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Antonin Artaud, il teatro e il suo doppio - Tesina, Guide, Progetti e Ricerche di Storia del Teatro e dello Spettacolo

Il teatro e il suo doppio - tesina sulla raccolta di saggi scritti dal poeta e drammaturgo Antonin Artaud

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

2019/2020
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Scarica Antonin Artaud, il teatro e il suo doppio - Tesina e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Storia del Teatro e dello Spettacolo solo su Docsity! Diletta Filippetto Egart – 871053 Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio Antonin Artaud è stato, assieme a Stanislavskij e Brecht, il più autorevole teorico del teatro del ‘900, non tanto per i risultati ottenuti, quanto per l’originalità dei suoi scritti e dei suoi trattati. Per Artaud, come per Brecht, il dramma è uno strumento di rivoluzione, capace di riordinare l’esistenza umana. Artaud si preoccupò di separare il teatro come doveva essere (compimento dei puri desideri umani) dal teatro come era allora (superficiale, un consumo momentaneo). Tuttavia l’obiettivo non era quello di trasformare l’uomo socialmente, ma psicologicamente, liberando tutte quelle forze oscure e nascoste che fanno parte di ogni individuo. Così Artaud e Brecht si trovano in due posizioni opposte: Brecht voleva affermare un teatro che stimolasse lo spettatore al ragionamento e all’analisi, mentre Artaud voleva un teatro senza alcuna riflessione razionale che ostacolasse il risveglio dello spirito interiore dell’uomo. Artaud porta le teorie simboliste e surrealiste al loro limite più estremo. Secondo lui, il teatro dovrebbe “rituffarsi nella vita”, non nella maniera dei naturalisti, ma ad un livello mistico, metafisico. Il pubblico non deve osservare, ma partecipare emotivamente. Il suo concetto di “doppio” di Artaud è stato fonte di malintesi: egli spiegava il titolo del suo libro dicendo che “se il teatro è il doppio della vita, la vita è il doppio del vero teatro”; i doppi del teatro sono allora la metafisica, la poesia, la crudeltà. Il doppio del teatro non è la realtà quotidiana, sempre più vuota e insignificante, ma piuttosto la realtà archetipica e pericolosa. Il concetto di “doppio” lo applica anche a proposito dell’attore: l’attore deve vedere il suo corpo come il doppio di uno spettro, plastico e mai compiuto; ogni parte del corpo ha uno speciale potere mistico e ogni emozione ha una base organica. Ogni differente metodo di respirazione può essere analizzato per il contenuto simbolico. Civiltà e cultura Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. Ma prima di parlare di cultura è necessario rivelare che il mondo ha fame, e che non si preoccupa della cultura. La cosa più urgente da fare non è dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di aver fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame. Sull’idea di cultura è necessario insistere in quanto essa sia una sorta di secondo respiro nelle nostre vite, e la stessa civiltà è cultura applicata capace di guidare anche le nostre azioni più sottili, perché essa è spirito presente nelle cose. Separare la civiltà dalla cultura è puro artificio. Un uomo è considerato civile in base al suo comportamento, ed egli è consapevole della sua condotta perché pensa a come si comporta. Persino la parola “civile” si pesta a confusione: nel giudizio generale è civile e colto l’uomo al corrente dei sistemi, l’uomo che pensa per forme, segni, rappresentazioni. È così che il fare dell’uomo va a contaminare quelle idee che sarebbero dovute rimanere divine; essendo il soprannaturale e il divino invenzione dell’uomo, l’intervento dell’uomo stesso ha finito per corrompere il divino. Tutte le nostre idee devono essere riesaminate, in un’epoca in cui niente più aderisce alla vita: questa triste scissione provoca la vendetta delle cose, e la poesia che non è più in noi torna a scaturire dalla parte sbagliata. I delitti ne sono un esempio, mai se ne erano visti così tanti e questo è successo a causa della nostra impotenza nel possedere la vita. Anche se a gran voce invochiamo la magia, in fondo abbiamo paura di una vita che si svolga davvero sotto il suo segno autentico. che vi si raccoglie all’interno un dramma di grande importanza