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La Costruzione delle Identità Etniche: Dal Confine alla Frontiera, Appunti di Antropologia Culturale

La natura delle etnie e la loro costruzione attraverso la nozione di confine etnico, come inteso da fredrik barth. Esploriamo come la differenza culturale non sia solo un effetto dell'isolamento sociale e geografico, ma anche un processo di costruzione identitaria. Il documento illustra come lo stato e la frontiera siano importanti fattori nella costruzione e conservazione delle identità etniche.

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 27/03/2019

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iiueruewuoiuyerui 🇮🇹

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Scarica La Costruzione delle Identità Etniche: Dal Confine alla Frontiera e più Appunti in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! Cos’è l’etnia? - Silvia Cristofori, - ricercatrice in Antropologia culturale – Link Campus University Sommario dei temi del capitolo: Cosa c’è dietro l’etnia; Storia del concetto di etnia; Ragione/intelletto etnologico. Per capire cos’è l’etnia iniziamo da due esempi. Ecco il primo: La parola “slavo” deriva dal latino “sclavus”; Perché nel mondo romano molti degli schiavi provenivano dalle regioni orientali europee. Ecco il secondo esempio: La parola “Welsh”, cioè: “gallese”, deriva dalla parola inglese “wealth”, cioè: ricchezza; Perché i territori a ovest dell’attuale Inghilterra erano un serbatoio di schiavi: una volta resi schiavi, i gallesi costituivano una “ricchezza” per chi li possedeva. Cosa significano questi esempi? 1) Che i nomi delle etnie in origine indicavano spesso uno status. Nel caso di “slavo” e “Welsh”: lo status giuridico di schiavo. 2) Che dietro un’etnia c’è una relazione. Nel caso di “slavo” e “Welsh”, la relazione è quella di padrone/schiavo. 3) Che dietro l’etnia vi è non solo una relazione, ma anche un rapporto di forza. Come, ad esempio, fra il popolo che schiavizza e popolo schiavizzato. 4) Che spesso la relazione, che sta dietro l’etnia, vede un gruppo sociale in una posizione di potere: il potere di dare un nome e un altro che è nella posizione di riceverlo. Ad esempio: chi schiavizza dà il nome di “slavo” o “Welsh”, mentre gli schiavi lo ricevono. Dunque… 1)L’etnia indica spesso uno status (economico, sociale, politico, giuridico); 2) L’etnia è relazionale. Non è frutto dell’isolamento dei popoli e non indica identità pure e incontaminate; 3) Le relazioni che danno vita alle identità etniche sono spesso relazioni di potere; 4) In questa relazione vi è chi ha il potere di dare un nome agli altri. Cosa vuol dire che dietro l’etnia vi è una relazione? Significa che le etnie non sono gruppi sociali isolati. E che soprattutto l’identità etnica muta nel tempo perché le relazioni sono mutevoli. Quindi…L’etnia è un prodotto storico. Cioè, il frutto di una storia di relazioni fra gruppi sociali: relazioni politiche ed economiche che spesso implicano rapporti di forza. Queste relazioni cambiano nel tempo, così le etnie e i loro significati sono mutevoli. Anche in questo senso sono un prodotto storico e non un dato naturale. Le etnie non sono un dato naturale, cioè: L’identità etnica non è dovuta a quella biologica dei suoi membri; L’identità etnica non è trasmessa senza cambiamenti da una generazione all’altra, dall’origine fino ai nostri giorni. Essa muta ed è dinamica. Un altro esempio di nome etnico, stavolta tratto dall’Africa: I bambara sono un’etnia del Mali. Il loro nome è una distorsione del termine “banmana” che per i musulmani del Mali significa “barbaro” “selvaggio”. In questo esempio si vede come l’etnia spesso non solo è relazionale ma anche oppositiva. L’etnia è relazionale e oppositiva, cioè: I nomi etnici - anche detti etnonimi – sono dati agli altri per distinguere se stessi. Per questo spesso è soggiacente un’opposizione Noi/Loro che esalta il Noi e, implicitamente o meno, disprezza il Loro. Nel caso dei bambara: loro sono selvaggi, noi i civilizzati. L’opposizione Noi/Loro enfatizza una o più differenze (vere o presunte) e dà una rappresentazione del sé collettivo rispetto a un altro. Si tratta di qualcosa di molto comune, a cui si dà il nome di “antropologia spontanea”. Dunque, tutti i gruppi sociali producono spontaneamente un’antropologia. Ma non tutti i gruppi hanno il potere di imporre la propria definizione dell’altro e di perpetuare nel tempo tale definizione. Chi può farlo? Chi può definire e dare un nome ai gruppi