Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Antropologia Culturale - Fabio Dei - 2°edizione, Sintesi del corso di Antropologia Culturale

Sintesi dell'intero libro (cap. da 1 a 15) Testo adottato dalla professoressa Grazia Arena per l'indirizzo di Sc. per la comunicazione,Catania

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 28/05/2018

miriamuccia
miriamuccia 🇮🇹

4.7

(26)

5 documenti

1 / 46

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Antropologia Culturale - Fabio Dei - 2°edizione e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! ANTROPOLOGIA CULTURALE (Fabio Dei) PARTE I: CONCETTI, STORIA, METODI CAPITOLO 1: LE DISCIPLINE DEA 1. Cosa significa M-DEA/O1? M-DEA significa “discipline demoetnoantropologiche”. Questa denominazione combina i nomi di tre insegnamenti di questo settore scientifico-disciplinare in Italia che sono: • Antropologia culturale: pone l’accento su ampi approcci di tipo teorico e comparativo • Etnologia: studi settoriali su specifici popoli e culture in ogni parte del mondo • Demologia (o Folklore : studi delle culture e tradizioni popolari Si tratta di tre scienze umane il cui oggetto è lo studio dell’uomo e delle culture umane nelle loro articolazioni etniche e nelle loro espressioni popolari. In antropologia per cultura si intende non solo i prodotti del lavoro intellettuale (arte, letteratura, scienza) ma il complesso degli elementi non biologici attraverso i quali i gruppi umani si adattano all’ambiente e organizzano la loro vita sociale (istituzioni, le tecniche di lavoro, le forme di parentela, il linguaggio ecc). 2. L’origine dell’antropologia culturale La nascita dell’antropologia culturale si fa corrispondere al 1871, data di pubblicazione di un libro di Edward Tylor intitolato “Primitive Culture”. Altri antropologi invece pensano che le origini dell’antropologia risalgano a molto prima vedendo precursori in varie epoche della storia del pensiero. Altri invece pensano che non si possa parlare di una vera e propria antropologia prima del Novecento, ovvero quando si svilupparono metodologie di ricerca sul campo che diventarono tratto distintivo della disciplina. Tuttavia sul piano istituzionale l’antropologia culturale si costituisce negli ultimi decenni dell’Ottocento: è il periodo del colonialismo,della grande fiducia nella scienza e nel progresso, di uno sviluppo capitalistico visto come inarrestabile. L’antropologia si caratterizza per lo studio di ciò che l’Europa si è lasciata alle spalle, dei “primitivi”, ovvero di quei gruppi non toccati dalla modernità, che subiscono, al tempo stesso, dominio e violenza coloniale. Troviamo però una tensione intellettuale, in quanto parlare di cultura dei primitivi significa, da un lato, contrapporsi ad un senso comune che li considera bestiali e privi di ogni cultura, dall’altro, cultura significa rivendicarne la comune umanità e mostrare come essi siano più vicini a noi di quanto ci piaccia immaginare. L’antropologia fin dall’inizio sta dalla parte dei primitivi e contro il razzismo biologico che ne afferma l’inferiorità congenita. 3. Vocazione per la diversità Nel contesto della globalizzazione è ovvio che non esistono più primitivi. Bisogna chiarire che non è possibile parlare di culture come entità compatte e ben definite e per di più coincidenti con un popolo e un territorio. Ciò non significa che le differenze culturali non esistano più, al contrario la globalizzazione per certi versi le moltiplica pur mischiando i contesti culturali. In questa situazione, l’antropologia culturale continua a definirsi in base alla sua vocazione per lo studio delle differenze, cercando di sistematizzare e di trarre scientificamente quei confronti comparativi che la filosofia e la letteratura usavano in modo più occasionale e impressionistico. L’attrazione per la diversità sta anche alla base di una vocazione critica dell’antropologia anche nei confronti della propria cultura. Il confronto con l’altro costringe ad una continua revisione delle nostre categorie e di ciò che nel nostro senso comune si dà per scontato. Il compito dell'antropologia è quello di mostrare che quanto ci sembra ovvio e naturale non lo è affatto. Il confronto con il diverso ci fa vedere le cose familiari sotto una luce diversa che in qualche modo le rende “strane”. Questo estraniamento ci suggerisce che i nostri modi di vivere non sono gli unici possibili, e non necessariamente i migliori. Ernesto De Martino, uno dei fondatori della moderna antropologia italiana, chiamava “scandalo etnografico” questo incontro-scontro con una diversità che ci costringe a rivedere i nostri sistemi categoriali e ci costringe a rivederli in un processo di costante ampliamento della nostra consapevolezza storiografica. L’analisi di molte pratiche primitiva e apparentemente bizzarre hanno portato a ripensare in modo fortemente critico alcuni fondamenti propri della nostra vita sociale. 4. La ricerca sul campo Tratto peculiare importante dell’antropologia è la ricerca sul campo. L’antropologia attraverso il fieldwork (ricerca sul campo) tenta di rispondere ai problemi teorici che si pone. Il modello classico di fieldwork antropologico si viene definendo con le prime scuole novecentesche in particolare con quelle anglosassoni. I padri fondatori di tale metodo sono Franz Boas e Bronislaw Malinowski. DIFFERENZA TRA MALINOWSKI E BOAS (padri fondatori della disciplina): Boas è uno dei primi antropologi ad andare a fare ricerca sul campo, ma lui non viveva con gli abitanti del luogo bensì in una casa posta al di fuori del villaggio che intendeva studiare e riceveva gli abitanti del luogo nella propria casa per informarsi su quella cultura. Malinowski invece per fare ricerca va a vivere in mezzo alla popolazione che intende studiare e fa una vera e propria esperienza delle loro tradizioni vivendole lui stesso. Gli antropologi vittoriani non erano ricercatori. Ritenevano che la raccolta dei dati empirici e il lavoro teorico di analisi e comparazione dovessero restare separati, affidati a persone con diversi ruoli e competenze. Dunque non svolgevano il loro lavoro sul campo ma in biblioteca, utilizzando come fonti i resoconti di viaggiatori, naturalisti, missionari, persone che non avevano una preparazione specifica ma che erano stati a contatto con culture lontane e ne avevano scritto. Questa “antropologia da tavolino” aveva l’inconveniente di poggiare su dati incerti, raccolti in modo dilettantesco e privi di attendibilità scientifica. Nel ‘900 la figura del teorico e quella del ricercatore si fondono dando vita alla figura dell’antropologo. Il manifesto programmatico di questa nuova figura si trova in un libro di Malinowski: “Argonauti del Pacifico occidentale” (testo incentrato sulla descrizione del kula ring, un complesso sistema di scambio cerimoniale di oggetti preziosi). Nell’introdurre la sua ricerca egli chiarisce come sia necessaria sia la preparazione teorica e metodologica, sia la diretta esperienza vissuta della cultura che si intende studiare per andare a formare la figura dell’antropologo: senza la preparazione non si saprebbe osservare e l’osservatore non sarebbe in grado di individuare i tratti rilevanti di un contesto culturale e di conseguenza trasformare in documenti o dati l’esperienza vissuta. Invece senza l’esperienza diretta il teorico non riuscirebbe mai a comprendere fino in fondo un’altra cultura e non riuscirebbe ad entrare in empatia con essa. Malinowski conia il termine osservazione partecipante per indicare quello stile di ricerca per cui l’antropologo vive all’interno di una comunità, condivide la quotidianità ed entra in rapporti personali con i suoi membri partecipando alle più importanti pratiche sociali. Questo stile di osservazione partecipante diventerà lo standard per molte generazioni successive di antropologi. Tale metodo implica una permanenza prolungata sul territorio (non inferiore ad un anno) e condotta a stretto contatto con gli indigeni: ciò significa tagliare i rapporti on gli altri occidentali e vivere un’esperienza di radicale estraniamento dalla propria cultura di provenienza. Questo può provocare vere e proprie crisi esistenziali: è il caso stesso di M. Infatti dopo la sua morte la moglie acconsentì alla pubblicazione del suo diario: “Diario di un antropologo” si trattava di appunti che M. stesso aveva preso durante la sua permanenza nelle isole Trobriand. Ciò provocò un grande scalpore nell’ambiente antropologico in quanto viene fuori un uomo frustrato, infastidito dalla società stessa che stava studiando e che non vedeva l’ora di tornare a casa. Da questa pubblicazione poi vennero fuori dei dibattiti sul ruolo della soggettività nella ricerca sul campo. La ricerca sul campo deve adottare un approccio olistico, ossia deve andare a studiare tutti gli aspetti di una cultura: occorre imparare il linguaggio locale, studiare gli aspetti economici, quelli politici, le strutture di parentela, le pratiche religiose e così via. Altri strumenti metodologici molto importanti oltre all’osservazione partecipante sono: gli schemi genealogici, le interviste strutturate (con scelta di informatori privilegiati,) la schedatura dei manufatti, la documentazione fotografica e la redazione delle note e del diario di campo. Anche il modello malinowskiano di fildwork però non è sopravvissuto alle trasformazioni degli ultimi decenni. Sono troppo diverse oggi, con la globalizzazione, le condizioni per riuscire a trovare una cultura intatta nella sua autenticità’. Tuttavia, anche se in forme diverse, la ricerca sul campo, attraverso l’immersione e il rapporto diretto con le persone, continua ad essere il nucleo centrale delle discipline DEA. 5. Gli specialismi disciplinari L’antropologia si articola in diverse partizioni specialistiche in quanto tratta una molteplicità di tematiche diverse. Tali partizioni riguardano innanzitutto le aree geografico-culturali in cui si svolge la ricerca. Il modello classico di fieldwork, con i requisiti della lunga permanenza, implica che uno studioso nella sua carriera, può diventare esperto di due, o in casi eccezionali tre, aree culturali. Solitamente le specializzazioni vengono espresse in riferimento a grandi continenti o sub-continenti (antropologi africanisti, europeisti, oceanisti, ecc.). Ovviamente, nel quadro di queste grandi aree, gli studiosi sviluppano la loro ricerca in regioni circoscritte o in piccoli villaggi. Rari sono i casi di studiosi che si sono cimentati con più di una di queste partizioni geo-culturali. Le fonti orali sono il più comune strumento utilizzato nella ricerca. Vi sono settori che si specializzano nella loro produzione e nella loro trascrizione. Le fonti scritte sono state considerate a lungo estranee a una disciplina che è impegnata nello studio di culture illetterate. Oggi l’antropologia non può far a meno di considerare la dimensione storica dei suoi campi di studio, e le fonti scritte rappresentano uno strumento cruciale. Un altro tipo di fonte da considerare sono le fonti iconiche: fotografie, videoriprese che rappresentano strumenti importanti della documentazione culturale che fanno emergere aspetti che la scrittura non riesce a restituire. Inoltre vi sono le fonti materiali che riguardano i manufatti dell’artigianato tradizionale, infatti