelismo (ritornava una rondine al tetto, v. 5 – anche un uomo tornava al suo nido, v. 13; “l’uccisero: cadde tra spini”, v. 6 -“l’uccisero: disse: Perdono”, v. 14; “ella aveva nel becco un insetto”, v. 7 – “portava due bambole in dono”, v. 16; “tende / quel verme a quel cielo lontano”, vv. 9-10 – “addita / le bambole al cielo lontano”, v. 20), diventano il simbolo di tutti gli innocenti perseguitati ed alludono scopertamente alla figura di Cristo, la vittima per eccellenza, che perdona i suoi carnefici sulla croce, richiamata già nel titolo, con il numero romano X. La rondine che stava tornando al suo nido portando un verme per i suoi piccoli, è stata uccisa durante il tragitto e li ha lasciati soli ed affamati; allo stesso modo, il padre del poeta viene ucciso mentre sta tornando a casa, il “nido” chiuso e protetto, portando due bambole in dono alle figlie, che ora lo aspettano vanamente, proprio come i piccoli della rondine aspettano la madre, ormai affamati e morenti. L’unica differenza tra la rondine e il padre in punto di morte sta nella parola “perdono” pronunciata dall’uomo. La struttura del componimento è circolare (Ringcomposition), poiché esso si apre e si chiude con l’immagine del cielo inondato di stelle cadenti, simboli del dolore (vocativo “San Lorenzo”, v. 1 – vocativo “E tu, Cielo”, v. 21; “aria tranquilla”, v. 2 - “mondi / sereni”, vv. 21-22; “sì gran pianto”, v. 3 – “pianto di stelle”, v. 23). Il Cielo, ossia Dio, è sentito come lontano, distante, indifferente, separato dal mondo, capace solo di guardarlo dall’alto e di “piangere” sulle miserie umane, ma non di lenirne in nessun modo le sofferenze. Il male, personificato, è incomprensibile per l’uomo, che si sente sempre in balia di un insondabile destino. La Terra, nell’economia dell’universo, al cospetto dell’immensità del Cielo, non è altro che un “atomo opaco”, un • Metafore “un'ape tardiva sussurra” (v. 13); “aia azzurra” (v. 15); “urna” (v. 23); • Similitudine “come gli occhi sotto le ciglia” (v. 8); • Onomatopea “bisbiglia” (v. 6); “sussurra” (v. 13); “pigolio” (v. 16); • Antitesi “Da un pezzo si tacquero i gridi / là sola una casa bisbiglia” (vv. 5-6); • Personificazione “una casa bisbiglia” (v. 6); “un’ape tardiva sussurra” (v. 13); • Reticenza “s’è spento…” (v. 20); • Analogia “la Chioccetta per l’aia azzurra / va col suo pigolio di stelle” (vv. 15-16); “si cova, / dentro l’urna molle e segreta / non so che felicità nuova” (vv. 22-24); “petali / un poco gualciti” (vv. 21-22). Commento I Canti di Castelvecchio si propongono di continuare il programma poetico iniziatocon la precedente raccolta Myricae: alle immagini quotidiane della vita di campagna, si alternano continuamente i temi della tragedia famigliare e delle ossessioni segrete del poeta, come l’eros e la morte. La collocazione delle liriche all’interno della raccolta è attentamente studiata secondo un ordine che segue quello delle stagioni. La poesia Il gelsomino notturno, a prima vista, potrebbe apparire una descrizione impressionistica e vivida di un paesaggio notturno, in cui si alternano immagini naturali e umane, colte attraverso diversi tipi di sensazioni intrecciate: la lirica comincia e si conclude con l'immagine dei «fiori notturni», i gelsomini, pertanto presenta un sorta di circolarità e unitarietà tematica che, a livello puramente denotativo, consiste nella narrazione di ciò che avviene durante una notte. Occorre, tuttavia, specificare che è dedicata alle nozze dell’amico Gabriele Briganti: come Pascoli stesso esplicita in una nota, essa rievoca allusivamente, solo per analogia, la prima notte di nozze in cui è stato concepito un figlio. Già la “e” iniziale pare alludere a qualcosa che viene prima e non viene esplicitato, allusivo, segreto. Allora, i riferimenti alla casa che “bisbiglia” col lume ancora acceso andranno letti come una velata allusione alla fecondazione che lì sta avvenendo, simile a quello che si verifica all’interno del fiore; il colore rosso e il profumo che si esala per tutta la notte assumono una forte carica sensuale, diventando una sorta di invito all’amore. Il fiore che si apre al calar delle tenebre e all’alba racchiude dentro di sé il segreto della fecondazione è un chiaro simbolo sessuale, mentre, ad esempio, i “petali un poco gualciti” alludono alla perdita della verginità. Ma l’inno di Pascoli non è un gioioso epitalamio: il poeta è escluso dalla gioia della fecondazione, può solo vagheggiarla da fuori e da lontano (pur cogliendone ogni minima sensazione, anche quelle impercettibili), ma ne resta del tutto escluso, come “l’ape tardiva” resta fuori dalla sua celletta. In questa chiave vanno lette le immagini di morte, che costantemente si alternano a quelle amorose (“i miei cari”, “le fosse”, “l’urna”) e i frequenti riferimenti al “nido” (le “ali”, le “celle”, la “Chioccetta”, il “pigolio di stelle”), il luogo simbolico e rifugio protettivo in cui si racchiudono gli affetti famigliari del poeta: la tragedia famigliare ha distrutto il nido, impedendogli ogni legame che non sia quello con i cari defunti che continuano a vivere come lugubri presenze. Uscire dal “nido” e partecipare appieno alla vita, per il poeta, significherebbe tradire un vincolo sentito come sacro. L’amore e la morte si legano in un cerchio indissolubile: le immagini di morte nascondono il segreto della vita: ogni elemento si può, infatti, associare a diverse aree semantiche fra loro opposte: luce vs oscurità; rumore vs silenzio; riparo vs esclusione; tali opposizioni, poi, si ricollegano tutte all'antitesi vita vs morte. Il sereno quadro notturno, dunque, è percorso da intime tensioni, per comprendere le quali occorre penetrare in profondità nella psicologia del poeta. Il generale senso di mistero è accentuato dal valore polisemico e metaforico di termini come “urna” (il recipiente che contiene le ceneri dei morti, ma anche l’ovario del fiore, dove nasce nuova vita) e dall’indeterminatezza spazio- temporale. Il testo si presenta come una serie di immagini apparentemente slegate, collegate solo per analogia, sparse senza un preciso ordine: a fornire tale Tornando alla poesia in questione, essa è un esempio lampante dell'impressionismo e del simbolismo che caratterizzano tutte le poesie della raccolta e rivela - per questo aspetto ma anche per altri di tipo contenutistico e stilistico - una grande vicinanza alla poesia Temporale. Come ha scritto Barberi Squarotti, quello di Pascoli è un narrare per allusioni, riprese (che sono spesso puramente foniche), analogie verbali, catene di ripetizioni in trama: dove il nucleo del discorso non è mai esplicito interamente, ma la parola vi gira intorno, senza mai affrontarlo e chiarirlo appieno, lasciando un margine più o meno vasto d'ombra (di suggerito, di alluso, in modo da rinviare sempre a qualcosa che è oltre la parola stessa): i riferimenti verbali, le ripetizioni, gli accostamenti fra parole e rime, o assonanze, le improvvise illuminazioni o le dichiarazioni di esistenza di oggetti disparati, i vertiginosi salti di prospettiva da oggetto a oggetto, dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande e viceversa, compongono una trama segreta, allusiva, che rimanda sempre a qualcosa prima e a qualcosa dopo il detto, dando il senso di una vicenda simbolica che non conosce soste né arresti né soluzioni di continuità1 . Il lampo, come si evince dal carteggio stesso del poeta, scaturisce dalla riflessioni fatte da Pascoli ripensando con dolore all'uccisione e alla morte del padre: «I pensieri che tu, o padre mio benedetto, facesti in quel momento, in quel batter d'ala [...]. Quale intensità di passione! Come un lampo in una notte buia buia: dura un attimo e ti rivela tutto un cielo pezzato, lastricato, squarciato, affannato, tragico; una terra irta piena d'alberi neri che si inchinano e si svincolano, e case e croci.»2 Sin dall'inizio del componimento emerge una realtà di dolore e tormento, in quanto l'e iniziale sembra evocare un passato di sofferenza e il lampo, che illumina improvvisamente tutto quanto, permette di vedere il cielo e la terra non come elementi naturali inerti, ma per quello che sono realmente. Il lampo che squarcia la notte e mette in evidenza la realtà desolante è una metafora della labilità della vita, oltre ad essere il simbolo della violenza e della durezza del mondo, dalla quale si cerca di scappare rifugiandosi nel nido e negli affetti della propria famiglia. Colpisce, a tal proposito, l'antitesi che viene a crearsi fra la notte scura e tempestosa (come la vita) e il bianco della casa in cui potersi rifugiare (il nido). È densa di significato anche la similitudine che accosta l'apparizione fulminea della casa ad un occhio che si apre e si chiude improvvisamente. L'occhio in questione è quello del padre del poeta, che lancia il suo ultimo sguardo da morente prima che si consumi l'immane tragedia. IL TUONO Parafrasi affiancata 1 E nella notte oscura come il nulla, 2 all’improvviso, con il fracasso di un enorme masso 3 che frana, il tuono rintronò con forza 4 facendo eco, risuonando e rotolando minaccioso, 5 poi fece silenzio, e poi gorgogliò come la risacca marina, 6 infine svanì. Allora il canto leggero 7 di una madre si sentì, e il dondolìo di una culla. Figure Retoriche • Allitterazione "n": v. 1: "nella notte nera come il nulla"; "r", "f", "t", "o": vv. 2-3-4-5: "a un tratto, col fragor d’arduo dirupo/ che frana, il tuono rimbombò di schianto,/ rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,/ e tacque, e poi rimareggiò rifranto"; "a": v. 6: "e poi vanì. Soave allora un canto"; • Anadiplosi vv. 3-4: "rimbombò[...]