sociali e perpetuare nel tempo queste definizioni? Lo Stato è l’attore privilegiato in grado di costruire identità e conservarle nel tempo grazie allo strumento della scrittura e della burocrazia. La scrittura fissa le identità altrimenti mutevoli. Così lo Stato istituisce, fissa, controlla ed è garante delle identità grazie allo strumento della scrittura e della burocrazia. Chi può farlo, dunque? È soprattutto lo Stato a poter fissare le identità e perpetuarle nel tempo. Lo Stato quale istituzione politica centralizzata su base burocratica, in possesso dello strumento della scrittura. Abbiamo detto: L’identità etnica cambia nel tempo; Lo stato fissa le identità e le perpetua nel tempo. È una contraddizione? Solo apparentemente. Le due affermazioni sono entrambe vere. È la storia del concetto di “etnia” a dimostrarlo. In particolare: la storia dell’uso politico dell’“etnia”. Ethnos e polis nel mondo greco Il termine “ethnos” assumeva significato in contrapposizione a quello di Polis. La polis, la città stato, era per i greci l’organizzazione politica più compiuta. L’ethnos indicava tutte quelle società che non erano la polis. L’ethnos aveva così un significato difettivo: ricavato in negativo dalla polis, indicava l’assenza di organizzazione politica di tutte quelle società che non avevano la forma della città-stato greca. L’ethnos aveva un significato dispregiativo, dunque. E racchiudeva il pregiudizio secondo cui la polis era l’unica istituzione politica possibile. Tanto che sia un impero che una tribù era indicato con ethnos. Etnia e nazione in età moderna Il significato difettivo e peggiorativo si mantenne anche in età moderna: Alla fine del Settecento l’etnia aveva significato in opposizione al concetto di “nazione”. L’etnia mancava dunque delle caratteristiche dello Stato moderno con confini definiti, in cui le elite borghesi al potere dettano i principi ideologici dell’identità. L’etnia era una sorta di nazione a cui mancava l’organizzazione dello Stato. L’etnia era dunque una nazione in potenza. Nell’etnia e nella nazione vi era l’idea di una omogeneità assoluta dell’identità. I loro membri dovevano condividere le stesse origini, la stessa, cultura, la stessa lingua. Si tratta di una visione fortemente ideologica dell’identità, relativamente recente che si rafforza nel corso dell’Ottocento quando inizia a prendere forma il concetto di “razza”. Così nella seconda metà dell’Ottocento si arrivò a questa equazione: Una nazione = un territorio, una lingua, una razza. Rispetto alla nazione, l’etnia mancava di sovranità territoriale. Questa concezione omogenea dell’identità, trasformava l’etnia in qualcosa di potenzialmente minaccioso: le minoranze etniche all’interno dei confini nazionali sarebbero state portatrici (implicitamente o meno) di rivendicazioni che attentavano all’unità nazionale. È la concezione moderna della nazione ad implicare la purezza etnica (e razziale) e non il contrario. In effetti la purezza etnica non esiste perché le identità presuppongono sempre una relazione e sono in cambiamento. Etnia e imperialismo Nel corso dell’Ottocento l’etnia conobbe un campo di applicazione anche al di là dell’Europa. La conquista coloniale delle potenze europee si servì politicamente della nozione di etnia. In contesto coloniale l’etnia era utile a frammentare le vaste unità politiche locali in piccole entità. L’etnia serviva ai colonizzatori in due modi: 1) Per dividere; 2) per comandare. L’etnia per dividere e frammentare: L’operazione del dividere e del frammentare fu possibile grazie all’antropologia, come scienza sociale che proprio alla fine dell’Ottocento era diventata una disciplina accademica. L’antropologia servì dunque a descrivere delle entità sociali su piccola scala, esasperando le differenze. In realtà, quelle entità sociali non erano affatto isolate ma facevano parte di unità più vaste sia di natura culturale che politica. La ragione etnologica: Tale operazione è detta “ragione etnologica”. E consiste: nell’isolare, accentuare le differenze e così dividere un continuum sociale, politico e culturale per ottenere una frammentazione delle società dominate. Il vantaggio: Il vantaggio della ragione etnologica per i colonizzatori consisteva: nel dividere e indebolire i dominati. Divise in etnie, alle società colonizzate era negato il loro aspetto politico. Esse erano descritte come società senza Stato, cioè primitive in contrapposizione alla civiltà europea. Torniamo alla contraddizione apparente: Abbiamo detto: L’identità etnica