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Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell'era della crisi planetaria, Sintesi del corso di Antropologia Sociale

Sintesi dettagliata del libro di J. Moore con parti importanti in grassetto.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 07/07/2020

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Scarica Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell'era della crisi planetaria e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Sociale solo su Docsity! Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (Jason W. Moore) Introduzione Il termine Antropocene è stato coniato dal microbiologo Eugene Stoermer negli anni Ottanta del secolo scorso e reso noto dal Nobel per la chimica Paul Crutzen dal 2000. Ultimamente il termine va di moda soprattutto nelle scienze sociali e produce confusioni e malintesi. Più che un accadimento, l’Antropocene è un sintomo del sociale contemporaneo, dei suoi conflitti e della sua violenza, una condizione che, secondo Paolo Vignola, necessita sia di una critica radicale, sia di una cura collettiva per essere trasformata. In particolare, è una crisi del modo in cui le scienze sociali hanno messo a tema il rapporto moderno tra natura e società. Charbonnier ha mostrato come gli uomini si percepiscono come esseri viventi che sulla natura si organizzano in società, tentando di oltrepassarla. E l’Antropocene segnala proprio che quest’oltrepassamento è ormai in atto, il che implica la crisi delle riflessioni sulla forma moderna del rapporto natura-società – quella centrata sul materialismo dei limiti (Georgescu-Roegen) e quella basata sul costruttivismo dei rischi (Beck). Georgescu-Roegen sostiene che la lotta economica dell’uomo per lavorare e procurarsi sostentamento prende la forma di un conflitto sociale che non può essere eliminato. È molto pessimista sul futuro dell’umanità: la pressione demografica e il progresso tecnologico portano alla fine dell’esistenza della specie umana, poiché entrambi i fattori causano un più rapido accumulo della riserva di risorse minerarie disponibile. Beck sostiene che la società mondiale del rischio è prodotta dalla conversazione globale sui pericoli creati dall’uomo.*(le parti in corsivo sono mie aggiunte) Accettare l’ipotesi dell’Antropocene significa confermare l’idea cartesiana degli uomini come signori e possessori della natura. Il dibattito sull’Antropocene in Italia ha avuto poco impatto, con l’eccezione del collettivo di ricerca militante Effimera, in particolare la sezione “Ecologia politica” del sito, la prima riflessione filosofica sull’argomento in lingua italiana. Il problema della definizione: che cos’è l’Antropocene? Geologicamente, il concetto di Antropocene rimanda alle influenze antropiche sulle composizioni e le funzioni del sistema-Terra e delle forme di vita che lo abitano. La proposta di Crutzen e Stoermer si basava su considerazioni ecologiche come: l’estinzione di molte specie, la progressiva riduzione della disponibilità dei combustibili fossili e l’incremento delle emissioni di gas serra. È ormai acclarato che l’attività antropica sia causa di questi fenomeni che sembrerebbero dunque suggerire che non ci troviamo nell’Olocene (era geologica iniziata dodicimila anni fa) ma nell’Antropocene, un concetto non meramente scientifico ma soprattutto etico e politico. Secondo Stefania Barca, il concetto di Antropocene deve essere politicizzato: ciò che importa è che non venga sottovalutata l’ambiguità della tesi secondo la quale l’umanità dovrebbe assumersi la responsabilità del degrado ecologico. Infatti: “Il riscaldamento globale è la manifestazione più evidente della diseguaglianza sociale ed economica su scala globale” (Barca). I pericoli ecologici vengono ignorati dalla pratica del buon governo tecnico. L’Antropocene come era geologica non è né in procinto di essere approvata né condivisa da tutti gli studiosi. Il golden spike (il segnale geologico che funge da confine tra due distinti intervalli temporali) sarebbe da collocarsi nella cosiddetta grande accelerazione, cioè dallo sganciamento delle bombe atomiche alla fine della seconda guerra mondiale, quando il pianeta è diventato dipendente da carbone e petrolio. Timothy Morton legge il riscaldamento globale come paradigma di una nuova forma dell’essere, l’iper-oggettualità: essa è definita dall’impossibilità di essere compresa da una posizione di esteriorità epistemologica. Il soggetto conoscente non “guarda” gli iper-oggetti, è piuttosto “ospitato” in essi, “circondato”: è da questa internità che ci sforziamo di comprenderli. Quanto più sappiamo degli iper-oggetti, tanto più ci rendiamo conto che non potremo mai veramente conoscerli, e non potremo mai separarci da loro. Secondo Chakrabarty, il cambiamento climatico pensato attraverso la lente dei climatologi mostra l’effetto evidente delle nostre azioni come specie. Sembra un universale che emerge da un condiviso senso di catastrofe che lui stesso chiama “storia universale negativa”; viene dunque da chiedersi se questa sia l’unica forma di politicizzazione capace di opporsi alla tecnocrazia ecologica della green economy o del carbon trading. Il cambiamento climatico riguarda meno la quantità di gas serra in atmosfera che non l’organizzazione del nesso natura/valora del capitalismo contemporaneo. Il problema dell’origine: quando comincia l’Antropocene? Timothy Morton ne data l’origine all’epoca della diffusione delle prime pratiche agricole nella Mezzaluna Fertile. L’elemento centrale della riflessione è posto su ciò che definisce agrilogistica, un’attitudine pratico-epistemologica volta all’imposizione di un ordine umano alla natura esterna. Possiamo vederne gli effetti come in una reazione di polimerizzazione: sono catastrofici. Morton sostiene che l’agrilogistica è un fenomeno legato all’inconscio sociale, non si tratta né di tornare a un passato pre-agricolo, né di razionalizzare una fuoriuscita dalla catastrofe ecologica. Egli propone di praticare un