/ rimbombò"; • Asindeto v. 4: "rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo"; costituita dall’asindeto allitterante "rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo" (v. 4). Successivamente, con il polisindeto "e tacque, e poi rimareggiò rifranto,/ e poi vanì. [...]" (vv. 5-6), chiuso dalla cesura, si ha un rallentamento graduale dell’andatura, a indicare il riverbero sonoro del boato, prima della ripresa finale del ritmo regolare che era stato proprio del primo verso. Attraverso tale costruzione ritmica, il poeta vuole descrivere in forma sonora lo scatenarsi dello spaventoso fenomeno atmosferico che rompe la misteriosa quiete notturna. Nel finale compare il tema pascoliano per eccellenza, l’immagine del nido distrutto da un evento improvviso e immotivato, metafora autobiografica che l’autore sviluppa pienamente in X Agosto. La madre che consola il piccolo, il padre assente, sono figure costanti della lirica pascoliana, ne percorrono l’intera produzione. In questo caso, è con la sequenza delle tre ballate Temporale, Il lampo, Il tuono che si evoca simbolicamente il misterioso assassinio di Ruggiero Pascoli, padre di Giovanni, che fu per la famiglia propriamente un fulmine a ciel sereno: una morte alla base della tragica vicenda biografica del poeta, segnata dalla disgrazia economica e politica e dalla perdita successiva di madre e fratelli. L’utilizzo di artifici mimetici a carattere descrittivo per rimandare a tematiche autobiografiche interpretate in chiave universalistica avvicina Pascoli al Simbolismo francese di Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e soprattutto, per lo sperimentalismo grafico e formale, di Mallarmé. Dal punto di vista tematico, la descrizione di una natura spaventosa e onnipotente è vicina alla poetica leopardiana, di cui Pascoli fu ammiratore, ma anche critico. Tuttavia, la chiave interpretativa corretta del fenomeno naturale resta quella simbolica: quel mondo oscuro e maligno di cui Pascoli ci parla, non sta in una Natura matrigna, ma nella volontà (auto)distruttrice dello stesso essere umano. Questa visione antiumanistica e tragica delle cose inserisce a pieno titolo il poeta nella sensibilità propria del Decadentismo e prelude agli avvenimenti storici disastrosi in cui il mondo sprofonderà nella prima metà del Novecento. CARAZZINI DESOLAZIONE DEL POVERO POETA SENTIMENTALE : Corazzini si rivolge a un immaginario interlocutore e in primo luogo a se stesso: il tono sommesso, con riferimenti religiosi e immagini mistiche, lascia emergere dolore, malinconia, rimpianto, autoconsunzione. Sembra quasi che, abbandonato ogni tipo di spiritualismo di maniera, il poeta si lasci per così dire morire in comunione silenziosa e intima con Dio (la morte di Corazzini, tra l’altro, avverrà di lì a pochi mesi). Lo sviluppo tematico Prima strofa Corazzini proclama l’impossibilità di essere detto poeta, nel senso tradizionale del termine: la sua condizione esistenziale è quella di un fanciullo che piange e offre le proprie lacrime al Silenzio, presagio di morte e divinità in cui rifugiarsi, lontano dalle lotte rumorose della vita. Seconda strofa Il poeta afferma che la propria vita è fatta di povere tristezze comuni e di gioie tanto semplici da farlo arrossire nel confessarle. Egli pensa alla morte. Terza strofa Egli trema d’angoscia davanti alla realtà e invoca la morte, perché stanco di vivere: accetta passivamente ogni cosa e si sente come uno specchio che riflette la triste esistenza dell’uomo. Quarta strofa Il poeta sottolinea l’incapacità di comunicare certezze e messaggi definitivi: egli potrebbe dire solo parole inutili e prive di significato. Così facendo, si sentirebbe triste, come se stesse per morire: le sue lacrime sono come le perle di un rosario. Quinta strofa Il poeta afferma che ogni giorno fa la comunione non con il corpo di Cristo, ma con il silenzio, nel quale percepisce la presenza di Dio: le lotte della vita lo hanno portato alla scoperta di Dio. ANALISI La carta non è più un semplice supporto scrittorio, la penna non è un banale strumento. Questi oggetti si trasformano, si animano, si tingono di rosso. Il rosso non è un colore, ma un simbolo chiaro, evidente, manifesto di ciò che si origina nel cuore. La passione è la molla che spinge a fare sempre di più, a fare meglio. Il sentimento diventa qui sinonimo di vita. La passione è conditio sine qua non tutta l’esistenza perde di senso. Il poeta è consapevole che la sua vita si è appesa al fil rouge della passione. L’intuizione che essa un giorno svanirà, è certezza di morte. Questa poesia non riporta soltanto le percezioni dell’anima straordinaria che l’ha composta, al contrario il suo messaggio è universale e più che mai attuale. Il vuoto che imperversa nella nostra epoca, troppo attaccata all’esteriore e alla spietata ambizione personale, è un