cambia nel tempo; Lo Stato fissa le identità e le perpetua nel tempo. Ora possiamo dire che nel processo di costruzione del nazionalismo europeo e nella fase di espansione imperialista, le etnie divennero identità rigide e fisse. Il tema del colonialismo sarà approfondito nelle slides dedicate alla storia dell’africa. Sul tema della ragione etnologica e dell’uso politico dell’etnia torneremo nelle slides dedicate al libro “L’invenzione dell’etnia”. CULTURA, TRIBÙ, ETNIA: REALTÀ O FINZIONI? Cos’è la cultura? Per rispondere a questa domanda è necessario compiere una sorta di archeologia del concetto di cultura. Cioè: Capire l’origine e i diversi usi della nozione di cultura nel tempo. L’origine della nozione moderna di cultura: Alla fine del Settecento il concetto di cultura iniziò ad assumere un nuovo significato. Prima il termine era riferito alla formazione dell’individuo: alla raffinatezza e alle conoscenze delle persona colta. Ora invece assumeva un significato collettivo. L’origine della nozione moderna di cultura – Kultur, in Germania: Nella seconda metà del Settecento in Germania si afferma una visione etnica e particolaristica della cultura (Kultur). Johann G. Herder ad esempio sosteneva che la cultura tedesca aveva un carattere particolare che rispecchiava lo spirito peculiare di un popolo, nella fattispecie: quello tedesco... così si afferma: Un’accezione collettiva della nozione di cultura. Cioè: L’idea che ad essere depositario L’etnia (come la tribù) è dunque per l’antropologia contemporanea una finzione: perché non corrispondeva in origine a nessuna realtà oggettiva; perché è il frutto di un processo storico concreto e non un dato naturale. Abbiamo visto che l’etnia e la tribù sono concetti forgiati in Europa ed applicati ad altri contesti durante il periodo coloniale. In questa fase storica di violenta globalizzazione, il ruolo di queste nozioni è stato quello di frammentare, classificare, reificare le società dominate, allo scopo di cristallizzare, in una serie di isolati distinti, realtà ampie e complesse per dominarle intellettualmente e politicamente. Il termine “finzione” dunque: ha il senso di “essere fatto” “essere costruito” in un processo storico; e non il senso: di pura fantasia; Poiché tale finzione: è “stata costruita” in un processo storico concreto, caratterizzato dagli squilibri di potere propri della situazione coloniale; ed ha avuto concreti effetti storici (come vedremo). IL CONFINE ETNICO, IL NUOVO PARADIGMA “Dal confine alla frontiera etnica” capitolo quarto di U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma 2007. In particolare viene illustrato l’argomento del confine etnico mentre quello della frontiera sarò oggetto della prossima serie di slides. Prima di entrare nel vivo dell’argomento vi propongo due immagini che evocano in modo molto efficace il cambio di paradigma che avvenne nel corso degli anni Sessanta, quando il concetto di confine etnico venne introdotto dall’antropologo Fredrik Barth. Gli anni 60, un cambio di paradigma Le precedenti foto ritraggono due antropologi di generazioni diverse. Sono ritratti in posture e in atteggiamenti che suggeriscono un profondo cambiamento nelle modalità di intendere il lavoro sul campo, il ruolo del ricercatore e la sua relazione con gli attori sociali studiati. I fattori che contribuirono a questa svolta sono molteplici e riguardano non solo cambiamenti interni all’antropologia ma processi sociali più ampi. È però importante almeno considerare un fattore storico: I movimenti anticoloniali che dal decennio precedente pervadevano il sud globale. Cioè: l’antropologia non è una scienza pura, completamente disancorata dai dinamismi storici ad essa contemporanei. Al contrario, essa è profondamente situata nel contesto in cui opera, riflettendo i rapporti di forza anche quando si pone un compito di critica sociale. Così, se nel periodo coloniale le nozioni di etnia e tribù erano funzionali alla dominazione intellettuale e politica dei colonizzati, gli antropologi ora ripensavano criticamente l’impianto coloniale della propria disciplina, essendo spesso partecipi delle rivendicazioni libertarie dell’epoca. Il confine etnico All’interno di questo più ampio processo di trasformazione Fredrik Barth riformulò gli studi sull’identità etnica attraverso la nozione di confine etnico. Il testo fondamentale in cui si trova l’esposizione più completa è del 1969, Ethnic groups and boundaries. The Social Organization of Culture Difference. Barth formula la sua nozione di