intellettuale, come un improvviso gruppo di nubi portate dal vento a misurare i propri fulmini. Il cielo del dipinto è nero e carico. Sulla riva del mare si alza una tenda, davanti alla quale Loth seduto assiste alle evoluzioni delle figlie, come se presenziasse a un festino di prostitute. Di fatto queste ragazze pavoneggiano, alcune sono travestite da madri di famiglia, altre da amazzoni; si pettinano i capelli, si battono a duello per affascinare il padre, ed essere suo strumento o trastullo. A noi moderni, come nemmeno allo stesso pittore, non sfugge lo sfondo di carattere sessuale della scena. Alla sinistra del quadro, un po’ in secondo piano, si alza una torre nera sostenuta alla base da un sistema di rocce, piante e sentieri punteggiati da delle case qua e là. Uno di questi sentieri si stacca dal sistema, attraversa un ponte per ricevere un raggio di luce che esce dalle nubi e bagna in modo irregolare il paesaggio. Sul fondo della tela vediamo il mare, molto alto e calmo, in confronto a quello che bolle nell’angolo di cielo. Nel crepitio di un fuoco d’artificio dato dalle stelle vediamo tramite una luce “allucinata” certi particolari del paesaggio: alberi, torri, montagne, case. Quel fuoco spaventosamente energico è reale e per convincersene basta guardare la tela. Fra mare e cielo sulla parte destra, sullo stesso piano prospettico della torre, avanza una sottile lingua di terra circondata da un monastero in rovina. Questa per quanto possa apparire vicina alla spiaggia dove sta Loth, delimita un golfo immenso sul quale sembra essersi appena verificata una catastrofe, con vascelli spezzati in due che stanno per affondare. È difficile spiegare perché questa impressione di disastro che si ricava dallo spettacolo di una o due navi a pezzi sia così totale. Pretendere che le idee sprigionate da questo quadro siano chiare sarebbe falso. Hanno comunque una grandiosità tale a cui non siamo abituati. A tutto questo, Loth e le figlie aggiungono un’idea di sessualità e procreazione, ed è la sola idea sociale che il dipinto può contenere. Tutte le altre idee del dipinto sono metafisiche. La loro concreta efficacia nei nostri confronti deriva proprio dal fatto che siano metafisiche, e dall’essere inseparabili dall’armonia formale ed esteriore del quadro. Arnaud afferma che questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il teatro se esso sapesse parlare il linguaggio che gli è proprio. Egli si pone due domande: come è possibile che a teatro tutto ciò che non è contenuto nel dialogo debba rimanere in secondo piano? Come è possibile che il teatro occidentale non sappia vedere il teatro sotto una prospettiva diversa da quella del teatro dialogico? Il dialogo non appartiene specificatamente alla scena , appartiene al libro. La scena è un luogo fisico e concreto, uno spazio che deve essere riempito e in cui si può parlare il suo linguaggio concreto. Questo linguaggio concreto deve innanzitutto soddisfare i sensi, non è veramente un linguaggio teatrale se non quando i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato. Il linguaggio fisico del palcoscenico è necessario quando i pensieri non riescono a trovare la loro espressione ideale nella parola. Grazie al linguaggio fisico il teatro può differenziarsi dalla parola. Esso è tutto ciò che occupa la scena, consiste in tutto ciò che può esprimersi materialmente in essa, e che si rivolge ai sensi per soddisfarli. Si può sostituire alla poesia del linguaggio la poesia dello spazio che si sviluppa in un campo che non appartiene rigorosamente alle parole; essa crea immagini materiali equivalenti alle immagini delle parole. Questa poesia assume vari aspetti, in particolare quelli di tutti i mezzi di espressione utilizzabili nel palcoscenico, come la musica, la danza, la mimica, la gesticolazione, la pantomima, l’architettura, l’illuminazione, la scenografia. Una forma di questa poesia spaziale è propria del linguaggio dei segni, un aspetto del linguaggio teatrale puro, che sfugge alla parola, fatto di gesti dotati di valore ideografico tipico delle pantomime non pervertite. Artaud per pantomima non pervertita intende la pantomima diretta, in cui i gesti rappresentano idee: un esempio può essere quell’alfabeto orientale che rappresenta la notte con un albero sul quale un uccello ha già