rapporto col mondo incentrato sulla contemplazione e sulla ricerca di una possibile coesistenza tra varie entità ospitate dagli iper-oggetti, ma quest’opzione non dedica nessuna attenzione al capitalismo, concepito al più come un accidente tecnico nella marcia agrilogistica verso la catastrofe antropocentrica. Simon Lewis e Mark Maslin fanno coincidere la data d’inizio dell’Antropocene con l’Orbis spike (mondo in latino), cioè con la drastica riduzione della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera dovuta al Columbian Exchange, lo scambio di organismi vegetali e animali, oggetti, idee, tra emisfero occidentale e orientale. Dal punto di vista biologico, l’esito più rilevante di questo scambio è stato la globalizzazione del cibo. Il risultato finale fu una radicale riorganizzazione della vita sulla Terra e il risvolto tragico fu la decimazione della popolazione nativa delle Americhe. Le conseguenze di questo genocidio furono la quasi scomparsa dell’agricoltura e la semi-cessazione dell’uso del fuoco che comportarono la rigenerazione delle foreste che produssero un enorme assorbimento di anidride carbonica. Secondo Lewis e Maslin, l’Orbis spike da inizio all’Antropocene perché dopo il 1492 gli esseri umani furono tutti connessi e il commercio divenne globale fino al punto che importanti scienziati sociali si riferiscono a questo periodo come quello da cui origina il moderno “sistema-mondo”. Crutzen data l’origine dell’Antropocene con l’emergere della rivoluzione industriale in Inghilterra, più precisamente con l’invenzione della macchina a vapore di James Watt nel 1789. Essa consentì, infatti, la trasformazione di energia chimica in energia meccanica che rese possibile la sostituzione di uomini e animali con i macchinari. Tuttavia, l’Antropocene interpreta questa innovazione come il culmine di un cammino evolutivo cominciato con la manipolazione del fuoco. Per questo motivo Andreas Malm e Alf Hornborg sottolineano che la transizione ai combustibili fossili nell’Inghilterra del XIX secolo fu un processo globale, ingiusto e ineguale fin dal principio: investire nel vapore richiedeva territori sottopopolati del Nuovo mondo, la schiavitù degli afro- americani, lo sfruttamento del lavoro in Inghilterra e la domanda di cotone a buon mercato su quello mondiale. Prefazione L’alternativa tra Antropocene e Capitalocene: chiamare il sistema con il suo nome L’Antropocene è diventato il concetto ambientalista più importante e pericoloso del nostro tempo. L’espressione che meglio cristallizza questo stato dall’arte è cambiamento climatico antropogenico. Ma il cambiamento climatico non è il risultato dell’azione umana in astratto, bensì la conseguenza di secoli di dominio del capitale: il cambiamento climatico è capitalogenico. La popolarità dell’argomento-Antropocene è legata alla sua capacità di unificare umanità e sistema-Terra all’interno di un unico orizzonte, ma il modo con il quale si compie quest’unificazione costituisce la debolezza dell’argomento-Antropocene, perché si tratta di un’unità non dialettica: un insieme idealistico di frammenti che ignorano i rapporti storici costitutivi che hanno condotto il pianeta sul baratro dell’estinzione. Da una parte, esiste un Antropocene geologico, che pare cominci con l’era atomica, in cui il criterio necessario per designare una nuova era geologica ruota attorno a un “segnale geologico”; dall’altra, un Antropocene alla moda che ha oscurato il primo: un modo specifico di pensare le origini e l’evoluzione della crisi ecologica moderna. All’interno di questo dibattito interviene il Capitalocene, per Moore una forma di geopoetica, un concetto coniato da Andreas Malm per riferirsi al capitalismo come sistema di potere, capitale e natura. L’Antropocene alla moda pone una serie di questioni importanti: qual è la natura della crisi ecologica nel XXI secolo? quando comincia questa crisi?; quali forze l’hanno scatenata? Nell’argomento-Antropocene la storia è la prima vittima: i suoi maggiori esponenti sostituiscono alla storia il tempo astratto, escludendo dall’analisi la prospettiva storica. Il Capitalocene invece è un tentativo di pensare la crisi ecologica, una discussione di geo-storia, non di storia geologica, e contesta il modello dei Due Secoli dell’Antropocene alla moda. Quest’ultimo nega la disuguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo e suggerisce che dei problemi creati dal capitale sono responsabili tutti gli esseri umani. L’Antropocene pone correttamente la questione del dualismo Natura/Società senza però poterlo risolvere a favore di una nuova sintesi, che secondo Moore dipende da un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita: il dibattito sull’ecologia-mondo sostiene che il capitalismo si sviluppa attraverso la rete della vita. Inoltre, il Capitalocene cerca un’alternativa agli approcci della “frattura metabolica” e l’”impronta ecologica” che concepiscono l’organizzazione umana (il capitalismo e il mercato) come indipendenti dalla rete della vita. L’argomento-Capitalocene quindi non cerca le cause sociali del cambiamento ambientale né la connessione tra organizzazione sociale e danni ecologici. Il suo vantaggio è il suo centro di gravità storico-relazionale. Le organizzazioni umane sono al contempo produttrici e prodotti della rete della vita e da questa prospettiva il capitalismo diventa qualcosa di più-che-umano, diventa un’ecologia-mondo di potere, capitale e natura. Capitolo primo Natura e origine della nostra crisi ecologica L’Antropocene ci suggerisce che le origini del mondo moderno sono da ricercare nell’Inghilterra dal XIX secolo. Le forze trainanti di questo cambiamento epocale furono il carbone e il vapore e dietro a queste, l’umanità. Quest’argomento riduce le attività umane nella rete della vita a un’umanità astratta, senza mettere in discussione le disuguaglianze e la violenza iscritte nei rapporti moderni di potere e produzione, anche se gli studiosi dell’Antropocene concludono che anche gli esseri umani sono una “forza