confine allo scopo di superare la prospettiva isolazionista. Cioè quella prospettiva che isolava culture e gruppi sociali, frammentando realtà complesse che costituivano un coninuum socio-culturale. Come visto questa prospettiva creava artificiosamente delle isole: etnie e tribù come oggetti autonomi, fissi e chiusi. Barth, infatti, osservava che: sino ad allora era stato dato grande rilievo alle differenze fra società. Mentre invece: rimaneva ancora inesplorato il confine fra i gruppi sociali… così che si consideravano le etnie come oggetti sempre già dati ma nessuno poneva la domanda fondamentale: Come si costituiscono i gruppi etnici? Per rispondere, secondo Barth, era necessario investigare i confini fra gruppi etnici…. Cioè, appunto, il confine etnico. Perché il confine etnico? Perché è importante studiare il confine per capire come i gruppi etnici si costituiscono? Per rispondere alla domanda bisogna capire che cosa significa guardare ai gruppi etnici (e alla loro costituzione) a partire dal confine. Guardare ai gruppi etnici (e alla loro costituzione) a partire dal confine Significa: ribaltare la prospettiva classica che considera la differenza culturale come effetto dell’isolamento sociale e geografico. Al contrario per Barth: La differenza culturale è il prodotto della relazione… cioè, la differenza fra gruppi si produce attraverso il confine che li divide. Il confine è infatti una linea (spesso simbolica) di contatto, di relazione fra gruppi. Una linea di contatto fra gruppi che stabilisce chi è chi. Cioè: da una parte della linea si è dell’etnia A dall’altra invece dell’etnia B. Ma l’aspetto paradossale è che: più il confine viene attraversato più il confine è rimarcato… non si cancella. Il confine, dunque, non viene cancellato se individui e gruppi lo attraversano ma invece confermato, ribadito… Che cosa vuol dire? Che le differenze non si annullano nell’attraversare il confine ma si mantengono… cioè: il confine, che segna la differenza fra gruppo A e gruppo B, è mantenuto grazie all’attraversamento. Facciamo un esempio in astratto: Un individuo X è del gruppo etnico A. Esiste un confine che separa il gruppo etnico A dal gruppo etnico B. Se X attraversa questo confine, X cambia cioè non è più A ma B: cambia etnia attraversando il confine. Quindi l’attraversamento di X non confonde, non cancella le differenze ma le evidenzia… perché passare dall’altra parte significa cambiare appartenenza/identità etnica. Le ricerche di Barth presso i Pathan dello Swat (Pakistan Nord-occidentale) Questa concezione del confine etnico non è certo universale. Cioè, non sempre il passaggio da un’etnia a un’altra avviene in questo modo. Barth, in effetti, formulò la sua idea di confine a partire da un caso specifico, tratto dalla sua esperienza di ricerca sul campo nel Pakistan nord-occidentale, presso la popolazione Pathan. Il passaggio del confine descritto da Barth non è valido universalmente, ma l’idea di guardare all’etnia a partire dai confini etnici rimane una prospettiva utile a comprendere i processi identitari in generale. Pertanto vale la pena dare uno sguardo al caso particolare dei Pathan studiato da Barth. I Pathan, meglio noti come pasthum, sono divisi in lignaggi (gruppi parentali) politicamente autonomi. Sono inoltre una popolazione in contatto continuo con altre etnie da cui sono separati da confini netti. Questa era la situazione dei pathan negli anni Sessanta, quando Barth svolse ricerche presso di loro. La prima domanda che Barth si pose non era: chi sono i pathan? Ma: come si definiscono i pathan? Cosa rende un individuo un pathan, secondo gli stessi pathan? I pathan individuano tre tratti culturali distintivi: 1) la discendenza patrilineare; 2) la religione musulmana sunnita; 3) l’autonomia e l’uguaglianza fra tutti gli uomini adulti. Analizziamo meglio il punto 3) che è legato all’izzat, cioè: all’onore, alla rispettabilità dell’uomo. L’izzat, l’onore dell’uomo è connesso con: l’ospitalità (il dare e il poter dare ospitalità); l’assemblearità (cioè l’istituzione politica per cui tutti gli uomini sono uguali e indipendenti); l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica (cioè il controllo dell’uomo sulle donne della propria famiglia). L’onore maschile, tuttavia, è un sentimento fondamentale in molte delle popolazioni dell’intera regione. Allo stesso modo, molti dei gruppi etnici vicini ai pathan caratterizzano se stessi a partire dalla discendenza patrilineare e dal sunnismo. Diciamo che i pathan selezionano fra tanti