l’antropologia museale è attualmente uno dei settori più importanti della disciplina. Altri specialismi: l’antropologia storica, l’antropologia del mondo antico (che si occupa di rappresentare le civiltà antiche come quella greca o romana) l’antropologia linguistica (che include l’etnografia della conversazione o del discorso) l’antropologia psicologica (che studia le variazioni culturali nella definizione del concetto di persona) l’antropologia medica, l’etnopsichiatria (che studia gli aspetti culturali delle forme di disagio mentale) e l’antropologia filosofica che però in Italia non appartiene alle discipline Dea. modo in cui si faceva in passato (Hitlermetafore sugli ebrei come agenti infestanti portatori di contagio e impurità). Il neo-razzismo differenzialista non rivendica più la superiorità di alcuni popoli su altri, esso accetta il relativismo culturale (secondo il quale tutte le culture hanno pari dignità e importanza e non possono essere giudicate sulla base di criteri ad esse estranei). Ma proprio questa tolleranza porta poi a riaffermare quell’esigenza xenofoba: i nostri valori, le nostre convinzioni morali, sono radicate in una ben precisa identità culturale e proprio per questo motivo le identità non devono essere mescolate e bisogna preservarne l’autenticità e l’integrità. Anche secondo Levi-Strauss bisogna evitare contaminazioni in quanto la diversità culturale è il bene massimo da preservare per l’umanità, poiché il progresso stesso non è consentito dalla prevalenza di una cultura su tutte le altre ma dalla compresenza di culture diverse. Quindi è necessario favorire lo scambio e il dialogo ma bisogna anche evitare contaminazioni troppo profonde che facciano perdere il senso della diversità. 5. Come riconoscere il neo-razzismo I punti in comune tra il razzismo biologico, gerarchizzante e universalista della prima metà del Novecento e il razzismo culturale e differenzialista sono stati descritti in una delle teorie più sistematiche avanzata dello studioso Pierre Taguieff che individua tre atteggiamenti intellettuali comuni dell’ideologia e del comportamento razzista. -La prima è la categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi, che implica la riduzione dell’individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza o comunità d’origine elevata a comunità di natura fissa e insormontabile. Nascere tali significa essere e dover rimanere tali. Perché tale meccanismo assuma carattere razzista occorre che sia in gioco qualcos'altro: cioè una simmetria di potere. Razzista è l’essenzializzazione di una categoria debole o subalterna da parte di gruppi o individui relativamente privilegiati, che vedono in essa una minaccia per la propria posizione. -Il secondo punto è la stigmatizzazione: una volta categorizzati, secondo una presunta immutabile essenza, gli altri possono subire un processo di stigmatizzazione, cioè subire un processo di esclusione simbolica basato sull’attribuzione di stereotipi negativi. Il nemico viene “disumanizzato”, “bestializzato”, e ciò crea una distanza psicologica e morale che spiega anche le manifestazioni di violenza. Una conseguenza della stigmatizzazione è la mixofobia, ovvero la paura della mescolanza e dell’ibridazione. -Il terzo elemento che caratterizza il razzismo è la barbarizzazione e consiste nella convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili. Taigueff sostiene che la barbarizzazione è il più alto grado di distanziamento ed esclusione in quanto il “barbaro” è l’antitesi stessa della civiltà. La barbarizzazione implica l’impossibilità di ogni assimilazione e quindi apre la strada a politiche eliminazioniste, di radicale separazione xenofoba e perfino di genocidio. Dal punto di vista degli atteggiamenti pratici, Taguieff distingue tre tipi di azioni legate alle precedenti condizioni: 1. Segregazione, discriminazione, persecuzione 2. Violenza essenzialista (cioè rivolta contro una categoria in quanto tale) 3. Genocidio (sterminio di tutti i rappresentanti di una categoria) Le pratiche di persecuzione e di violenza non sono semplici conseguenze di convinzioni teoriche o ideologiche. I comportamenti razzisti possono essere ricondotti a una serie di cause strutturali (economiche, sociali, politiche) ma anche a cause di esperienze di vita convinzioni economiche, vissuto personale, ideologie politiche ecc. 6. Antirazzismo Anche il contrapporsi al razzismo oggi rappresenta un problema. L’antirazzismo corre il rischio non solo di usare gli stessi strumenti ideologici e culturali del proprio avversario ma anche di riprodurre gli stessi meccanismi di essenzializzazione, stigmatizzazione e barbarizzazione. Si finisce quindi per costruire un nemico assoluto e astratto. Il razzista figura negativa centrale, seguace del male assoluto. [Taguieff: <<Gli spiriti antirazzisti sono impregnati di razzismo>>] Ma è anche un rischio per l’analisi culturale del razzismo. Ad esempio negli ultimi decenni si è sviluppato un nuovo filone di studio che riguarda l’analisi retorica del discorso razzista. Si tratta di scoprire, attraverso sofisticati strumenti d’indagine, un razzismo dissimulato all’interno di conversazioni quotidiane, nei messaggi dei notiziari televisivi o della pubblicità. E’ emerso che un discorso comune che si dichiara antirazzista in realtà è impregnato di pregiudizi e stereotipi verso gli altri. Tuttavia gli strumenti analitici utilizzati sono troppo forti e finiscono per scoprire razzismo dietro ogni tipo di discorso. In poche parole si scatena una caccia al discorso razzista che in realtà non lo è. Vi è poi un ulteriore rischio: l’incapacità di distinguere i diversi livelli di pregiudizio. I pregiudizi depositati nel linguaggio stanno alla base di grandi apparati simbolici che non hanno nulla di naturale: es opposizione bianco/nero: è una contrapposizione densa di connotazioni estetiche, morali ed emotive strettamente collegate ai temi della diversità etnica e potenzialmente razziste (bianco è associato alla purezza, al bene. Nero associato al male, peccato, sporcizia.) Tali meccanismi agiscono a fondo nel nostro senso comune. Tuttavia simili connotazioni simboliche non possono rappresentare un indicatore di razzismo né ideologico, nel senso di Taigueff, né pratico, nel senso di persecuzione violenta, esclusione. A volte per voler individuare a tutti i costi il razzismo si rischia di non individuare le espressioni più pericolose e deleterie per la convivenza civile. CAPITOLO 3: ETNOCENTRISMO, RELATIVISMO, DIRITTI UMANI. 1. La ragione e i costumi L’antropologo Francesco Remotti parla di “giro lungo” per indicare il confronto con la diversità: l’idea che per capire la nostra stessa ragione occorre ampliare lo sguardo, passare attraverso ciò che ci è meno familiare. Gli strani costumi di popoli lontani non appariranno più come bizzarre curiosità, ma come elementi cruciali per capire anche la nostra cultura. In epoca moderna sono stati proprio i viaggi e le scoperte geografiche a nutrire questo tipo di riflessione. La scoperta degli Indios americani sollevò grandi dibattiti nel Cinquecento. Vi era il dubbio se si trattasse di esseri umani o di creature a metà strada fra il mondo umano e quello animale e se li si doveva trattare come fratelli da civilizzare o come natura da dominare. Montaigne nei suoi “Essais” descrive il tema della diversità e quello specifico dei selvaggi che anticipano per certi versi la sensibilità relativistica. Nel suo saggio Sui cannibali Montaigne fa un resoconto etnografico di una comunità di indios del Brasile, servendosi di un informatore francese che aveva vissuto a lungo in questa comunità. Qui descrive il cannibalismo rituale che praticava questo popolo nei confronti dei nemici uccisi. Il cannibalismo è una pratica che spesso viene attribuita ai selvaggi nei primi resoconti europei, è una prova della loro disumanità. Ma Montaigne, dal racconto del viaggiatore, ricava l’idea del cannibalismo come pratica culturale organica piuttosto che espressione di furore bestiale e preculturale. Cioè coglie la natura rituale dell’atto di divorare parti del corpo dei nemici uccisi in combattimento: un atto morale che si può ben contrapporre ai supplizi e alle torture che gli europei infliggono ai loro nemici. Inoltre Montaigne cerca di cogliere anche il meccanismo dell’etnocentrismo, lui afferma: Ora mi sembra che in quel popolo non vi sia nulla di selvaggio e barbaro, a quanto me ne hanno riferito, se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento che l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Quanto ci appare verità o valore assoluto è frutto della consuetudine e degli usi del Paese in cui siamo. Al concetto della consuetudine Montaigne dedica un altro saggio, in cui afferma che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine. La convenzione non si lascia scorgere come tale, ma si presenta ai nostri occhi pretendendo di essere natura.” Montaigne sostiene quindi che la diversità dei costumi è costitutiva del concetto di agente umano e l’unico modo per capire tale diversità è passarci dentro e non evitarla (concetto del giro lungo). Solo così diventa possibile smascherare la presunta naturalità dei nostri modi di essere, riuscendo a capire quanto in realtà sia la consuetudine ad influenzare i nostri comportamenti. 2. Relativismo epistemologico La storia dell’antropologia presenta una costante tensione culturale: da un lato troviamo un atteggiamento scientifico radicato nel positivismo e dall’altro troviamo le istanze del giro lungo. Infatti, la disciplina è radicata nel pensiero positivista e nei suoi assunti universalistici forti, il quale reputa quanto si discosta dalla visione scientifica moderna, frutto della ragione umana, imperfetto. L’antropologia però, fin dai suoi esordi nel XX secolo entra in rapporto con una più vasta sensibilità relativistica. La cultura Novecentesca, in tutti i suoi campi, sembra interessata allo scuotimento di vecchie certezze. Le scoperte scientifiche fanno vacillare quelle che sembravano certezze e la psicanalisi rovescia l’immagine della soggettività umana, subordinando la coscienza razionale alle oscure profondità dell’inconscio. E’ il tema del “primitivo dentro di noi” che affascina anche l’immaginario artistico e letterario. In questo clima, l’idea di una razionalità scientifica pura e universale si dissolve. Nel pensiero Novecentesco il rapporto tra razionalità scientifica e diversità antropologica si va invertendo. Nel positivismo, la razionalità scientifica sembra il solido punto di partenza per spiegare le stranezze delle altre culture. Al contrario, nel Novecento, la stessa razionalità scientifica viene a poggiare su basi storico-culturali. L’antropologia quindi può essere intesa come la descrizione empirica di contesti nei quali maturano forme irriducibili di razionalità. E’ questa la prospettiva chiamata del relativismo epistemologico. Questo tipo di relativismo riguarda il non pretendere di possedere a priori criteri universali di razionalità prima di accostarsi alla diversità delle culture e alle epoche storiche. Negli anni 60 e 70 si aprono diversi dibattiti su razionalità e relativismo: il problema di fondo è se nel capire altre culture, si può davvero rinunciare ad alcuni criteri minimi ma universali di razionalità