geofisica” che opera all’interno della natura. Moore definisce questo problema “Un Sistema/Due Sistemi”: l’umanità è riconosciuta come una specie inserita nella rete della vita, ma l’attività umana è considerata come separata e indipendente; ci sono “costruzioni umane” e “costruzioni naturali”, nonostante gli esseri umani siano riconosciuti come forza geofisica (olismo in teoria, dualismo nella pratica: condizione generale del pensiero verde). L’economia verde mira alla salvaguardia dell’ambiente tramite dei provvedimenti messi in atto per ridurre l’impatto delle attività umane su di esso. I mezzi con i quali pretende fare questo sono diversi. Tra questi troviamo la riduzione dei consumi, il riciclo dei materiali e l’uso di energie rinnovabili. Ci sono due dimensioni principali nella teoria dell’Antropocene: la prima è una forte enfasi sul cambiamento atmosferico e le sue cause dirette; la seconda è un’argomentazione sulla storia e sul presente globale come momento storico. In prima istanza, il focus empirico è limitato alle conseguenze dell’attività umana e le determinanti di tali cambiamenti sono ridotte a categorie descrittive: industrializzazione, urbanizzazione, popolazione. In secondo luogo, la scelta metodologica ruota intorno alla costruzione dell’umanità come “attore” collettivo. L’elevazione dell’umanità ad attore collettivo ha incoraggiato vari misconoscimenti: - Una visione neo-malthusiana della popolazione che ignora il sistema-mondo moderno e i modelli di formazione della famiglia e i movimenti della popolazione; - Una visione del cambiamento storico in cui la forza trainante è rappresentata dal nesso tecnologia-risorse; - La rimozione delle questioni della scarsità dai rapporti realmente esistenti di capitale, di classe e d’imperi, inserendola nel contenitore “natura”, ponendola in maniera ontologicamente indipendente da questi rapporti; - L’attribuzione della responsabilità per il cambiamento globale all’umanità nel suo insieme, piuttosto che alle forze del capitale e degli imperi che hanno dato alla storia mondiale moderna la sua coerenza. Secondo questa visione, i due principali dispositivi di inquadramento – gli effetti determinano la periodizzazione e l’umanità è la determinante di questi effetti – derivano dalla posizione filosofica del dualismo cartesiano: attività umana più cambiamento biosferico uguale Antropocene. Ma la semplice somma delle parti non determina l’intero. L’attività umana non produce soltanto un cambiamento biosferico; piuttosto, sono le stesse relazioni tra esseri umani a essere prodotte dalla natura. Questa natura non è una natura-risorsa ma piuttosto una natura-matrice: una natura che opera non solo al di fuori e all’interno dei nostri corpi, ma anche attraverso i nostri corpi. Gli esseri umani producono differenziazioni intra-specie che sono ontologicamente fondamentali per il nostro essere-specie: a contare sono soprattutto le disuguaglianze di classe, coniugate in vari modi a cosmologie razziste e sessiste. Il pensiero dominante dell’Antropocene oscura rapporti effettivamente esistenti attraverso cui gli uomini e le donne fanno la storia con il resto della natura: i rapporti di potere, di (ri)produzione e la ricchezza nella rete della vita. Cancella la specificità storica del capitalismo e afferma che le contraddizioni socio-ecologiche del capitalismo sono di responsabilità di tutti gli esseri umani. Il capitalismo come modo di organizzare la natura La lunga transizione del XIX secolo nei rapporti di produzione e potere andò al di là dei rapporti tra i soli esseri umani: essa comportò una transizione anche nei rapporti dell’umanità con il resto della natura. Secondo Moore, l’insieme delle trasformazioni raccolte nell’energia a vapore fu co-prodotto dalle nature umana ed extra-umana. Questa prospettiva vede il capitalismo come, allo stesso tempo, produttore e prodotto della rete della vita. Gli schemi di co-produzione sono contingenti ma coerenti e questa coerenza si rivela negli schemi specifici della produzione-di-ambiente che vanno ben oltre le considerazioni convenzionali sul cambiamento ambientale. Tale coerenza si realizza e riproduce attraverso precise regole di riproduzione – del potere, del capitale, della produzione. Per la civiltà capitalistica, queste regole sono incarnate nei rapporti di valore, i quali determinano quasi letteralmente cosa si considera abbia valore e cosa no. Civiltà diverse hanno differenti rapporti di valore che privilegiano diverse forme della ricchezza, del potere e della produzione. L’Europa feudale per esempio privilegiava la produttività della terra, mentre il sistema capitalistico mondiale ha sempre favorito la produttività del lavoro dal 1450. Moore intende sottolineare che la “legge del valore” del capitalismo ha prodotto una forma di ricchezza estremamente particolare. Questa è capitale in quando valore-in-movimento, la cui sostanza è il lavoro sociale astratto, che può essere accumulato soltanto attraverso un vasto repertorio di recinzioni (enclosures) imperialistiche e di appropriazione dei “beni gratuiti” della natura al servizio della produzione di merci. Valore-in- movimento: valore-nella-natura. Un rapporto combinato di nature umane ed extra-umana. In questa zona di riproduzione, il lavoro non pagato non solo rende possibile la produzione della forza-lavoro potenziale come lavoro a “buon mercato”; esso riguarda anche il lavoro non pagato della natura extra-umana. In questo campo della riproduzione, l’appropriazione di lavoro non retribuito è centrale. Appropriazione indica quei processi extra-economici che identificano, assicurano e incanalano il lavoro non retribuito esterno al sistema delle merci dentro il circuito del capitale. Negli anni Settanta emersero i “nuovi” studi ambientali e la “vecchia” storia economica uscì di scena, storia che aveva raramente preso sul serio le questioni ambientali legate alla Rivoluzione industriale. Tra le conseguenze fondamentali per il pensiero verde ci fu il riferimento fondante alla Rivoluzione