vuoto di passione. Spesso siamo, infatti, lontani dal considerare quale sia la ragione per cui svolgiamo le nostre attività. La competizione malsana che si insinua in ogni ambito della società odierna aliena gli stati d’animo, gli istinti, la passione. Eppure l’elemento che fa la differenza è proprio l’ardore che rimane sotteso in tutto ciò che viviamo. Pochi versi del Corazzini sanno dirci così tanto, sono un monito per le nostre esistenze spente, alla ricerca di chissà cosa. Solo la luce della passione può combattere la precarietà del presente, può farci scoprire la chiave di volta che insistentemente tentiamo di trovare. FIGURE RETORICHE Ejambemant: “rossa macchia…..dove io….s’arrossa sempre..lo so che…. Avrà uno schianto.” Metafore: rossa macchia Anafore: “ e la penna…e la carta” Allitterazione: “s’arrossa sempre” GOZZANO SALVEZZA ANALISI Quando scrive ‘Salvezza’, che fa parte della raccolta Colloqui, Guido Gozzano ha 27 anni, ma si sente già vecchio. Come dargli torto. L’incombere dei trent’anni lo porta a considerare l’ineluttabilità della fine della giovinezza che lui, giovane poeta tormentato, forse non ha mai conosciuto. E’ questo sentimento di perdita di qualcosa che forse non si ha mai posseduto, che lo porta a scrivere versi difficili e tristi, ma pieni della certezza che il sonno gli restituirà quel riso mattutino, quell’infanzia fantastica, che lui (ri)cercherà durante tutta la sua breve vita. AD UN’ IGNOTA ANALISI In questo testo lirico, il poeta tutto ignora delle fattezze fisiche della figura femminile; sa solo che vive in silenzio e ama leggere i suoi versi. E con quel distacco che è possibile solo di fronte alle cose alle quali si è rinunciato, le rivolge l’epiteto di “sorella”,”amica”. E proprio lei, più di qualsiasi altra donna realmente conosciuta e amata, gli è cara. Perché supremo è il bene che non giunge mai. L’amore è sempre altrove rispetto al mondo in cui il poeta vive» rilevava opportunamente Bàrberi Squarotti. Quello che Gozzano prova per le numerose donne che trascorrono nei suoi versi Un Io, quello del poeta, chiamato a confrontarsi in maniera diretta con la morte del compagno. Un’immagine forte rimarcata dall’ossessiva scansione ritmica conferita dalla ripetizione della doppia “t”, che ci trasporta verso il fulcro retorico dell’intero componimento. Dal verso 8 fino al verso 11, infatti, ha inizio una metafora straziante, in cui la corporalità del compagno morto “penetra” nell’interiorità del poeta. Ma quest’esperienza angosciante sfocia, per un paradosso simile a quello che caratterizza il titolo dell’intera raccolta, in un contrario pensiero vitale. Il ritmo più lento dall’accentazione dilatata che ha inizio dal verso 11, ci trasporta sul finale delle “lettere piene d’amore” e dell’attaccamento alla vita che solo il dolore più estremo, come la visione d’un morto ucciso nella realtà di guerra, può suscitare. Non meno importante, anzi, elemento essenziale quando si prende in esame L’Allegria di Ungaretti, è la novità linguistica e metrica. Una lingua, quella usata da Ungaretti, che chiude i contatti con le modalità della grande tradizione letteraria italiana (fatta d’una poesia di ampio respiro che predilige versi come l’endecasillabo e il settenario) per divenire sincopata, essenziale, andando alla ricerca continua della parola scavata ed esatta. La lingua di Ungaretti si adatta alla situazione di guerra ed al nuovo secolo alla ricerca di nuovi linguaggi. Oltre alla brevità dei componimenti (fino al caso limite di Mattina di soli due versi), si nota dunque, anche a livello del singolo verso, una forte contrazione. Non a caso, il modello poetico di Ungaretti finì più di tutti per influenzare quella «corrente più o meno definita del gusto che, sbocciata sul terreno culturale delle riviste fiorentine, da Solaria a Campo di Marte, prese il nome di “ermetismo”»1. Tornando alla poesia Veglia, si notino, a questo proposito, i brevissimi versi costituiti dai soli participi passati: “massacrato”, “digrignata”, “penetrata”. Parole dalla fortissima intensità semantica a cui viene lasciato enorme spazio e visibilità. • 1. NATALINO SAPEGNO, Compendio di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1975 • Grandi modelli della poesia d’Ungaretti, in particolare per quanto riguarda la raccolta L’Allegria, sono i poeti simbolisti francesi, di cui Ungaretti era solito citare su tutti Mallarmé SONO UNA CREATURA Parafrasi affiancata Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916 1. Come questa pietra 2. del San Michele 3. così fredda 4. così dura 5. così arida 6. così insensibile 7. così totalmente 8. priva di vita 9. Come questa pietra 10. è il mio pianto 11. che non si manifesta all'esterno 12. La morte 13. si sconta 14. già durante la vita Figure Retoriche • Similitudine “Come questa pietra…è il mio