come ad esempio una percezione del mondo di senso comune (lì c’è una roccia e non posso passare) e le fondamentali leggi della logica. Ci deve essere una sorta di ponte interculturale che non sia sottoposto a variazioni locali o storiche. A questa argomentazione i relativisti rispondono che non è possibile possedere a priori un nucleo epistemologico in quanto la comprensione avviene sempre su basi pratiche. Peter Winch ha sostenuto che gli antropologi non possono legittimamente considerare false, illogiche, o irrazionali le credenze o i modi di vivere di un’altra cultura, in quanto tali modi di vivere sono guidati da norme condivise di ragionamento razionale. Affrontare il tema della stregoneria o della fede religiosa partendo da un’imputazione di falsità è una procedura etnocentrica che non ci permetterà di capire che posto esse occupino. Per Winch la comprensione antropologica deve mostrare la scienza, la stregoneria, la religione come diverse possibilità di dare un senso al mondo e alla vita, come diverse concezioni del bene e del male. 3. Relativismo etico Lo scenario sopra tratteggiato è quello del relativismo epistemologico, che riguarda cioè le forme della conoscenza. Il termine “relativismo” è usato in modo polemico contro chi intende ricondurre la razionalità cognitiva a condizioni storico-culturali. Esso sottolinea, dunque, il rischio insito nell’abbandono dei criteri universali di corrispondenza con la realtà; ciò potrebbe far pensare che ogni credenza ha lo stesso valore. Il relativismo etico riguarda la formulazione di giudizi morali e sistemi di valori. E’ stata in particolare la scuola americana di antropologia culturale a fare del relativismo uno strumento di lotta contro il razzismo, i pregiudizi etnici e l’oppressione coloniale. Boas e i suoi allievi si sono battuti per affermare un pubblico uso del sapere antropologico a sostegno della tolleranza, dell’eguaglianza e dei diritti dei popoli occidentali. Di questo progetto il relativismo è stato il fulcro. Herskovits si appella ai dati di fatto, raccolti mediante la ricerca sul campo, e ci presenta il relativismo come una dottrina positiva basata sulla scienza. C’è un tentativo, quasi paradossale, di affermare il relativismo attraverso una retorica positivista. Herskovits era un influente membro della “Tripla A” (American Anthropological Association) e a nome dell’associazione, elaborò un documento da sottoporre alla commissione dell’ONU volto ad inserire nella dichiarazione, il tema del rispetto delle differenze culturali e il nesso tra diritti e culture. Il documento, dal titolo “Statement on Human Rights”, sosteneva il principio secondo il quale l’uomo è libero solo quando vive nel modo in cui la sua società definisce la libertà, che i suoi diritti sono quelli che egli riconosce in quanto membro della sua società. Costumi e valori sono relativi alla cultura da cui derivano. Lo Statement antropologico non fu accolto nella Dichiarazione dei diritti. La motivazione sta nel fatto che la cultura politica prevalente nelle Nazioni Unite vedeva le differenze come disuguaglianze, ostacoli da superare verso il perseguimento di una reale eguaglianza, laddove gli antropologi le vedevano come uno sfondo da salvaguardare. La tensione tra il discorso umanitario e quello antropologico non si attenuerà negli anni. Negli anni ‘50 Levi-Strauss viene incaricato dall’Unesco di scrivere una critica all’ideologia razzista; ne nascerà “Razza e Storia” un saggio dove Strauss afferma che limitarsi ad affermare l’eguaglianza naturale di tutti gli uomini non basta, perché l’uomo non realizza sé stesso in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali. Ma allora come si può conciliare il riconoscimento della diversità con i principi di unità ed eguaglianza del genere umano? Secondo Strauss la soluzione sta nell’affermare che la comune umanità si realizza attraverso e non malgrado le diversità culturali: essa implica tolleranza, apertura, dialogo, ma anche difesa delle differenze. In questo saggio Strauss critica l’etnocentrismo come principio di disprezzo e di chiusura. Ma il più grande pericolo che scorge nella contemporaneità è l’omologazione culturale e la scomparsa delle culture tradizionali. Questo atteggiamento porterà alla fine Lévi- Strauss a scontrarsi con le stesse organizzazioni internazionali. 4. Antropologia e diritti umani Partendo dal presupposto del relativismo etico, su quali basi si può sostenere l’universalità dei diritti umani? Quando cerchiamo di opporci alla violenza, alla discriminazione di genere o allo sfruttamento dei bambini non possiamo immaginare i diritti della persona come relativi. Simili diritti devono essere pensati come universali. Tuttavia nel definire questo piano universale, l’etnocentrismo torna a farsi presente impedendoci di comprendere le differenze. Consideriamo il caso dei diritti dei bambini. Molte organizzazioni si sono battute contro lo sfruttamento lavorativo e militare dei bambini. Questo impegno è basato sulla concezione dell’infanzia che si è sviluppata nel mondo occidentale nel XX secolo. Si tratta di società in cui c’è un basso tasso di mortalità infantile, i bambini vivono in famiglie nucleari che spesso si organizzano intorno alle esigenze del bambino. Sono considerate creature da proteggere e difendere e da tenere fuori dalla dura realtà. Questo atteggiamento, che ci appare così naturale, in realtà è una nostra recente peculiarità. L’impegno umanitario quindi si sviluppa intorno a questa visione che ne fornisce i presupposti etici e giuridici a partire da una definizione di bambino straight 18 (al di sotto dei 18 anni). Ma come si fa ad applicare ciò in Paesi che hanno dei contesti culturali, economici, demografici completamente diversi? L’impianto straight 18 ignora le diverse concezioni locali della separazione tra infanzia ed età adulta. Come ha sostenuto Rosen: “la volontà di creare una norma morale universale ha cancellato qualsiasi preoccupazione circa i diversi modi di intendere l’infanzia, e ha reso le pratiche locali devianti ed inumane.” Ad es. riflettendo sul caso dei bambini-soldato in Sierra Leone, gli effetti delle politiche umanitarie appaiono paradossali, poiché hanno stabilito la non punibilità dei crimini compiuti da minorenni, con conseguenze assai pericolose sia sui comportamenti in guerra, sia sui processi post-bellici. In questo caso, un principio generale applicato dell’esterno non si dimostra abbastanza sensibile al contesto locale. Sembra che il discorso umanitario sia interessato più ad un’idea generale di diritto che non alle specifiche persone coinvolte. Una critica analoga è stata rivolta dall’antropologa Carla Pasquinelli ad alcune organizzazioni che si battono contro le mutilazioni dei genitali femminili. Non c’è dubbio che si tratti di una pratica violenta imposta all’interno di società patriarcali, ma le associazioni che si battono contro le MFG ne propongono un’immagine barbarizzante e lo considerano reato penalmente perseguito, senza cercare di aiutare e di comprendere il punto di vista delle donne che ne sono coinvolte. Se una donna somala o nigeriana vuole infibulare la figlia pur essendo consapevole del dolore che le infligge è perché teme che in caso contrario la ragazza non riuscirà ad inserirsi all’interno della propria società, sarà considerata impura, brutta e nessuno vorrà sposarla. Queste critiche ovviamente non negano l’importanza dei diritti umani ma la differenza delle prospettive deve essere rimarcata. Gli individui costruiscono la propria agency o personalità all’interno della propria cultura. mostrare le articolazioni fra il locale e globale, il che costringe il ricercatore a collocarsi in modo diverso nelle realtà sociali. La ricerca di oggi non riguarda più il partire per posti lontani e piantare una tenda in mezzo al villaggio. Oggi c’è la necessità di una pluralità di prospettive e per questo si parla di etnografie multisituate. Per studiare oggetti come il commercio e lo scambio, le migrazioni, gli effetti culturali dei mezzi di comunicazioni di massa, occorre costruire ampi percorsi di circolazione, gli stessi dei soggetti che si intendono studiare. Ancora più difficile è affrontare oggetti nuovi come la comunicazione in internet: pratiche immateriali che non sono legate a nessun luogo o villaggio e che sfuggono alle classiche tecniche di osservazione etnografica. Inoltre il numero degli antropologi è aumentato in modo considerevole in tutto il mondo. Ma non solo non esistono più territori “vergini” da studiare, ma sono nate ovunque delle antropologie indigene. Ogni cultura ormai è in grado di descrivere sè stessa antropologicamente. E gli antropologi interni spesso fanno apparire ridicoli e grossolani gli sforzi di osservazione partecipante degli esterni e le loro pretese di comprendere una cultura in pochi mesi. L’antropologia inoltre si trova a condividere il proprio oggetto con altri saperi specialistici: dalla sociologia alla storia, dalla linguistica all’economia. Pretendere di descrivere una cultura nel suo complesso è al giorno d’oggi altamente improbabile. In più la ricerca pura oggi sta subendo una carenza di finanziamenti e quindi gli antropologi fanno ricerca applicata: partecipano a progetti di cooperazione internazionale in diversi campi come medicina, economia, agricoltura, promozione si diritti umani. I relativi report devono seguire certi standard dettati per lo più da esigenze burocratiche che strettamente scientifiche. Inoltre oggi le ricerche non si concentrano più sullo studio della religione, rituali, parentela ma su problemi riguardanti la contemporaneità come la migrazione, le violenze, i diritti umani le guerre ecc ecc. Troviamo inoltre un nuovo modo di utilizzare il linguaggio e la scrittura: gli etnografi oggi sentono il dovere di riferire in modo esplicito sulle circostanze pratiche in cui la ricerca ha avuto luogo. In più sono cresciuti altri tipi di antropologie come quella museale e visuale anche grazie all’accessibilità di tecnologie digitali che consentono di realizzare prodotti di buon profilo a basso costo. A questo quadro non bisogna dimenticare di aggiungere le possibilità offerte dall’informatica e da internet. CAPITOLO 5: PARADIGMI TEORICI 1. La scuola evoluzionista L’evoluzionismo antropologico ha l’obiettivo di risalire indietro nel tempo alla scoperta dell’origine delle forme viventi e culturali che sono oggi osservabili. Ma per ricostruire quei fatti dei quali disponiamo solo frammentari indizi, il metodo utilizzato è quello comparativo: dati incompleti provenienti dai più diversi contesti geografici e temporali possono essere accostati e gettar luce gli uni sugli altri, integrarsi a vicenda come parti di un unico disegno. La soluzione comparativa implica un fondamentale presupposto, noto come principio uniformista: l’evoluzione si dispiega in modo graduale continuativo e costante seguendo alcune leggi che restano invariate nel tempo e nello spazio. Inoltre si articola in fasi e stadi che hanno ovunque la stessa sequenza. Anche se l’evoluzione è uniforme, non procede però alla stessa velocità nelle diverse parti del mondo. La teoria darwiniana poggiava sull’osservazione di specie arcaiche che mostravano nel presente storico i tratti di precedenti fasi evolutive. Anche