industriale secondo due modalità principali: - come un fenomeno essenzialmente tecnico e relativo alle risorse – cioè astratto dai rapporti di classe; - come il “nesso esplicativo” dei problemi ambientali moderni – quindi della modernità come un tutto. Ma le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa. Prima degli anni Settanta, una significativa produzione di storiografia aveva a lungo enfatizzato come l’industrializzazione non fosse un singolo evento, ma una successione d’industrializzazioni cominciate in Europa già nel XIII secolo. Questa circostanza potrebbe apparire favorevole a una concezione della storia mondiale nella quale ondate successive d’industrializzazione avrebbero informato i vari periodi d’innovazione socio- ecologica e quindi di crisi. Ma ancora oggi non abbiamo una storia ambientale completa della Rivoluzione industriale. Forse però l’industrializzazione non è il modo migliore per inquadrare le origini e il successivo sviluppo delle crisi “ecologiche” della modernità; al massimo è un’abbreviazione per indicare tensioni tra tecnologia e potere, tra “forze” e “rapporti” di produzione; si tratta, tuttavia, di problemi essenzialmente storici. Queste tensioni sono state sempre inquadrate in termini dualistici, contenute in un universo “sociale” di rapporti umani ontologicamente precedenti il loro coinvolgimento nella rete della vita. Questo è il problema del dualismo cartesiano: rafforza la narrazione egemonica dell’industrializzazione come azione sulla natura e non attraverso di essa. L’ecologia di sinistra tende ancora a pensare al capitalismo e alla natura invece che al capitalismo-nella-natura. L’industrializzazione appare, nelle meta-narrazioni del pensiero verde, come un deus ex machina entrato sul palcoscenico storico-mondiale grazie al carbone e alla macchina a vapore. Poiché sprovvisto di un concetto di ecologia-mondo della tecnica, buona parte del pensiero verde confonde la Rivoluzione industriale con la modernità. Per superare il dualismo natura/società, Moore propone il concetto di oikeios, cioè la relazione creativa, generativa e multistrato di specie e ambiente in contrasto col sostanzialismo al centro dell’eccezionalismo umano che isola gli esseri umani dalle proprie condizioni extra-umane di riproduzione. Il risultato è una specie di “sostanza” dell’umanità a parte rispetto alla “sostanza” della Terra/Vita. L’oikeios fornisce un metodo per andare oltre il tropo narrativo dell’ambiente esterno (come oggetto) in favore di un’elaborazione ambientale (come processo), a sua volta una co-produzione dell’insieme delle nature umana ed extra-umana. “Natura” e “società”, nella prospettiva dell’ecologia-mondo, sono viste come violente astrazioni – domini ontologicamente separati di esseri umani senza natura e di natura senza esseri umani – che cambiamento storico? Moore esplora le possibilità di descrivere il capitalismo come un’ecologia- mondo – che unisce l’accumulazione del capitale, la ricerca del potere e la co-produzione della natura in un’unità dialettica – attraverso l’ottica dei rapporti di valore. In questa ricostruzione dei rapporti di valore, privilegia quattro posizioni dialettiche: 1) l’accumulazione di capitale è la trasformazione della terra (e delle sue creature); 2) la sostanza del valore è il lavoro sociale astratto, ma i rapporti di valore comprendono e unificano la produzione di merci e la riproduzione socio-ecologica; 3) poiché il valore è presupposto nell’appropriazione di lavoro non retribuito al di fuori della zona della mercificazione, la riproduzione allargata dei rapporti di valore richiede sempre nuove frontiere di nature non (ancora) capitalizzate, cioè dei “quattro fattori a buon mercato” (forza-lavoro, cibo, energia, materie prime); 4) queste frontiere non sono date, bensì attivamente costruite attraverso prassi simboliche e trasformazioni materiali, prima di tutto unendo e alienando il lavoro “mentale” e quello “manuale” (dualismo struttura/sovrastruttura). Moore sostiene che i rapporti di valore sono un fenomeno sistemico con un peso economico centrale. l’accumulazione di lavoro sociale astratto è possibile solo nella misura in cui il lavoro non retribuito possa essere appropriato. Le condizioni storiche della natura a buon mercato vanno trovate non soltanto nel rapporto capitale- lavoro ma anche nella produzione della coscienza necessaria per identificare e appropriarsi del lavoro non retribuito. Rapporti di valore nell’ecologia-mondo capitalista Nella modernità i rapporti di valore rappresentano un modo estremamente peculiare di organizzare la natura. Nata nel mezzo dell’ascesa al capitalismo successiva al 1450, la legge del valore permise una transizione storica senza precedenti: dalla produttività della terra alla produttività del lavoro come misura della ricchezza e del potere. Si trattò di un'ingegnosa strategia di civilizzazione, in quanto consentì la realizzazione della tecnica capitalistica per appropriarsi delle ricchezze della natura non mercificata (incluso il lavoro umano!) al servizio dello sviluppo della produttività del lavoro all’interno della zona di mercificazione. Quest’unità di misura strategica – il valore – orienta l’intera Europa nord-occidentale verso un’altrettanto strana conquista dello spazio, quella che Marx definì la “distruzione dello spazio per mezzo del tempo”, per cui nel lungo XVI secolo possiamo osservare una nuova forma di temporalità – il tempo astratto – prendere piede. La genialità della strategia della “natura a buon mercato” del capitalismo fu la rappresentazione del tempo come lineare, dello spazio come piatto e della natura come esterna. Col tempo astratto sarebbe arrivato lo spazio astratto, insieme corollari indispensabili alla cristallizzazione delle nature umana ed extra-umana nella forma del lavoro sociale astratto. Fu questa legge del valore in ascesa che sostenne le straordinarie rivoluzioni territoriali e biologiche della prima modernità. Malgrado le fantasiose interpretazioni storiche del dibattito