pianto” (vv. 1-9); • Assonananze “pietra-fredda”; “prosciugata- refrattaria-disanimata”; “Michele-totalmente”; • Allitterazioni del gruppo di consonanti “s”, “t” ed “r”: “questa pietra; prosciugata refrattaria” disaminata; della “p”: “pietra / pianto” • Epanalessi “Come questa pietra”(v. 1 e 9); • Anafora “così…così”(vv. 3-7); • Anastrofe “come questa pietra / è il mio pianto” (vv. 9-10); • Ossimoro “la morte si sconta vivendo” (vv. 12-14); morte si identifichino e il gerundio “vivendo” ne rovescia il rapporto tradizionale, poiché sottolinea la durata nel tempo di una condizione di morte di per sé momentanea: in tal modo, la morte è vista al passato e risulta quasi meno dolorosa della vita stessa. MATTINA Figure Retoriche Il componimento si fonda su una sinestesia Commento Mattina viene composta da Ungaretti il 26 gennaio 1917 ed entra a far parte della sezione Naufragi dell'opera L'Allegria (che esce nell'edizione definitiva il 1931).Il componimento è sicuramente uno dei più famosi dell'intera raccolta in virtù della sua forte natura sincopata che è la caratteristica fortemente innovativa di tutta L'Allegria. L'innovazione metrica e linguistica di Ungaretti è qui nell'esempio più evidente, il quale ci appare come un caso limite. Due versi di breve respiro che offrono al lettore, al di là dell'interpretazione tematica del testo, l'esempio più lampante della nuova lingua del poeta. Una lingua fortemente sincopata che si riduce all'essenziale, al frammento della parola scavata ed esatta. La metrica di Ungaretti chiude dunque, perlomeno nella raccolta L'Allegria, con le forme tradizionali della letteratura italiana, che faceva un maggior utilizzo di versi più ampi come l'endecasillabo e il settenario, e si adatta alla situazione di guerra ed al nuovo secolo alla ricerca di nuove cifre espressive. La poesia Mattina tutta, si fonda, a livello retorico, su una sinestesia, e la sua peculiare brevità non può che produrre una forte enigmaticità, da cui derivano necessariamente diverse interpretazioni. Prima di riportarne una autorevole, possiamo limitarci ad osservare il carattere epifanico di Mattina. Nel sole che sorge sulle trincee cogliendo i soldati al fronte, infatti, possiamo vedere un messaggio di vita, un'improvvisa epifania. SOLDATI Parafrasi affiancata Bosco di Courton, luglio 1918 1. Si sta (=i soldati stanno) come 2. in autunno 3. sugli alberi 4. le foglie Figure Retoriche • Analogia vv. 1-2-3-4: Si sta come/ d'autunno/ sugli alberi/ le foglie. • Enjambements vv. 1-2: Si sta come/ d'autunno. • Similitudine vv. 1-2-3-4: Si sta come/ d'autunno/ sugli alberi/ le foglie. Commento La guerra nel Carso è fonte di grande ispirazione per Ungaretti, il quale scrive in trincea diverse poesie, prima apparse sulla rivista «Lacerba» nel 1915 e poi pubblicate, nel dicembre 1916, nella raccolta Il porto sepolto: il diario dal fronte. A queste poesie se ne aggiungono altre, confluite prima nella raccolta Allegria di naufragi del 1919, poi nell'edizione dell'Allegria del 1931 e, con altre varianti, in quella definitiva del 1942. Il titolo Il porto sepolto nasce da un ricordo dell'infanzia del poeta vissuta ad Alessandra d'Egitto: la notizia di un «porto sommerso» in fondo al mare dalla sabbia del deserto, di un'era anteriore alla fondazione della città e di cui si è persa la memoria. Un porto sepolto che è anche, in qualche modo, simbolo del mistero dell'esistenza. La vita, infatti, è un mistero così difficile da decodificare che, anche in mezzo alla morte e alla distruzione portata dalla guerra può nascere un'illogica vigoria, dalla quale deriva il titolo definitivo Allegria. Nonostante la maggior parte delle liriche contenute nella raccolta facciano riferimento alla guerra e alla morte, il titolo Allegria è giustificato, dunque, dal fatto che il sentimento d'allegria scaturisce nell'attimo in cui l'uomo acquisisce la consapevolezza di essere riuscito a scampare alla morte. dunque, al lettore la tragedia della guerra e la precarietà della stessa condizione umana. Umberto Saba Parafrasi 1. Neve che turbini in mulinelli ed avvolgi 2. tutte le cose in un mantello silenzioso, 3 – 4. vedo mia moglie (una creatura votata al pianto come tutti gli esseri umani) sorridere per te; (vedo) 5. un'allegria improvvisa che illumina il suo viso triste 6.ed è come se i miei occhi avessero scoperto un tesoro. 7. Neve che cadi dall'alto e ci ricopri (con il tuo manto) 8. ricoprici ancora, all'infinito. Imbianca 9. le case e le chiese della città, 10. le navi del porto; rendi gelide le superfici 11. dei prati e dei mari; 12 – 14. tu che sei di buon augurio e pura, fai della terra un astro spento e donale una gran pace con la morte. E fa' che essa rimanga in questo stato per sempre, 15. o almeno per un lunghissimo periodo (per un lungo trascorrere di secoli). 