per la cultura è così. Non solo esistono i “primitivi d’oggi”, popolazioni contemporanee che però vivrebbero stadi culturali precedenti. Nel presente possiamo anche notare un’infinità di simboli cifrati del passato, tratti culturali il cui significato si chiarisce solo in riferimento a stadi arcaici. Gli antropologi parlano di sopravvivenze. (es coprirsi la bocca con la mano quando sbadigliamosegno di educazionerelazione con la credenza antica che l’anima potesse scappare dagli orifizi del corpolo sbadiglio è un momento in cui interno ed esterno vengono a contatto e quindi c’è bisogno di una protezione) Tutti gli usi e i costumi recenti della nostra cultura affondano le radici in sacrifici in credenze e valori passati. Scomparsa e dimentica con il tempo, la credenza, resterebbe la pura forma. Un esempio di evoluzionismo antropologico è la teoria di Tylor sulla religione. La religione è presente in tutte le culture e in forme diverse. Nell’assenza di documentazione storica, come ricostruire l’origine? Si possono affiancare tutte le religioni dalla più semplice alla più complessa e cercare cosa hanno in comune: la credenza nell’anima. Dunque all’origine di ogni religione deve esserci stata una fase animistica dalla quale poi si sono sviluppate forme più complesse fino al giorno d’oggi. Ma a sua volta, ci si può chiedere come nasce la credenza nell’anima. Secondo Tylor l’idea di anima nasce dal “filosofo selvaggio” che riflette sul mondo, sulle esperienze di morte e di sogno che sembrano suggerire un’esistenza di un’essenza vitale separabile dal corpo (prospettiva intellettualista). La tendenza degli studiosi vittoriani alla costruzione di una storia universale del genere umano per cui tutto procede dal semplice al complesso, sembra oggi etnocentrica soprattutto perché il “complesso” alla fine coincide con le istituzioni della società borghese. Bisogna però storicizzare tali teorie e valutarle nel quadro ottocentesco. 2. Verso una teoria sociale della cultura A cavallo tra 800 e 900, si affiancano all’evoluzionismo, gli indirizzi di ricerca diffusionisti . Secondo i diffusionisti, di fronte a un tratto culturale presente in diverse aree anche lontane fra loro, occorre risalire all’unico punto di irradiazione da cui si è generato (monogenesi) ricostruendo poi i complessi processi di circolazione e scambio tra popoli. Anche Boas punta a ricostruzioni di tipo diffusioniste, essendo insofferente all’approccio generalizzante dell’evoluzionismo. Nella scuola nordamericana, la produzione teorica è volta prevalentemente ad affermare l’autonomia del piano culturale rispetto a quello biologico o psicologico, e alla critica del determinismo naturalistico nella spiegazione del comportamento umano. Manca tuttavia un elemento cruciale ovvero la teoria sociale. Si può dire che non fu preso molto in considerazione un aspetto della definizione di Tylor della cultura: la cultura riguarda le capacità e le abitudini acquisite dall’uomo in quanto membro della società. Durkheim si occupò di questo aspetto insieme ad importanti etnologi, tra cui Mauss. L’assunto centrale di Durkheim è che la società è qualcosa di più della somma degli individui che la compongono. Sono i fatti sociali che influenzano e determinano le azioni individuali, e non il contrario. Per spiegare ciò, fondamentale fu il suo studio sul suicidio (1897), una pratica che sembra dipendere dalla psicologia individuale si rivela in realtà legata a precise regole e a particolari situazioni sociali, al di là dei punti di vista e della coscienza delle singole persone. A mediare tra società ed individuo ci sono i concetti di coscienza collettiva e rappresentazioni collettive. Si tratta di credenze o modi di sentire comuni ai membri di una società o cultura che sono preesistenti all’individuo. Per i due studiosi, sono di questo tipo le rappresentazioni basilari della magia e della religione, come la credenza nell’anima, in entità sovrannaturali o in forze e poteri sovrannaturali. Attraverso le rappresentazioni collettive la società influenza ai suoi livelli più profondi il pensiero individuale. Molto importante è l’opera “Le forme elementari della vita religiosa”, in cui Durkheim analizza la religione a partire dalla contrapposizione tra sacro e profano. La differenza tra i due è che il sacro si riferisce a esperienze collettive o sociali. Ciò che noi consideriamo sacro ha lo stesso potere che la società esercita nei confronti dell’individuo. Le forze magico-religiose e le divinità sono onnipresenti, onnipotenti e immortali, trascendono la limitatezza dell’individuo. E’ dunque la sovra-individualità del collettivo il tema portante dell’esperienza religiosa e delle relative dottrine pratiche. Durkheim si interessa soprattutto delle religioni totemiche degli aborigeni australiani. Il culto si indirizza verso un totem nel quale viene riconosciuto l’antenato originario di un clan o di un gruppo sociale (personificazione della collettività). Per D., diversamente dagli evoluzionisti che pensavano che le credenze derivassero dai riti, è la performance rituale il momento centrale. Lì, la collettività si impone sulla coscienza individuale e ne diventa parte integrante sotto forma di sentimenti morali e credenze. Secondo D., nei riti vi è una sorta di effervescenza collettiva nella quale gli individui esprimono l’appartenenza al gruppo attraverso il corpo e le emozioni prima che sul piano intellettuale. 3. Funzionalismo Nell’antropologia dei primi decenni del 900, l’influenza di Durkheim si combina con lo sviluppo della ricerca sul campo. Studiare una cultura come un tutto sincronico conduce a sottolineare i nessi funzionali tra i suoi diversi elementi, mettendo in risalto la centralità delle diverse forme di organizzazione sociale. La società è un sistema complesso in cui ogni parte svolge una precisa funzione nei confronti del tutto. Per questo l’orientamento teorico che si va affermando prende il nome di Funzionalismo. Di fronte ad un tratto culturale non ci si chiede più da cosa abbia avuto origine ma a cosa serve in relazione agli altri tratti per garantire l’equilibrio del sistema che li comprende. Malinowski sviluppa queste idee all’interno di una “teoria scientifica della cultura” mostrando la natura funzionale della cultura, legandola ad una serie di bisogni umani. Ad esempio la magia e la religione fungono da controllo dell’ansia e da rassicurazione. Se i trobriandesi compiono riti magici sul campo non è perché non hanno tecniche di agricoltura, anzi le loro tecniche sono molto efficaci e complesse, ma perché, trovandosi di fronte a eventualità incontrollabili (ad es. un temporale), ricorrono all’ “ottimismo cristallizzato” della magia, che consente di procedere come se il rischio non esistesse. Dopo la partenza di Malinowski in Gran Bretagna, si sviluppa un nuovo modo di intendere il funzionalismo: Radcliffe-Brown sostiene che l’antropologia non si occupa di individui astratti che sono definiti dai propri bisogni naturali a cui la cultura risponderebbe, ma di persone concrete che sono parte di una totalità organica, connessi attraverso relazioni ordinate, per contribuire alla preservazione dell’insieme. In sintesi, secondo Brown, la funzione di ogni pratica culturale è il ruolo che essa svolge nella vita sociale intesa come totalità, e perciò il contributo che dà al mantenimento della continuità strutturale. Tra gli anni ‘30 e ‘60 molti studiosi si occupano di analizzare le strutture sociali di gruppi di piccole dimensioni caratterizzati dall’assenza di istituzioni politiche, di uno Stato di tipo moderno. Uno studioso particolarmente rappresentativo di quegli anni è Evans-Pritchard che si occupò di studiare una popolazione nilotica di agricoltori, gli Azande, e una popolazione di pastori seminomadi, i Nuer. Nel caso degli Azande si è occupato di capire come la stregoneria contribuisse al mantenimento dell’ordine sociale: gli Azande attribuiscono all’influsso della stregoneria la colpa di ogni disgrazia. All’interno di questa società viene quindi individuato colui che pratica la magia e che rivolge i malefici, volontariamente o involontariamente, verso un’altra persona. Questa individuazione avviene tramite pratiche magiche la cui autorevolezza è riconosciuta anche dall’accusato. Pritchard nota che le accuse sono scambiate fra soggetti che si trovano effettivamente in conflitto ma in questo modo la reciproca aggressività viene incanalata istituzionalmente in pratiche socialmente riconosciute e accettate. Dunque il significato della stregoneria è, in ultima analisi, politico. Per quanto riguarda i Nuer invece essi sono suddivisi in lignaggi o gruppi di parentela che si riconoscono in un antenato comune, non legati da alcuna autorità centrale né da forme amministrative di tipo statale. Pur senza forme di potere centrale la società non si disgrega e si mantiene in equilibrio in virtù di un sistema segmentario nel quale alleanza e conflitto, identità e differenza si scompongono e ricompongono su diversi livelli di profondità genealogica. Il punto di forza del funzionalismo sta nell’analisi olistica di società catturate in una sorta di immobilità sincronica. Tuttavia il funzionalismo presenta una debolezza, cioè tende a descrivere le società come omeostatiche. Questa tendenza dipende dal fatto che i ricercatori studiano popolazioni colonizzate, che dunque vivono un tempo e una situazione politica artificiosamente immobilizzata dal dominio coloniale occidentale. A partire dagli anni ‘50 e con l’avvio dei processi di decolonizzazione, gli studiosi sviluppano una maggior consapevolezza critica di questo problema. Lo stesso Pritchard insisterà con forza sulla necessità di reintrodurre una dimensione storica nell’analisi antropologica. 4. Strutturalismo A partire dagli anni ’50, il funzionalismo cessa di essere il paradigma teorico dominante e viene sostituito dallo strutturalismo. Tale paradigma è legato al nome di Claude Lévi-Strauss. Lui si occupò di studiare la grande varietà delle forme di parentela e dei racconti mitologici. Ciò che interessa a Strauss è scoprire il principio che genera questi aspetti e non si accontenta di classificarli secondo un ordine semplice-complesso o arretrato/evoluto o di capire la loro funzione sociale, come gli approcci precedenti. Secondo Strauss la cultura deve essere trattata come il linguaggio, ovvero noi impariamo a parlare perché disponiamo di un meccanismo generativo dato a priori, è una sorta di matrice di tutti i linguaggi possibili già presenti nella mente umana prima di imparare un linguaggio specifico (siamo potenzialmente in grado di parlare qualsiasi lingua). Allo stesso modo ciascun campo dell’esperienza esistenziale e sociale, viene ordinato dalla cultura in ben precise configurazioni. Egli si convince che vi sono delle strutture comuni a tutto il genere umano basate sulle stesse matrici o modelli generatori sebbene siano riempite di contenuti diversi. Sono queste matrici che Strauss chiama STRUTTURE, ed è compito dell’antropologo renderle evidenti. Prendiamo come esempio il caso della parentela: vi è una grandissima varietà di diversi sistemi, ma tali sistemi hanno un unico obiettivo: cioè separare i matrimoni consentiti da quelli proibiti. La norma universale che proibisce l’incesto è il punto di partenza di ogni sistema di parentela: esso si sviluppa in quelle che Strauss chiama strutture elementari, strutture che prescrivono con rigidità i coniugi possibili (nelle strutture complesse intervengono invece criteri esterni alla parentela, es. la condizione economica o l’amore). Le strutture elementari implicano dunque una classificazione delle persone in gruppi simmetrici tra i quali i matrimoni si incrociano secondo un principio di reciprocità: un codice binario basato su contrapposizioni (i membri del gruppo A sposeranno quelli di B. Per Strauss la basilare contrapposizione di cui parla ogni sistema culturale è quello fra natura e cultura. La separazione tra umanità e stato naturale è la pietra angolare di tutte le costruzioni simboliche di cui la natura è fatta. Negli anni ‘60 Strauss studia anche il pensiero mitologico: questo pensiero usa una logica che S. chiama “concreta” Il mito utilizza oggetti concreti, gli elementi più immediati dell’esperienza comune: animali, piante, aspetti del mondo naturale e sociale che li usa come operatori simbolici all’interno di un codice binario. All’interno dei miti tutte le contrapposizioni si collegano ad altre: cielo-terra, alto-basso, secco-umido che rimandano a qualità morali o sociali, fino poi ad arrivare all’immancabile dicotomia natura-cultura. In antropologia, lo strutturalismo negli anni 50/70 appare come il paradigma più innovativo e prestigioso. 