chiuso un occhio e incomincia a chiudere anche l’altro. Nel nostro teatro occidentale, che vive sotto la dittatura della parola, questo linguaggio di segni e mimica, questa pantomima silenziosa, al di fuori del testo vengono considerati la parte caduca del teatro, definiti con disprezzo dal “mestiere” e si confondono con ciò che si intende per regia o “allestimento”. Arnaud in opposizione a questo modo di vedere, interamente occidentale, afferma che sia la regia a costituire il teatro, più che il testo scritto e parlato. Sa bene che il linguaggio dei gesti, la danza e la musica, illustrano con meno chiarezza e precisione un carattere rispetto al linguaggio verbale; ma si domanda chi ha detto che il teatro sia fatto per illustrare caratteri come quelli che infestano il nostro teatro contemporaneo. Il teatro contemporaneo è in decadenza perché ha perduto il suo lato serio e il suo lato comico, perché ha rotto quello spirito di anarchia che è alla base di tutta la poesia. La poesia è pura anarchia perché ci mette in discussione con tutti i rapporti fra oggetto e oggetto, e fra forme e i loro significati. Teatralmente queste inversioni di forme , questi spostamenti di significato potrebbero diventare l’elemento essenziale di quella poesia umoristica e spaziale che è compito esclusivo della regia. Il teatro alchimistico Esiste un legame tra il concetto di teatro e il concetto di alchimia. Sia il teatro che l’alchimia sono arti virtuali, tali cioè da non contenere in sé stesse né il loro obiettivo né la loro realtà. Mentre l’alchimia grazie ai suoi simboli è come il Doppio spirituale di un’operazione che risulta efficace soltanto sul piano della materia reale, il teatro deve essere considerato il Doppio, non della nostra realtà quotidiana, ma di una realtà rischiosa dove i principi una volta che fuoriescono si affrettano a immergersi di nuovo nell’oscurità. Questa realtà non è umana e l’uomo vi conta pochissimo. È giusto soffermarsi sulla curiosa predilezione, di tutti i libri dedicati agli argomenti alchimistici, dei termini teatrali, come se gli autori avessero avvertito sin dalle origini tutto ciò che vi è di rappresentativo, e quindi di teatrale, nella serie completa dei simboli. Tutti i veri alchimisti sanno che il simbolo dell’alchimia è un miraggio come lo è il teatro; questa infinita allusione agli elementi e ai principi del teatro che si trova in quasi tutti i libri alchimistici deve essere intesa come espressione dell’identità fra il piano dei personaggi, degli oggetti, delle immagini, e il piano puramente ipotetico e illusorio in cui evolvono i simboli dell’alchimia. Tali simboli portano alla purificazione e l’unificazione delle molecole naturali. È giusto specificare che il genere teatrale a cui allude Arnaud non ha nulla a che vedere con quello del teatro sociale o d’attualità che cambia con il cambiare delle epoche, dove le idee che in origine animavano il teatro sono diventate parodie di gesti. Il teatro Balinese Lo spettacolo del teatro Balinese fatto di danza, canto, pantomima e pochissimo teatro psicologico come lo intendiamo noi in occidente, riporta il teatro ad un piano di creazione autonoma e pura, in una prospettiva di allucinazione a noi sconosciuta. Le situazioni che nel teatro occidentale danno motivo di esistenza allo spettacolo, sono nel teatro Balinese solo un pretesto. Il dramma non si sviluppa come conflitto di sentimenti, ma come conflitto di posizioni spirituali, ridotte a schemi e gesti. I Balinesi realizzano l’idea di teatro puro, dove tutto vale ed esiste, solo in quanto si oggettivizza sulla scena. E al contempo ci mostrano la centralità del ruolo del regista, la cui capacità creativo “elimina le parole”. I temi trattati sono vaghi e astratti, molto generici. Quello che dà loro vita è il complesso degli artifici scenici. Ciò che rende curiosi questi gesti è che, durante il loro svolgimento, viene utilizzato ogni punto dello spazio scenico, e nasce così un linguaggio scenico, non più fatto di parole. Gli attori vestono abiti geometrici che li fanno sembrare geroglifici animati. Una delle ragioni della nostra gioia di fronte a questo tipo di spettacolo sta nell’uso da parte degli attori di una precisa quantità di gesti sicuri, di mimiche ben sperimentate e applicate al momento giusto, quindi di una