alcuni tratti culturali e li pongono come distintivi per la loro identità. Tuttavia, vi è un unico aspetto che distingue i pathan: l’assemblearità. Cioè la dimensione politica dell’onore maschile. Quest’aspetto gioca un ruolo fondamentale nel confine etnico e nel suo attraversamento. È l’assemblearità, cioè, a mantenere il confine etnico (la differenza con altri gruppi). Questo è evidente in quello che i pathan fanno, dicono, pensano sull’attraversamento del confine. Dunque guardando dal confine si coglie come l’identità etnica si costituisce, cioè si mantiene, si perpetua, ribadendo la differenza fondamentale che distingue i pathan dagli altri. È dunque l’indipendenza politica dell’uomo adulto a fare di un pathan… un pathan. Questo si capisce quando è in gioco il confine con un altro gruppo etnico, quello dei baluch situati a sud dei pathan. Tra i pathan esistono dei capi. Ma il rapporto di dipendenza con un capo pathan è di tipo politico: un capo in alcune occasioni critiche appoggia il suo protetto. Tra i baluch invece il rapporto di dipendenza e più simile a quello fra patrono e servo. È una dipendenza di tipo economico: dipendere da un capo baluch significa mettersi al suo servizio. Il tipo di dipendenza baluch (patrono/servo) fa sì che la società baluch sia più predisposta ad assorbire individui, incorporandoli nel sistema clientelare. Infatti un capo baluch ha tutto l’interesse ad avere nuovi clienti. Per un capo pathan invece un nuovo protetto significa essere in grado di garantire appoggio. Per questo la società pathan non è così ricettiva come quella baulch. È così più facile che un pathan diventi un cliente di un patrono baluch. Questo avviene soprattutto se un pathan subisce un impoverimento e una perdita di status che mina la sua indipendenza. Cioè, come visto, il suo onore. A questo punto il pathan divenuto cliente di un baluch diventa baluch, perché perde il tratto distintivo dell’indipendenza politica. Attraversando il confine etnico un pathan smette di essere pathan, cambia quindi la sua identità etnica per essere un baluch. Egli assume, cioè, uno stile comportamentale inconciliabile con l’identità pathan. Questo cambiamento di identità etnica, mantiene il confine, mantiene la differenza e quindi mantiene l’identità pathan basata sull’indipendenza degli uomini adulti. Come cambia l'Etnia per Barth Vediamo dunque quali sono i punti di svolta compiuti considerando l’etnia a partire dal confine: a) l’etnia diventa una categoria di ascrizione e identificazione da parte degli attori stessi; b) l’attenzione è sui processi di costruzione identitaria; c) Cade la prospettiva della ricostruzione storica a vantaggio dei meccanismi di mantenimento e perpetuazione delle identità. Vediamo meglio i punti a) e b): Il punto di vista è ora quello degli attori sociali. La domanda fondamentale è, infatti, cosa significa essere pathan per i pathan stessi. È così eliminata la prospettiva oggettiva e reificante dell’etnia: la domanda non è cosa sono i pathan, al di là di quello che i pathan dicono (e fanno) di se stessi. A questo proposito la foto di Barth vista all’inizio è una sintesi efficace di questa svolta. Vediamo meglio il punto c): Il punto non è quello di dire che la prospettiva storica è inutile. Ma di guardare alle dinamiche che mantengono nel presente un’identità. I pathan sono i pathan non perché erano così in passato. L’identità non va cercata in una qualche origine fondativa ma nel presente, nel funzionamento attuale dell’etnia stessa. Allo stesso modo i pathan non sono pathan per una natura intrinseca ma per il processo attraverso cui essi stessi scelgono di mantenere la loro identità… e in questo processo entrano fattori e interessi politici ed economici, senza per questo negare che esista un sentimento, un sistema di valori dell’essere e sentirsi un pathan. Si tratta di un processo costitutivo che avviene solo grazie alla relazione con gli altri… con i baluch, in questo caso. Senza baluch non ci sarebbero i pathan. Senza la possibilità di diventare cliente non ci sarebbe il problema dell’identità pathan, l’identità degli uomini indipendenti e eguali fra loro. LA FRONTIERA ETNICA In questa serie di slides sono affrontati argomenti trattati in: “Dal confine alla frontiera etnica” capitolo quarto di U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma 2007. In particolare viene illustrato l’argomento della frontiera etnica mentre quello del confine è oggetto della precedente serie di slides. Lista degli argomenti: confronto