5. Antropologia Interpretativa L’approccio interpretativo, si afferma negli ultimi decenni del Novecento, a partire dal lavoro dell’americano Geertz e in particolare da un suo testo chiamato “Interpretazione di culture”. Secondo Geertz bisogna ripartire dal capire il significato di ciò che i nativi dicono e fanno, o come diceva Malinowski “vedere il mondo dal punto di vista dei nativi”. La questione del significato è cruciale: Geertz, nel suo testo, definisce l’uomo come un animale sospeso fra le ragnatele di significati che esso ha tessuto. Per G. capire il significato è un lento processo di avvicinamento che procede per tentativi ed è parziale e provvisorio. L’interpretazione è sempre possibile ma è allo stesso tempo sempre imperfetta. Mentre per Strauss oggetto di studio dell’antropologia sono quegli aspetti che possono essere più facilmente modellizzati, per G l’oggetto sono le “forme di vita”: pratiche irriducibili a modelli cognitivi o ad una razionalità discorsiva. L’antropologo, non deve solo viverle ma deve anche inscrivere queste forme in un testo. L’antropologia è dunque prima di tutto etnografia: una forma di descrizione “densa” che cerca di cogliere la profondità contestuale delle cose. Quando l’etnografo scrive, si comporta come un vero autore: usa tutte le risorse creative del linguaggio per produrre effetti di comprensione nei suoi lettori. Se per gran parte del 900 l’antropologia si era sforzata di darsi uno statuto di scienza dura, G la riconduce invece nel campo degli studi umanistici, considerandola una pratica a metà tra scienza e letteratura. Questo non significa affatto sminuire il ruolo della ricerca e del rigore metodologico. Per G i problemi dell’antropologia interpretativa risiedono nella descrizione ovvero nella costituzione dei dati, in altre parole nel rapporto tra esperienza di ricerca e scrittura. CAPITOLO 6 : “ SPIEGARE,COMPRENDERE,INTERPRETARE ” Con Clifford Geertz analizzeremo dei problemi riguardanti la stessa natura del sapere antropologico. L’approccio interpretativo propone non tanto metodi e teorie specifici, ma una riflessione su cosa significa “capire” o “comprendere” una società o una cultura. 1.Spiegazione e comprensione Le scienze sociali, nella loro fase positivista, cercano di assomigliare alle scienze naturali o “esatte”: individuano dati o fatti che si presumono oggettivi, li sottopongono a classificazioni, cercano di stabilire relazioni causali, vanno in cerca di leggi in sintesi il loro obiettivo è spiegare certi fenomeni umani e sociali riferendosi a leggi di carattere L’antropologia interpretativa non abbandona né il rigore scientifico, né l’aderenza stretta alla realtà per il rifiuto nei confronti del determinismo naturalistico. Infatti la ricerca sul campo e l’accurata esperienza dei contesti che si vogliono studiare restano i metodi fondamentali. Solo che l’esperienza di ricerca non produce in modo immediato dei dati oggettivi; l’esperienza etnografica consiste nell’osservare ma anche nel partecipare a situazioni sociali e nel dialogare con altre persone: per trasformarsi in dato deve passare attraverso il filtro dell’interpretazioni di significati, ossia una pratica creativa del ricercatore. Per Geertz questa pratica è la scrittura: la scrittura tipica dei romanzi. Certo per l’antropologia vale quello che sosteneva Arnaldo Momigliano sul rapporto tra letteratura e storia: “La differenza tra un romanziere e uno storico è che il romanziere è libero di inventare i fatti, mentre lo storico no.” Lo storico e l’antropologo devono cioè basarsi sulle fonti, laddove il romanziere non può farlo. Ma le fonti devono essere trasformate in fatti, racconti, rappresentazioni significative per i lettori. Per l’antropologo, rispetto allo storico, c’è un ulteriore passo: la maggior parte delle sue fonti consiste in esperienza vissuta che deve essere, a sua volta, testualizzata, trasformata in documento. In questa costruzione di rappresentazioni si svolge una funzione d’autore, simile a quella dello scrittore. Gli autori del volume “Writing Culture” svilupparono una critica serrata all’antropologia classica (inclusa quella di Geertz), accusata di aver mascherato le proprie strategie retoriche e letterarie dietro la pretesa di una scrittura neutrale e trasparente. Questo gruppo, invece, insisteva sulla necessità di non nascondere nella scrittura le condizioni della ricerca etnografica, soprattutto le relazioni umane e il contesto storico-politico in cui essa si definisce: ad esempio le relazioni di potere coloniale e post-coloniale che influenzano il ricercatore e i suoi soggetti. Oltre a Geertz è decisiva anche l’influenza di Edward Said che cercò di decostruire le rappresentazioni che il mondo occidentale aveva dato dell’Oriente. Egli sosteneva che questo “discorso” non poteva essere compreso se non ponendolo in relazione alle forme di potere coloniale che l’Occidente esercitò sull’Oriente; partendo dal rapporto tra sapere e potere ritiene che: “idee, culture e vicende storiche non possono venir comprese se non si tiene conto delle forze storiche, o configurazioni di potere, che ad esse sono sottese”. Questo non significa che il potere determina le forme del sapere: esso però esercita una funzione plasmante, traducendosi in figure retoriche, pregiudizi ideologici, nuclei narrativi che percorrono il discorso orientalista. Nell’analisi di Said, la differenza tra i resoconti di taglio accademico che aspirano all’oggettività e quelli creativi è di secondaria importanza: entrambi sono sotto determinati da “rappresentazioni”, nelle quali risiede il nucleo più profondo del rapporto tra Oriente e Occidente. “ciò cui occorre prestare attenzione sono lo stile, le figure retoriche, il contesto, le circostanze storiche e sociali, e non la correttezza delle rappresentazioni e la sua fedeltà rispetto all’originale… nel discorso culturale, a circolare non sono verità ma rappresentazioni..” Il gruppo di Writing Culture tenta di volgere verso l’antropologia la stessa critica fatta da Said verso l’orientalismo; ma anche di promuovere forme nuove di rappresentazione che cerchino di “disimparare l’atteggiamento di dominio”. 4. L’approccio post-coloniale Verso la fine degli anni ’80, vediamo convergere la tradizione comprendente delle scienze sociali con la critica alle implicazioni ideologiche coloniali e post-coloniali dell’antropologia. Questo atteggiamento viene chiamato post- moderno: un concetto ambiguo e sfuggente, che coniuga questi due aspetti. Da un lato lo scetticismo verso i “grandi racconti” e verso l’oggettività del sapere storico-sociale, di cui si sottolinea il carattere finzionale, la costruzione retorica; dall’altro la tesi che tale costruzione è sempre connessa a relazioni di potere ossia a dinamiche di egemonia. Sono i due termini programmatici che compongono il sottotitolo di Writing Culture: “le poetiche e le politiche” dell’etnografia. Essi si svelano attraverso lo stesso movimento critico, smascherando le strategie realiste che li nascondevano sotto un’oggettiva neutralità. Ma l’equilibrio tra questi due termini non è facile da mantenere, e ben presto si allontanano e alimentano programmi di ricerca diversi. La dimensione macropolitica può difficilmente fare a meno del linguaggio teorico forte; i rapporti di potere richiedono di essere descritti e criticati attraverso un linguaggio oggettivo. In altre parole porre al centro del discorso antropologico l’interpretazione delle ragnatele geertziane di significati, piuttosto che la dura realtà degli interessi economici e politici, acquista per alcuni il senso di una mistificazione: è un modo di pensare i rapporti tra noi e gli altri in termini di vaghe differenze culturali piuttosto che di ben precise e concrete forme di disuguaglianza un modo di nascondere dietro i trucchi dell’ermeneutica la violenza del dominio. Si sviluppano in questo periodo correnti di pensiero di antropologia critica che confinano con l’ambito degli studi post-coloniali; si tratta di indirizzi neomarxisti che partono dalla priorità della dimensione politico-economica ma si allontanano dal marxismo classico su due fonti. In primo luogo, sottolineano rapporti di potere che non sono riconducibili ai rapporti di classe, in particolare le diseguaglianze di genere e quelle “etniche” che si manifestano in ambito coloniale e post-coloniale. In secondo luogo, nello studiare i rapporti tra basi politico-economiche e dinamiche culturali, poggiano su una serie di teorie post-strutturaliste. La cosa interessante è osservare come in quest’area di studi emergano in primo piano i concetti di “ideologia” e “falsa coscienza”, che modificano il problema della comprensione antropologica rispetto alla sua impostazione interpretativa. Per quest’ultima le categorie e i significati espressi dagli attori sociali sono il dato di partenza del processo ermeneutico. Per comprendere o anche solo per descrivere una pratica sociale occorre passare attraverso i significati e le intenzioni che gli attori le attribuiscono (come abbiamo già detto precedentemente). Nell’antropologia critica di impianto neo-marxista questi elementi passano in secondo piano rispetto a una descrizione della pratica dall’esterno. I discorsi e i sentimenti che occupano la coscienza rappresentano un livello superficiale, sotto al quale occorre mostrare l’azione strutturante delle grandi forze economico-politiche. Ad esempio dietro le pratiche dello shopping c è l’azione del mercato capitalistico che ha bisogno di incrementare sempre più i consumi e crea soggetti orientati in tal senso: le emozioni e i sistemi di significati dei compratori sono inessenziali di un comportamento, o meglio sono strumenti ideologici inculcati dall’esterno per favorire quel comportamento(pubblicità). In quanto al linguaggio religioso, oggi nessuno sostiene più la vecchia tesi marxiana “la