partitura precisa senza nessuna sbavatura: meccanici stralunamenti degli occhi, le smorfie delle labbra, le ben dosate contrazioni muscolari, il movimento orizzontale delle teste che sembrano scorrere da una spalla all’altra. Tutto questo non risponde soltanto a necessità psicologiche ma anche ad un’architettura fatta di gesti e mimiche , e anche di ritmo e qualità musicale di un movimento fisico. Questa urta di certo il concetto europeo di libertà scenica e di ispirazione spontanea, ma non si può dire che tale rigore matematico produca sterilità e monotonia. Il nostro teatro occidentale è un teatro esclusivamente verbale che ignora tutti gli altri elementi che costituiscono il teatro vero e proprio, quello puro, fatto di movimenti, grida, forme, colori, vibrazioni atteggiamenti. Questi spettacoli del teatro Balinese si avvalgono di un linguaggio di cui noi occidentali abbiamo perso la chiave: con il termine linguaggio Artaud allude a quel particolare linguaggio teatrale estraneo però a qualsiasi lingua parlata. I nostri spettacoli, fatti puramente di dialogo verbale, non possono essere paragonati al trionfo della spiritualità e della perfezione del teatro Balinese. Anzi nonostante non siano spettacoli incentrati sul tessuto verbale, l’aspetto più impressionante per noi occidentali è proprio l’intellettualità che si percepisce nella sottile trama dei gesti e nelle modulazioni della voce , nell’uso dello spazio scenico e nell’intreccio dei suoni. Ogni cosa in questo teatro Balinese è calcolata con minuzia matematica. Nulla è lasciato al caso e all’improvvisazione personale. Ed è questa sensazione di vita superiore e perfetta a colpire lo spettatore occidentale che assiste a qualcosa di molto simile al Rito piuttosto che ad una rappresentazione. Tuttavia, Artaud arriva a fare un’analisi della differenza fra il nostro teatro e quello Balinese che prescinde dalla perfezione di quest’ultimo: secondo lui, ciò che più impressiona di più del teatro Balinese è l’aspetto rivelatore della materia; essa sembra disperdersi in gesti e segni capaci di insegnarci l’identità metafisica del concreto e dell’astratto, e di insegnarcela in gesti fatti per durare. Questo teatro utilizza la parola prima della parola, che è un impulso psichico segreto. Questo teatro elimina l’autore a favore di quello che noi occidentali chiamiamo “regista”: ma il regista diventa una sorta di mago, un maestro di cerimonie sacre; la materia su cui lavora e i temi che propone vengono forniti dalla natura primitiva. Per questo in tali spettacoli c’è qualcosa che supera il “divertimento”, cioè il passatempo inutile ed artificioso: lo spettacolo è un Rito, un momento di purgazione, di esorcismo. Nell’intensa liberazione di segni, dapprima trattenuti e poi lanciati in aria all’improvviso, c’è qualcosa che collega allo spirito di un’operazione magica. Una sorta di ribollimento caotico che passa da punti di riferimento ordinati all’effervescenza di ritmi multicolori in cui interviene continuamente l’accordo musicale. È un teatro inoltre che ci rende palpabili, perché trasforma in segni concreti non tanto le cose del sentimento ma quanto quelle dell’intelligenza; ci porta a ritrovare i segni tramite le vie intellettuali. Assistiamo ad un’alchimia mentale che trasforma uno stato d’animo in un gesto, un gesto spoglio, lineare che tutti i nostri atti potrebbero avere se tendessero all’assoluto. Il teatro della crudeltà La cosa che più preoccupa Artaud è che si è persa l’idea di teatro. Esso si limita a farci penetrare nell’intimità di qualche fantoccio o a trasformare lo spettatore in un voyeur. Per questo la gente non va più a teatro ed è normale che cerchi nuove emozioni al cinema, nel circo o nella rivista. C’è un bisogno urgente di un teatro che ci risvegli, che colpisca i nostri nervi e il nostro cuore. La storia del teatro psicologico, da Racine in poi, ci hanno abituato ad un tipo di azione che dovrebbe essere propria del teatro; a sua volta il cinema ci bombarda di immagini riflesse che posso raggiungere la nostra sensibilità in quanto filtrate da una macchina. L’abitudine agli spettacoli di pura evasione ci ha fatto dimenticare l’idea di un teatro serio che sconvolgendo tutti i nostri preconcetti, ci trasmetta emozioni inaspettate ed agisca su di noi come una terapia spirituale. Tutto