fra confine e frontiera; la frontiera Statunitense secondo Turner; la frontiera interna africana precoloniale secondo Kopytoff; un confronto fra la frontiera di Turner e di Kopytoff. La parte riguardante la frontiera interna africana precoloniale, elaborata dall’antropologo Kopytoff, amplia decisamente quanto riportato nel libro di Fabietti. Questo perché tale argomento è particolarmente utile al percorso che stiamo svolgendo fra antropologia politica e storia dell’Africa, attraverso l’esperienza coloniale dell’area sub-sahariana. Confronto fra confine e frontiera Il confine etnico di Barth ha le sembianze di una linea anche quando lo si intende non come un confine geografico o politico ma come simbolico o immaginario. Si tratta di una linea che viene superata. L’unica azione che riguarda questa linea è infatti il superamento che mantiene e ribadisce il confine fra gruppi. Ma se volessimo cogliere altre tipologie di azioni che riguardano la relazione costitutiva dell’etnia (cioè la relazione con l’altro), allora avremmo bisogno di visualizzare uno spazio diverso: un’area, una zona… appunto una frontiera. La frontiera è dunque un’area: cioè, uno spazio dotato di una certa estensione, anche quando lo intendiamo in senso metaforico e non materiale. La frontiera serve per pensare ed analizzare trasformazioni diverse da quelle che avvengono attraversando il confine, cioè: una linea. Quali sono queste trasformazioni? quelle che presuppongono scambi, ibridazioni, creazioni di nuove identità. Con il confine abbiamo che X passa attraverso la linea che separa il gruppo etnico A da quello B. Così facendo X da A diventava B, cioè assume l’identità di B. X perde l’identità A ma quest’ultima non sparisce, al contrario è ribadita, perché attraversare il confine significava mantenerlo, cioè: dimostrare che esiste una differenza fondamentale fra A e B, per cui queste non potrebbe cioè emergere il nucleo di uno centro, di un nuovo regno o principato. Le due frontiere descrivono dinamiche differenti: Turner descrive una frontiera che procede verso la periferia in modo teleologico, lineare, irreversibile; Kopytoff invece descrive una frontiera interstiziale ciclica e reversibile (da centro a periferia e viceversa). Nella slide successiva trovate un’illustrazione grafica che evidenzia le differenze fra la frontiera americana di Turner (a sinistra) e quella africana precoloniale di Kopytoff (a destra). In entrambe è evidenziato il movimento/rapporto dal centro (metropole) alla periferia (periphery). L’INVENZIONE DELL’ETNIA In questa serie di slides sono affrontati gli argomenti trattati in: J.-L. Amselle, E. M'Bokolo, L'invenzione dell'etnia, Meltemi, Roma 2008, pp. 7-75. L’etnia è un’invenzione per gli autori di questo libro proprio nel senso in cui l’abbiamo sinora definita una “finzione”, cioè: non si tratta di negare l’esistenza dell’etnia; Si tratta di riconoscere la storicità, il profondo dinamismo dell’etnia. Costruttivismo vs primordialismo Il libro sposa una prospettiva costruttivista, cioè: sceglie di guardare a come le identità sono costruite dagli uomini, all’interno di rapporti di forza fra gruppi e società. E rifiuta la prospettiva primordialista, cioè: rifiuta di spiegare le identità ritrovandone l’origini nella notte dei tempi, come se le identità fossero immutate e immutabili. Così, l’etnia: non è un referente stabile: cioè qualcosa che fissa gli individui in categorie; ma designa un’appartenenza relativa, cioè: che muta al mutare delle relazioni sociali, economiche, politiche. E così, il costruttivismo non studia: universi chiusi, uno accanto all’altro, uno giustapposto all’altro; ma le interrelazioni, le sovrapposizioni, gli intrecci. I riferimenti: Per questo, gli autori fanno riferimento ad antropologi che abbiamo già incontrato: Barth: per la sua riformulazione al concetto di etnia attraverso la nozione di confine; Kopytoff: per la sua attenzione al rapporto centro-periferia e per il suo studio della frontiera precoloniale africana, come processo di etnogenesi e dinamica di emersione delle formazioni politiche. La riappropriazione: L’etnia è storica in senso stretto, perché ha una sua storia: Il periodo coloniale è, in tal senso, un momento decisivo: ciò che l’etnia è in Africa dopo il colonialismo è profondamente diverso da ciò che era prima. L’etnia è infatti una invenzione coloniale: l’esito di quel processo storico di violenta globalizzazione, il prodotto di quegli specifici rapporti di forza. Tuttavia sono necessari dei chiarimenti al