religione è l’oppio dei popoli”, ma la tendenza a trattare il linguaggio religioso come una trasfigurazione delle relazioni politiche è ancora molto forte. Franz Fanon, uno dei padri del pensiero coloniale, aveva espresso con efficacia questo punto a proposito della “superstruttura magica” che domina l’esistenza delle popolazioni colonizzate. In “Dannati della terra”, Fanon rovescia l’approccio “culturalista” dell’antropologia classica, infatti i miti, le divinità minacciose, storie sovrannaturali rappresentano per lui un rispecchiamento dell’oppressione coloniale e al tempo stesso, un meccanismo che sposta su oggetti fantastici, la rabbia e il terrore della realtà. Ci troviamo davanti ad una netta differenza tra ESSENZE (il potere) e APPARENZE (la cultura): e ad un’immagine di soggettività sottomessa o alienata, che guadagnano autonomia con la riscoperta del reale e il rilevamento delle illusioni ideologiche. Secondo Fanon del ramo ideologico, che copre la violenza coloniale, fanno parte anche i saperi prodotti dall’Occidente sugli altri, prima fra tutti l’antropologia, la quale con la sua insistenza sulla cultura sostituisce un mondo di apparenza alle basi reali dei rapporti sociali. Questo tipo di critica è sviluppata in modo radicale da alcuni autori contemporanei. J.L. Amselle diceva che “non esistono culture o differenze già date prima dell’incontro coloniale: è la logica della conquista e del potere che, tramite la ragione etnologica, classifica e immobilizza gli altri in recinti o gabbie epistemiche quali “culture” o “etnie” e simili”. Questa critica è volta a tutta la storia della disciplina (Mauss, Tylor,Levi-Strauss e Geertz) che crea disuguaglianza e gerarchia, e secondo Amselle l’unica alternativa sembra essere un’etnologia storica che non faccia uso del concetto di cultura e di tutti i suoi correlati, facendo coincidere la comprensione antropologica con l’analisi dei rapporti di forza strutturali che esistono tra gruppi umani. è una posizione che si diffonde ampiamente nell’antropologia critica e rovescia il programma di Writing Culture. L’obiettivo non è più capire le modalità con cui si “scrive la cultura”; diventa piuttosto quello di “scrivere contro la cultura” (secondo uno slogan lanciato da L.Abu- Lughod). 5. La cultura e il potere Oggi a 140 anni dalla nascita dell’antropologia moderna con “Primitive Culture” di Tylor, il principale nodo del dibattito mette in discussione la stessa autonomia dell’antropologia e di quanto resta del suo principale punto di forza, ossia il concetto di cultura. Nel capitolo 2 abbiamo visto come la cultura abbia rappresentato lo strumento principale per la comprensione delle diversità, il superamento del razzismo e dell’etnocentrismo. La critica anticulturalista sostiene che è importante contrastare le tendenze a un uso essenzializzante delle categorie culturali, che può farsi portatore di ambigue politiche identitarie, di forme di neo razzismo e violenza etnica; non può essere evitato il richiamo alle strutture economiche che producono una diseguale distribuzione delle risorse del potere, quindi diseguaglianza e ingiustizia; L’antropologia critica ci ricorda che le difficoltà nei rapporti tra gruppi sociali (popolazione locale e migranti), sono legate a questi fattori prima ancora che alle cosiddette “guerre dei simboli” (crocifissi nei locali pubblici, libertà di indossare il velo). Ma, tutto ciò non significa affatto disfarsi del concetto di cultura né tornare ad una teoria pre-antropologica dell’azione sociale. Come già visto nei capitoli precedenti, la caratteristica principale dell’approccio antropologico consiste nel considerare le differenze come costitutive della soggettività umana quindi dell’azione sociale di cui essa è protagonista. Gli approcci neo-marxisti insistendo sulla struttura ideologica e non data delle differenze culturali, rischiano a loro volta di presupporre come “dato” un soggetto umano universale; inoltre l’insistenza sul concetto di ideologia conduce a una visione bipartita della realtà sociale: da un lato le “strutture” o le “forze” reali, quelle che determinano l’andamento della storia e che appartengono al piano economico-politico; dall’altro le “apparenze”, quelle che Marx chiamava “spettri del potere”, che la teoria sociale dovrebbe smascherare. La prospettiva antropologica non nega la possibilità di usi ideologici della cultura, ma non assume come scontato in partenza un linguaggio teorico in grado di distinguere con esattezza, e dall’esterno, le realtà delle apparenze. Al contrario, come già detto, ritiene che della definizione di realtà sociale facciano parte i diversi significati che gli attori attribuiscono alle loro azioni e alle loro istituzioni. Quindi la cosa migliore sarebbe studiare le relazioni fra l’ambito della cultura e le dinamiche del potere economico e politico, senza però presupporre un rigido determinismo di una delle due dimensioni sull’altra. Geertz, che negli ultimi dei suoi lavori ha dato efficace espressione a questo modo di intendere il rapporto tra cultura e politica, si pone una domanda su come considerare l’esplosione di rivendicazioni di autonomia regionali e locali, di autoaffermazione linguistica, etnica e religiosa che hanno caratterizzato proprio il periodo della globalizzazione. Questo è un fenomeno che può essere letto in chiave di ideologia e falsa coscienza: ogni gruppo mobilita questioni di appartenenza etnica e culturale per sostenere i propri obiettivi economici e politici. Ma Geertz non crede si possa ridurre questa esplosione delle differenze a una superficiale copertura di più strategie di interesse. Al contrario le differenze sono per Geertz un elemento irriducibile col quale la teoria politica deve fare i conti. Ciò che occorre quindi è una riforma del lessico politico che lo renda meno generalizzante e più sensibile alle sfumature culturali. Egli pensa ad una teoria politica integrata e raffinata dall’interpretazione antropologica: l’interpretazione di un piano che non possiamo fare altro che chiamare “cultura”, intesa come una cornice all’interno della quale gli uomini vivono, danno forma alle loro convinzioni e a loro stessi, e come una forza regolatrice a livello di questioni di convivenza umana. Le parole di quest’autore evidenziano il problema dell’antropologia contemporanea: integrare la comprensione dei micro- e dei macro-contesti. Occorre da un lato un’ermeneutica delle fragili “ragnatele di significato” che costituiscono gli universi culturali nei quali viviamo; e dall’altro l’analisi dei macro-dispositivi (e talvolta la denuncia) economici e politici che stanno alla base delle condizioni materiali di esistenza e produco ricchezza e povertà, felicità e sofferenza, libertà e oppressione, giustizia e violenza. CAPITOLO 7 : “ FOLKLORE,CULTURA POPOLARE,CULTURA DI MASSA ” La lettera “D”, nella sigla disciplinare DEA, sta per demologia, denominazione che indica lo studio della cultura dei ceti popolari all’interno delle società occidentali moderne. Laddove antropologia ed etnologia si occupano dell’alterità esterna, quella di culture lontane e più o meno esotiche, la demologia e il folklore si occupano dell’alterità interna o dei “dislivelli interni di cultura”. 1. Romanticismo e positivismo Il progetto del sapere antropologico è possibile quando i ceti colti e dominanti dell’Europa moderna diventano consapevoli della propria modernità e dell’alterità lontana: di essere l’avanguardia di un processo di sviluppo che procede in modo non uniforme. Da questa consapevolezza si apre il campo dell’alterità non moderna come oggetto di conoscenza. Il non moderno assume due sembianze: • Da un lato l’arcaico, il primitivo, il selvaggio, i luoghi non coltivati e distanti, nello spazio e nel tempo, dalla civiltà; • Dall’altro il tradizionale, ciò che esiste nel cuore stesso della civiltà, più precisamente negli strati sociali più bassi, in virtù di una forza d’inerzia o di una insufficiente capacità di penetrazione del processo di civilizzazione stesso. Come accade per il “selvaggio”, l’assunzione del termine “popolo” si accompagna ad un ambivalente giudizio etico: • Da una parte, la condanna dell’arretratezza, dell’ignoranza, della superstizione che caratterizza il popolo; • Dall’altra l’esaltazione e una nostalgia tutta moderna per la sua autenticità, la sua “naturalità”, le sue primordiali virtù. È soprattutto il folklore contadino a rappresentare oggetto di “scandalo”, ancora più dei selvaggi, per il suo ostinato attardarsi fuori dalla modernità, e nello stesso tempo oggetto di osservazione morale, in quanto deposito di valori e virtù genuine che andrebbero invece perdute con il processo di modernizzazione. Questa ambivalenza invade i moderni studi sulla cultura popolare, che si inseriscono su due grandi basi: ROMANTICISMO e POSITIVISMO. • Grazie al Romanticismo, alla fine del XVIII secolo, la cultura dei ceti popolari, e in particolare contadina, acquista un posto centrale nelle preoccupazioni degli intellettuali europei; ad esempio, il filosofo tedesco J.G.Herder chiamava Volksgeist - lo spirito del popolo, un’anima collettiva della nazione che trova negli usi e nei costumi, nel patrimonio lirico e narrativo orale, la sua massima espressione. Le raccolte di canti e fiabe popolari segnano in profondità la cultura romantica (un es. in Italia è la raccolta di Canti Popolari Toscani di Tommaseo Niccolò, molto legata allo spirito risorgimentale). In questi scritti è esaltata la spontaneità e l’autenticità dell’estetica popolare, concepita come frutto di una creazione collettiva, di una originaria e quasi divina mitopoies i(tendenza caratteristica dello spirito umano di creare miti o considerare in modo mitico i fatti). Se ne privilegia inoltre il carattere nazionale cioè la particolarità linguistica e culturale. Ciò non implica un uso del folklore come strumento ideologico del chiuso e aggressivo nazionalismo ottocentesco. Lo diventerà in qualche caso, ma l’iniziale ispirazione di Herder costruisce il concetto di Volksgeist con un’apertura cosmopolita. Per il romanticismo nascente, il riconoscimento del radicamento locale è fattore di fratellanza e unione fra i popoli- concezione che tramonterà ben presto con le tensioni del periodo napoleonico. In ogni caso il romanticismo si concentra per lo più sulla letteratura orale, sui prodotti folklorici cui è possibile assegnare valore artistico. • Il positivismo, che domina gli studi della seconda metà dell’800, tenta invece di documentare tutti gli aspetti della cultura del popolo, dal punto di vista di un concetto antropologico esteso di “cultura”. Quindi non solo fiabe e canti, ma anche usi e costumi, credenze magiche e superstiziose, pratiche del lavoro contadino e artigianale, riti e cerimonie, tradizioni legate al ciclo della vita. Per il positivismo non c’è un vero e proprio limite disciplinare tra folklore e antropologia; entrambe le discipline sono interessate a documentare stadi arcaici dell’evoluzione culturale dell’umanità, di cui i fenomeni folklorici sarebbero le sopravvivenze, resti di epoche precedenti. I “selvaggi” o “primitivi di oggi”, al pari dei contadini europei vivono in un’epoca precedente, una tendenza all’allontanamento dell’altro nel tempo o allocronia. i suoi effetti omologanti e alienanti. Negli “Scritti Corsari”, Pasolini vede nel consumismo di massa la principale causa di una “rivoluzione antropologica” che ha cambiato gli italiani. La scomparsa delle lucciole è l’immagine poetica con cui rappresenta l’allontanamento dall’autenticità della vita e della cultura contadina. Le masse popolari si “imborghesiscono” cadendo così in una forma tanto più totalizzante di oppressione e falsa coscienza. È questa diffusa coscienza che spinge a salvare il passato contadino. Gli Enti Locali sviluppano progetti focalizzati sulla memoria, le tradizioni, le radici del passato; prendono vita archivi di memoria basati sulle fonti orali e Musei del lavoro agricolo e della vita contadina. Tutto ciò accade sulla base dell’alleanza e della convergenza tra gli obiettivi di tre diversi agenti culturali: gli studiosi, i portatori della tradizione e le amministrazioni locali. 