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Analisi e parafrasi canti di Leopardi, Appunti di Letteratura Italiana

Appunti dettagliati delle diverse poesie di Leopardi

Tipologia: Appunti

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Caricato il 09/04/2021

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Scarica Analisi e parafrasi canti di Leopardi e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Canti 6, “La sera del dì di festa” TESTO 1. Dolce e chiara è la notte e senza vento, 2. e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti 3. posa la luna, e di lontan rivela 4. serena ogni montagna. O donna mia, 5. giá tace ogni sentiero, e pei balconi 6. rara traluce la notturna lampa: 7. tu dormi, ché t’accolse agevol sonno 8. nelle tue chete stanze; e non ti morde 9. cura nessuna; e giá non sai né pensi 10. quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. 11. Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno 12. appare in vista, a salutar m’affaccio, 13. e l’antica natura onnipossente, 14. che mi fece all’affanno. — A te la speme 15. nego — mi disse, — anche la speme; e d’altro 16. non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. — 17. Questo dí fu solenne: or da’ trastulli 18. prendi riposo; e forse ti rimembra 19. in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti 20. piacquero a te: non io, non giá ch’io speri, 21. al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo 22. quanto a viver mi resti, e qui per terra 23. mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi 24. in cosí verde etate! Ahi! per la via 25. odo non lunge il solitario canto 26. dell’artigian, che riede a tarda notte, 27. dopo i sollazzi, al suo povero ostello; 28. e fieramente mi si stringe il core, 29. a pensar come tutto al mondo passa, 30. e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito 31. il dí festivo, ed al festivo il giorno 32. volgar succede, e se ne porta il tempo 33. ogni umano accidente. Or dov’è il suono 34. di que’ popoli antichi? or dov’è il grido 35. de’ nostri avi famosi, e il grande impero 36. di quella Roma, e l’armi, e il fragorío 37. che n’andò per la terra e l’oceáno? PARAFRASI 1. La notte è calma, luminosa e priva di vento 2-3. e la luna splende tranquilla sui tetti e tra i giardini e mostra da lontano. 4. serena ogni montagna. O mia amata, 5. in tutti i sentieri c’è silenzio e attraverso i balconi 6. filtra raramente un lume notturno: 7. tu dormi, poiché ti prese facilmente il sonno 8. nelle tue stanze tranquille; e non ti tormenta 9. nessuna preoccupazione; e ancora non sai e non immagini 10. che ferita mi hai aperto nel petto. 11-12. Tu dormi: io mi affaccio a salutare questo cielo che all’apparenza sembra così sereno 13. e l’eterna natura che può tutto 14-15. che mi creò per soffrire. Mi disse: “A te tolgo la speranza, anche la speranza; 16. e i tuoi occhi non devono brillare per altri motivi se non per le lacrime”. 17. Questa giornata è stata di festa: ora dagli svaghi 18-19. ti riposi, e forse nel sogno ricordi a quanti oggi sei piaciuta e quanti 20-21. ti sono piaciuti: non ci sono io nei tuoi pensieri e neanche spero di esserci. Intanto io chiedo 22. quanto mi rimanga da vivere e qui per terra 23. mi getto, urlo e sono tutto agitato. Oh, che giorni terribili, 24. in un’età così giovane! Ahimè 25. sento per strada non lontano il canto solitario 26. dell’artigiano che ritorna a tarda notte 27. alla sua povera abitazione dopo i divertimenti 28. e crudelmente mi angoscio 38. Tutto è pace e silenzio, e tutto posa 39. il mondo, e piú di lor non si ragiona. 40. Nella mia prima etá, quando s’aspetta 41. bramosamente il dí festivo, or poscia 42. ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, 43. premea le piume; ed alla tarda notte 44. un canto, che s’udía per li sentieri 45. lontanando morire a poco a poco, 46. giá similmente mi stringeva il core. 29. a pensare come tutto nella vita passa 30. e non lascia quasi nessuna traccia. Ecco se n’è già andato 31. il giorno festivo, e al giorno festivo 32. segue quello feriale e il tempo trascina con sé 33. ogni vicenda umana. Ora dov’è il ricordo 34. di quei famosi popoli antichi? Ora dov’è il grido di gloria 35. dei nostri antenati famosi e il grande impero 36. della famosa Roma e il rumore delle armi 37. che percorse la terra e l’oceano? 38. Dovunque c’è pace e silenzio 39. e il mondo intero riposa e di loro non si parla più. 40. Nella mia infanzia, quando si aspetta 41. con desiderio il giorno festivo, oppure quando 42. si era già concluso, io angosciato, sveglio, 43. rimanevo a letto; e a tarda notte 44. un canto che si udiva attraverso i sentieri 45. e che lentamente si spegneva mentre si allontanava, 46. già allo stesso modo mi provocava angoscia. ANALISI DEL TESTO: «Dolce e chiara è la notte e senza vento…» L’immagine di un paesaggio notturno di pace e splendore (che colpisce direttamente l’io e viene investito da questa emozione) è interrotto bruscamente dal manifestarsi dell’Io, con un’invocazione nei confronti di una donna indeterminata, la cui pace serena nel riposo si oppone al cuore ferito dell’Io. L’Io si definisce così per opposizione, secondo una lunghissima tradizione. È poi la natura stessa («antica = infinitezza della natura natura onnipossente = la sua potenza») a prendere parola, in opposizione al pacifico sonno della donna sullo sfondo, e sancire la condanna dell’Io all’infelicità «A te la speme / nego, mi disse (natura personficata), anche la speme; e d’altro /non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.» (vv.14-16) L’Io si rivolge ancora alla donna e al di lei sonno tranquillo e denso di ricordi piacevoli fa riscontro la disperazione, il senso di morte, la sofferenza dell’Io. • L’esperienza vede uno sfondo di serenità, ovvero la natura indifferente, e un io che si dichiara infelice, la cui infelicità è affermata in opposizione alla felicità di lei. più il tu) odo non lunge il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dí festivo, ed al festivo il giorno volgar succede (il tempo porta via con sé l’esperienza umana), e se ne porta il tempo ogni umano accidente (il pensiero si volge al passato generico/personale). Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorío che n’andò per la terra e l’oceáno? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e piú di lor non si ragiona. ANALISI QUARTA STANZA: senza passaggio apparente, si arriva all’ultima stanza molto breve, il ricordo diventa chiaro e si connette con le diverse immagini. Nella mia prima etá, quando s’aspetta bramosamente il dí festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto, che s’udía per li sentieri lontanando morire a poco a poco, (la lentezza si collega con la perdita/la morte, c’è un rapporto diretto tra il ricordo infantile e il presente) giá similmente mi stringeva il core. GIACOMO LEOPARDI, “Alla luna” TESTO 1. O graziosa Luna, io mi rammento 2. che, or volge l’anno, sovra questo colle 3. io venia pien d’angoscia a rimirarti: 4. e tu pendevi allor su quella selva, 5. siccome or fai, che tutta la rischiari. 6. Ma nebuloso e tremulo dal pianto, 7. che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci 8. il tuo volto apparia, ché travagliosa 9. era mia vita: ed è, né cangia stile, 10. o mia diletta Luna. E pur mi giova 11. la ricordanza, e il noverar l’etate PARAFRASI 1. O leggiadra luna, io mi ricordo, 2. che, proprio un anno fa, io venivo (=”io venia” del v. 3) su questo colle 3. ad ammirarti pieno di sofferenza: 4. e tu allora sovrastavi quel bosco 5. come fai anche adesso illuminandolo tutto. 6-9. Ma, a causa del pianto, che mi nasceva sulle ciglia, nei miei occhi, il tuo aspetto mi appariva offuscato e tremolante, poiché la mia vita era dolorosa e lo è anche ora e non cambia situazione, 12. del mio dolore. Oh come grato occorre 13. nel tempo giovanil, quando ancor lungo 14. la speme e breve ha la memoria il corso, 15. il rimembrar delle passate cose, 16. ancor che triste, e che l’affanno duri! 10. o mia cara luna. Eppure mi fa bene 11. ricordare il tempo passato e riconsiderare il tempo 12. del mio dolore. Oh come appare gradito, 13. nell’età della giovinezza, quando la speranza (“speme” del v. 14) ha ancora un lungo percorso 14. e la memoria breve, 15. ricordarsi degli avvenimenti passati, 16. anche se sono tristi e la sofferenza dura ancora nel presente. ANALISI DEL TESTO: Il centro poetico più o meno nascosto dei primi tre idilli sembra essere proprio la ricordanza. Era del resto il titolo di questo terzo che è stato il primo ad essere composto. «Questo consiste nel ricostruire l’esperienza atemporale dell’antico, quale è quella che l’Io compie ripetutamente nei canti precedenti, come nient’altro che il prodotto di un’allucinazione psicologica, come la naturale benché illusoria proiezione sul piano di una temporalità storica e prestorica della co- mune esperienza di perdita momentanea della percezione temporale.(…) Nella sequenza degli idilli, Alla luna costituisce la messa a tema del piacere della ricordanza (che può essere anche inteso come piacere della poesia): ciò che non avviene propriamente nei due testi precedenti, essendo sì, certamente, tematizzata nell’Infinito l’esperienza del piacere ma non, se non ellitti- camente, quella della ricordanza come fonte di piacere, e nella Sera del dì di festa essendo te- matizzata la ricordanza, ma non il piacere di cui essa è la radice. La ricordanza è in sé piacere, anche se il suo oggetto non lo è. E piacere consiste nell’annullamento del limite spazio-tempo- rale, prodotto dall’esperienza del testo.» (Colaiacomo) Costruita esplicitamente sul ritorno dopo un anno (Petrarca), la poesia rileva il ripetersi della situazione emotiva e riflette sulla esperienza conoscitiva che ne deriva: la luna si presenta iden- tica a se stessa nel suo splendore. Ma quello stesso splendore è offuscato dalle lacrime dell’Io che la contempla e la ammira, ora come allora, e analoga è l’angoscia che lo riempie. L’Io si rivolge direttamente alla luna, e le parla con toni affettuosi come una vera interlocutrice, evidenziandone la funzione di specchio. La invoca poi una seconda volta, a metà della poesia, sottolineando la continuità della propria vita: «travagliosa / era mia vita: ed è, né cangia stile, / o mia diletta luna.» Ma pur nell’infelicità il centro del testo è proprio la funzione positiva del ricordo, della elabora- zione del dolore, specie nella giovinezza. Il testo si apre infatti con «io mi rammento» e si chiude con «il rimembrar delle passate cose». Canti 8: “A Silvia” • Passaggio di Leopardi che vede la crisi della poesia e la riflessione più approfondita, quindi un piano compositivo completamente diverso che richiede un coinvolgimento del lettore e dell’autore diverso: periodo delle operette morali. Leopardi alla sorella Paolina, 12 novembre 1827: racconto di Leopardi alla sorella, in cui descrive la sua impressione giunto a Pisa. “L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze. Questo lung’Arno è uno spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora”. Adesione emotiva molto forte, viene colpito dallo spazio costruito dall’essere umano, in cui gode come nella natura. “Vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura (bellezza creata dall’uomo).” C’è anche il clima che lo coinvolge, ma si tratta di un aspetto secondario: Leopardi è colpito dall’umanità che ha trovato un equilibrio di bellezza e armonia, anche di vivacità intellettuale (vi si sentono parlare dieci o venti lingue, In quanto poeta ammira soprattutto l’aspetto della lingua), uno spazio adatto anche alla sua personalità. Descrive un perfetto equilibrio in una città media che possiede caratteristiche di una grande città, senza perdere la sua caratteristica più intima, è anche contadina, ciò la rende romantica. Epistola aperta e classica (in versi) molto importante, Leopardi si rivolge al suo amico bolognese e intellettuale, con cui pensa di avere un dialogo alla pari, nel quale notiamo la sua nuova sensazione: passaggio attraverso la maggiore concentrazione sulla filosofia. «Io tutti | della prima stagione i dolci inganni | mancar già sento, e dileguar dagli occhi | le dilettose immagini, che tanto | amai, che sempre infino allora estrema (morte) | mi fieno, a ricordar, bramate e piante. | (vv. 121- 125). Momento di passaggio, il suo percorso viene diviso in fasi diverse, come le stagioni: nella sua prima stagione, la giovinezza caratterizzata dalle dolci illusioni stanno venendo meno, è un processo di perdita che produce dei ricordi che saranno sempre presenti e saranno immagini desiderate, con esso il dolore per la perdira. L’immaginazione non è più in grado di rappresentarsi con immagini che avevano dato grande piacere. In questo specolar gli ozi traendo | verrò: che conosciuto, ancor che tristo, | ha suoi diletti il vero. E se del vero | ragionando talor, fieno alle genti | o mal grati i miei detti o non intesi, | non mi dorrò, che già del tutto il vago | desio di gloria antico in me fia spento: | vana Diva non pur, ma di fortuna | e del fato e d’amor, Diva più cieca» (Al conte Carlo Pepoli, vv. 150- 58). 