riguardo… L’etnia è un’invenzione coloniale nel senso che: Questa nozione identitaria europea fu usata dall’antropologia coloniale per classificare le popolazioni africane in insiemi chiusi e distinti. Serviva, cioè, a frammentare vaste unità socioculturali e a indebolire le autorità politiche africane prima capaci di aggregare su larga scala, al di là delle identità particolari e locali. Per questo l’etnia fu uno strumento per le politiche coloniali utile a dividere e governare. Ed in tal senso si parla di un’antropologia o etnologia coloniale: non solo perché risale a quel periodo storico ma perché era profondamente intrisa e compromessa con il progetto ideologico e politico del colonialismo. Ma perché lo strumento dell’etnia funzionasse non poteva essere solo frutto dell’immaginazione europea, né era sufficiente la sola forza coercitiva. Bisognava: che lo strumento coloniale dell’etnia si innestasse sulle identità precedenti; che vi fossero degli attori africani (un gruppo sociale, una classe) che si appropriassero delle identità etniche per “giocarle” sullo scena culturale e politica. Così le identità africane non sono il mero prodotto degli europei, gli africani stessi hanno contribuito a costruirle, se ne sono appropriati e oggi conoscono nuove trasformazioni, nuovi usi e abusi nello scenario post-coloniale. La questione non è dunque di ritornare a quello che le identità africane erano prima del colonialismo… Perché anche prima non esistevano identità autentiche, pure, libere da rapporti di forza. Le identità sono infatti sempre storiche, meticcie spurie: cioè in trasformazione, frutto della relazione, dell’incontro/scontro fra Noi e gli Altri. Il recupero della storia Il costruttivismo è una prospettiva di indagine antropologica che si base su un forte recupero della storia. In tal senso, essa rompe con le tradizioni antropologica precedenti che erano astoriche (evoluzionismo, culturalismo, funzionalismo), cioè: bandivano la prospettiva storica dall’indagine antropologica. Tuttavia questa prospettiva rintraccia in alcuni studi del passato le radici di un discorso che decostruisce la nozione etnica (e tribale) come realtà astorica e fissa. In tal senso nel libro di Amselle e M’bokolo sono citati una serie di antropologi (Nadel, Mercier, Barth, Godelier ecc.). Gli spazi precoloniali Come guardare dunque all’Africa precoloniale senza ricorrere alla nozione coloniale dell’etnia? Ricostruendo quelle grandi unità sociali che l’etnia coloniale ha diviso. Si parla, quindi, di “catene di società” di “spazio internazionale” per caratterizzare l’Africa precoloniale. Se l’etnia riduceva una realtà complessa e interrelata a un mosaico di isole senza relazioni… superare questa prospettiva significa: spiegare il semplice con il più complesso; cioè: spiegare le identità locali, le piccole comunità, ricostruendo la trama di relazioni in cui erano inserite. Perché solo all’interno di quelle relazioni, esse avevano senso. Porre l’accento sulle reti e le relazioni non significa dire che le società africane erano pacifiche, che vi imperasse l’egualitarismo… al contrario significa guardare: ai rapporti di forza, alla relazione fra società dominanti e dominate, inglobanti e inglobate. L’accento è dunque sugli spazi sociali: 1) spazi di scambio; 2) spazi statuali, politici e guerrieri; 3) spazi linguistici; 4) spazi culturali e linguistici. Nelle prossime slides sintetizzeremo i primi punti. Spazi di scambio Gli scambi rappresentano una prima forma di strutturazione degli spazi precoloniali: essi davano forma a rapporti ineguali e a spazi di produzione. Dunque non comunità che vivevano di economia di sussistenza ma divisione sociale del lavoro e commercio su lunga distanza. Spazi statuali, politici e guerrieri Lo stato in Africa, sebbene diverso dallo stato-nazione, è di molto precedente la colonizzazione. La sua emersione è in un rapporto complesso con le migrazioni, secondo la dinamica centro-periferia della frontiera analizzata da Kopytoff. Secondo tale dinamica vi è un rapporto fluido (circolare) fra diverse formazioni politiche: chefferies, principato, regno. Le diverse formazioni politiche sono in relazione fra loro secondo rapporti di forza: alcune, come i regni, hanno maggiore capacità di determinare lo spazio: il proprio e quello degli altri. Queste sono società inglobanti che hanno il potere di frammentare le altre organizzazioni sociali che sono spesse quelle società che l’antropologia ha descritto come gruppi etnici e tribù. In realtà essere erano