5. Il paradigma patrimoniale Dagli anni ’90 si afferma un nuovo paradigma, incentrato attorno alla nozione di memoria e soprattutto a quella di patrimonio. È proprio un’istituzione internazionale, l’UNESCO (Organizzazione per le Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), che ne diventa interprete e detta il nuovo linguaggio e i nuovi obiettivi della valorizzazione delle culture locali e tradizionali. L’UNESCO è promotore del pensiero antirazzista ed è contro la discussione di Levi-Strauss sull’etnocentrismo e il relativismo, ma la sua attività principale ha riguardato la costruzione di un quadro di riferimenti normativi per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale dell’umanità. Una convenzione del 1972 ha creato la lista dei beni culturali e naturali riconosciuti appunto come “patrimonio dell’umanità”, di carattere storico-artistico e monumentale. A questa lista se ne sono aggiunte altre, come quella “Raccomandazione per la salvaguardia della cultura tradizionale e del folklore” (1989); quella dei “Tesori Umani Viventi” (1993), memorie del mondo, come archivi e documentari, e quella del “patrimonio immateriale” (orale e intangibile) (1999) relativa alla cultura nel senso etnografico del termine. In questi documenti si associa l’idea di patrimonio a quella di “tesori” e “capolavori”, nell’individuazione di eccellenze che emergono rispetto ad uno sfondo che non merita di essere salvaguardato. La cultura è per certi aspetti l’opposto dei monumenti o dei capolavori. Tale difficoltà caratterizza anche atti successivi dell’UNESCO come la “Dichiarazione sulla diversità culturale” e la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile”. Quest’ultimo documento contribuisce alla definitiva affermazione della nozione di “intangibile” (o “immateriale”) per definire quanto un tempo si chiamava folklore o cultura popolare. In questa nozione di “’” sono ricompresi i seguenti ambiti culturali: a) tradizioni ed espressioni orali, incluso il linguaggio, intesi come veicolo del patrimonio culturale intangibile; b) arti dello spettacolo; c) pratiche sociali, riti e feste; d) conoscenze e pratiche riguardanti la natura e l’universo; e) artigianato tradizionale. Questo documento rappresenta oggi lo standard di riferimento per il ministero dei Beni culturali, per le politiche delle Regioni, degli Enti Locali e delle associazioni culturali. I documenti UNESCO parlano di differenze in riferimento a proprietà visibili e spettacolari di una comunità indifferenziata e le procedure di riconoscimento richiedono l’assenza di conflitto, un totale consenso comunitario verso i tratti culturali da “salvare”. 6.Cultura popolare e cultura di massa Il nuovo paradigma cambia anche il ruolo degli antropologi: non più intellettuali rovesciati o disvelatori, ma devono rapportarsi anch’essi alle emergenze patrimoniali. Lo fanno da un lato proponendosi come “tecnici” del patrimonio etnografico materiale o immateriale: ad es. producendo perizie nelle pratiche di riconoscimento UNESCO, cercano di portare un minimo di rigore filologico; dall’altro si dedicano piuttosto ad analizzare i processi di patrimonializzazione stessi, facendone emergere le connotazioni politiche e ideologiche. Quindi si distingue uno sguardo interno alle pratiche del patrimonio, che cerca di guidarle in dialogo con altri soggetti sociali, e uno sguardo che le studia invece criticamente dall’esterno. Nei recenti dibattiti teorici, è stato ripensato il concetto di “tradizione”, su cui il paradigma patrimoniale si impernia. Più propriamente si dovrebbe parlare di “processi di tradizionalizzazione o folklorizzazione” intesi processi di attiva costruzione di un passato significativo in relazione a esigenze del presente: sono le dinamiche e gli interessi del presente a decidere quali aspetti del passato occorre ricordare e quali si possano invece dimenticare. Ancora però, persiste il problema di Gramsci e Cirese, ovvero l’esistenza dei dislivelli interni nella cultura contemporanea e la correlazione tra differenze culturali e differenze sociali. Mentre Gramsci suggerisce di studiare il passato e il presente delle fratture tra egemonico e subalterno, il paradigma patrimoniale proietta nel passato le differenze da proteggere. Alla domanda “Non c è uno spazio per la ‘cultura popolare’ nella contemporaneità?” vi sono due modi per rispondere: 1) Si potrebbe cercare la cultura popolare o il moderno folklore al di fuori della sfera dell’influenza della cultura di massa, negli spazi che essa lascia vuoti: es. gli aneddoti, le piccole storie, i pettegolezzi sarebbero forme di folklore contemporaneo che si cristallizzano in veri e propri generi, come le leggende metropolitane, le barzellette. 2) Si potrebbe adottare una strategia che consiste nel cercare il “popolare” nelle modalità stesse del consumo della cultura di massa. Il consumo non è una pratica passiva, implica anzi modalità molto diverse di usare e attribuire significato ai prodotti consumati. Questo vale sia per le merci materiali, sia per la musica, i film e altri beni intangibili che vengono scelti, letti, interpretati e differenziati dai soggetti sociali. Questo punto è stato espresso da Stuart Hall parlando di una decodifica dei prodotti di massa, che non coincide con il modo in cui la produzione industriale li ha codificati. Lo studio del consumo come pratica culturale ha bisogno di un approccio etnografico: occorre vedere e sentire cosa fa la gente mentre ne fruisce. È questa la direzione intrapresa da alcuni recenti sviluppi della ricerca socio-antropologica sui dislivelli interni, che insistono su un’etnografia del quotidiano e del consumo di massa, degli aspetti non ufficiali della vita culturale. Al centro dell’attenzione si collocano gli oggetti e le pratiche ordinarie e routinarie. PARTE II : TEMI E PROBLEMI DI UN’ANTROPOLOGIA DEL CONTEMPORANEO CAPITOLO 8: “ VERSO UN’ETNOGRAFIA DEL CONSUMO CULTURALE” 1: La teoria critica Una caratteristica fondamentale delle società industriali è la netta separazione tra sfera della produzione e sfera del consumo. Gli oggetti di cui era popolata la vita quotidiana contadina definivano una sfera della cultura popolare o subalterna, che includeva sia la produzione che il consumo. Nei contesti industriali avanzati, la gran parte dei beni viene prodotta dall’industria e distribuita ai consumatori attraverso il mercato. Ciò vale sia per i beni materiali che per quelli intangibili, gestiti tramite mezzi di comunicazione di massa. Il riconoscimento delle differenza culturali deve passare sempre all’interno delle pratiche di consumo di massa: non più in una sfera di produzione autonoma ma attraverso modalità di accesso al mercato, attraverso scelte selettive dei beni, modi di fruirne, ecc. Theodor W.Adorno, intellettuale tedesco di padre ebreo, fu costretto dal nazismo a rifugiarsi negli USA nel1937, dove trovò la società dei consumi e l’industria culturale in uno stadio assai più avanzato di quello europeo: apparentemente si trattava del trionfo della democrazia dove, la cultura che era tradizionalmente riservata ad una stretta èlite, qui era disponibile per le masse grazie a tecnologie e al mercato capitalistico. Ma agli occhi di quest’intellettuale, quella cultura era quanto più distante si possa immaginare dalla grande tradizione europea: ne era di fatto una grottesca caricatura. Il suo contenuto reale era quello di assoggettare totalmente l’individuo al sistema, modo forse ancora più efficace di quel regime totalitario da cui il filosofo era scappato. Massimo esponente di spicco nella Scuola di Francoforte, dove l’interesse era quello di studiare il modo in cui il dominio del sistema capitalistico raggiunge l’interno della sfera soggettiva, dopo l’esperienza americana ad Adorno appare evidente che è proprio il consumo della cultura di massa, (con le tecnologie comunicative e l’espansione del mercato) il principale canale di diffusione di una simile ideologia. Una teoria critica della società deve studiare la cultura popolare o di massa per mettere a nudo la “reale” natura e i meccanismi di strumento del dominio. Adorno si rende conto che i significati “nascosti” si celano nella struttura formale, più che nei contenuti espliciti. Durante la guerra Adorno e Horkheimer scrivono “Dialettica dell’illuminismo” dove l’illuminismo sta per il corso della civiltà occidentale: la sua dialettica è il paradosso per cui la razionalità volta a liberare gli esseri umani dal dominio della natura, finisce per volgersi in una nuova forma di dipendenza degli individui che sono assoggettati a un potere che neanche percepiscono, nella società di massa. Punti principali dell’argomentazione di Adorno e Horkheimer: 1) Le modalità meccaniche di produzione svuotano la cultura di massa da ogni reale tensione artistica ed estetica; essa imita la vera arte in modo caricaturale, e propone gli oggetti in modo illusorio, ripetendo modelli sempre uguali; 2) Questi modelli pur presentandosi come modelli del tempo libero, di fatto riproducono lo stesso ordine dell’ambito del lavoro e dell’organizzazione economica (pur essendo presentati come divertimenti e tempo libero); 3) Per questo essi sono portatori di un’ideologia radicata non tanto nel contenuto esplicito del prodotto mediale, ma nella loro stessa forma e nei meccanismi commerciali della loro circolazione; 4) La cultura industriale, pretendendo di soddisfare le esigenze del pubblico, plasma costruisce e muta lo stesso, sottoponendolo ad una pressione totalizzante che dà solo l’illusione di una maggiore autonomia e libertà. Come i grandi regimi totalitari, le industrie culturali vogliono abolire la libertà individuale ed il pensiero razionale. L’esaltazione nasconde la potenziale violenza verso chi non si adegua, quindi L’IMPOSSIBILITA’ DI AUTONOMIA INDIVIDUALE. Adorno osserva come nell’idea della dipendenza con una similitudine con le stelle. Infatti affidandosi agli oroscopi gli individui rinunciano ad una soggettività attiva si rassegnano alla riduzione della propria vita a una serie di stereotipi rispetto ai quali nessuna reale novità o cambiamento è possibile. Queste posizioni di Adorno sono il paradigma di una serie di studi volti a mostrare le conseguenze alienanti e conformiste della cultura di massa, la quale porterebbe impoverimento, assuefazione e falsa coscienza. Anche Bauman, con la sua teoria della “società liquida”, sostiene che il passaggio da una società di produttori ad una di consumatori, rappresenta una vera e propria mutazione antropologica. L’effetto delle pratiche del consumo è quello di isolare gli individui e di spezzare le reti di relazioni comunitarie che nella “società solida” sostenevano il sistema sociale. Queste teorie però, difettano di una cosa: NON s’interrogano sui significati che il consumo culturale assume per i suoi praticanti. Adorno: dalle caratteristiche del prodotto inferisce i suoi effetti; Bauman: analizza il flusso della comunicazione globale, ma non si preoccupa di verificare in che modo essa è recepita da gruppi particolari di persone. 