60. Al rivelarsi della verità, 61-63. tu sei miseramente svanita: e indicavi con la mano la fredda morte e una tomba spoglia. ANALISI DEL TESTO: ➢ Sono canti lunghi, schema libero senza trascurare l’uso della rima, lunghezza delle stanze diverse e uso libero della metrica: sonorità e ritmo nuovi, canto pieno, maturo e nuovo. «La grande novità tematica di A Silvia e delle Ricordanze consiste, mi sembra, innanzitutto nel fatto che le due poesie introducono la discontinuità antico/moderno come distinzione di epoche (passaggio fondamentale nel pensiero di Leopardi adesso assume una dimensione individuale, non è più metafora di altro) all’interno dell’esistenza individuale. L’esistenza è ora solcata dalla linea di demarcazione antico/moderno.» Colaiacomo. Il canto inizia con l’apostrofe alla protagonista e con la domanda paradossale che rispecchia l’inizio del ricordo dell’Io: la giovine nel pieno del fulgore ma già all’ombra della morte (tua vita mortale) come presaga (lieta e pensosa) colta sulla soglia (il limitare di gioventù). ➢ L’io si rivolge alla fanciulla, la fissa e la colloca sulla soglia tra la vita e la morte, con una letizia della giovinezza e la pensosità che fa presagire altro. L’intero canto è incorniciato tra il movimento ascensionale dell’inizio (salivi, anagramma di Silvia) e la fine (cadesti). La prima breve stanza mette a fuoco il ricordo: un’immagine luminosa che affiora dalla memoria. Nella seconda sarà al centro il suono, e poi l’olfatto. ➢ Inizia con l’immagine luminosa di Silvia che affiora nella memoria, poi passa al suono e infine all’olfatto: la ricordanza diventa il punto centrale, poi osservata nel rapporto tra ricordo e sensi. Nel ricordo dell’Io, il canto (suono) della fanciulla risuona, denso di sogni sul futuro e immerso nel profumo (olfatto) della primavera. Ad esso si contrappone, nella terza stanza, in prima posizione l’Io (due figure speculari): ora è chiaro che è lui a ricordare la sua fanciullezza che si oppone all’altra. Lui, dedito tutto il tempo agli studi, ascoltava il canto della fanciulla, osservava lei che tesseva (tessere=comporre) e guardava lontano fino al mare (l’io sta ascoltando, guarda lei e il suo sguardo che si rivolve verso il non noto, infinito, metafora del futuro). «Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno.» (vv.26-7). Il topos dell’ineffabilità (la poesia dichiara di non saper dire), di antica tradizione poetica, suggella l’indicibilità di tale momento di perfetto rispecchiamento (l’io si perde in questa rappresentazione di sé come completamente rispecchiato in questa fanciulla). ➢ Come avviene nella sua donna, Leopardi si serve della figura femminile per far rispecchiare l’io che mette in modo tutti i sensi anche nell’immaginazione del lettore. ➢ Il canto della fanciulla riempie il silenzio perché pieno di sogni e mette in moto l’olfatto, si tratta di una scena primaverile: l’io rappresenta il suo totale coinvolgimento. Eppure lo dice, subito dopo, nella dichiarazione di piacere, suggellata dall’aggettivo «Silvia mia!» e dal passaggio al noi (attraverso il “noi” e “Silvia mia” afferma il rispecchiamento che sembrava impossibile, siamo ancora nel ricordo), che la chiude in rima (ci apparia / la vita) per passare poi bruscamente all’Io e al presente di sovviemmi, il ritorno alla coscienza vigile che rompe l’incanto, con speme/preme e sventura/natura in rima, a sottolineare il crollo dell’illusione e del ricordo. All’interno della stessa stanza l’interlocuzione passa brevemente alla natura, che non ha realizzato le speranze (ripetute) ma nemmeno mantenuto le promesse, con dei veri e propri inganni verso i suoi figli (=ne deriva l’immagine della natura matrigna che tradisce i figli come se non fossero i suoi). La quinta stanza rivela la fine prematura della fanciulla, privata delle gioie e delle dolcezze della sua giovinezza. Nell’ultima stanza alla morte (colpo di scena finale che rivela e spiega il ricordo doloroso) della fanciulla si sovrappone quella della giovinezza dell’Io, e della speranza (nuovamente ripetuta) «compagna dell’età mia nova» (rispecchiamento con sé, c’è la morte nell’io ovvero la morte della giovinezza e della speranza): le domande retoriche sconsolate sottolineano la dimensione collettiva della disillusione, il suo allargarsi a meditazione filosofica. Il «vero» spazza via ogni illusione e la figura della fanciulla rappresenta anche qui la metafora di una interiorità ricercata attraverso lo specchio del Tu (si ricerca il modo di rappresentare le proprie emozioni). ANALISI PRIMA STANZA: Silvia (rivolta e dedicata a Silvia), rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale (si trova in un’altra vita che continua nell’immaginazione e nel ricordo dell’io), Quando beltà splendea (elemento fondamentale: lo splendere nella bellezza negli occhi) Negli occhi tuoi ridenti (giovinezza) e fuggitivi (vivacità, ha una sua interiorità), E tu, lieta e pensosa (misteriosa) il limitare Di gioventù salivi? (sta sbocciando) • Sta rivolgendo una domanda nel presente a una persona che non c’è più, ma è presente nella sua immaginazione. • Il ricordo riempie la prima stanza con un’immagine di incanto. ANALISI SECONDA STANZA Sonavan le quiete (il canto si libera nella calma) Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo (costantemente) canto, Allor che all’opre femminili intenta (concentrata) Sedevi, assai contenta (piena serenità/di quiete/fiduciosa) Di quel vago avvenir (il futuro è vago: bello e indeterminato) che in mente avevi. Era il maggio (primavera avanzata) odoroso (fiori): e tu solevi Così menare il giorno (passava le sue giornate: esistenza piena e serena). ANALISI TERZA STROFA: Io (si contrappona/paragona) gli studi leggiadri/rivendicati/amati (esplicito parallelismo) Talor lasciando (si colloca nel passato, è il tempo del ricordo) e le sudate (sottolinea la fatica) carte, Ove (studi e carte) il tempo mio primo (giovinezza, impegno voluto e faticoso che ha delle conseguenza non tutte positive) E di me si spendea la miglior parte, (allusione alla salute compromessa/energie investite nel lavoro) D’in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. (fatica del tessere rispecchia la fatica dell’io) Mirava il ciel sereno, (ammira il cielo) Le vie dorate e gli orti, (stimolato dai fiori, immagine idilliaca) E quinci il mar da lungi, e quindi il monte (tutti i sensi sono coinvolti, lo spazio è importante, il futuro è aperto) Lingua mortal non dice Quel ch’io sentiva in seno. (l’io è in pace) ANALISI QUARTA STANZA: forma dell’esclamazione + domande retoriche, intensa di emozioni. Che pensieri soavi, (ricchi di dolcezza) Che speranze, che cori (/cuori), o Silvia mia (si rivolge con affettuosità)! Quale allor ci apparia (avevano una vita piena di speranze) La vita umana e il fato! Quando sovviemmi (ora) di cotanta speme, (speranza, sguardo senza limiti) Un affetto mi preme (opprime) Acerbo e sconsolato, (una sensazione dura e dolorosa) E tornami a doler di mia sventura (il confronto produce dolore) O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi? (domanda retorica = protesta disperata, si sottolinea il confronto tra antico e presente) ANALISI QUINTA STROFA: morte prematura e negazione della vita/vago avvenire Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, (morte rapida, poco dopo della primavera/metafora della vita) Da chiuso (nascosto/malattia invisibile) morbo (tisi) combattuta e vinta, Perivi, o tenerella (giovinezza) E non vedevi Il fior degli anni tuoi;(godere pienamente la giovinezza che stava sbocciando) Non ti molceva il core (insistenza sulla negazione della vita) La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d’amore. sperando che arrivasse il mattino. Qui non c’è nulla che io non veda o senta per cui non mi nasca un ricordo nell’animo, e un ricordo nella mente; dolce per sé; ma subentra con dolore il pensiero del presente, un inutile rimpianto del passato, benché triste, e l’ammettere: “Io sono stato”. Quella rocca laggiù, rivolta ai raggi del tramonto; queste mura colorate a tempera, quelle greggi dipinte, e il sole che si alza su una campagna sperduta, offrirono ai miei ozi mille allettamenti, mentre c’era sempre al mio fianco, ovunque io fossi, e parlava, la mia grande illusione. In questi antichi saloni, durante l’inverno, mentre il vento sibilava intorno a queste grandi finestrone, rimbombarono i rumori di festa e la mia voce allegra nell’età in cui l’acerba e spregevole realtà delle cose si mostra a noi come piena di dolcezza; il ragazzino, come un amante inesperto, si immagina tutta la sua vita, non ancora assaporata e che poi si rivelerà traditrice, e contempla, creandosela da sé, una bellezza celeste. O speranze, speranze; dilettevoli inganni della mia giovinezza! sempre ritorno a voi, parlando; poiché, per quanto passi il tempo o per quanto mutino pensieri e affetti, non riesco a dimenticarvi. Mi spiego: la gloria e gli onori sono fantasmi, i piaceri e le ricchezze un puro desiderio; la vita, inutile miseria, non ha alcun frutto. E sebbene i miei anni siano vuoti, sebbene la mia condizione di vita sia misera e sventurata, mi accorgo che la sorte poco mi sottrae. Ahi! Ma ogni volta che ripenso a voi, o mie illusioni giovanili, la sua vita ingannevole vagheggia, e celeste beltà fingendo ammira. O speranze, speranze 11; ameni inganni della mia prima età! sempre, parlando, ritorno a voi; ché, per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, son la gloria e l’onor; diletti e beni mero desio; non ha la vita un frutto, inutile miseria. E sebben voti son gli anni miei, sebben deserto, oscuro il mio stato mortal, poco mi toglie la fortuna, ben veggo. Ahi! ma qualvolta a voi ripenso, o mie speranze antiche, ed a quel caro immaginar mio primo; indi riguardo il viver mio sí vile e sí dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m’avanza. 12; sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte sarammi allato, e sarà giunto il fine della sventura mia; quando la terra mi fia straniera valle, e dal mio sguardo fuggirà l’avvenir; di voi per certo risovverrammi; e quell’imago ancora sospirar mi farà, farammi acerbo l’esser vissuto indarno, e la dolcezza del dì fatal tempererà d’affanno 13. E già nel primo giovanil tumulto di contenti, d’angosce e di desio 14, morte chiamai piú volte, e lungamente mi sedetti colà su la fontana 15 pensoso di cessar dentro quell’acque la speme e il dolor mio 16. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de’ miei poveri dì, che sì per tempo cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso sul conscio letto, dolorosamente alla fioca lucerna poetando, lamentai co’ silenzi e con la notte il fuggitivo spirto, ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto. Chi rimembrar vi può senza sospiri, o primo entrar di giovinezza, o giorni vezzosi, inenarrabili, allor quando al rapito mortal primieramente sorridon le donzelle 17; a gara intorno ogni cosa sorride; invidia tace, e a quel mio amato fantasticare adolescenziale; e allora riconsidero la mia vita così ignobile e così sofferente, e penso che, di tante speranza che avevo, oggi mi resta solo la morte; 1,osento stringermi il cuore, capisco che non so consolarmi del tutto del mio destino. E tuttavia quando l’invocata fine della vita mi sarà a fianco, e sarà giunto il capolinea della mia sciagure; e quando la terra sarà per me una landa straniera, e quando dai miei occhi fuggirà la luce del futuro; di certo mi ricorderò di voi; e il ricordo di quell’emozione mi farà sospirare, e mi renderà tristissimo l’aver vissuto senza uno scopo, e la dolcezza del momento fatal si colorerà d’affanno. E già nel momento della prima, giovanile agitazione di gioie, angosce e desideri, io invocai la morte più volte, e a lungo stetti seduto là, presso una vasca del giardino, ragionando sul far terminare la mia speranza e il mio dolore annegandomi. Poi, per un male misterioso, condotto quasi in punto di morte, lamentai la perdita della bella giovinezza, e il fiore dei miei giorni sfortunati, che così precocemente sfioriva: e sovente a notte fonda, mentr’ero a letto del tutto sveglio, poetando dolorosamente in una fioca luce di lampada, mi rammaricavo della vita che fuggiva con i silenzi e con la notte, e nella mia agonia intonavo a me stesso un canto funebre. O primo ingresso nella giovinezza, o giorni felici, indescrivibili, quando all’uomo stupefatto per la prima volta sorridono le fanciulle, chi può ricordarvi senza un sospiro? Intorno ogni cosa ride a gara tra sé e le altre; l’invidia è silenziosa, non è sveglia non desta ancora ovver benigna; e quasi (inusitata maraviglia!) il mondo la destra soccorrevole gli porge, scusa gli errori suoi, festeggia il novo suo venir nella vita, ed inchinando mostra che per signor l’accolga e chiami 18? Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo son dileguati. E qual mortale ignaro di sventura esser può, se a lui già scorsa quella vaga stagion, se il suo buon tempo, se giovanezza, ahi giovanezza! è spenta? O Nerina 19! e di te forse non odo questi luoghi parlar? caduta forse dal mio pensier sei tu? Dove sei gita 20, che qui sola di te la ricordanza trovo, dolcezza mia? Piú non ti vede questa terra natal: quella finestra, ond’eri usata favellarmi, ed onde mesto riluce delle stelle il raggio, è deserta. Ove sei, che più non odo la tua voce sonar, siccome un giorno, quando soleva ogni lontano accento del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri il passar per la terra oggi è sortito, e l’abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti, e come un sogno fu la tua vita. Ivi danzando, in fronte la gioia ti splendea, splendea negli occhi quel confidente immaginar, quel lume di gioventù, quando spegneali il fato, e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna l’antico amor. Se a feste anco talvolta, se a radunanze io movo, infra me stesso dico: - O Nerina, a radunanze, a feste tu non ti acconci più, tu più non movi. - Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle, dico: - Nerina mia, per te non torna primavera giammai, non torna amore. - Ogni giorno sereno, ogni fiorita piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento, dico: - Nerina or piú non gode; i campi, l’aria non mira. - Ahi! tu passasti, eterno sospiro mio: passasti: e fia compagna d’ogni mio vago immaginar, di tutti i miei teneri sensi, i tristi e cari moti del cor, la rimembranza acerba oppure è benevola, e quasi (evento davvero rarissimo!) il mondo porge il proprio aiuto soccorrevole al giovane, perdona i suoi errori, festeggia la sua prima entrata nella vita, e con un inchino indica di riconoscerlo come proprio signore. Giorni che fuggono in un attimo! Si son dileguati come un lampo. E quale uomo mortale può essere ignaro della sventura, se per lui è già trascorsa la bella stagione della vita, se il suo buon tempo di giovinezza (ahi, la giovinezza!) è spento? O Nerina! Forse che non sento questi luoghi parlare di te? Sei forse cancellata dal mio ricordo? Dove sei andata, o dolcezza mia, che qui ormai trovo solo il ricordo di te? La terra dove sei nata non ti vede più: la finestra, da cui eri solita colloquiare con me, e da cui riluce triste il raggio delle stelle, è vuota. Dove sei, che non sento più risuonar la tua voce, come una volta, quando ogni sillaba che le tue labbra pronunciavano e che giungesse a me era solita farmi scolorare il volto? Era un altro mondo. Furono i tuoi giorni, mio dolce amore. Sei morta. Oggi tocca ad altri il transito sulla terra, ed abitare questi colli che spargono profumi. Ma sei passata rapida, e la tua vita fu come un sogno. Qui, mentre danzavi, la gioia ti splendeva sulla fronte, e negli occhi riluceva quella speranza fiduciosa, quella luminosità della gioventù, quando la spense il destino, e tu giacevi morta. Ahi Nerina! Nel mio cuore regna ancora l’antico amore. Se talvolta mi reco a feste e a luoghi di ritrovo, tra me e me dico: “O Nerina, tu non ti prepari più per questi momenti, tu non ti muovi più!”