16 – 17. Immagina come sarebbe il risveglio: solo noi due in mezzo a tanta desolazione. In cielo 18 – 20. si risveglierebbero gli angeli con le trombe, nel cuore profonde e laceranti nostalgie, vaghi ricordi, così da piangere per tanto amore. Figure Retoriche Anafora vv. 1, 6: “Neve”; Personificazione vv. 1, 6: “Neve” ; Allitterazioni v.1: Neve che turbini in alto ed avvolgi ; v.9: la città con le case e con le chiese i; v.15: un lungo volger d'evi. Il risveglio; v.18: gli angeli con le trombe, in cuore acute; v.19: dilaceranti nostalgie, ridesti; Enjambements vv. 1-2; 3-4; 4-5; 8-9; 10-11; 11-12; 13-14; 16-17; 17-18; 18-19; 19-20; Similitudine v.6: “agli occhi miei come un tesoro scopri”; Metafore v.2:”tacito manto”= la neve che ricopre tutte le cose è come un mantello silenzioso; v.3: “una creatura di pianto”= un essere umano, per sua natura votato al pianto: in questo caso si tratta della moglie del poeta; v.12: “un astro spento” riferito alla terra che sembra riposare sotto la coltre di neve; Sinestesia v.2: “tacito manto”= il mantello (elemento visivo) è silenzioso (elemento sonoro); Chiasmo vv. 7-8: “noi copri,/ coprici” il pronome personale in funzione di oggetto è prima anteposto, poi posposto come clitico; Epanalessi vv.15-16: “Il risveglio, pensa il risveglio”; Anastrofi vv. 13-14: ”tale/ essa rimanga”; Iperbati vv. 3-4: “una creatura di pianto/ vedo per te sorridere”; vv. 11-12: “della terra/ fa' - tu augusta e pudica - un astro spento”; Rime vv. 2-3: “manto”-”pianto”; vv.6-7: “scopri”-”copri”; vv.9-10: “chiese”-”distese” Assonanze vv. 1-6: “avvolgi”- “scopri”; vv. 14-16: “indeterminato”- “in tanto”. Commento Neve è un testo poetico contenuto nella sezione Parole del Canzoniere di Saba. La raccolta Parole suo amore per la vita, fra la nostalgia di ciò che non è più e la riemersione di sentimenti autentici, quelli occultati dall'infermità della nevrosi ma naturalmente inclini alla rinascita. Chiudiamo la nostra analisi del testo di Neve con la verifica degli aspetti linguistici e stilistici. Neve risulta coerente con le scelte adoperate da Saba nella raccolta Parole: non muta il sostanziale monolinguismo del poeta, che persegue un ideale di chiarezza e comunicatività attraverso l'utilizzo di forme metriche tradizionali, così come nella sintassi e nel lessico. Quest'ultimo viene però selezionato ulteriormente rispetto a raccolte precedenti, infatti il poeta sceglie di ridurre il vocabolario al minimo indispensabile e quotidiano per rafforzare il tono epigrammatico-aforistico; la brevitas di Saba diviene così il tramite di un particolare tipo di realismo psicologico, che si propone di ricomporre i traumi della psiche attraverso una parola intima e sincera. Ulisse Parafrasi affiancata 1. Nella mia giovinezza ho navigato 2-3. lungo le coste dalmate. Emergevano isolotti dalla superficie delle onde, dove di rado 4. si fermava un uccello in attesa di pesci da predare, 5-6. ed erano (gli isolotti) ricoperti di alghe, scivolosi, brillanti al sole per il loro verde smeraldo. Quando l’alta 7–8. marea sopraggiungeva e la notte li sottraeva alla vista, le vele si piegavano dalla parte opposta rispetto al vento conducendo le barche verso il largo 9–10. per evitare il pericolo di schiantarsi. Oggi il mio regno è quello spazio incontaminato. Il porto 11–13. offre ad altri le sue luci rassicuranti; quanto a me, il mio spirito indomabile e il mio appassionato amore per la vita mi portano ancora al largo (alla scoperta di orizzonti nuovi). Figure Retoriche Allitterazioni v. 1: Nella mia giovinezza ho navigato ; v.2: lungo le coste dalmate. Isolotti; v.5: coperti d’alghe, scivolosi al sole; v.7: marea e la notte li annullava; v.8: sottovento sbandavano più al largo; v.12: sospinge ancora il non domato spirito, v.13: e della vita il doloroso amore; Enjambements vv. 1-2; 2-3; 3-4; 5-6; 6-7; 7-8; 9-10; 10-11; 11-12; Similitudine v.6: “belli come smeraldi”; Iperbole v. 7: “li annullava” per intendere che li sottraeva alla vista; Sineddoche v. 7: “vele” (una parte) al posto di “barche” (l’intero oggetto); Anastrofi vv. 3-4: ”raro/ un uccello sostava”; vv. 5-6: “al sole/ belli”; Iperbati v .2-3:“Isolotti/ a fior d’onda emergevano”; vv. 11-12: “me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito”; vv.13: “e della vita il doloroso amore”; Epifora vv. 8, 11: “largo”; La poesia è attraversata da diverse allegorie. Il viaggio di Ulisse nel suo complesso rappresenta la vita del poeta, sempre alla ricerca di esperienze nuove e avvincenti. Commento Ulisse è il testo poetico che chiude la sezione Mediterranee del Canzoniere di Saba. Il poeta scrive i testi di Mediterranee mentre osserva da lontano la sua Trieste sconvolta dai disordini postbellici (si trova infatti a Roma). Le tematiche principali della sezione sono pertanto, da una parte, un profondo senso