sull’Antropocene e il suo modello idealizzato di una modernità durata due secoli, le origini della strategia capitalistica della natura a buon mercato e degli attuali squilibri biosferici vanno ricercate nel lungo XVI secolo. La questione non è quella delle cause antropogeniche ma quella dei rapporti di capitale e di potere: il problema non è l’Antropocene, ma il Capitalocene. “L’era del capitale” si è fondata sul rapporto che consente grandi balzi nella crescita della produttività del lavoro e ancor più nella produzione delle nature a buon mercato, prime fra tutte: forza lavoro, cibo, energia e materie prime. Questa visione di una natura come oggetto esterno è stata un momento fondamentale per l’ascesa del capitalismo. Per il materialismo moderno delle origini, il punto non era soltanto interpretare il mondo, ma controllarlo, diventare padrone e possessore della natura. Le origini della natura a buon mercato sono, naturalmente, molto più che intellettuali e simboliche. Il superamento delle frontiere intellettuali del Medioevo fu infatti accompagnato dalla trasgressione della territorialità feudale. Sebbene l’espansione della civiltà sia in un certo senso fondamentale per tutte, nella prima fase dell’Europa moderna emerse una spinta geograficamente specifica. L’estensione del potere capitalistico a nuovi spazi (frontiere) non ancora mercificati divenne la linfa vitale del capitalismo. Moore sottolinea due assi relazionali di queste frontiere. In primo luogo i movimenti delle frontiere delle merci non miravano semplicemente all’estinzione dei rapporti di mercato, ma riguardarono l’estensione territoriale e le forme simboliche si appropriarono del lavoro non retribuito per metterlo al servizio della produzione di merci. Questo lavoro non pagato poteva essere seguito dagli esseri umani oppure dalle nature extra-umane come foreste, terreni e fiumi. In secondo luogo questi movimenti delle frontiere erano essenziali per creare le forme della natura a buon mercato (ovvero i quattro fattori). Il capitalismo può essere compreso attraverso il cambiamento della configurazione dello sfruttamento della forza lavoro e della propria azione delle nature a buon mercato. Il calcolo quantitativo del lavoro umano non retribuito varia tra il 70% e l’80% del PIL mondiale. Il lavoro non retribuito comprende non soltanto i contributi attivi della produzione quotidiana della forza-lavoro e dei cicli produttivi agricoli o forestali, ma comprende anche l’appropriazione di lavoro non retribuito accumulato, per esempio il fatto che i bambini raggiungano l’età adulta largamente al di fuori del sistema mercantile (si pensi all’agricoltura di sussistenza) e vengono solo successivamente coinvolti nel lavoro salariato, oppure si considerino le forme di produzione di combustibili fossili attraverso i processi biologici del pianeta. L’appropriazione di lavoro non retribuito descrive qualcosa di più dell’importante considerazione dei costi ambientali come invisibili, non contabilizzati. Il contributo del lavoro non retribuito non è un dato originario ma attivamente prodotto dai complessi rapporti di potere, (ri)produzione e accumulazione. Moore ci dice inoltre che i “regali-omaggio” della natura non sono frutti facilmente raggiungibili che possono essere semplicemente raccolti senza molto tempo e fatica, anzi: le nature a buon mercato sono attivamente prodotte dall’attività umana unita al resto della natura, e le nature umana ed extra-umana sono entrambe dotate di creatività e contingenza. La natura è troppo spesso considerata come un substrato passivo quando invece è il campo nel quale si svolge tutta la vita. Il capitale vive e muore in base alla riproduzione allargata del capitale: valore-in-movimento. La sostanza del valore è il lavoro sociale astratto, o tempo di lavoro socialmente necessario, coinvolto nella produzione del plusvalore. Dall’altro lato, questa produzione di valore è particolare – non dà valore a tutto, ma soltanto alla forza- lavoro al servizio della produzione di merci – e pertanto poggia su una serie di svalutazioni. L’abbondanza di lavoro – la maggior parte del lavoro che orbita intorno al capitalismo – non è registrata come preziosa. Si tratta del lavoro invisibile svolto dagli esseri umani, in particolare dalle donne, ma anche del “lavoro” svolto dalle nature extra-umane. Marx capiva che le nature extra-umane svolgono ogni tipo di lavoro utile (ma non di valore) per la produzione capitalistica, e che tale lavoro utile è immanente al rapporto di capitale. Tutte queste forme di lavoro de- e non valorizzato sono, comunque, al di fuori della forma valore (la merce) – esse non producono direttamente valore. Tuttavia il valore come lavoro astratto non può essere prodotto se non attraverso il lavoro non retribuito. La strategia della frontiera della merce è stata decisiva non tanto per l’estensione della produzione di merci e del commercio in quanto tali. Piuttosto le frontiere delle materie prime segnarono un cambiamento così epocale perché estesero le zone di appropriazione (il lavoro non retribuito della natura) più in fretta rispetto alle zone di mercificazione. Il lavoro sociale astratto, nella lettura di Moore, è l’espressione economica della legge del valore, che sarebbe storicamente impossibile in assenza di strategie di appropriazione della natura a buon mercato. Perché? Perché la creazione del tempo di lavoro socialmente necessario si costituisce attraverso lo spostamento dell’equilibrio tra lavoro umano ed extra- umano; la co-produzione di natura, in altre parole, è costitutiva del tempo di lavoro socialmente necessario che si forma e si ri-forma dentro e attraverso la rete della vita. La generalizzazione della produzione di merci è storicamente creata attraverso una rete espansiva dei rapporti di valore. McMichael espone molto bene la questione quando esamina il problema dello sviluppo capitalismo come parte della globalizzazione ineguale del lavoro salariato dialetticamente legato al pensiero moderno; per costruire il capitalismo