. Se ritorna maggio, e gli innamorati portano alle fanciulle rami fioriti e canti, stroncate dalla morte in gioventù, evocano quel tempo sacro in cui il desiderio era spostato nel futuro (/che non può esserci futuro, quindi illusione). «In questo componimento una particolare importanza strutturale possiede, mi sembra, l’ultima strofa. In tutto il componimento l’Io si presenta come investito dal flusso della rimembranza, messo in movimento da elementi particolari relativi alla casa paterna e alla vita del borgo. La memoria si sviluppa secondo uno schema ritornante, per cui l’Io continuamente mette a con- fronto le speranze o illusioni antiche, che continuamente riaffiorano, e la realtà del presente. (…) Tutto è passato, eppure tutto è presente: o viceversa. L’effetto della rimembranza è quello di uno sdoppiamento del reale e del presente. Nell’ultima strofa l’equilibrio viene spezzato. Ne- rina, infatti, è solo ed esclusivamente «ricordanza», pura assenza, che ha arrestato il flusso tra- sognato e informe della rimembranza, riportandolo con ciò alla mente ora pienamente vigile dell’Io. Nerina è puro nome, pura ricordanza, di cui l’Io ha udito risuonare i luoghi: «O Nerina! e di te forse non odo | questi luoghi parlar?» (Colaiacomo) • Nella prima parte del testo viene prodotto uno sdoppiamento del reale (si anima di sogni) e del presente (si proietta nel passato), invece nella conclusione il parallelismo viene di- strutto in maniera tragica perché Nerina rappresenta lo spezzarsi di questo movimento, non avendo realtà, è completamente assenza (la rimembranza non c’è più, il presente domina). Tutto il canto si rivela ormai e si rilegge da questo nuovo punto di vista: attraverso una nuova «donna che non si trova» l’Io riesce a mettere a fuoco il cuore stesso della rimembranza. Proprio come Silvia («beltà splendea / negli occhi tuoi»), a Nerina «in fronte / la gioia ti splendea, splen- dea negli occhi / quel confidente immaginar, quel lume / di gioventù, quando spegneali il fato, / e giacevi.» A Silvia («Ahi come, /come passata sei») corrisponde Nerina «Ahi tu passasti, eterno / sospiro mio, passasti». La rimembranza, l’affiorare attraverso i luoghi e i sensi di ricordi legati ad una età antica che ci portiamo dietro, e il senso profondo di una perdita. Il dolore acuto di una giovinezza perduta per sempre, del senso della speranza e del futuro, sono il cuore stesso della poesia leopardiana, nell’eterno ondeggiare tra l’allora e l’ora, tra l’Io e il Tu, tra il piacere del ricordo e il dolore della coscienza. ANALISI PRIMA STANZA: Vaghe stelle (interlocutore) dell’Orsa, io non credea (immediata sensazione di qualcosa che non doveva accadare) Tornare ancor per uso a contemplarvi (immagine dell’io parla con le stelle) Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre Di questo albergo ove abitai fanciullo, E delle gioie mie vidi la fine. (contrasto violento tra il luogo dell’infanzia e il crollo della gioia) Quante immagini un tempo, e quante fole (le immagini e i racconti sono al primo posto) Creommi nel pensier l’aspetto vostro E delle luci a voi compagne! allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto (vista e udito) Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi (immagini visivi, suoni e odori) E in su l’aiuole, susurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre de’ servi. E che pensieri immensi, (proiezione nel futuro di aspettative dolci) Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri, (presente) Che di qua scopro, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana (torna al passato, l’orizzonte si ampia insieme al tempo) Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato. ANALISI SECONDA STANZA Nè mi diceva il cor che l’età verde Sarei dannato a consumare in questo Natio borgo selvaggio (è la sua condanna, allontanamento dalla cultura) , intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo, Son dottrina e saper; che m’odia e fugge, Per invidia non già, che non mi tiene Maggior di se, ma perchè tale estima Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori A persona giammai non ne fo segno (descrizione più accurata di questa nuova infelicità nella società) Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, (assoluta disperazione, soffocamento) Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza (il suo rapporto con la società si contrappone al rapporto con le stelle) Tra lo stuol de’ malevoli divengo: Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo, Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola Il caro tempo giovanil; (la sua giovinezza sta svanendo)più caro Che la fama e l’allor, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo Soggiorno disumano, intra gli affanni, O dell’arida vita unico fiore. ANALISI TERZA STANZA: Viene il vento recando il suon dell’ora Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, Quando fanciullo, nella buia stanza, Per assidui terrori io vigilava, Sospirando il mattin. Qui non è cosa (processo della rimembranza, costruzione in negativo) Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per se (rimembrare); ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. (si segna la fine della prima strofa) Quella loggia colà, volta agli estremi (descrizione dei ricordi + incapacità di godere) Raggi del dì; queste dipinte mura, Quei figurati armenti, e il Sol che nasce Su romita campagna, agli ozi miei Porser mille diletti allor che al fianco M’era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento, Rimbombaro i sollazzi e le festose Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno Mistero delle cose a noi si mostra Pien di dolcezza; indelibata, intera Il garzoncel (rappresenta la giovinezza), come inesperto amante, La sua vita ingannevole vagheggia, E celeste beltà fingendo ammira (che non esiste). ANALISI QUARTA STANZA: O speranze, speranze; ameni inganni (speranze = illusioni della giovinezza) Della mia prima età! sempre, parlando, Ritorno a voi; che per andar di tempo, Per variar d’affetti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto, Inutile miseria. E sebben vóti Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro Il mio stato mortal, poco mi toglie La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta A voi ripenso, o mie speranze antiche, Ed a quel caro immaginar mio primo; Indi riguardo il viver mio sì vile E sì dolente, e che la morte è quello Che di cotanta speme oggi m’avanza; Sento serrarmi il cor (il cuore continua a soffrire), sento ch’al tutto Consolarmi non so del mio destino (non accetta il contrasto fra aspettative e realtà del dolore). E quando pur questa invocata morte Canti 1o, “il pastore errante” TESTO Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando av- vampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale. Nasce l’uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento PARAFRASI Che fai tu luna in ciel! dimmi che fai, o luna amica del silenzio (silenziosa – sia riferito all’assoluto silenzio del paesaggio notturno, sia alla consapevolezza del pastore che la luna non risponderà alle sue domande)? Spunti (sorgi) la sera e vai illuminando i deserti, quindi tramonti (indi ti posi) non sei ancora soddisfatta (paga) di ripercorrere gli eterni sentieri del cielo (i sempiterni calli)?. Non provi affatto noia (non prendi a schivo - litote), sei ancora desiderosa (vaga) di contemplare [dall’alto] queste terre? La vita del pastore è simile alla tua [il confronto tra la vita del pastore e della luna è costruito sulla base di una corrispondenza di verbi: vedi sorgi/sorge vv.3/11; vai/move vv.3/12; contemplando i deserti/vede greggi vv.4/12-13; indi ti posi/poi stanco si riposa vv.4/14]. Si alza (sorge) alle prime luci dell’alba e spinge (move) il gregge oltre il suo campo, per vedere altri greggi, altre sorgenti (fontane), altri prati (erbe); infine stanco si riposa al sopraggiungere della sera (in su la sera): non spera di vedere mai cose diverse [non si aspetta alcun cambiamento]. Dimmi o luna, che significato ha la vita del pastore, e la vostra vita per voi [gli astri] (Al pastor…a voi - chiasmo)? dimmi: dove è destinato questo mio breve vagare e il tuo percorso immortale? Vecchio coi capelli bianchi [una lunga allegoria occupa l’intera strofa in cui la vita umana è paragonata ad una corsa di un vecchio stanco e malato che finisce con una caduta in un abisso dove dimentica tutto], debole, mal vestito e scalzo (bianco, infermo/mezzo vestito e Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato. Poi che crescendo viene, L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell’umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perché delle cose, e vedi il frutto Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l’ardore, e che procacci Il verno co’ suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand’io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel con- fina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo scalzo - climax), con un pesantissimo (gravissimo) fardello sulle spalle, attraverso le montagne e le valli, attraverso sassi sporgenti (acuti), sabbia in cui si sprofonda (alta rena) e cespugli (fratte – vv.24/25 climax), con il vento, con la tempesta, sia quando la stagione (l’ora) è torrida (avvampa – d’estate), sia quando tutto è gelo (gela – d’inverno – vv.26/27 climax), corre via, corre, respira affannosamente, attraversa (corre via, corre, anela/varca - climax) torrenti e paludi, cade, si rialza (risorge - v.30 climax), e più si affretta senza mai un attimo di riposo o di tregua (senza posa o ristoro), lacero, sanguinante; fino a quando arriva nel luogo (colà) dove tutte le sue fatiche furono indirizzate, orrido abisso, smisurato, nel quale, precipitando, dimentica (obblia) ogni cosa [il punto d’arrivo della vita umana è l’abisso della morte che cancella per sempre ogni ricordo]. Vergine [vergine perché miticamente personificata in Artemide-Diana, la vergine cacciatrice ed anche perché estranea alle vicende umane] Luna, questa (tale) è la vita degli uomini [tale/mortale = rima baciata]. L’uomo nasce con dolore (a fatica), e già alla nascita rischia di morire. Per prima cosa prova angoscia e sofferenza [il pianto del bambino appena nato viene interpretato come dimostrazione di pena e tormento]; e subito (in sul pricipio stesso) la madre e il padre cominciano (il prende) a consolarlo per essere nato. Poi man mano che cresce, i genitori lo aiutano (il sostiene) e di continuo (via pur sempre), con azioni e parole, si sforzano (studiasi) di fargli coraggio (fargli core), e di consolarlo del fatto di essere uomo (dell’umano stato): da parte dei genitori (parenti - latinismo) non viene fatto ai loro figli altro compito (ufficio) più gradito di questo. Ma perché far nascere (dare al sole – Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell’innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell’esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors’altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno Quasi libera vai; Ch’ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’om- bra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; sta per: dare alla luce), perché mantenere poi in vita chi bisogna (convenga = sia necessario) consolare? Se la vita è dolore e sofferenza (sventura), perché si sopporta (si dura)? Intatta [al v.37 la luna viene definita vergine e qui intatta, dando lo stesso significato di “non toccata dalle vicende umane”] Luna, questa (tale riprende la stessa chiusa della strofa precedente) è la condizione degli uomini. Ma tu non sei mortale e forse poco ti importa (ti cale) delle mie parole. Eppure tu, solitaria (solinga), eterna viandante del cielo (peregrina), che sei così pensierosa [la luna appare al pastore come una creatura umana assorta nei suoi pensieri], tu forse [l’elemento dubitativo sottolinea il relativismo di ogni intuizione del pastore] capisci che cosa sia questa vita terrena, le nostre sofferenze, i sospiri, che cosa sia questo morire, questo estremo impallidimento (supremo scolorare) del viso (del sembiante: Leopardi allude al biancore della morte), questo scomparire (perir) della terra, e abbandonare (venir meno) le persone amate che ci hanno fatto a lungo compagnia (ad ogni usata, amante compagnia). Anche tu certamente comprendi il perché delle cose, e vedi l’utilità (il frutto – lo scopo del fluire dei giorni) del mattino, della sera, del silenzioso incessante trascorrere del tempo. Tu sai, certamente, a qual suo dolce amante sorrida la primavera [ogni anno la natura si fa bella come una fanciulla per piacere al suo innammorato], a chi sia d’aiuto il caldo, e che cosa procuri l’inverno (il verno) con i suoi ghiacciai. Tu conosci mille cose, ne riscopri altrettante, che sono nascoste al semplice pastore. Spesso quando io ti guardo (ti miro) mentre stai silenziosa (così muta – il