di lontananza dal luogo che ha rappresentato per Saba l’origine della vita e della propria scrittura; dall’altra, un’attenta meditazione sul tempo, il tempo della storia e il tempo dell’uomo. Lo sguardo dell’autore è infatti ottenuto anche grazie al susseguirsi in catena degli enjambements. Tra le figure retoriche frequenti anche le inversioni dell’ordine sintattico consueto, attraverso l’utilizzo diffuso di anastrofi e iperbati. Le rime sono solitamente “nascoste”: talvolta in forma di assonanza (ad es. “navigato”-”raro”), altre volte interne (“scivolosi, al sole”), o molto distanziate come la rima identica “largo”-”largo” ai versi 8 e 11. Montale A mia madre Parafrasi affiancata 1. Adesso che il canto delle coturnici [= le coturnici sono uccelli simili ai fagiani che migrano in autunno; la madre del poeta era morta nel mese di novembre] 2. allieta il tuo sonno eterno, 3. volando a schiera sopra la tua tomba, diretta verso le pendici 4. vendemmiate del Mesco, adesso che la guerra 5. fra gli uomini infuria maggiormente [= si riferisce alla Seconda Guerra Mondiale], se cedi il tuo corpo 6. come se fosse un’ombra 7. (e non è un’ombra, 8. o gentile, non è ciò che tu credi) 9. chi ti proteggerà? La strada vuota 10. non è una via che ci guida in qualche luogo [= secondo il poeta la fede in una vita ultraterrena non è veritiera], solo due mani, un volto, 11. quelle mani, quel volto, il gesto di una 12. vita che non è un’altra ma se stessa, 13. solo questo ti distingue nel mio ricordo 14. dall’immagine di altre anime e voci nelle quali vivi. 15. E anche la domanda che tu mi lasci [= la domanda che la madre lascia al poeta è di non curarsi del corpo ma dell’anima] è anch’essa 16. tipicamente tua, ti distingue dalle altre persone morte. Figure Retoriche Enjambement vv. 1-2: “Ora che il coro delle coturnici/ ti blandisce nel sonno eterno”; vv. 3-4: “felice schiera in fuga verso i clivi/ vendemmiati”; vv. 4-5: “or che la lotta/ dei viventi più infuria”; vv. 9-10: “La strada sgombra/ non è una via”; vv. 11-12: “il gesto di una/ vita che non è un’altra ma se stessa”; vv. 13-14: “solo questo ti pone nell’esilio/ folto”; vv. 15-16: “e la domanda che tu lasci è anch’essa/ un gesto tuo”; Allitterazionev. 1: della “r” e della “c”: “Ora che il coro delle coturnici; Similitudine v. 6: “come un’ombra la spoglia”; Apostrofe v. 8: “o gentile”; Ripetizione v. 11: “quelle”, “quel”. Commento La bufera e altro raccoglie le poesie scritte tra il 1940 e il 1954 che raccontano l'orrore del secondo conflitto mondiale e la barbarie del nazifascismo. Si tratta di una raccolta varia per tempi di composizione e temi e comprende una sessantina di poesie ripartite in sette sezioni. La bufera, come ci rivela lo stesso Montale in una lettera del 29 novembre 1965 all’amico Silvio Guarnieri, è la guerra, «in ispecie quella guerra dopo quella dittatura; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti». Il poeta ritiene che questa raccolta 1. Spesso ho incontrato il male di vivere [= il dolore dell'esistenza]: 2. era il ruscello che gorgoglia, impedito nel suo fluire da un ostacolo; 3. era l'incartocciarsi della foglia 1. 4. inaridita [= la foglia, bruciata dal caldo, si accartoccia su se stessa]; era il cavallo stramazzato [= caduto a terra per la fatica]. 5. Non conobbi altro bene all'infuori del miracolo 6. che l'indifferenza fa schiudere [= fa nascere]: 7. [la divina indifferenza] si manifesta nella statua nell'ora sonnolente 8. del mezzogiorno, nella nuvola e nel falco che vola lontano. Figure Retoriche Anafora vv. 2-3-4-6-7 "era" Allitterazione vv. 2-3-4 "era il rivo strozzato che gorgòglia,/era l'incartocciarsi della foglia/riarsa, era il cavallo stramazzato" v. 8 "...e il falco alto levato" Enjambement vv. 3-4; vv. 5-6; vv.7-8 Si segnala la tecnica del correlativo oggettivo che genera, a livello retorico, le metafore introdotte da "era" Commento Spesso il male di vivere ho incontrato è una delle più alte poesie della raccolta Ossi di seppia presente nella sezione eponima. Già partendo dal titolo dell'intera raccolta e della particolare sezione in cui risiede la poesia, è possibile segnalare alcune caratteristiche fondanti di tutta l'opera. La poesia di Ossi di seppia è una poesia che, come l'osso di seppia, si lima, si fa «scabra ed essenziale», riduce le pretese eroiche e celebrative dei "poeti laureati" (in particolare Gabriele d'Annunzio, come si legge nei I limoni), per avvicinarsi alla quotidianità, alla concretezza delle cose e spostandosi verso l'uso di toni ironici e colloquiali desunti in parte dal crepuscolare Guido Gozzano. D'altro canto però, non manca da parte di Montale il recupero di forme colte e preziose (non di rado attinte proprio da D'Annunzio) e la ripresa, a livello propriamente metrico, delle forme tradizionali della letteratura