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antropocene e filosofia, Appunti di Filosofia Politica

antropocene e filosofia, prospettiva umana

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 14/05/2024

bianca-rapetti
bianca-rapetti 🇮🇹

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica antropocene e filosofia e più Appunti in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! [Digitare qui] [Digitare qui] [Digitare qui] 1 La Terra e l’antropocentrismo: siamo esseri speciali? La Terra viva James Lovelock fu uno scienziato indipendente, scrittore e chimico britannico. Durante gli anni sessanta lavorò per la NASA, con il fine di capire se fosse possibile la vita su Marte. Nel volume Gaia – Nuove idee sull’ecologia, del 1981, Lovelock sviluppa un concetto audace ed innovativo: la Terra non è in realtà un pianeta come tutti gli altri, ma riesce come nessuno a mantenere un proprio equilibrio tramite processi di autoregolazione (della biosfera), comportandosi dunque come un vero e proprio organismo vivente. Secondo Lovelock, fra le peculiarità del pianeta Terra rientrano, ad esempio, il fatto che la temperatura percepita sulla sua superficie sia sorprendentemente bassa in rapporto alla distanza dal sole, oppure l’inusuale composizione chimica dell’atmosfera, ed in particolare la presenza di grandi quantità di metano. Durante lo studio che Lovelock conduce sulla composizione dell’atmosfera, nasce un vero e proprio sodalizio intellettuale con Lynn Margulis, microbiologa americana: i due giungono alla conclusione che la composizione dell’atmosfera sia in qualche modo determinata dagli esseri viventi stessi che la abitano. Il titolo dell’opera che verrà così pubblicata sarà appunto Gaia, cioè la Madre Terra, come gli antichi greci chiamavano la dea primordiale che diede origine alle generazioni successive. Da qui, l’elaborazione di un concetto di Terra che va ben al di là dell’ordinaria idea di pianeta, identificandola invece come un più complesso e interconnesso “sistema Terra”. Lovelock si pone così in forte contrapposizione con la tradizione risalente a Galileo Galilei, il quale aveva affermato il concetto opposto, cioè che la Terra rispondesse alle stesse identiche leggi degli altri corpi celesti. Le teorie di Lovelock verranno riprese in particolar modo dal filosofo, sociologo e antropologo francese Bruno Latour, attivo a Parigi e nei territori delle ex colonie francesi d’Africa nella seconda metà del Novecento, e scomparso - proprio come Lovelock - alla [Digitare qui] [Digitare qui] [Digitare qui] 2 fine del 2022: nel suo saggio La sfida di Gaia, del 2020, Latour offrirà infatti il proprio contributo alla messa a fuoco dell’idea del “sistema Terra”. Infine, possiamo segnalare come gli studi di Lovelock siano in seguito divenuti terreno fertile per la cultura New Age, che in essi riconobbe, espressi con accuratezza scientifica, concetti che da secoli erano considerati folli misticismi. Natura e cultura Secondo Latour, il concetto di “Antropocene” (termine reso popolare da Paul Crutzen, nel 2000) mette in crisi la distinzione fra natura e cultura. Latour sarà uno tra i primi ad occuparsi della questione ecologico-filosofica e lo farà in termini totalmente innovativi: l’era presente, caratterizzata soprattutto dal prepotente impatto dell’azione dell’uomo sull’ambiente e su tutte le dinamiche del pianeta (e per questo definita appunto Antropo- cene), avrebbe portato per Latour al superamento della tradizionale contrapposizione tra natura e cultura, tra vita naturale e vita sociale. La sua riflessione, ascrivibile alla ricerca di ambito etnografico antropologico applicata all’Occidente, darà vita ad una nuova concezione dell’antropologia: nel suo saggio del 1991 Non siamo mai stati moderni, Latour individua con il termine di “ibrido” l’elemento costitutivo della nostra realtà, inteso come un inestricabile groviglio di “umano” e “non umano”, oggetto e soggetto della conoscenza, natura e cultura