il frutto della relazione con un’entità statuale che delimitava il loro spazio d’azione. Le relazioni fra società inglobanti e inglobate erano diverse. Quelle inglobate potevano: essere soggette a un regine tributario; oppure essere periodicamente razziate e usate come riserva di schiavi. Gli spazi linguistici Il rapporto fra società inglobanti e società inglobate corrisponde alla differenza fra area linguistica di grande estensione e di piccola estensione. Le aree linguistiche di grande estensione corrispondono alla lingua delle società inglobanti ma sono spesso anche lingue veicolari, comprese anche dalle società inglobate. Paradigmi e mutazioni etniche precoloniali Gli attori sociali si muovevano all’interno di queste “catene di società”, fra società inglobanti e inglobate. A seconda del posto che occupavano all’interno dei sistemi sociali erano in grado di definire la propria identità nel “paradigma etnico” a disposizione. Il “paradigma etnico” forniva una serie nomi etnici (etnonimi). Questo paradigma non era semplicemente una classificazione dei gruppi etnici esistenti, come se questi esistessero di per sé e si trattasse di un elenco di caselle identitarie fisse. Il paradigma etnico era invece un sistema di classificazione che indicava delle categorie sociali. Cioè: le diverse categorie non erano divise da frontiere geografiche. Ma assumevano senso una rispetto all’altra (per questo davano forma a un sistema), riflettendo le relazioni, le gerarchie, i rapporti di forza delle catene si società in cui erano imbricati. Il corpus di categorie sociali a disposizione poteva mutare perché le relazioni erano diverse da contesto a contesto e perché i rapporti potevano cambiare. Il paradigma etnico era dunque un sistema di trasformazioni. Uno stesso gruppo o individuo poteva mutare etnonimio sia nel tempo, sia in relazione a chi si rapportava. La singola identità etnica non aveva dunque significato di per sé ma solo all’interno di molteplici relazioni. Queste relazioni prendevano forma all’interno di “catene di società”, all’interno dei rapporti fra società inglobanti e inglobate. In tal senso indicano delle dominazioni e quindi: rimandano a entità sociali complesse, diseguali, disomogenee; e non a unità sociali omogenee linguisticamente, culturalmente, “razzialmente”. Spesso, tuttavia, l’etnonimio intendeva indicare un’origine comune, una stessa discendenza. Questo però era l’aspetto ideologico dell’identità che aggregava e creava adesione… proprio come le “nostre” identità. Lo spazio coloniale La classificazione coloniale dell’etnia: riprese gli etnonimi precoloniali; oppure inventò nuovi nomi. In entrambi casi si tratta di invenzioni o finzioni. Nei sensi che abbiamo già dato a questi due termini. Sia nel caso che riprendesse vecchi nomi o ne attribuisse di nuovi…La classificazione coloniale agì territorializzando le etnie. Cioè: delimitandole territorialmente, spezzando le vecchie catene di società, creando bariere laddove vi erano relazioni. Questo allo scopo di frammentare vaste unità e di scalfire il dominio delle società inglobanti e l’autonomia delle autorità politiche precoloniali. Il risultato fu una mappatura dell’Africa divisa in piccole unità sociali, corrispondenti ad altrettante etnie (o tribù) e razze. NB: Nelle slides sull’amministrazione coloniale abbiamo visto come le politiche coloniali agirono in questo senso. Le etnie coloniali agivano inoltre all’interno di un nuovo spazio: non più quello delle catene di società, ormai spazzato via; ma invece quello dello stato coloniale. Le etnie erano chiamate a situarsi dunque in rapporto a un nuovo spazio: quello statuale coloniale e, in seguito, postcoloniale. Ed in questo senso il loro aspetto ideologico ha senso nei confronti di questo nuovo rapporto di potere. Ed esse saranno usate come strumento di rivendicazione e determinazione sociale. Il tribalismo moderno Il preteso attuale tribalismo dell’Africa interpreta conflitti e tensioni contemporanee come il frutto del retaggio etnico. Secondo l’idea che: persisterebbe o riemergerebbe ancora oggi un’organizzazione sociale primitiva che sarebbe tipica dell’Africa e che vedrebbe opporsi gruppi incompatibili per cultura e identità in uno spazio - quello dello stato di eredità coloniale - che li forza in una innaturale convivenza. Gli antropologi sono concordi del dire che il “tribalismo africano” sia una lettura che nasconde la reale ragione dei conflitti africani che sono politici,
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