italiana (rifiutando lo stravolgimento metrico dalle avanguardie storiche): recupera in particolar modo l'endecasillabo e la rima. Potremmo dire che Montale rinnova la grande tradizione letteraria italiana (caratterizzata da forme ampie) su una nuova base linguistica. Nell'intera opera, Montale indaga il male di vivere, che si rivela nitidamente in un paesaggio scarno ed arido (di cui l'Osso di seppia è evidentemente simbolo) ed in cui tutta la vita si rivela nel suo sgretolarsi. Il poeta è intento, con difficoltà, ad interrogare la natura tentanto di recuperare un qualche «sterile segreto», e la poesia Spesso il male di vivere ho incontrato non può che essere una delle poesie in cui l'indagine che il poeta svolge si fa maggiormente serrata ed evidente. Il male di vivere che Montale descrive è un male oggettivo, radicato ed evidente già dall'osservazione della natura quotidiana. Non c'è violenza nella poesia di Montale e la tecnica del correlativo oggettivo (=evocare un'idea o una sensazione indicandola con gli oggetti, le cose) tende ad identificare questo male così radicato con il rivo strozzato, con l'incartocciarsi della foglia riarsa, con il cavallo stramazzato. Un dolore ed un male che è dunque presente nella normalità della vita e non derivante da un qualsivoglia atto violento. Il significante (=forma esteriore della parola) della prima quartina, dato con forza dalle allitterazioni del gruppo "rs", "rt", e comunque dalla forte presenza di consonati come "r", "s" e "z", realizza, a livello ritmico/ musicale (evocando suoni duri ed aspri) il male di vivere di cui Montale ci parla. Nella seconda quartina invece, il tono si acquieta e la maggior presenza delle vocali interrompe il malessere di quella precedente. Montale individua l'unico bene esistente che risiede, cito dal verso, nel «prodigio/che schiude la divina Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale fa parte della sezione Xenia, contenuta nella raccolta Satura, pubblicata da Montale nel 1971. Dopo anni di silenzio il poeta fa partire una nuova fase poetica, in cui abbassa lo stile e il tono, scrivendo poesie più prosastiche. Il titolo ha un doppio significato, in quanto da un lato fa riferimento alla satira, cioè alla polemica nei confronti della società e degli pseudovalori del proprio tempo, e dall’altro alla mescolanza di cose di diverso tipo (dal latino satura). Montale, inoltre, raccoglie le proprie memorie private, sostituendo alle donne simboliche delle raccolte da lui pubblicate in passato la figura della moglie, morta nel 1963. Si tratta di Drusilla Tanzi, soprannominata dal poeta Mosca, a causa della sua forte miopia. Il poeta dedica la lirica Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale alla moglie: la poesia nasce, infatti, dal sentimento di dolore provato dal poeta che soffre la solitudine a causa dell’assenza della moglie. Soltanto in questo momento Montale capisce che, nonostante la miopia, Mosca sapeva leggere più attentamente la realtà per quella era realmente e non per quella che appariva. Nonostante ciò che sembrava a prima vista non era lui ad evitare alla moglie d’inciampare, tenendole il braccio lungo il percorso, ma era lei a guidare il viaggio di entrambi nella vita e a penetrare nelle cose con uno sguardo più profondo. Montale offriva alla moglie il braccio e condivideva con lei le difficoltà quotidiane e ora sente la sua mancanza, nonostante il viaggio della loro vita sia stato al contempo lungo perché la loro relazione è duramente parecchi anni, e breve perché il poeta vorrebbe ancora condividere con la moglie emozioni e speranza. L’iperbole dei versi 1 ed 8 indica la vastità delle esperienze vissute in comune dalla coppia e la consuetudine del gesto di aiutare amorevolmente la compagna a scendere i gradini. Il poeta avverte con sofferenza l’assenza della moglie nella sua vita che lo porta a sentirsi profondamente solo (è il vuoto ad ogni gradino) ed inutile. Nella seconda strofa di Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, che riprende attraverso un’anafora il primo verso, emerge il contrasto fra la posizione del poeta di fronte alla vita e il modo più acuto della moglie di guardare il mondo. Montale esprime il contrasto fra la realtà e l’apparenza delle cose attraverso le immagini delle coincidenze, delle prenotazioni, delle trappole, degli scorni che nascondono la vera essenza della vita. La realtà per il poeta è caratterizzata da necessità e incarichi noiosi che nascondono la sua vera essenza perché vengono confuse con la realtà, pur essendo solo apparenza. Solo poche persone riescono a cogliere la realtà più profonda e fra queste c’è Mosca che, nonostante le pupille offuscate dalla miopia, riusciva a comprendere in maniera autentica e profonda la realtà.
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