nel modo in cui Moore ha suggerito, bisogno superare i dualismi uomo/donna, natura/società, da cui dipende l’intero edificio del pensiero modernista. Abbiamo dunque bisogno non solo di unificare le differenti ma reciproche dialettiche del lavoro umano nel capitalismo attraverso il nesso lavoro retribuito/lavoro non retribuito – cioè lavoro “produttivo”/lavoro “riproduttivo”. Dobbiamo anche riconoscere che l’autopropulsione del capitalismo deve tutto ciò all’appropriazione e alla co-produzione di configurazioni sempre più creative del lavoro umano ed extra-umano nel corso della longue durée. Il capitalismo e le relazioni di valore non possono essere ridotti al rapporto tra i proprietari di capitale e i possessori di forza lavoro. La condizione storica del tempo di lavoro socialmente necessario è il lavoro non retribuito socialmente necessario. Una delle cose che il capitalismo sapeva fare meglio era quello di sviluppare tecnologie e saperi eccezionalmente appropriati per identificare, codificare e razionalizzare le nature a buon mercato. Da qui il nuovo modo di vedere il mondo che condizionò in maniera decisiva la nuova tecnica di organizzazione dell’ecologia-mondo capitalistica, manifestatasi nella rivoluzione cartografica e nella cantieristica navale della prima modernità. L’“appropriazione” rappresenta un’attività produttiva tanto quanto lo “sfruttamento”. La confisca delle ricchezze di base non determinò alcuna base durevole per l’accumulazione infinita del capitale. Ciò che produsse un sostrato affidabile per la nuova civiltà fu l’impostazione di pratiche appropriative combinate con il mercato mondiale e le innovazioni tecnologiche orientate verso l’espansione globale. Esse inclusero dinamiche coloniali assai consapevoli della riorganizzazione delle popolazioni indigene in villaggi strategici che funzionassero come riserve di lavoro, come le reducciones nelle Ande e le aldeias in Brasile. Queste pratiche comportarono l’aumento della produttività del lavoro all’interno della sola zona di interesse del capitale: l’area della mercificazione. Non importava quanto orribili fossero i livelli di mortalità che accompagnavano la crescita della produttività del lavoro, fintanto che i costi di appropriazione – attraverso i traffici d’indigeni e di schiavi africani – rimanevano sufficientemente bassi. La grande rivoluzione della produttività del lavoro nel primo capitalismo è quasi universalmente ignorata, perché i nostri quadri concettuali e narrativi sono stati largamente incapaci di considerare il lavoro non retribuito nei rapporti di valore. Clark offre un contrasto illuminante a proposito della produttività del lavoro, rilevata attraverso una misurazione delle calorie. Egli nota come il rapporto “lavoratore-ora” nelle campagne inglesi del 1800 si sarebbe attestato a circa 2600 calorie, basate su grano, latte e prodotti cerealicoli. Ben diversamente, il rapporto “lavoratore-ora” dell’agricoltura nomade al volgere del secolo in Brasile, per la coltivazione di manioca, mais e patate dolci, sarebbe stato ovunque tra le 7000 e le 17000 calorie. Ciò significa che una delle ragioni chiave del consolidamento del capitalismo durante la prima età moderna sta nell’abilità di appropriarsi straordinarie potenzialità delle nature non mercificate a livello planetario. L’introduzione di cibo “a buon mercato”, come strategia civilizzatrice “agisce come un aumento del capitale fisso”. La diminuzione del prezzo dei prodotti alimentari corrisponde a un aumento della produttività del lavoro e del tasso di sfruttamento. La legge del valore durante la prima fase del capitalismo si è dispiegata attraverso due movimenti simultanei che non corrispondono alla dialettica di valore/non- valore. Quest’ultimo è prodotto dalla zona di appropriazione che è la condizione del valore, quanto la zona di sfruttamento; essa riguarda il lavoro non retribuito di tutti gli esseri umani, e in particolare il “lavoro delle donne”. L’appropriazione “funziona” nella misura in cui controlla e capitalizza, ma non capitalizza immediatamente, la riproduzione delle capacità vitali a beneficio dell’accumulazione. La modernità è in questo senso un progetto potente di “codificazione e controllo”, che realizza la più ampia gamma di procedure di quantificazione e classificazione orientate all’identificazione, alla messa in sicurezza e alla regolazione delle nature umana ed extra-umana al servizio dell’accumulazione. Quest’ultimo è il terreno della natura sociale astratta. biofisico è interiorizzato in quanto forza-lavoro umana (riclassificata come “sociale”) e un altro è esteriorizzato, attraverso la sussunzione del resto della natura come un dono gratuito al capitale. In inglese, il termine “valore” indica due cose: quegli oggetti e relazioni che hanno un valore economico; le nozioni di moralità. Il mondo oggettivo del valore è stato forgiato attraverso la soggettività della “immaginazione del capitale”. Il capitale mobilita il proprio potere simbolico al fine di rappresentare l’arbitrarietà dei rapporti di valore come oggettiva. Moore crede che sia questo il punto importante di Mitchell nella sua analisi dell’economia britannica nell’Egitto coloniale, incentrata sulla calcolabilità non come semplice strumento oggettivo, ma come progetto immanente alla costruzione dell’imperialismo di potere, classe e natura all’inizio del XX secolo. Questa linea di ragionamento è, secondo lui, incentrata più sulla politica che sull’economia politica, spostando totalmente l’attenzione sulla sfera del potere senza una sufficiente considerazione dei rapporti di valore che determinano, nel linguaggio di Bourdieu, la posta in gioco decisiva. Ovviamente il capitale non opera indipendentemente dal potere, ma le regole della riproduzione non sono determinate dal potere in generale, o dal potere territoriale, ma dalla legge del valore-nella- natura. La sostanza del capitale è il lavoro sociale astratto. Ma i rapporti che rendono possibile la crescita del lavoro sociale astratto non possono essere ridotti