ciò che agisce è crudeltà. Pertanto, a partire da questa idea, il teatro deve rinnovarsi: il teatro della crudeltà vuole lo spettacolo di massa, vuole ricreare quella poesia presente nelle feste e nelle folle che nasce dall’agitazione di queste persone che si riversano nelle strade. Artaud è convinto che nella poesia esistano forze vive, in cui l’immagine di un delitto presentata in condizioni teatrali adeguate sia per lo spirito molto più terribile della realizzazione di quello stesso delitto. Si vuole fare del teatro una realtà alla quale si possa credere e che dia una scossa al cuore e ai sensi; il pubblico crederà ai sogni del teatro a patto che li consideri davvero dei sogni e non la mera riproduzione passiva della realtà; il pubblico, però, potrà dare libero corso alla libertà magica del sogno solamente se impregnato di terrore e di crudeltà. Da qui nasce l’appello alla crudeltà e al terrore, una vasta scala, con un’ampiezza tale da metterci dinanzi a tutte le nostre possibilità. Per raggiungere da ogni lato la sensibilità dello spettatore, Artaud propone uno spettacolo mobile il quale, anziché dividere sala e scena in due mondi chiusi, crei una comunicazione che permetta di diffondere i lampi visivi e sonori su tutta la massa del pubblico. In pratica si cerca l’idea dello spettacolo totale, in cui il teatro riprenda dal cinema e da altri spettacoli ciò che gli è sempre appartenuto. Le parole dicono poco e allo spirito giungono solo la dimensione e gli oggetti; parlano le immagini, lo spazio, il suono e i colori. La regia dispone di mezzi puri per ottenere tutto questo, e ciò è dimostrato dal “Manifesto del teatro della crudeltà”. Primo Manifesto del teatro della crudeltà Questo manifesto di Artaud risale al 1932. La crudeltà di cui parla non è sadismo o causare dolore ma equivale al liberarsi da qualunque elemento che non sia prettamente attinente al testo teatrale. Per scrollarsi di dosso la tirannia esercitata dai testi spesso troppo opprimenti, Artaud vuole un teatro integrale, che fonda gesto, movimento, luce e parole. Una nuova forma radicale e sovversiva che spianerà la strada ad esperienze successive quali quelle del Living Theatre, ossia, una compagnia teatrale sperimentale contemporanea fondata a New York nel 1947 da un’attrice statunitense, Judith Malina, e dal pittore e poeta Julian Beck, esponente dell’espressionismo astratto newyorkese. Nel Living Theatre l’arte equivale alla vita, l’arte si cerca nella vita quotidiana delle persone comuni. L’illusione che deve essere cercata si fonda sulla forza comunicativa e la realtà dell’azione. Ogni teatro deve diventare una sorta di avvenimento. Si chiede al pubblico un adesione intima e profonda; la discrezione non c’è. Artaud dice “Se non fossimo persuasi dal colpirlo il più grave possibile, ci riterremmo impari al nostro compito più assoluto”. TECNICA È necessario il soggiogamento dell’attenzione. In altri termini il teatro deve ricercare con tutti i suoi mezzi una riaffermazione non soltanto del mondo oggettivo e descrittivo esterno ma anche del mondo interiore, che è quello dell’uomo metafisicamente considerato. L’uomo deve prendere il proprio posto tra sogni e avvenimenti. I TEMI Non bisogna preoccupare il pubblico con preoccupazioni cosmiche trascendenti. È necessario che ci siano chiavi profonde del pensiero e dell’azione in base alle quali leggere tutto lo spettacolo. In genere lo spettatore non prova alcun interesse per esse, tuttavia è necessario e la cosa riguarda noi. LO SPETTACOLO Ogni spettacolo conterrà un elemento fisico e oggettivo percepibile da tutti. Grida, lamenti, apparizioni, sorprese, colpi di scena, colori, ritmo dei movimenti, maschere, azione fisica che provoca sensazioni di caldo e di freddo. LA REGIA Intorno alla regia, intesa come punto partenza di qualsiasi creazione teatrale, si costituirà il linguaggio tipico del teatro. È tramite l’impiego di questo linguaggio che scompare l’antico dualismo tra autore e regista che viene sostituito dalla doppia responsabilità dello spettacolo e dell’azione. LINGUAGGIO DELLA SCENA La parola articolata si sopprime, e si dà alle parole circa la stessa importanza che esse hanno nei sogni. Si ha alla base un linguaggio cifrato e una trascrizione musicale che saranno preziose per trascrivere le voci. Importante