insieme. Nella speculazione filosofica sull’antica e profondamente radicata differenziazione fra natura e cultura, Latour individua una influenza determinante da parte del pensiero occidentale, il quale avrebbe portato ad una visione e divisione errata, poiché la natura non ha storia, e non può essere distinta dalla cultura. Anche secondo l’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro il pensiero occidentale sarebbe responsabile di una visione errata della realtà: secondo lo studioso, quando si fa riferimento a questo pensiero occidentale “deformante”, si intende un multiculturalismo, appunto occidentale, che implica una razionalizzazione della realtà e dell’Altro, riducendoli ad una “cosa” al fine di conoscerli; egli sottolinea come nelle [Digitare qui] [Digitare qui] [Digitare qui] 5 è la difficoltà che si riscontra quando si tenta di individuare una progressione temporale nella storia naturale, poiché adesso l’uomo sembra detenere un potere pari a quello delle forze naturali stesse: l’impatto dell’azione dell’uomo è ora tanto forte da inaugurare una vera e propria nuova era geologica, che potremmo forse chiamare “artificiale” o “artificiosa”, ed è sicuramente differente dal corso naturale degli eventi. Capitalocene? Secondo la terza e la quarta teoria di Chakrabarty il capitalismo ha un ruolo centrale nella crisi che stiamo vivendo, ma non basta per delinearne le cause in maniera esaustiva, in contrapposizione con Jason W. Moore, il quale conia il termine capitalocene, relegando la completa responsabilità della crisi proprio al capitalismo. Per comprendere a pieno le cause della crisi climatica del nostro tempo è quindi necessario calarsi in quel tipo di storia che prende il nome di deep history, una storia cioè che comprenda le condizioni geologiche e biologiche presenti fin dal tempo dell’Olocene (il periodo che va dall’ultima glaciazione dell’emisfero settentrionale, ad oggi): in questo modo si approda ad una visione anti-antropocentrica, poiché si pone l’attenzione non più solamente nei confronti della storia umana, ma anche della storia naturale. Il giornalista statunitense Alan Weisman, nello scritto Il mondo senza di noi, offre un ulteriore spunto sull’argomento: per l’essere umano è estremamente difficile immaginare se stesso come appartenente ad una specie animale inevitabilmente destinata ad estinguersi, poiché vive concependosi come individuo e non come specie. È necessario, dunque, che noi esseri umani mettiamo in discussione la nostra capacità di riflessione storica ed il nostro punto di vista. Per noi, non esiste altro che il mondo umano, che ovviamente comprende anche tutti gli oggetti naturali, che figurano tuttavia come uno sfondo inerte e silenzioso. Weisman, provando a rovesciare tale prospettiva, immagina invece un mondo nel quale l’uomo, e solo l’uomo, scompaia di colpo e scrive: “Immaginiamo che il peggio sia accaduto. L’estinzione degli umani è un fatto compiuto […]. Immaginiamo invece un mondo in cui tutti noi, e solo noi, scompariamo all’improvviso, […] lasceremmo qualche impalpabile ma durevole marchio [Digitare qui] [Digitare qui] [Digitare qui] 6 sull’universo? […] Invece di emettere un enorme sospiro di sollievo biologico, forse il mondo senza di noi sentirebbe la nostra mancanza?”. Il prospettivismo cosmologico A questo ambito appartengono anche le osservazioni del citato antropologo brasiliano Viveiros de Castro (che presenta evidenti echi deleuziani1), profondo sostenitore di un prospettivismo secondo il quale “tutto è uomo” ed esiste un unico punto di vista, cioè, appunto, quello umano. Questo medesimo punto di vista può però essere assunto da esseri di diversa natura. Questo prospettivismo prende anche il nome di “multi- naturalismo”: alcuni popoli ritengono che gli animali si comportino come essere umani e che percepiscano l’uomo come animale. Così, si potrebbe affermare che il punto di vista di una specie su un’altra dipenda proprio dalla specie a cui si appartiene, dal