condizione (stato), sia dentro una tana (covile) o una culla (cuna) , il giorno della nascita (il dì natale) è causa di dolori e di lutti (funesto). [forse anche così nulla cambierebbe perché sia l’uomo che l’animale possono provare il male di vivere. Nel verso di chiusura non si intravede nessuna speranza] ANALISI DEL TESTO: «Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia costituisce per certi versi la naturale conti- nuazione del ragionamento poetico di A Silvia e delle Ricordanze. Quest’ultimo componimento culmina nell’evocazione di Nerina come di un passare nel quale l’Io poteva giungere a veder riflesso il proprio stesso passare. Il Canto notturno costituisce la messa a tema da parte dell’Io del proprio passaggio nel mondo. Del tutto naturalmente, direi, al viaggio retrospettivo nella memoria, si sostituisce qui, dove il tema stesso dell’esistere viene messo immediatamente al centro, l’erranza (tema molto importante, si connette alla tradizione per la profonda ambiva- lenza tra errare/spostamento; errare/commettere un errore, non è un percorso definitivo, è un muoversi insensata) come metafora dell’esistenza e della sua inutilità. L’erranza dell’Io (e dell’uomo) viene colta dal testo nel suo affiorare alla coscienza come immagine riflessa dai mo- vimenti degli astri nel cielo (proiettati in quelli del pastore con la sua greggia sulla terra), come un’immagine, dunque, che giunge da fuori e, perciò stesso, è carica di implicazioni ontologiche.» (Colaiacomo) • Spostamento dalla dimensione individuale a quella universale. • Riflessione di un pastore, evidenziando un parallelismo tra il movimento degli astro nel cielo (circolare, torna su di sé) e quello del pastore (movimento generale), aiutando a riflet- tere sull’identità stessa dell’errare. Scritto per ultimo nella serie dei Canti pisano-recanatesi, ha da subito una collocazione imme- diatamente successiva alle Ricordanze (di cui sembra completare il discorso) e anteriore al Sa- bato del villaggio e alla Quiete dopo la tempesta, pur scritte prima. Invece che in Nerina l’Io si specchia nel pastore che non funge da specchio, ‘tu’ del dialogo, anzi, prende parola autonoma dal momento che il canto non appartiene alla categoria delle rimembranze. Del resto questo pastore ‘canta’ e si rivolge alla luna, proprio come il poeta (alter ego/immagine del poeta, nella poesia si parla sempre di poesia). Eppure non è come gli alter ego delle canzoni, immerso nella storia e nella tradizione: è invece senza nome, in un luogo senza spazio e senza tempo. Lui dia- loga con la luna e in lei si rispecchia: «Somiglia alla tua vita / la vita del pastore.» (chiasmo e ripetizione). ANALOGIE E DIFFERENZE: L’ ‘erranza’ del pastore è breve, quella della luna immortale, ma al pastore sembra analogamente ripetitiva e quindi contenere quella ambivalenza che il termine stesso evoca. Fino a porsi una domanda sul senso di entrambe. La seconda stanza chiama in causa due testi famosi di Petrarca per rovesciarne il senso: il «vec- chierel canuto e bianco» (RVF, XVI) che partiva per Roma per vedere la leggendaria immagine di Cristo si è trasformato, anche grazie alla contaminazione con «la stanca vecchiarella pelle- grina (RVF, L) in «vecchierel bianco, infermo» preso in una corsa disperata e senza meta, se non la dura morte (la tradizione serve a mostrare i cambiamenti della rappresentazione del passag- gio della vecchiaia/intendere la vita e la sua fine). Ma nella terza stanza tale insensatezza è narrata come già presente alla nascita (quando nasci, sei condannato, sei mortale), contigua alla morte e dolorosa tanto da configurare la consola- zione di tale dolore come compito precipuo dei genitori. Una meditazione tanto sconsolata da suscitare nuove domande radicali sul senso del tutto, rivolte ancora alla luna, che è intatta e certamente non mortale e forse del tutto indifferente («poco ti cale.») La quarta stanza prende l’avvio proprio da questa polarizzazione (i due destini rispecchiati poi si sottolineano le differenze tra i due, il movimento circolare è sostituito da una polarizzazione) netta tra l’Io e la luna, che sostituisce l’iniziale analogia di destino. La quarta lunghissima (componimenti hanno stanze di diverse misure, segnando il discorso) stanza sembra tornare alla prima, con l’attribuzione alla luna delle risposte da parte dell’Io stesso, in forma dubitativa («tu forse intendi») alle domande che lì le aveva posto. Poi il tono è sempre più assertivo «tu certo comprendi (…) Tu sai, tu certo (…) Mille cose sai tu, mille disco- pri, / che son celate al semplice pastore.» Con tale brusco passaggio al confronto, un’opposi- zione che segna tutta la stanza, cambia il tono: le domande ricominciano, l’Io le rivolge a se stesso, fino a quella cruciale «ed io che sono? / Così meco ragiono» senza riuscire ad avere ri- sposta dell’universo «girando senza posa». E concludendo con ironia dolorosa «Ma tu per certo, giovinetta immortal (non ha tempo) conosci il tutto. (…) a me la vita è male.» • L’io comprende la propria assoluta mancanza di comprensione e di strumenti, l’io sa che sta parlando da solo: riflessione meta poetica, a cui non c’è risposta. «Viene cioè data esplicitamente la risposta che all’inizio rimaneva implicita alla domanda dell’Io. Il testo raffigura così nelle prime quattro stanze un circumvolversi del pensiero su se stesso che è anche l’afferrare da parte del pensiero la propria radice immaginativa.» (Colaia- como) • Il girare della luna e del pastore rappresenta il girare del pensiero su se stesso, una capacità di arrivare alla radice (fondo da cui parte tutti/la poesia). Il pastore si rivolge poi, nella quinta stanza, alle sue greggi, invidiate perché ignare, incapaci di noia. La polarità è sottolineata dalla stessa posizione di stasi, che nelle une coincide con la quiete soddisfatta, in lui con disagio e inquietudine, senza che sia presente una ragione specifica. Pro- prio di tale differenza l’Io si interroga e vorrebbe chiedere alle greggi stesse, «se tu parlar sa- pessi.» L’interlocuzione alla luna e alle greggi, insieme, chiude il testo con l’ultima ipotesi di una proie- zione dell’Io in un volatile o nel tuono, per immaginare una condizione di felicità: una fantasia immediatamente autosmentita che lo porta invece ad una visione unitaria che stringe tutti i viventi nella stessa sorte: «è funesto a chi nasce (nascita connessa alla morte) il dì fatale.» TESTO: Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve (vita breve del pastore si oppone alla vita immortale della luna), il tuo corso immortale? ANALISI PRIMA STANZA: Dopo le domande, orientate verso una ripetizione che potrebbe in- durre noia nella noia (proeizione del pastore), c’è l’analogia che il pastore descrive. risposta e si mette a fuoco la totale diversità, la luna è muta, quindi le domande sono per sé) Cosí meco ragiono: e della stanza (vengono elencate le ragioni dell’impossibilità da capire) smisurata e superba, e dell’innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d’ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa, per tornar sempre lá donde son mosse (movimento circolare); uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto (si chiude il discorso). Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrá fors’altri; a me la vita è male. ANALISI QUARTA STANZA: si riprende il dialogo e si attribuiscono delle risposte alla luna, nella prima parte. O greggia mia che posi, oh te beata, che la miseria tua, credo, non sai! (mancanza di coscienza coincide con la beatitudine) Quanta invidia ti porto! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ch’ogni stento, ogni danno, ogni estremo timor subito scordi; ma piú perché giammai tedio non provi (gli esseri umani hanno il mal di vivere). Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, tu se’ queta e contenta; e gran parte dell’anno senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, e un fastidio m’ingombra (riflessione, non c’è lo stimolo fisico che produce la riflessione, è un fastidio psicologico) la mente; ed uno spron quasi mi punge sí che, sedendo, piú che mai son lunge da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, e non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, non so giá dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: — Dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? (continua con il confronto, la domanda si fa più precisa, la noia/non senso lo aggredisce e lo assale) ANALISI QUINTA STANZA: svolta dalla pura disperazione, si giunge a una riflessione filosofica, confronto con gli altri essere vivente: si sottolinea la coscienza come elemento distintivo, è l’inizio del dolore. Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, piú felice sarei, dolce mia greggia, (dubbio che apre la speranza) piú felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: (si allontana dalla verità osservando la vita degli al- tri) forse in qual forma, in quale (l’ipotesi viene proposta in modo ripetitivo) stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dí natale. ANALISI SESTA STANZA: c’è una pulsione verso la felicità. Canti 11: “La quiete dopo la tempesta” TESTO 1. Passata è la tempesta: 2. odo augelli far festa, e la gallina, 3. tornata in su la via, 4. che ripete il suo verso. Ecco il sereno 5. rompe lá da ponente, alla montagna: 6. sgombrasi la campagna, 7. e chiaro nella valle il fiume appare. 8. Ogni cor si rallegra, in ogni lato 9. risorge il romorio, 10. torna il lavoro usato. 11. L’artigiano a mirar l’umido cielo, 12. con l’opra in man, cantando, 13. fassi in su l’uscio; a prova 14. vien fuor la femminetta a côr dell’acqua 15. della novella piova; 16. e l’erbaiuol rinnova 17. di sentiero in sentiero 18. il grido giornaliero. 19. Ecco il sol che ritorna, ecco sorride 20. per li poggi e le ville. Apre i balconi, 21. apre terrazzi e logge la famiglia: 22. e, dalla via corrente, odi lontano 23. tintinnio di sonagli; il carro stride 24. del passeggier che il suo cammin ripiglia. 25. Si rallegra ogni core. 26. Sí dolce, sí gradita 27. quand’è, com’or, la vita? 28. Quando con tanto amore 29. l’uomo a’ suoi studi intende? 30. o torna all’opre? o cosa nova imprende? 31. quando de’ mali suoi men si ricorda? 32. Piacer figlio d’affanno; 33. gioia vana, ch’è frutto 34. del passato timore, onde si scosse 35. e paventò la morte 36. chi la vita abborria; 37. onde in lungo tormento, 38. fredde, tacite, smorte, 39. sudâr le genti e palpitâr, vedendo 40. mossi alle nostre offese 41. folgori, nembi e vento. 42. O natura cortese, 43. son questi i doni tuoi, 44. questi i diletti sono 45. che tu porgi ai mortali. Uscir di pena 46. è diletto fra noi. PARAFRASI 1. La tempesta è passata: 2. sento uccelli fare festa e la gallina 3. tornata sulla strada 4. ripetere il suo verso. Ecco il cielo sereno 5. da ovest verso la montagna squarcia le nubi; 6. si rischiara la campagna 7. e il fiume appare luminoso nella valle. 8. Ognuno si rallegra nel proprio cuore, da ogni parte 9. riprendono i rumori, 10. tornano le attività consuete. 11-13. L’artigiano si affaccia sulla porta can- tando con il lavoro in mano ad ammirare il cielo ancora umido di pioggia; a gara 14. esce la giovane ragazza a raccogliere dell’acqua 15. della recente pioggia; 16. e il venditore di ortaggi ripete, 17. andando di sentiero in sentiero, 18. il suo grido quotidiano. 19. Ecco il sole che torna, ecco che risplende 20-21. attraverso le colline e le case. I dome- stici aprono balconi, terrazze e porticati: 22. e dalla strada maestra si sente un lon- tano 23. tintinnio di sonagli; il carro rumoreggia 24. poiché il passeggero ha ripreso il proprio cammino. 25. Tutti si rallegrano nel proprio cuore. 26-27. Quando la vita è così piacevole e gra- dita come in questo momento? 28-29. Quando l’uomo si dedica alle proprie occupazioni con tanta passione? 30. O ritorna alle consuete attività? O intra- prende qualcosa di nuovo? 31. Quando si ricorda meno delle proprie sofferenze? 32. Il piacere deriva dal dolore; 33. è una gioia illusoria che nasce 34-36. dalla paura appena passata, a causa della quale coloro che odiavano la vita si spaventarono e temettero la morte; 37-41. a causa della quale le persone ag- ghiacciate, mute e pallide per il lungo spa- vento sudarono e furono turbati, vedendo ANALISI PRIMA STANZA: Ritmo melodico, in rima ci sono termini importanti (ecco il sereno/artigiano che canta), im- portante è anche il ritorno ai suoni. Negli ultimi versi notiamo un ritorno del conosciuto, aspetto principale della prima stanza, che viene descritto come piacevole. Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno rompe lá da ponente, alla montagna: sgombrasi la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato risorge il romorio, torna il lavoro usato. L’artigiano a mirar l’umido cielo, con l’opra in man, cantando, fassi in su l’uscio; a prova vien fuor la femminetta a côr dell’acqua della novella piova; e l’erbaiuol rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero. Ecco il sol che ritorna, ecco sorride per li poggi e le ville. Apre i balconi, apre terrazzi e logge la famiglia: e, dalla via corrente, odi lontano tintinnio di sonagli; il carro stride del passeggier che il suo cammin ripiglia. ANALISI SECONDA STANZA: Si rallegra ogni core. Sí dolce, sí gradita quand’è, com’or, la vita? →è questo il piacere? Quando con tanto amore l’uomo a’ suoi studi intende? → cosa provoca questo piacere? o torna all’opre? o cosa nova imprende? quando de’ mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d’affanno; gioia vana, ch’è frutto del passato timore, onde si scosse e paventò la morte chi la vita abborria; onde in lungo tormento, fredde, tacite, smorte, sudar le genti e palpitar, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento. Il piacere è tanto più forte quanto è stato la paura, tutta la natura contro = reazione di panico e di sofferenza (affanno di cui il piacere è figlio). ANALISI TERZA STANZA: • Chiusura speculare all’inizio, c’è lo svelamento del meccanismo che produce l’elemento di piacere, si tratta di una strofa satirica. O natura cortese, (ironia) son questi i doni tuoi, questi i diletti sono (cessazione del dolore) che tu porgi ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana (il dolore è la regola, ma in caso straordinario è un grande risultato quanto questo accase) prole cara agli eterni! (ironia) assai felice se respirar ti lice d’alcun dolor; beata se te d’ogni dolor morte risana (la loro unica beatitudine è la morte che guarisce ogni dolore, pessimismo di Leopardi). “Il Sabato del villaggio”, Leopardi TESTO 1. La donzelletta vien dalla campagna, 2. in sul calar del sole, 3. col suo fascio dell’erba, e reca in mano 4. un mazzolin di rose e di viole, 5. onde, siccome suole, 6. ornare ella si appresta 7. dimani, al dí di festa, il petto e il crine. 