alle sole sfere della tecnologia e dell’economia; essi devono essere fondati sulla tecnica del potere capitalista e sulle condizioni di riproduzione allargata del capitale su scala mondiale. La legge del valore non può essere letta convenzionalmente come fenomeno esclusivamente economico. Ma che dire dell’ecologia? Non è irrilevante. La difficoltà col pensiero del cambiamento climatico globale attuale riguarda una certa cancellazione della agency politica, con l’eccezione dei vari appelli alla rivoluzione socialista (dalla catastrofe alla soluzione). Il capitalismo, come progetto storico, cerca di creare un mondo a immagine del capitale – riflesso molto bene nell’economia neoclassica – in cui tutti gli elementi delle nature umana ed extraumana sono effettivamente interscambiabili/sostituibili. Nell’immaginazione dell’economia neoclassica, un fattore (moneta, terra, risorse) può essere sostituito da un altro e gli elementi della produzione possono essere spostati facilmente e senza sforzo attraverso lo spazio globale (vedi Achille Mbembe sul valore!). Questo tentativo di creare un mondo a immagine del capitalismo è ciò che Moore chiama progetto di corrispondenza del capitalismo, attraverso il quale il capitale cerca di costringere il resto del mondo a corrispondere al suo desiderio immaginario (ma reale) di un universo di “equivalenze economiche”. Ma naturalmente il mondo – le nature extra-umane di qualsiasi tipo e le classi produttive – non vuole un mondo fondato sull’equivalenza economica. Tutta la vita si ribella contro il nesso moderno valore/monocoltura, dalla fattoria alla fabbrica. Nessuno vuole fare la stessa cosa, tutto il giorno e tutti i giorni, quindi la lotta riguardante il rapporto tra esseri umani e resto della natura nel sistema-mondo è necessariamente una lotta di classe. La lotta per il controllo della mercificazione è, in primo luogo, una contesa tra diverse visioni della vita e del lavoro. Anche le nature extra-umane resistono alla feroce costrizione dell’equivalenza economica: le erbacce super-infestanti ostacolano l’agricoltura geneticamente modificata. In questo modo, il progetto di corrispondenza del capitalismo si scontra con ogni sorta di rivale, e con visioni conflittuali e resistenti che creano un processo storico pieno di contraddizioni. Tra queste contraddizioni troviamo le forze di compensazione che minacciano di rallentare il tempo di rotazione del capitale: la lotta di classe dei lavoratori della produzione industriale, le erbacce super-infestanti. Questa lettura della legge del valore ci permette di cogliere la differenza tra il capitalismo come progetto storico e il capitalismo come processo storico. Come progetto, la civiltà capitalista produce sia forme simboliche sia rapporti materiali che conferiscono al dualismo cartesiano un fondo di verità; la legge del valore riproduce infatti un modo dualistico di osservare la realtà. Il capitalismo come progetto crea l’idea e una realtà dell’ambiente come oggetto esterno – e non come oikeios, rapporto creativo tra specie all’interno della trasformazione ambientale – che non è falsa, ma piuttosto una creazione storica dell’ecologia-mondo capitalistica. L’errore degli studi ambientalisti è stato quello di confondere la creazione storica dell’idea di ambiente come oggetto esterno alla realtà: la verità è che gli ambienti sono sempre dentro e fuori di noi, materiale e simbolico allo stesso tempo. In quanto processo storico-mondiale, il capitalismo è una co-produzione degli esseri umani e il resto della natura che obbliga il progetto capitalista a trattare con l’oikeios. Quindi la natura sociale astratta e il lavoro sociale astratto sono dialetticamente uniti. Natura sociale astratta e ascesa del capitalismo L’ascesa dell’industria su larga scala, co-prodotta attraverso una nuova fase di appropriazione (basata sui combustibili fossili) sarebbe stata impensabile senza queste rivoluzioni simbolico- materiali – astrazioni di tempo, spazio e natura. Questo insieme di astrazioni fu centrale per la trasformazione rivoluzionaria dell’ecologia-mondo capitalistica incentrata sull’Atlantico, ben tre secoli prima che la macchina a vapore raggiungesse la maturità. Queste rivoluzioni non solo produssero nuove opportunità per il capitale e gli stati, ma trasformarono anche la nostra comprensione della natura nel suo insieme e, forse in modo più significativo, dei confini tra gli esseri umani e il resto della natura. Il punto è stato sottolineato nel modo più radicale dalla sistematica combinazione – da parte del neoliberismo – di shock economici e rivoluzioni nelle scienze della vita e della terra, strettamente collegati a loro volta ai nuovi regimi di proprietà volti a garantire all’accumulazione del capitale non solo la terra ma la vita. Da un lato le nuove scienze della vita emergenti dopo l’invenzione del DNA ricombinante (1973) sono divenute una potente leva per la produzione di nuove condizioni di accumulazione basate su redistribuzione e speculazione – brevettando forme di vita. Dall’altro lato, le scienze del sistema-Terra assistite dalle scienze cartografiche (es. telerilevamento, GIS) hanno cercato, come afferma Luke, di ridurre la Terra a poco più che una grande riserva permanente, che serve come un centro di pronta fornitura di risorse e/o come sito per il deposito dei rifiuti. Questo è ciò che Luke chiama “contabilità planetaria” che non riguarda solo la biofisica, ma anche la produzione di nuove tecniche finanziarie fondate su una visione del mondo orientata a “esplorare e valutare” le opportunità maggiormente redditizie per l’accumulazione capitalistica. Qui troviamo un momento originario chiave della natura sociale astratta, in un’epoca in cui gran parte della redditività del progetto coloniale era impostato sulla esplorazione naturale e storica sulla identificazione ed efficace coltivazione delle piante extra-europee. Tali processi di unificazione di “scienza, capitale e potere” erano già in atto fin dai primissimi momenti dell’ecologia-mondo