corpo in cui si abita, e che il substrato materiale e corporeo che compone il mondo sia in realtà uguale per tutti gli esseri viventi. De Castro si è concentrato in particolare sulla popolazione degli Amerindi, secondo i quali tutto è nella sua essenza persona. Le diverse specie sarebbero dunque la conseguenza di involucri esterni, vesti che celano un’essenza completamente umana. Questa “multi-ontologia” può essere, secondo de Castro, l’antidoto per abbandonare l’etnocentrismo assunto fino a quel momento dall’antropologia e passare da credenza a concetto, cioè ad una valida ontologia. Alla luce di queste riflessioni, diviene fondamentale riconsiderare le nostre categorie ed epistemologie, ricollocandoci, come essere umani, all’interno di un sistema ed una condizione esistenziale che va ben oltre il nostro essere uomini, tenendo bene a mente che in quanto parte di questo complesso ed immenso meccanismo che è il pianeta Terra (ma anche l’universo intero) ogni nostra azione ha una risonanza ed un impatto che oramai ricade ben oltre il nostro controllo. Studiosi come Chakrabarty si interrogano 1 Il filosofo francese Gilles Deleuze opera nella seconda metà del Novecento, focalizzandosi su conce quali la molteplicità, il costru vismo e la differenza; fu anche a vista per i diri e le libertà, e collaborò nei suoi studi con lo psicanalista radicale Félix Gua ari. [Digitare qui] [Digitare qui] [Digitare qui] 7 quindi anche in merito ai limiti che la nostra capacità di azione possa avere riguardo alle problematiche ecologiche ed ambientali. L’uomo ha senza dubbio l’impellente dovere di occuparsi della questione ecologia, proporre alternative sostenibili ed innovative ed investire ingenti risorse (ad esempio nel campo delle energie rinnovabili), in considerazione del fatto che proprio l’uomo sia ormai divenuto egli stesso una vera e propria forza geologica. Tuttavia, ritengo, forse con vena pessimistica, che lo stato attuale delle cose - prima su tutto la “salute” del nostro delicato ecosistema - ci ponga davanti a questioni di fatto irrisolvibili in un mondo da sempre (e per sempre?) fondato sul lucro e sul guadagno da parte di colossi industriali e multinazionali. In una simile situazione, l’impatto di una singola persona, pur determinata ad assumere un preciso stile di vita più o meno “ecologico”, è destinato a risultare quasi vano. Che questa affermazione non venga però fraintesa: è indubbio che, in uno sguardo di insieme, la corretta condotta del singolo sia di fondamentale importanza (differenziare i rifiuti, acquistare meno plastica non riciclabile, preferire prodotti locali, consumare meno carne, etc.). Oramai la consapevolezza di ciò è secondo me imprescindibile in individui dotati anche solo di minimo discernimento dell’attuale situazione ambientale. Basti pensare che nel 2020 le emissioni globali di CO2 hanno raggiunto i 32 miliardi di tonnellate (in particolare dalla Cina, Stati Uniti ed India). La diffusione di beni di consumo effimeri, quasi definibili “usa e getta”, come ad esempio gli indumenti (la così detta fast-fashion) contribuisce non solo ad un aumento vertiginoso delle emissioni per la loro produzione, ma anche all’incremento della mole di rifiuti da smaltire, a fronte di un pianeta che è oramai saturo. Non è solo la scarsa qualità di prodotti a basso prezzo ad aggravare la situazione, poiché ciò si combina, inevitabilmente, con un profondo cambiamento della mentalità e delle abitudini del consumatore, corrotto dalla pubblicità e dalla fatidica “comodità” ed economicità di questi prodotti. Diventa dunque sempre più difficile arrestare (o per lo meno rallentare) questo processo di industrializzazione, che non pare curarsi minimamente né del pianeta né dei diritti dei lavorati delle grandi fabbriche. Come agire, dunque? Come detto sopra, personalmente ritengo che il vero cambiamento debba arrivare soprattutto “dall’alto”, con apposite normative, sanzioni e
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