8. Siede con le vicine 9. su la scala a filar la vecchierella, 10. incontro lá dove si perde il giorno; 11. e novellando vien del suo buon tempo, 12. quando ai dí della festa ella si ornava, 13. ed ancor sana e snella 14. solea danzar la sera intra di quei 15. ch’ebbe compagni dell’etá piú bella. 16. Giá tutta l’aria imbruna, 17. torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre 18. giú da’ colli e da’ tetti, 19. al biancheggiar della recente luna. 20. Or la squilla dá segno 21. della festa che viene; 22. ed a quel suon diresti 23. che il cor si riconforta. 24. I fanciulli gridando 25. su la piazzuola in frotta, 26. e qua e lá saltando, 27. fanno un lieto romore: 28. e intanto riede alla sua parca mensa, 29. fischiando, il zappatore, 30. e seco pensa al dí del suo riposo. 31. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, 32. e tutto l’altro tace, 33. odi il martel picchiare, odi la sega 34. del legnaiuol, che veglia 35. nella chiusa bottega alla lucerna, PARAFRASI 1. La giovane contadina torna dai campi 2. al tramonto del sole 3. con il fascio d’erba e porta in mano 4. un mazzetto di rose e viole, 5. con il quale, come è usanza, 6. si prepara ad abbellire 7. il seno ed i capelli, domani per il giorno di festa. 8-9. La vecchietta siede sulle scale a filare con le vicine, 10. rivolta al tramonto, alla direzione in cui il giorno finisce; 11. e inizia a raccontare della sua giovinezza, 12. quando si faceva bella nei giorni di festa 13. e, ancora in salute e in forma, 14. era solita ballare la sera 15. con quelli che furono compagni della sua giovinezza, della sua età più bella. 16. Tutta l’aria si oscura già, 17-19. il cielo ritorna azzurro e le ombre, alla luce bianca della luna sorta da poco, tor- nano a vedersi giù dai colli e dai tetti. 20. Ora la campana annuncia 21. la festa che arriva 22. e si potrebbe dire che a quel suono 23. l’animo trova conforto. 24. I ragazzi, gridando 25. a gruppi nella piazzetta 26. e saltellando qua e là, 27. producono un rumore che rende felici: 28-29. e intanto lo zappatore ritorna a casa per il suo pasto frugale fischiettando 30. e pensa tra sé e sé al suo giorno di ri- poso. 31. Poi, quando intorno è spenta ogni altra luce 32. e tutto il resto è in silenzio, 33. senti picchiare il martello, senti il rumore fischiando, il zappatore, e seco pensa al dí del suo riposo. ANALISI SECONDA STANZA: una preparazione che si chiude, si crea l’aspettativa di un domani Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l’altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s’affretta, e s’adopra di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba. ANALISI TERZA STANZA: Questo di sette è il piú gradito giorno, (il sabato contiene il piacere, non c’è una festa che corri- sponde alle aspettatove) pien di speme (chiave fondamentale, la speranza permette di superare i limiti) e di gioia: diman (domenica) tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier fará ritorno (rovina la festa). ANALISI QUARTA STROFA: la condizione di speranza dell’aspettativa deve essere vissuta e go- duta. Garzoncello scherzoso, (la tua giovinezza è come il sabato, piena di aspettativa, costatazione amara) cotesta etá fiorita è come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo’; ma la tua festa ch’anco tardi a venir non ti sia grave. Canti 13, “Il ciclo di Aspasia” Con il Canto notturno (ultimo ad essere composto dei ‘Grandi Idilli’,) si è chiusa un’altra fase della ricerca poetica leopardiana. La nuova produzione ha inizio a Firenze, in seguito all’incon- tro (infelice) con la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti: un’esperienza forte che porta a una nuova coscienza di sé e a cinque liriche note come “ciclo di Aspasia”. La composizione poetica raggiunge un’inedita complessità di pensiero e, a differenza della poe- sia precedente, non è più accompagnata dal lavorio parallelo dello Zibaldone. Costituisce per- ciò, in questo periodo, anche l’unica forma di espressione della riflessione leopardiana, una me- ditazione poetico-filosofica sull’ «immagine» (ovvero sulla potenza della poesia rispetto al «vero») e una messa «a tema della propria stessa identità di Io, tornata definitivamente a sé, dopo quel fondativo viaggio nell’altro di cui gli idilli costituiscono l’esperienza o la rappresen- tazione suprema» (Colaiacomo). La novità poetica si esprime a tutti i livelli del testo. Metricamente continua a prevalere la can- zone libera, ma si affacciano anche forme del tutto nuove. A livello sintattico il periodo è per lo più breve e spezzato, ma talora è anche lunghissimo, senza però mai diventare melodico. Il les- sico (spostato sul piano di una riflessione interiore) si fa denso, astratto, rinunciando a qualsiasi coloritura descrittiva. La differenza più evidente rispetto alla produzione precedente è l’abbandono della poetica dell’indefinito e della rimembranza: la poesia non è più frutto di una sensazione, che a sua volta mette in moto un ricordo lontano, reso poetico e suggestivo proprio dalla sua vaghezza e inde- terminatezza, ma trova una sua dimensione nel presente. La riapertura del discorso poetico sembra avvenire nel segno della ripresa della tematica amo- rosa e in particolar modo del motivo, in senso lato platonico, della «donna che non si trova». Nel ‘ciclo di Aspasia’ invece che un’attitudine sentimentale, che trovava la sua forma nella me- lodia, e nella potenza dell’immagine e dell’ambiente naturale, trova posto una forma più netta- mente filosofica e ragionativa, una concentrazione assoluta e drammatica. E fa la sua prima ap- parizione la dimensione erotica. «L’Io mette ora a tema la propria stessa identità di Io, tornata definitivamente a sé, dopo quel fondativo viaggio nell’altro di cui gli idilli costituiscono l’esperienza o la rappresentazione su- prema. Se l’altro fornisce il punto di vista, il ritorno al tempo determinato è la prospettiva della morte (o della tomba). Approssimarsi alla visione della propria morte dall’esterno, come spet- tatore, al proprio stesso sepolcro, sembra essere uno dei motivi conduttori degli ultimi Canti, dal Pensiero dominante e Amore e Morte al Tramonto della luna: «Chiudi alla a luce omai | que- sti occhi tristi, o dell’età reina» (Amore e Morte, vv. 106-7). (Colaiacomo) • Il tempo è cambiato, è un presente che ha come prospettiva reale e prossima quella della morta, non può che è essere riflessivo. Il “ciclo di Aspasia” è ispirato all’amore per Fanny Targioni Tozzetti, che però non è che un oc- casionale motivo unificatore; quello reale è, invece, la meditazione sull’amore e sulla morte a partire dall’io del poeta, espressa in forme poetiche lucide, che riflettono l’articolarsi di un pen- siero che rilegge il genere lirico alla luce di una volontà introspettiva e filosofica. Il centro del discorso è il pensiero d’amore ossessivo (come lo era stato anche nella lirica delle origini) ma qui una ossessione in cui l’amore non è mai nominato, a sottolineare la natura astratta del pensiero. Solo nella mente l’amore diviene pensiero e quindi immagine; Leopardi ci sta dicendo che il punto centrale non è tanto l’amore quanto il pensiero dell’amore, la raffi- gurazione dell’amore: per questo la parola amore non compare in questa poesia. «Dolcissimo, possente / dominator (ossimoro) di mia profonda mente (livello di ossessione); / terribile, ma caro /dono del ciel» vv.1-4 La riflessione sull’amore è una riflessione sulla vita e sul senso dell’esistenza. Leopardi ribalta la tradizione lirica, dal momento che non parla d’amore, ma del pensiero d’amore e rilegge la poesia d’amore come poesia dell’Io e dell’esistenza. Il pensiero d’amore riscatta (ribalta la tra- dizione) il destino tragico dell’uomo ed è l’unico motivo che può rendere la vita preferibile alla morte: questo pensiero d’amore è la poesia. • Unica illusione che tende a tornare è l’idea dell’amore, secondo Leopardi, il pensiero d’amore (la poesia) è un motivo talmente potente che può rendere la vita preferibile alla morte. «Quanto più torno / a riveder colei /della qual teco ragionando io vivo, / cresce quel gran diletto (piacere), / cresce quel gran delirio (sofferenza), ond’io respiro (io vivo ripetizione/la poesia). / Angelica beltade! (immagine ideale, è ciò di cui vive ragionandone con “te” =frase meta poe- tica, definizione della poesia) / parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, / quasi una finta imago (finzione poetica, ogni bel volto sembra una finzione reale) / il tuo volto imitar.» Anche il concetto di vita è in relazione alla poesia in quanto respiro vuol dire respirare, ma richiama anche lo spirare, cioè l’ispirazione poetica. Leopardi, infatti, dà particolare risalto a questo verbo che è introdotto da una serie anaforica: cresce quel gran diletto, cresce quel gran delirio. Il pensiero dominante è la somiglianza (imago) e quindi il comparare che sconfigge il vero, è la morte metaforica del vero. Da qui si arriva poi ad Amore e Morte. TESTO: Dolcissimo, possente dominator di mia profonda mente; terribile, ma caro dono del ciel; consorte ai lúgubri miei giorni, pensier che innanzi a me sì spesso torni. ANALISI PRIMA STANZA: Non si comprende da subito il soggetto, negli ultimi versi notiamo che si tratta del pensiero, già espresso nel titolo, si nota l’elemento del lugubre che avverte della morte. Di tua natura arcana chi non favella? Il suo poter fra noi chi non sentì? Pur sempre che in dir gli effetti suoi le umane lingue il sentir propio sprona, par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona. ANALISI SECONDA STANZA: Notiamo due elementi: il potere che riguarda tutti, si sottolinea l’elemento della lingua (espressione in parole del pensiero), si tratta del rapporto tra pensiero e linguaggio. Ha una ANALISI OTTAVA STANZA: diversità e allontanamento Altra conseguenza: la sua collocazione nella comunità umana cambia, si chiarisce meglio e si distingue come diverso. Adesso è particolarmente sensibile all’indegnità, la sensibilità verso l’ingiusto è aumentata, si sente superiore a questi tempi arroganti (la società in cui vive). A quello onde tu movi, quale affetto non cede? anzi qual altro affetto se non quell'uno intra i mortali ha sede? Avarizia, superbia, odio, disdegno, studio d'onor, di regno, che sono altro che voglie al paragon di lui? Solo un affetto vive tra noi: quest'uno, prepotente signore, dieder l'eterne leggi all'uman core. ANALISI NONA STANZA: il discorso sembra un dibattito filosofico (spiegazioni/domande re- toriche), si sta definendo, attraverso l’io e il pensiero d’amore, una meditazione filosofica sull’intero senso dell’esistenza. Il poeta sta completando il quadro sulla concezione degli esseri umani, c’è solo il desiderio d’amore nell’amore poi scrive una lista delle passioni umane che rispetto all’amore sono sol- tanto voglie, quindi ne conclude che solo questo unico e grande sentimento vive fra loro (di- scorso universale): l’unico signore potente è stato dato al cuore umano dalle leggi eterne. Pregio non ha, non ha ragion la vita se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto; sola discolpa al fato, che noi mortali in terra pose a tanto patir senz'altro frutto; solo per cui talvolta, non alla gente stolta, al cor non vile la vita della morte è più gentile. Per còr le gioie tue, dolce pensiero, provar gli umani affanni, e sostener molt'anni questa vita mortal, fu non indegno; ed ancor tornerei, così qual son de' nostri mali esperto, verso un tal segno a incominciare il corso: che tra le sabbie e tra il vipereo morso, giammai finor sì stanco per lo mortal deserto (la vita è un deserto, il cui attraversamento è orribile: vincere il dolore è una conquistata molto grande per il desiderio d’amore) non venni a te, che queste nostre pene vincer non mi paresse un tanto bene. ANALISI DECIMA STANZA: cambiamento significativo, il desiderio d’amore dà un senso alla vita, ripensando alla vita e ai dolori che ha sofferto, il poeta è disposto a ricominciare se sa che alla fine possa arrivare al pensiero d’amore: dichiarazione impegnativa. Conclusione della riflessione filosofica, è impegnativa perché modifca alcuni dei principi leo- pardiani: sostiene che la vita non ha né pregio né ragione se non per questo pensiero d’amore che è tutto per l’uomo, mostra che il fato può essere giustificato per la sofferenza dell’esi- stenza, la vita può essere preferibile alla morte. Nella chiusura, il poeta rilegge la sua vita alla luce di questa nuova scoperta: ha avuto un senso la sofferenza per vivere la gioia dal pensiero d’amore. Che mondo mai, che nova immensità, che paradiso è quello là dove spesso il tuo stupendo incanto parmi innalzar! dov'io, sott'altra luce che l'usata errando, il mio terreno stato e tutto quanto il ver pongo in obblio! Tali son, credo, i sogni degl'immortali. Ahi finalmente un sogno in molta parte onde s'abbella il vero sei tu, dolce pensiero; sogno e palese error. Ma di natura, infra i leggiadri errori, divina sei; perchè sì viva e forte, che incontro al ver tenacemente dura, e spesso al ver s'adegua, nè si dilegua pria, che in grembo a morte. ANALISI UNDICESIMA STANZA: dichiarazione di adorazione e meditazione filosofica. La dichiarazione: essere stato elevato al paradiso (una nuova immensità/un nuovo mondo). Non si tratta di un’esperienza fugace, ma si può ripetere e possiede le caratteristiche del para- diso, appunto. In questo posto, il poeta, che si muove in un’atmosfera diversa, dimentica il suo stato terreno: lo stato paradisiaco produce una dimenticanza della propria condizione mor- tale, e, quindi, anche del vero. Si tratta di un sogno, nel quale la verità diventa bella, ma è un errore palese e di natura il più divino: è talmente forte che dura fino alla morte, tenacemente, contrastando e modificando il vero. E tu per certo, o mio pensier, tu solo vitale ai giorni miei, cagion diletta d'infiniti affanni, meco sarai per morte a un tempo spento: ch'a vivi segni dentro l'alma io sento che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni (possibili amori) soleami il vero aspetto più sempre infievolir. Quanto più torno a riveder colei (una bellezza che si distingue fra le altre, ha le caratteristiche del vero) della qual teco ragionando io vivo, cresce quel gran diletto, cresce quel gran delirio, ond'io respiro. Angelica beltade! Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, quasi una finta imago il tuo volto imitar. Tu sola fonte d'ogni altra leggiadria, sola vera beltà parmi che sia. ANALISI DODICESIMA STANZA: Si chiude il ragionamento, si rivolge al pensiero che lo accompagnerà fino alla sua morte, poi sparirà con essa perché è l’unica parte vitale della sua vita, non si tratta di una beatitudine ma di un potere su cui la morte vincerà. Da che ti vidi pria, di qual mia seria cura ultimo obbietto non fosti tu? quanto del giorno è scorso, ch'io di te non pensassi? ai sogni miei la tua sovrana imago quante volte mancò? Bella qual sogno, angelica sembianza, nella terrena stanza, nell'alte vie dell'universo intero, che chiedo io mai, che spero altro che gli occhi tuoi veder più vago? altro più dolce aver che il tuo pensiero? ANALISI TREDICESIA STANZA: Si conclude con il termine “pensiero” e i primi versi delle due stanze conclusive sono circon- date dal “pensiero”, quindi esse rappresentano un coronamento del ragionamento. Dal primo momento, è stata l’unico obiettivo (domande retoriche in negativo), c’è una dichiarazione di impossibilità di mancanza. Il pensiero è una speranza che non bisogna avere, qui la speranza non esiste diversamente dalle altre poesie, non c’è altro di più bello e dolce del pensiero d’amore: la speranza è soddisfatta. con la man violenta pongon le membra giovanili in terra. Ride ai lor casi il mondo, a cui pace e vecchiezza il ciel consenta. Ai fervidi, ai felici, agli animosi ingegni l'uno o l'altro di voi conceda il fato, dolci signori, amici all'umana famiglia, al cui poter nessun poter somiglia nell'immenso universo, e non l'avanza, se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni sempre onorata invoco, bella Morte, pietosa tu sola al mondo dei terreni affanni, se celebrata mai fosti da me, s'al tuo divino stato l'onte del volgo ingrato ricompensar tentai, non tardar più, t'inchina a disusati preghi, chiudi alla luce omai questi occhi tristi, o dell'età reina. Me certo troverai, qual si sia l'ora che tu le penne al mio pregar dispieghi, erta la fronte, armato, e renitente al fato, la man che flagellando si colora nel mio sangue innocente non ricolmar di lode, non benedir, com'usa per antica viltà l'umana gente; ogni vana speranza onde consola se coi fanciulli il mondo, ogni conforto stolto gittar da me; null'altro in alcun tempo sperar, se non te sola; solo aspettar sereno quel dì ch'io pieghi addormentato il volto nel tuo virgineo seno. che io ti chiamo già fin dalla mia fanciullezza, pietosa degli affanni umani, dopo che io ti ho celebrata, e ho cercato di compensarti degli insulti che ti manda la gente ingrata, esaudisci le mie preghiere e chiudi questi miei occhi tristi. Mi troverai di certo pronto qualsiasi sia il momento che tu verrai da me, mi troverai con la testa alzata, indomito, e resistente all'infelicità, troverai me che non benedico la mano del fato che si colora del mio sangue innocente; troverai me che non riempio di lodi la morte come gli uomini usano fare per antica consuetudine e viltà; troverai me che getto via ogni vana speranza con cui gli uomini si consolano come i fanciulli; troverai me che aspetto solo te; troverai me che, solo e sereno, aspetto quel giorno che, addormentato, possa piegare il mio capo sul tuo virgineo seno. ANALISI DEL TESTO: «Approssimarsi alla visione della propria morte dall’esterno, come spettatore (tipico nel ciclo di Aspasia), al proprio stesso sepolcro, sembra essere uno dei motivi conduttori degli ultimi Canti, dal Pensiero dominante e Amore e Morte al Tramonto della luna: «Chiudi alla luce omai | questi occhi tristi, o dell’età reina» (Amore e Morte, vv. 106-7). (…) Se la forza totalizzante della poesia («imago») è la morte metaforica del vero, l’evento naturale della morte costituisce il suo limite estremo, ma anche la sua suprema garanzia. Perciò, se il pensiero dominante, l’imago, è un materializzarsi fantastico dell’amore (mai esplicitamente no- minato nel testo), in Amore e Morte, all’immagine del «fanciullo Amore» si accompagna quella della morte e di «Bellissima fanciulla», vagheggiata dal poeta. A sé stesso, con la caduta dell’«in- ganno estremo» (cioè, verosimilmente, l’amore), sembra mettere al centro la morte stessa, ap- parentemente sciolta dalla relazione dialettica con l’amore.» (Colaiacomo) • Si delinea un percorso: dal riconoscimento inedito del pensiero dell’amore si passa a una riflessione di quanto questo imago sia più forte del vero e mette in crisi alcune delle linee fondamentali del pensiero di Leopardi: riflettendo sulla propria morte, il pensiero cambia. • L’io parla a sé stesso e parla della morte. Leopardi pone una epigrafe al suo testo Amore e Morte, un famoso detto: «Muor giovane colui ch’al ciel è caro» (Menandro), nel quale la morte (elezione a uno stato di superiorità) non pre- senta alcuna tragicità ma anzi è legata profondamente alla giovinezza e al privilegio dell’amore divino. Tutto il testo è immerso in una dimensione allegorica (rappresentazione di grande eleganza e di distanziamento per le emozioni) e filosofica che prende le distanze da ogni emozione. Il di- scorso ha un impianto circolare: parte dalla prima stanza con la descrizione dei due fanciulli che rappresentano le due fondamentali dimensioni della vita umana, connesse tra loro tanto da figurare come una coppia di gemelli e si chiude nell’ultima stanza con l’invocazione dell’Io ai due personaggi. La potenza dei due è celebrata (differenza dalla tradizione poetica), piuttosto che temuta o de- precata come di solito. I due inseparabili fanciulli vengono descritti come di suprema bellezza, l’uno perché portatore del «piacer maggiore» (l’amore), l’altra perché «ogni gran male annulla» (la morte). Ma il punto è naturalmente il legame (tra i due): «sorvolano insieme la via mortale». L’Amore infatti spinge a correre il rischio estremo (rischiare la morte) e a disprezzare una vita che non sia felice. Nella seconda stanza il legame tra i due soggetti viene esplicitato come consustanziale: è all’ori- gine stessa della pulsione amorosa che «insiem con esso in petto/ un desiderio di morir si sente» (legati con l’oggetto). È la stessa potenza d’amore, e in particolare la potenza immagina- tiva che viene messa in moto, «il suo pensier figura» a far desiderare la quiete, di fronte a ben altro devastante «fier disio, che già, rugghiando» (desiderio di morte si oppone alla percezione di un desiderio feroce/carnale). Il ruggito del desiderio, con la sua carica carnale, fa la sua ap- parizione nella poesia leopardiana dialetticamente insieme all’immaginazione amorosa e alle parole della tradizione poetica (procella, quiete, porto, disio). La terza stanza, centrale e particolarmente lunga, connette profondamente la passione amorosa al «desiderio intenso» della morte, descritto in modo analogo al desiderio erotico («sospiri ar- denti» in realtà connessi alla morte) per tutti gli esseri umani, al di là di classe o cultura, fino alla giovinetta che, oltre il timore, arriva a comprenderne la grandezza, e a meditare il suicidio. «Tanto alla morte inclina / d’amor la disciplina (la potenza).» L’intreccio viene qui fissato in una immagine simbolica forte, a coronamento di un discorso profondamente intessuto di ter- mini dell’area semantica del morire, nel quale affanno e dolore sono piuttosto legati all’Amore che, lui, provoca la morte o ne induce la ricerca. E non manca l’amara, ironica esclamazione finale su chi ad essi si sottrae. L’ultima stanza torna a indicare la potenza delle due forze e dispiega poi una invocazione alla Morte, celebrandone la pietas e invocandone l’arrivo per sé (il percorso conduce vero il deside- rio di confrontarsi con la propria morte). Al centro è quindi il rapporto continuato dell’Io con la morte, la sua consapevolezza della contraddittorietà di tale desiderio, il suo rifiuto di consolarsi fingendo. La stanza si chiude con la rappresentazione di tale arrivo, sempre desiderato, che as- sume quindi significativamente le caratteristiche di un incontro con la «bellissima fanciulla» evocata all’inizio alla quale non chiede che di addormentarsi «nel tuo virgineo seno.»(si sovrap- pone l’immagine della morte con l’amore). ANALISI PRIMA STANZA: Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte (il fato li fa nascere insieme, sono gemelli con una bellezza innata) ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall'uno il bene, nasce il piacer maggiore che per lo mar dell'essere si trova; l'altra ogni gran dolore, ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, (la morte può cancellare il male e il dolore, è potente) dolce a veder, non quale la si dipinge la codarda gente (la teme), gode il fanciullo Amore accompagnar sovente; e sorvolano insiem la via mortale, al cui poter nessun poter somiglia nell'immenso universo, e non l'avanza, se non quella del fato, altra possanza. E tu, cui già dal cominciar degli anni sempre onorata invoco, bella Morte, pietosa (sempre stata sua compagna, la invoca direttamente) tu sola al mondo dei terreni affanni, se celebrata mai fosti da me, s'al tuo divino stato l'onte del volgo ingrato ricompensar tentai, non tardar più, t'inchina a disusati preghi, chiudi alla luce omai questi occhi tristi, o dell'età reina. Me certo troverai, qual si sia l'ora (l’invocazione assume la forma di un discorso amoroso: l’io dichiara che è in attesa in qualsiasi momento, non benedirà la mano che lo uccide come chi cerca di consolarsi) che tu le penne al mio pregar dispieghi, erta la fronte, armato, e renitente al fato, la man che flagellando si colora nel mio sangue innocente non ricolmar di lode, non benedir, com'usa per antica viltà l'umana gente; ogni vana speranza onde consola se coi fanciulli il mondo, ogni conforto stolto gittar da me; null'altro in alcun tempo sperar, se non te sola; solo aspettar sereno quel dì ch'io pieghi addormentato il volto nel tuo virgineo seno/figura femminile astratta che possa accoglierlo . (rappresenta il suo rap- porto con la morte che è di lunga durata e contraddittorio) A sé stesso, Giacomo Leopardi TESTO Or (presente molto preciso) poserai per sempre, stanco mio cor (simbolo della sede dell’emozioni). Perì l’inganno estremo (pensiero d’amore) , ch’eterno io mi credei (costruzione chiastica). Perì. Ben sento(lucido emotivamente) , in noi di cari inganni (pensieri d’amore), non che la speme, il desiderio è spento (cancellazione delle due parole che rappresentano la relazione amorosa). Posa per sempre. Assai Palpitasti (le emozioni sono state sufficienti). Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri (poesia d’amore) è degna la terra. Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo (dichiarazione negativa). T’acqueta omai. Dispera l’ultima volta (non sperare mai più). Al gener nostro il fato (ha donato la morte che sovrasta la vita) non donò che il morire. Omai disprezza te, la natura, il brutto poter che, ascoso (malvagio), a comun danno impera, e l’infinita vanità del tutto (definitiva cancellazione del senso). PARAFRASI Ora ti riposerai per sempre, o mio stanco cuore. È sfumata l’illusione più grande, che io immaginai essere eterna. È morta. Sento lucidamente che in me e nel mio intimo è spenta non solo la speranza, ma anche il desiderio. Riposa in eterno. Ha battuto assai. I tuoi palpiti non valgono nulla, né le relazioni umane meritano illusioni. La vita è amarezza e noia, e null’altro mai; e il mondo è fango. Posa le tue inquietudini. Disperati per l’ultima volta. Al genere umano il destino non ha fatto altri doni che la morte. Ormai la natura ti disprezza, la malvagia forza che, nascosta, governa il mondo per il danno comune, e comanda sull’inutilità del creato ANALISI DEL TESTO: Fortemente connesso ai primi due, questo breve componimento rappre- senta un ulteriore evoluzione della meditazione leopardiana e, come abbiamo visto, la delu- sione amorosa porta ormai alla rottura della connessione amore/morte, per lasciare al centro solo la morte. Rivolgendosi a sé stesso, l’Io prende atto della fine dell’illusione amorosa e di ogni speranza o desiderio di essa. Il testo si divide in tre parti, ognuna introdotta da una esortazione alla morte. Tutto il testo è denso di segni del definitivo. Il discorso procede per periodi tronchi, quasi sin- gulti. Il giudizio sul senso della esistenza è ormai senza appello e ad esso si accompagna l’in- giunzione a smettere ogni speranza, dal momento che ciò che tutto governa non è solo insensato ma malvagio perché teso al danno di tutti. Il testo si conclude con una frase icastica: «l’infinita vanità del tutto.» Canti 14, Aspasia Torna dinanzi al mio pensier talora il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo per abitati lochi a me lampeggia in altri volti; o per deserti campi, al dì sereno, alle tacenti stelle, da soave armonia quasi