capitalista. Questi primi momenti mostrano gli audaci appetiti globali della natura sociale astratta. Ciascuno implicò una nuova natura storica che emerse dalle innovazioni della produzione capitalistica, della scienza e del potere, forgiando così nuove combinazioni di lavoro retribuito e non a livello mondiale. Questo indica il metodo storico che rompe con la netta separazione cartesiana degli esseri umani dalla natura, dalle idee e dal flusso materiale. Invece di una “natura in generale”, questo metodo alternativo ci aiuta a esplorare un’impostazione dinamica dei processi che creano e ricreano il capitalismo- nella-natura, intesa come successione di “capitalismi storici” e “nature storiche”. La presunzione del capitale, fin dalle sue origini, è stata quello di ri-presentare il mondo attraverso il “trucco di Dio” [God-trick], per trattare l’ordinamento specificamente capitalistico del mondo come naturale pretendendo di specchiare il mondo in ciò che stava tentando di ri-costruire. Queste innovazioni nel modo di vedere e conoscere erano basate su un nuovo quantitativismo il cui motto era: ridurre la realtà a ciò che può essere contato e, poi, “contare i quanta”. Qui vediamo la natura sociale astratta nella sua prima formazione (es. la nascita della prospettiva nella pittura rinascimentale che trasformò la relazione simbolica tra gli oggetti in una relazione spaziale o la svolta di Mercatore). Nemmeno questa rivoluzione della prima fase della modernità – cioè l’origine della natura sociale astratta – fu limitata allo spazio e alla natura extra-umana: possiamo trovarla anche nel commercio degli schiavi! Il mercato degli schiavi nei Caraibi del XVII secolo richiedeva uno “schiavo medio”: 30-35 anni, 150-180 cm, un cosiddetto pieza de India, spesso considerato come una mera misura per la tassazione, utilizzata anche come unita di misura della forza-lavoro, dall’Angola ai Caraibi. Gli esseri umani sono sfruttati e appropriati dal capitale in modo non uniforme. La valorizzazione della forza-lavoro all’interno della produzione di merci comportò e rese necessaria una devalorizzazione della forza-lavoro al di fuori della produzione di merci. Il capitalismo stesso ha praticato una forma di ciò che i sociologi chiamano “eccezionalismo umano” che restringe la nostra attenzione alla forza-lavoro all’interno del circuito del capitale. Il miraggio dell’abbondanza naturale (la capacità del capitale di trasformare o sostituire questo o quell’altro prodotto biosferico) fu in parte creato dai fondatori dell’economia neoclassica, che confusero le condizioni globali dell’epoca delle ferrovie e delle navi a vapore come una condizione eterna. Quello che la legge del valore ci permette di spiegare è esattamente ciò che è stato trascurato: il passaggio epocale della trasformazione ambientale operata dagli esseri umani secondo i modelli emersi nel XVI secolo e che oggi hanno raggiunto i propri limiti. I limiti del capitale sono sufficientemente reali, e includono “le grandi forze della natura”, tuttavia non sono riducibili a esse. Una lettura di ecologia-mondo dei rapporti di valore illumina questi limiti relazionali costituiti dal capitalismo, esso stesso produttore/prodotto nella rete della vita. La legge del valore, in questo approccio, diviene una premessa metodologica che permette di indagare la logica fondamentale del capitalismo. Questa logica codifica la produttività del lavoro come misura decisiva del benessere – invertendo il vecchio primato della produttività della terra nelle civiltà premoderne – e mobilita il resto della natura al suo servizio. Il punto qui è che i rapporti di valore, se intesi solo in termini di lavoro sociale astratto, non possono spiegare questa mobilitazione di lungo periodo del lavoro umano ed extra-umano al di fuori del circuito del capitale. Né si può affermare che lo stato e le scienze operino come fattori esterni, ontologicamente indipendenti dall’accumulazione di capitale. Lo Stato, la scienza e il capitale formano un tutto organico, plasmato da un duplice imperativo: semplificare le nature ed estendere il campo dell’appropriazione più in fretta rispetto all’espansione delle zone di sfruttamento. L’intuizione di Marx secondo cui la fertilità del suolo potrebbe agire “come un aumento del capitale fisso” non è da buttare; al contrario, è un’osservazione che ci parla del vorace appetito del capitalismo per le nature non (ancora!) capitalizzate, senza le quali le rivoluzioni nella produttività del lavoro sarebbero state impensabili. Dall’Antropocene al Capitalocene L’alternativa presentata da Moore non nega che la Rivoluzione industriale sia stata un punto di svolta. Tuttavia, mette in discussione l’utilità di un modello che individua la modernità a partire dall’Inghilterra della seconda metà del XVIII secolo. In sostanza, la Rivoluzione industriale fu un punto di svolta all’interno di un processo storico già in movimento. Non la fine di uno schema di sviluppo premoderno. Come sappiamo tutto ciò? Per prima cosa, non ci fu nessuna rottura fondamentale nei rapporti di trasformazione ambientale tra il primo capitalismo e il capitalismo industriale. Questi rapporti erano regolati da una legge del valore specificamente moderna che assegnava il primato alla produttività del lavoro all’interno del settore delle materie prime. Questo nuovo rapporto di valore trovò la sua espressione più evidente nella grande frontiera delle merci del primo capitalismo (zucchero, argento, rame, ecc.) Nelle nuove zone di frontiera, la tecnologia all’avanguardia era combinata con l’appropriazione gratuita di nature poco o per nulla mercificate: a partire dal 1600, troviamo gli zuccherifici in Brasile, le segherie in Norvegia, ecc. In queste regioni possiamo osservare la combinazione dell’accumulazione per capitalizzazione (molte macchine) con l’accumulazione per appropriazione (molti “beni gratuiti”). La Rivoluzione industriale non segnò una rottura con, bensì un’amplificazione della
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