è l’impiego delle intonazioni che servono a dare un equilibrio armonioso; sono una deformazione secondaria della parola che deve essere riprodotta a volontà. La stessa cosa vale per le espressioni del viso colte in forma di maschera affinché partecipino al linguaggio concreto della scena. Si aggiungono poi i gesti simbolici che danno innumerevoli significati, uniti ad una serie di gesti e atteggiamenti riflessi costituiti dalla somma di tutti i gesti impulsivi. Tra un mezzo di espressione e l’altro si creano corrispondenze. LUCE E ILLUMINAZIONE Artaud dice che gli apparecchi in quel momento in uso nei teatri non son più sufficienti. È necessaria una ricerca per nuove vibrazioni luminose, e deve essere cambiata anche la gamma di colori, per produrre particolari qualità di tono (tenuità, densità, opacità, sensazioni di caldo e freddo, di collera, di paura ecc.). IL COSTUME Si evita sicuramente l’abito moderno, in quanto i costumi millenari destinati al rito conservino una bellezza rivelatrice, grazie alla loro affinità con le tradizioni che li hanno prodotti. LA SCENA E LA SALA La sala e la scena vengono sostituite con una sorta di luogo unico, senza divisioni di alcun genere, che diventa il teatro stesso dell’azione. Si ristabilisce così una comunicazione diretta fra lo spettatore e lo spettacolo, fra spettatore e attore, perché lo spettatore situato al centro dell’azione sarà circondato e coinvolto da essa. La sala sarà circondata da quattro pareti e il pubblico sarà seduto in mezzo su poltrone girevoli per poter seguire lo spettacolo che si svolgerà intorno a lui. Le singole scene vengono recitate sullo sfondo di muri dipinti a calce perché la luce sia assorbita meglio. In alto corrono intorno alla sala delle gallerie che permettono agli attori, quando necessario, di inseguirsi da un punto all’altro della sala. Addirittura un grido potrà trasmettersi fino al punto opposto. Viene conservata un’area centrale che permetterà al nucleo dell’azione di raccogliersi ogni volta che sarà necessario. LA SCENOGRAFIA La scenografia non è necessaria; bastano i personaggi geroglifici, i costumi rituali, i fantocci alti dieci metri, strumenti musicali grandi come uomini. LE OPERE Non vengono rappresentati testi scritti ma si tentano, partendo da temi, episodi o opere note, dei saggi di regia diretta. Non esiste tema che possa essere precluso. LO SPETTACOLO Il problema consiste nel riempire lo spazio: come una mina che provoca improvvisamente un gayser o un fuoco d’artificio. L’ATTORE L’attore è l’elemento di importanza primaria in quanto dalla sua interpretazione dipenda il buon esito dello spettacolo; deve attenersi ad alcuni regole, l’interpretazione personale è in parte vietata, anche se siamo comunque in un campo nel quale non esistono regole precise. LA CRUDELTA’ Senza un elemento di crudeltà alla base, non esiste teatro. Nella fase di degenerazione in cui ci troviamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica negli spiriti. IL PUBBLICO Artaud, riferendosi ad esso che è uno degli elementi fondamentali del teatro, dice: “Bisogna prima di tutto che questo teatro sia”. Secondo Manifesto del teatro della crudeltà Il secondo manifesto della crudeltà, apparso nel 1933, espone in maniera meno programmatica e schematica la teoria elaborata nel corso della stesura del manifesto dell’anno precedente. Dal punto di vista contenutistico e formale, il Teatro della Crudeltà proporrà temi e soggetti che incarnano l’agitazione e l’inquietudine dell’epoca in cui sorge. La scelta di Artaud ricade su temi cosmici, universali, letti e interpretati attraverso gli strumenti forniti dai testi antichi, dalle cosmogonie messicana, indù, ebraica, persiana ecc. Rinunciando alla descrizione dell’uomo psicologico, al carattere e ai sentimenti ben delineati che la tradizione occidentale era solita narrare, verrà proposta la narrazione dell’uomo totale, “integrale”. Tematiche in cui si esplicherà il cuore pulsante delle riflessioni teoriche maturate nel corso dell’ultimo biennio, importate direttamente sulla scena e materializzate in gesti, movimenti ed espressioni ancora prima dell’intervento filtrante delle parole: «Rinunceremo alla superstizione teatrale del testo e alla dittatura dello scrittore».
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