ridesta, nell'alma a sgomentarsi ancor vicina quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno mia delizia ed erinni! E mai non sento mover profumo di fiorita piaggia, nè di fiori olezzar vie cittadine, ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno che ne' vezzosi appartamenti accolta, tutti odorati de' novelli fiori di primavera, del color vestita della bruna viola, a me si offerse l'angelica tua forma, inchino il fianco sovra nitide pelli, e circonfusa d'arcana voluttà; quando tu, dotta allettatrice, fervidi sonanti baci scoccavi nelle curve labbra de' tuoi bambini, il niveo collo intanto porgendo, e lor di tue cagioni ignari con la man leggiadrissima stringevi al seno ascoso e desiato. Apparve novo ciel, nova terra, e quasi un raggio divino al pensier mio. Così nel fianco non punto inerme a viva forza impresse il tuo braccio lo stral, che poscia fitto ululando portai finch'a quel giorno si fu due volte ricondotto il sole. Raggio divino al mio pensiero apparve, donna, la tua beltà. Simile effetto fan la bellezza e i musicali accordi, Il tuo volto torna talvolta nel mio pensiero, Aspasia. Ora lo rivedo, velocemente, in altri volti della città, ora esso mi è destato dall'armonia di un giorno sereno, o dalle tacite stelle, e la mia anima è pronta a turbarsi di nuovo. Quanta adorata è stata questa visione e un giorno è stata la mia delizia e il mio tormento. Un profumo che sento emanare dalla fiorita campagna, o che provenga dalle vie della città, mi fa ricordare il giorno nel quale io ti vidi, tutta raccolta nei tuoi appartamenti, odorosi di fiori appena colti, vestita con una veste di colore bruno, con il fianco adagiato sopra un divano, tutta circondata di misteriosa voluttà, e tu, dotta allettatrice, intanto che baciavi i tuoi figli e li stringevi con le lue leggiadrissime mani al tuo seno coperto e desiderato, alzando il tuo bianco collo, ti muovevi con un fare seduttivo e malizioso. Allora un nuovo cielo, una nuova terra, un raggio divino, apparvero al mio pensiero, tanto che io, ferito dalla tua freccia d'amore, mi innamorai di te. Dentro di me portai questo amore infelice, ululando, da quel giorno ad oggi che fanno due anni. La tua bellezza apparve al mio pensiero un raggio divino. La bellezza e l'armonia musicale hanno lo stesso effetto, essi siano pieni di tedio. Orbene se la vita, priva d'amore e di illusioni, è triste, vuota come una notte buia e senza stelle in pieno inverno, tale sono io, perché sono rimasto solo. Ma il conforto e la vendetta che io mi prendo sul mio destino mortale consiste nel fatto che sono divenuto indifferente ed immobile, e mentre sto seduto qui a guardare il mare, la terra e il cielo sorrido. (Sono, quindi, diventato cinico, freddo e distaccato e mi faccio una risata che esprime scherno, sfida e disprezzo per il mondo). ANALISI DEL TESTO: «Le tre poesie, Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, conoscono il loro naturale provvisorio compimento in Aspasia e nelle due sepolcrali. Aspasia è premessa e conclusione del ciclo aperto dai primi tre componimenti. In queste tre poesie, infatti, viene raffigurata una delusione amorosa come la definitiva liberazione dell’immagine dalla realtà. Platonicamente, l’Io, «cupido», aveva seguito in Aspasia una «dolce somiglianza». Con la delusione, il «core» diventa «sepolcro», dove viene custodita l’immagine («Diva») di Aspasia, altro dall’Aspasia vivente. L’Imago, «come cara larva», «ad ora ad ora | tornar costuma e disparir» (vv. 73-74). Quest’immagine (la somiglianza stessa) si ripresenta come icona figurativa, come «bellissima donzella», nelle Sepolcrali. Essa è l’icona della morte «bellissima fanciulla» (Amore e Morte, v. 10), «simulacro» collocato invano, ma immobilmente, nel «fango» (XXXI, v. 2; cfr. A se stesso v. 10).» (Colaiacomo) Con la canzone Aspasia si chiude l’esperienza ‘amorosa’ (il desiderio assoluto non trova spazio nella realtà) nella quale l’Io ha sperimentato, e rappresentato, un desiderio di assoluto a cui corrisponde solo la morte. È l’amore come delusione dell’ideale e «inganno estremo» ad essere esaminato amaramente nei suoi diversi aspetti nella canzone e che consente di approdare alla rappresentazione della (propria) morte. In Aspasia la delusione rivela, insieme alla natura dell’ ‘amore’, anche la misoginia profonda di tale ‘idealizzazione’: «Alfin l’errore e gli scambiati oggetti / conoscendo s’adira; e spesso incolpa / la donna a torto. A quella eccelsa imago / sorge di rado il femminile ingegno (non raggiungono mai quel livello di perfezione dell’imago); / e ciò che ispira ai generosi amanti / la sua stessa beltà, donna non pensa, / Né comprender potria. Non cape in quelle (menti ristrette, non comprendono un sentimento di quel livello)/ anguste fronti ugual concetto/(…) in chi dell’uomo al tutto / da natura è minor. Che se più molli/ e più tenui le membra, essa la mente/ men capace e men forte anco riceve.» Il discorso sarà poi concluso dalle due Sepolcrali: meditazioni davanti alla tomba di due fanciulle sulla caducità di bellezza e di amore. La Palinodia al Marchese Gino Capponi, epistola in versi sciolti al gruppo del Vieusseux (corteggiato, idee di progresso considerate ridicole), chiude con una nota di ironia, rappresentata da una finta ritrattazione («Errai candido, riferimento a Candide di Voltaire/ingenuo) Gino; assai gran tempo, /e di gran lunga errai. Misera e vana stimai la vita, parla del passato in cui identifica un errore») per offrire invece una caricatura della modernità che si presenta come ‘età dell’oro’ e del progresso, mentre poi risulta incapace di fare i conti con l’infelicità umana. E la natura torna ad essere negativa: «La natura crudel, fanciullo invitto (viziato/capriccioso, sarcasmo) / il suo capriccio adempie, e senza posa / distruggendo e formando si trastulla (insensato comportamento, distruggere e creare). (…) vecchiezza e morte (infelicità umana), / ch’an principio d’allor che il labbro infante (sono presenti già dal momento in cui l’infante prende il latte dalla madre) / preme il tenero sen che vita instilla;/ emendar, mi cred’io, non può la lieta (lieta)/ nonadecima età». CANTI 15, “La ginestra” Scritta nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta era ospite di parenti dell’amico Ranieri, La ginestra è l’ultima composizione di Leopardi: un’ideale conclusione della sua ricerca. Il poeta infatti richiede esplicitamente a Ranieri di collocarla come ultimo dei Canti nell’edizione definitiva che viene pubblicata postuma a cura dell’amico nel 1845. «Anche riflettendosi nel fiore del deserto, il poeta vede, con la propria immagine, la propria morte. La ginestra è un simbolo abbastanza particolare. Il poeta si rivolge ad essa al singolare («odorata ginestra», «lenta ginestra», «il tuo capo innocente»), ma si tratta evidentemente di un singolare per il plurale. Il poeta sta rivolgendosi, in realtà, alla ginestra come specie, la cui caratteristica individuante fondamentale è quella di rinascere dopo la catastrofe. Essa soccombe nella furia distruttiva, ma il suo soccombere è anche il suo punto di contatto con l’«inesausto grembo» naturale, ovvero con la continuità della vita.» (Colaiacomo) • Leopardi in fin di vita utilizza un simbolo della vita, mostrando quanto sia presente la con- traddizione: tanta passione della vita, per la ginestra è previsto che muoia e non si oppone, peer questo rappresenta la continuità della vita. Riprendendo il filo tematico e metaforico del “deserto”, che abbiamo già visto nel Canto not- turno e poi approfondito in Amore e morte, il poeta costruisce una lunga e complessa allegoria a partire dalla ginestra, «fiore del deserto (rappresenta la tenacia della vita)». Il canto rappresenta il commiato dell’autore dalla poesia e dalla vita: una sorta di testamento poetico attraverso un’identificazione tra l’Io e la ginestra e un messaggio filosofico di carattere generale sul senso dell’esistenza umana. L’uso dei metri classici della canzone (endecasillabo e settenario), a rima libera, segnala un rapporto con la tradizione lirica, ma l’estensione di 317 versi e la materia riflessiva e filosofica indicano piuttosto la forma del poemetto (non è una canzone), paragonabile ai Sepolcri di Foscolo. Con movimento circolare, il canto si chiude con l’immagine della ginestra con cui si era aperto: la sua fine viene conclusivamente immaginata in modi abbastanza prossimi a quelli in cui in Amore e Morte l’Io aveva immaginato la propria morte. Il componimento si articola in sette strofe di lunghezza variabile, nelle quali l’Io compare rara- mente in modo diretto, anche se apostrofa la ginestra e con essa manifesta un’evidente identi- ficazione. La condizione di umile e rassegnata spettatrice, in uno scenario avvolto dalle rovine, solitaria e «di tristi lochi … amante» (vv. 14-15), ma capace di «abbellir» (v. 8), di adornare con la sua presenza i luoghi più desolati, pietosa delle sofferenze («i danni altrui commiserando», v. 35), e infine di spargere un «dolcissimo … profumo» (v. 36), ne fanno un alter ego perfetto dell’Io. • Identificazione molto forte, l’io riesce a dire molto di sé: sta riflettendo su uno scenario molto triste, non sentendosi fuori (empatico), la sua poesia l’unica cosa che può vincere la morta. L’APOSTROFE alla ginestra apre e chiude il canto, che vede altri soggetti e interlocutori interni, mentre la strofa nella quale l’Io parla in prima persona come soggetto lirico è collocata in posi- zione centrale. Accanto alla proiezione come fiore del deserto, l’Io continua ad essere, come in tutti gli altri canti, il locutore (non è esattamente io lirico perché non parla di sé ma racconta altro), che sembra venire allo scoperto come un personaggio, distinto dalle sue proiezioni fan- tastiche. "E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce" (Giovanni, III, 19). Qui su l'arida schiena del formidabil monte (potenza della natura) sterminator Vesevo, la qual null'altro allegra (arida) arbor né fiore, tuoi cespi (cespugli) solitari intorno spargi, odorata ginestra (elemento del profumo), contenta dei deserti. Anco ti vidi (associazione/rimembranza). de' tuoi steli abbellir l'erme contrade che cingon la cittade (Roma, signora del mondo) la qual fu donna de' mortali un tempo, e del perduto impero par che col grave e taciturno aspetto (rovine) faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante (Italia mia, c’è uno spostamento nel ricordo e poi un ritorno nel presente), Nell'epigrafe evangelica è già annunciata l'esaltazione di quella età dei lumi, alla quale più polemicamente si rifarà il Leopardi per contrapporla all’età sua. Qui sulla pendice (schiena) riarsa del tremendo (formidabil, latinamente 'spaventevole') distruttore (sterminator) monte Vesuvio (Vesevo, latinismo), che nessun altro arbusto o fiore allieta, tu odorosa ginestra spargi i tuoi cespi solitari intorno, appagata dai deserti [mostrando di non sdegnare i deserti, anzi quasi di prediligerli]. Ti vidi un’altra volta abbellire con i tuoi steli anche le solitarie contrade che circondano Roma (la cittade) la quale città [Roma] fu un tempo dominatrice di popoli, e sembra che (par che) [le contrade] con il loro cupo e silenzioso aspetto testimonino e ricordino al viandante (passeggero) il grande impero perduto. Ti rivedo ora in questo suolo tu che sei amante di luoghi tristi e abbandonati dal a popoli che un'onda di mar commosso, un fiato d'aura maligna, un sotterraneo crollo distrugge sì, che avanza a gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella che a sollevar s'ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il basso stato e frale; quella che grande e forte mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire fraterne, ancor più gravi d'ogni altro danno, accresce alle miserie sue, l'uomo incolpando del suo dolor, ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de' mortali madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa congiunta esser pensando, siccome è il vero, ed ordinata in pria l'umana compagnia, tutti fra sé confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune. Ed alle offese dell'uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, stolto crede così qual fora in campo cinto d'oste contraria, in sul più vivo incalzar degli assalti, gl'inimici obbliando, acerbe gare imprender con gli amici, e sparger fuga e fulminar col brando infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri quando fien, come fur, palesi al volgo, e quell'orror che primo contra l'empia natura strinse i mortali in social catena, fia ricondotto in parte da verace saper, l'onesto e il retto conversar cittadino, e giustizia e pietade, altra radice avranno allor che non superbe fole, ove fondata probità del volgo la condizione umana, illudendo se stesso o gli altri e mostrandosi così astuto [se inganna gli altri] o folle [se inganna se stesso]. Un uomo di umile condizione (povero stato) ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte (ricco d'or ne gagliardo) e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma si lascia vedere, senza vergognarsene, debole e povero (di forza e di tesor mendico) e si dichiara tale apertamente e mostra la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non credo che sia un essere (animale - sineddoche) magnanimo [riprendendo il magnanimo del v.84], ma stolto colui che , nato per morire, cresciuto in mezzo ai dolori (nutrito di pene), dice: sono stato fatto per essere felice (a goder son fatto) e stende scritti pieni di orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e nuove felicità [riprende le magnifiche sorti e progressive del v.51], quali [non solo questa terra] anche il cielo intero ignora, a popoli che un maremoto (un'onda di mar commosso), una pestilenza (un fiato d'aura maligna), un terremoto (un sotterraneo crollo) può distruggere in un modo tale che a stento (a gran pena) rimane il ricordo di essi. Nobile creatura è [al contrario] quella che ha il coraggio di guardare (a sollevar s'ardisce gli occhi mortali) in faccia il destino umano (comun fato)e apertamente (con franca lingua), senza togliere nulla al vero, ammette il male che ci è stato dato in sorte e la nostra insignificante e fragile condizione; è quella [con richiamo al verso 111, cioè quella natura] che si rivela grande e forte nelle sofferenze, e non aggiunge alle sue miserie gli odi e le ire fraterne, più gravi ancora di ogni altro danno, incolpando l'uomo del suo dolore, ma dà la colpa a quella che è davvero responsabile (è rea), che è madre dei mortali perchè li ha generati, ma matrigna nella volontà [per il trattamento che riserva loro – v. 125 chiasmo]. Chiama nemica costei [la natura], e così star suole in piede quale star può quel ch'ha in error la sede. Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch'a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L'uomo non pur, ma questo Globo ove l'uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz'alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell'uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell'universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d'arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz'altra forza atterra, D'un popol di formiche i dolci alberghi, pensando che contro costei sia unita, come realmente è (siccome è il vero), e ordinata fin dalla sua prima origine, la società umana ritiene che tutti gli uomini siano alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto e aspettandolo [a seconda delle circostanze] nei pericoli che minacciano or gli uni or gli altri e nelle sofferenze della lotta che li accomuna [di tutti gli esseri umani contro la natura]. E armarsi e porre insidie e ostacoli per contrastare un altro uomo (al vicino) [il soggetto è sempre la nobil natura del v.111] sia cosa stolta così come sarebbe sciocco in un campo [di battaglia] circondato da nemici, nel più aspro infuriare degli assalti (in sul più vivo incalzar degli assalti), dimenticandosi dei nemici, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni e fare stragi con la spada (fulminar col brando) tra i commilitoni [l'inimicizia umana fa il gioco del nemico, cioè della natura]. Quando siffatte considerazioni (così fatti pensieri) quando saranno, come furono un tempo [per effetto delle dottrine illuministiche], evidenti al popolo, e quel terrore che per primo spinse agli esseri umani a stringere legami sociali contro la natura malvagia [è l'idea derivante dalle dottrine settecentesche, specie di Rousseau] sarà ricondotto da una vera sapienza, allora i rapporti civili ispirati ad onestà e rettitudine (l'onesto e il retto conversar cittadino), la giustizia e la pietà, avranno un ben diverso fondamento (altra radice) che non le fantasie piene di presunzione e prive di consistenza (fole, superbe perchè pretendono di fare dell'uomo un essere felice), basandosi sulle quali la probità dell'umanità (volgo) sta in piedi, così come può stare in piedi tutto quello che si fonda sull’errore. Spesso in questi luoghi alle pendici del vulcano che, desolate, la lava solidificata ricopre di scuro, e sembra accavallarsi come onde marine (par che ondeggi, quasi fosse ancora incandescente), trascorro la notte; esulla campagna triste in azzurro purissimo Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l'opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l'assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d'alto piombando, Dall'utero tonante Scagliata al ciel profondo, Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli O pel montano fianco Furiosa tra l'erba Di liquefatti massi E di metalli e d'infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l'estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L'arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme Dell'uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell'altra è la strage, Non avvien ciò d'altronde Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall'ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell'ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall'inesausto grembo vedo dall’alto brillare le stelle, alle quali (cui, le stelle) da lontano il mare fa da specchio, e [vedo] tutto intorno (in giro) di scintille nella cavità serena, immensa, del cielo brillare il mondo. E fissando quelle luci (che gli occhi a quelle luci appunto), che agli occhi (a lor) sembrano un punto (cioè piccolissime), mentre sono tanto grandi (immense) che un punto, rispetto a loro, sono in verità (veracemente, in opposizione a sembrano del v.168) la terra e il mare; alle quali (cui, le stelle) non solo l’uomo, ma anche questo pianeta (globo) dove l’uomo è nulla è sconosciuto del tutto; e quando scruto quella ancora lontana nebulosa (nodi quasi di stelle), che a noi pare quasi nebbia, a cui (mentre a essi: i nodi) non solo l’uomo o la terra, ma tutte le nostre stelle, infinite nel numero enella grandezza (mole), compreso il sole luminoso o sono sconosciute, o così appaiono, come loro stesse alla terra, un punto di luce nebbiosa (nebulosa); al pensiero mio cosa sembri allora, o genere umano (prole dell'uomo)? [la prole dell'uomo è nulla se confrontata alla vastità dei cieli]. E io, ricordando la tua condizione miserevole (il tuo stato quaggiù), di cui è testimonianza (fa segno) il suolo che io calpesto [cioè: ricordando che sei fango, polvere] e poi dall'altra parte [ricordando] che ti credi di essere stata destinata ad essere dominatrice (signora) e scopo (fine) ultimo dell’universo (al Tutto), e [ricordando] quante volte ti piacque raccontare che in questo oscuro granello di sabbia che ha nome Terra, scendevano per causa tua gli dei, creatori (autori) dell’universo, e conversavano spesso con piacere insieme agli uomini (co' tuoi = coi mortali; fa riferimento alla credenza che gli dei scendessero e d'intrattenessero coi mortali) e che perfino il secolo attuale (la presente età), che pare di tanto superiore alle età precedenti per conoscenze e grado di civiltà, reca insulto ai saggi rinnovando dei sogni ormai ridicoli [col restaurare certe credenze religiose], quale sentimento o quale pensiero , infelice umanità (mortal avi i nepoti), la natura si mantiene sempre giovane e vigorosa (verde), e anzi il suo cammino è così lungo ch'ella sembra star ferma. Cadono intanto i regni, si succedono genti e lingue diverse: ella non vi fa caso (nol vede, non se ne avvede) e nonostante questo l'uomo si vuole arrogare il vanto di essere eterno. E tu (apostrofe), flessibile (lenta - è attribuito da Virgilio nelle Georgiche: lentae genistae) ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate [immagini simboliche, la ginestra che adorna le campagne rappresenta la virile rassegnazione del poeta e il fatto che allieti del suo profumo rappresenta il conforto che poeta e poesia arrecano nella deserta desolazione della vita], anche tu [come il poeta, similitudine: poeta = ginestra] presto soccomberai alla crudele prepotenza del vulcano, la cui lava ("sotterraneo foco") tornando al luogo già altra volta visitato (per questo già noto) stenderà il suo mantello avido di morte (avaro) sulle tenere selve di ginestre. E tu, senza opporre resistenza [perchè vana, inutile] piegherai [con dignità] il tuo capo innocente sotto il peso della lava (fascio mortal): ma senza averlo piegato prima (riferito a capo v.306) inutilmente ("indarno") dinnanzi all'oppressore futuro (in futuro è l'idea di un nemico sempre in agguato), ma neanche levato con folle orgoglio fino alle stelle o sul deserto dove [nel deserto], tu sei nata e hai dimora non per tua volontà, ma per caso fortuito; ma più saggia, ma tanto meno insensata (inferma, nel senso di insicura, debole) dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe siano divenute immortali per merito tuo o del destino. Il verso finale, che sintatticamente si riferisce alle stirpi della ginestra, praticamente è invece tutto rivolto all’uomo. ANALISI DEL TESTO: La prima delle sette strofe di cui è composto l’ultimo canto contiene tutti i nodi concettuali che vi verranno sviluppati e mette subito in luce il contrasto emblematico e simbolico tra lo scenario deserto del Vesuvio e il fiorire della ginestra, malgrado tutto. Ricorda anche di aver vista la ginestra, segno di vita, tra le rovine di Roma testimoni della potenza distruttrice del tempo, analoga a quella del vulcano. Riflette quindi sull’indifferenza della natura («dura nutrice») che si riproduce ignorando le vicende umane e su chi si ostina a negarlo in nome delle «magnifiche sorti e progressive». Lo stesso sarcasmo prosegue nella strofa successiva «Qui mira e qui ti specchia,/ secol superbo e sciocco» in cui il XIX secolo è tacciato di oscurantismo e superstizione, in un movimento retrogrado rispetto a Rinascimento e Illuminismo, nel rifiuto del vero, per quanto duro: «Libertà vai sognando, e servo a un tempo /vuoi di nuovo il pensier». Sottolinea inoltre le opposizioni tra civiltà e barbarie e tra il vil e il magnanimo. La terza strofa, lunghissima, è divisa in due parti. Nella prima si analizzano le caratteristiche del vero e in particolare si sottolineano le virtù di chi può essere definito ‘magnanimo’ e ‘nobile’ proprio per questa capacità di aderire al vero, senza paura (cenni autobiografici) di guardare in faccia l’infelicità umana senza prendersela con gli altri esseri umani ma solo con la natura matrigna. Ma non solo, il passaggio dal «comun fato» alla «guerra comune(…)contro l’empia natura» rap- presenta una vera novità: «congiunta esser pensando,/ siccome è il vero, ed ordinata in pria/ l’umana compagnia,/ tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor». La metafora bellica continua per rafforzare l’idea di una necessaria solidarietà umana, come quella che alle origini portò gli esseri umani ad associarsi contro la violenza naturale, la cui conoscenza generalizzata può essere unica base solida per una società civile, al contrario delle favole arroganti che si raccontano. Solo così «l’onesto e il retto/ conversar cittadino,/ e giustizia e pietade, altra radice / avranno.» Nella strofa centrale, quarta, l’Io si colloca ancora una volta nella posizione dell’osservatore da- vanti ad una grandiosa scena naturale notturna: riflette sulla propria posizione. Con la ripeti- zione insistita del termine «punto», sottolinea la propria solitudine e piccolezza nel paesaggio estremo del Vesuvio notturno, che lo spinge a misurarsi con la grandezza dell’universo, a inter- rogarla. Per poi rivolgersi alla «prole / dell’uomo», al suo «favoleggiar» di essere centro e do- minatrice del tutto, «i derisi / sogni rinnovellando, ai saggi insulta/ fin la presente età» tor- nando nella modernità su fantasie ridicolizzate dagli illuministi. «Non so se il riso o la pietà prevale.» La quinta strofa propone una classica similitudine: si paragona l’effetto devastante della caduta di un frutto su un formicaio, del tutto simile ad una aggregazione umana, con quello avuto dall’eruzione del Vesuvio, che cancellò «in pochi istanti» Pompei ed Ercolano: gli umani sono come formiche per la natura. Seppure molti secoli sono passati dalla storica eruzione del Vesuvio, la sesta strofa presenta un contadino per cui la minaccia è sempre presente ed è sempre pronto a fuggire con tutta la fami- glia. Nella seconda parte appare un ‘pellegrino’ (il poeta) che visita le rovine di Pompei, emerse dagli scavi archeologici iniziati alla metà del XVIII secolo, e la rossa minaccia della lava continua a incombere sul territorio circostante. La riflessione si estende all’universale: passano i secoli e cadono i regni, ma la natura si evolve in modo talmente lento rispetto alle scansioni del tempo umano da sembrare che resti immobile «sta natura ognor verde». Ma ciò che soprattutto è messo in rilievo è l’incapacità di accettarlo da parte degli esseri umani: «Caggiono i regni in- tanto, / passan genti e linguaggi: ella nol vede: / e l’uom d’eternità s’arroga il vanto.» Il canto si chiude con movimento circolare con l’immagine della ginestra con cui si era aperto: il fiore del deserto, che riesce ad ornare di profumo un luogo desolato, piegherà necessaria- mente il «capo innocente» alla potenza del vulcano, ma con coraggiosa umiltà. La ripetizione anaforica e martellante della avversativa chiarisce il punto centrale: a differenza degli umani, la ginestra non ha mai piegato vilmente il capo di fronte alla forza cieca della na- tura, né lo ha eretto superbamente per eguagliare il cielo o per imporre il proprio dominio sulle altre creature. Più saggia e più coraggiosa degli esseri umani sa accettare la sua fragilità, che è ciò che il poeta cerca per sé: senza perdere dignità e senza credersi immortali fare i conti con la propria picco- lezza. «Il rapporto tra la poesia di Leopardi e quella di Foscolo (complessivamente, forse, non molto studiato) è stato preso in esame, per lo più o sotto il profilo tematico o sotto quello ideologico. Dal primo punto di vista sono stati evidenziati i motivi civili presenti nei due poeti e in partico- lar modo la forza strutturante che fra questi possiede il tema sepolcrale. Sotto il profilo ideolo- gico il punto di contatto è costituito dagli assunti di tipo materialistico presenti nei Sepolcri (già nell’Ortis) come, magari con maggior rigore, nell’opera, non solo poetica, leopardiana, più radi- calmente decisa a non rinunciare alla verità in nome dell’illusione. Fin dall’inizio Leopardi ac- quisisce da Foscolo la tematica sepolcrale: non solo come tema di poesia civile, ma come essen- ziale modalità di rappresentazione dell’Io come voce poetica. Questo è visibile a diversi livelli. Intanto, la struttura della canzone All’Italia ripete forse non la struttura, ma certo un tratto strutturale molto importante dei Sepolcri: ambedue i testi, infatti, restano troncati nel senso che formalmente essi si concludono nella forma di un allontanamento dall’Io locutore, l’uno con la voce di Cassandra, l’altro con quella di Simonide.» (Colaiacomo)
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