2.L’analisi semiologica Svelare il contenuto nascosto o cifrato è in effetti l’obiettivo che si pongono discipline come la semiotica, la psicoanalisi e la critica letteraria. La SEMIOTICA e la SEMIOLOGIA hanno gettato le basi di una teoria generale dei segni e della comunicazione. La semiotica si è sviluppata attraverso l’analisi di vari aspetti della cultura in termini di sistemi di segni. Le arti, la cultura materiale, le performance sociali possono essere trattati come linguaggi di cui devono essere decifrati i significati, sia gli espliciti che gli impliciti. La semiotica dà grande risalto alla cultura popolare e di massa. Il cinema, i fumetti, la televisione, la moda sono per i semiologi grandi campi in cui esercitare l’analisi strutturale dei segni, alla ricerca dei significati nascosti. R. Barthes e Umberto Eco sono i due massimi esponenti della semiologia post-bellica; si occupano di critica artistico-letteraria, ma concedono ampio spazio all’analisi delle forme della cultura popolare. Barthes ha aperto questo campo d’indagine con un’opera dal titolo “Mythologies”, una raccolta di brevi scritti dedicati ad aspetti della cultura di massa della Francia degli anni ’50. I tratti culturali in quest’opera hanno carattere “mitologico” perché al semplice oggetto o fatto si sovrappone un ordine di significazione ulteriore, che rimanda a dimensioni metastoriche e ha l’effetto di “naturalizzare” l’ordine sociale e culturale borghese. L’analisi semiologica consiste nel rendere esplicita la sovrapposizione di ordini di significazione che resta implicita; essa consente di penetrare sotto quella apparente banalità, per cogliere il messaggio strutturale. Il semiologo che studia la cultura di massa non è tanto diverso dall’antropologo che vuole rappresentare una società “altra”. Anche Umberto Eco usa la nozione di “mito” per connotare la diffusione della cultura di massa e scrive “Apocalittici e integrati”, una raccolta di saggi critici sui prodotti dell’industria culturale quali fumetti, televisione, canzoni, ecc. Rispetto a Barthes, Eco esamina in modo assai più dettagliato questi prodotti, cioè non si limita a prenderne spunto, ma li tratta come opere di cultura “alta” sottoponendoli ad una accurata analisi strutturale. Eco e Barthes fanno ampio uso dei concetti di inconscio, nevrosi e simili, poiché nella cultura semiologica è forte la tentazione psicoanalitica. 3.Strategie della distinzione La forza del lavoro provocatorio di U.Eco consiste nel proporre per i testi popolari analisi altrettanto approfondite e raffinate di quelle applicate alla grande arte e alla letteratura. Egli però osserva che l’analisi semiologica non dovrebbe solo fermarsi alla forma del messaggio ma prendere in considerazione molti altri criteri (ricezione,pubblico…). Molti indirizzi hanno infatti affrontato il consumo culturale non tanto come un insieme di messaggi da decifrare, bensì come un sistema di pratiche di concreti attori sociali. Dagli approcci critici fin qui discussi, risulterebbe un azzeramento delle differenze fra classi sociali: nel senso che resterebbero soltanto una ristretta élite che ha nelle mani i mezzi di comunicazione, e una massa indifferenziata che ne è la passiva consumatrice; per gli attori sociali, le pratiche di consumo, rappresentano un’arena privilegiata di espressione, produzione e di differenze sociali. T. Veblen ne “La Teoria della classe agiata” analizza le forme di “consumo vistoso” da parte delle classi dominanti. Nella storia pre-industriale i ceti superiori si distinguono evitando occupazioni produttive; guerrieri e sacerdoti si astengono da ogni lavoro che abbia a che fare con i bisogni quotidiani. Con il capitalismo e il prevalere della borghesia, che basa il proprio potere sulle attività produttive, questo sistema si disgrega. In una società mobile in cui le distinzioni fra classi si fanno meno rigide, ciò innesca meccanismi di emulazione: le classi inferiori cercano a loro volta di accedere ai beni di prestigio, spingendo le classi agiate a spostare i loro investimenti vistosi per differenziarsi dai “nuovi arrivati”. La logica emulativa così caratterizzerà l’intero campo del consumo di massa. In questo libro il consumo appare come un grande campo di definizione delle relazioni sociali: campo dominato da regole morali più che economiche. Spesso la sociologia e l’antropologia hanno contrapposto il consumismo moderno, concepito come pura rincorsa utilitaria ai beni, a istituzioni tradizionali come il “dono”, volte a costruire e saldare legami sociali. Per Veblen le moderne pratiche di consumo sembrano piuttosto inglobare le relazioni che caratterizzavano il dono nelle società arcaiche. Si può dunque pensare che tutto il consumo è in qualche misura vistoso e percorso da rapporti di emulazione: bisogna però tenere in conto il “buon gusto”, le capacità da intenditore e simili competenze culturali che sono insite nei soggetti per non apparire ridicoli. Su questo punto s’innesta la riflessione di Bourdieu che ne “La Distinzione” introduce il concetto di “habitus”, proprio per dar conto della relazione tra la dimensione oggettiva dell’appartenenza sociale e quella soggettiva del gusto. L’habitus consiste in una serie di competenze, disposizioni, atteggiamenti che il soggetto incorpora come risultato del processo di inculturazione – cioè nascere, crescere e venire educato in un certo ambiente sociale e culturale. Fanno parte dell’habitus le tecniche del corpo, come vestirsi e gesticolare, le forme del parlare e del comunicare e le abitudini linguistiche, tutto ciò che attiene al buon gusto, alle competenze da “intenditori”. Al concetto di habitus si accompagna una cartografia delle differenze sociali basata sul possesso di due forme di capitale: economico e culturale. La combinazione di queste due forme dà luogo a 4 grandi tipologie: 1. Ceti ad alto capitale economico ed alto capitale culturale, ad esempio la grande borghesia – classe agiata; 2. Ceti ad alto capitale economico ma basso capitale culturale, ad esempio gli imprenditori che tradiscono nell’habitus un’origine bassa, hanno cioè il problema di convertire il nuovo capitale economico in capitale culturale; 3. Ceti a basso capitale economico e a basso capitale culturale, come i contadini e gli operai; 4. Ceti a basso capitale economico e alto capitale culturale, come gli insegnanti e certi tipi di intellettuali. spiegare e risolvere il male oppure in rituali che servono in realtà obiettivi di carattere sociale. In Italia per quanto riguarda gli studi sulle tradizioni mediche popolari, sotto il nome di “DEMOIATRIA”, nascono studi di carattere compilativo che raccolgono i rimedi delle tradizioni contadine. Quella che oggi chiamiamo “antropologia medica” nasce con la volontà di trattare in modo simmetrico la nostra e le altre medicine: non si tratta di assumerne una come vera e spiegare le altre in termini di illusione, bensì di capire sia la nostra che le altre come modi complessi di affrontare il problema del male nelle società umane. L’antropologia medica si trova davanti al compito di studiare come le culture formulano la realtà in modi peculiari e come la conoscenza e i significati linguistici sono organizzati in rapporto a queste forme peculiari di realtà. L’antropologia non si contrappone alla biomedicina né intende negare i successi che essa ha ottenuto, ma solo proporre una visione alternativa di corpo, salute, guarigione e malattia. Ad esempio lo storico K.Thomas racconta le condizioni in Inghilterra negli anni ’50 – ’60: un’aspettativa di vita di meno di 30 anni attacchi di epidemie che decimavano la popolazione di cui non si comprendevano ancora le cause e le trasmissioni. Di fronte a questo i medici erano incapaci di diagnosticare e curare gran parte delle affezioni. Vi era una totale impotenza di una medicina che finiva per proporre rimedi che peggiorano solamente i fattori di rischio, senza alcuna risoluzione. 3.Atteggiamento naturale e antropologia del corpo All’antropologia medica interessa affermare che il progresso non può essere letto in termini di passaggio dall’ignoranza alla coscienza o dall’illusione alla verità, ma come transizione tra complessive cornici di senso che articolano in modo diverso il RAPPORTO TRA CORPO, ESPERIENZA E LINGUAGGIO. Il compito dell’antropologia medica non è di falsificare questo paradigma biomedico, ma di collocarlo all’interno di una visione più ampia che consenta di esercitare la comprensione di altre formule culturali. De Martino è stato un precursore della moderna antropologia medica ed egli sosteneva che “ogni mondo è un mondo culturale noi lo percepiamo come un universo sensato sulla base di categorie socialmente condivise, che fanno a capo dei modi in cui lo abitiamo- a un progetto comunitario”. Questo progetto fonda sia il mondo sia la soggettività: ma resta per lo più invisibile nella nostra esperienza quotidiana. Noi percepiamo sia il mondo sia la soggettività come dati assoluti dunque “naturali”: “la datità del mondo, nell’atteggiamento naturale, significa: sono dati oggetti intramondani altri da me, sono dati uomini altri da me, io trovo continuamente questi oggetti e questi uomini, li incontro ed entro in rapporto con essi… sempre nell’atteggiamento naturale questa datità del mondo, non solleva alcun problema: è un’ovvietà in cui ovviamente si vive, e che è ovviamente si vive e che è ovviamente inclusa nel vario comportarsi quotidiano” Ovvietà significa qui anche dimenticanza, incapacità di percepire quanto certe pratiche o condizioni dell’esistenza quotidiana siano costruite. L’oblio caratterizza il senso comune come anche le scienze che chiamiamo naturali. Ci sono due momenti in cui l’atteggiamento naturale viene problemizzato: 1. Quello rappresentato dalle crisi psicopatologiche: la schizofrenia è letta come catastrofe dell’orizzonte domestico, in cui si perde la stessa datità, non ci sono più né un mondo dato, né un io che mi è stato assegnato. È dunque in negativo. 2. Questa situazione è quella della comprensione storica e antropologica. Il tentativo di capire diverse costituzioni culturali del mondo, diverse codificazioni della datità. È dunque in positivo. Il “VERSTEHEN” si presenta qui come un percorso all’indietro, che risale lungo le linee dell’apparentemente ovvio. Si torna al problema del rapporto tra antropologia e biomedicina: la prima non può permettersi di dare per scontato il concetto di “natura” su cui la seconda si basa. Con la visione più ampia intesa dall’antropologia si apre la possibilità di un’antropologia del corpo; il pioniere di un’analisi culturale del corpo è Mauss. Con “le tecniche del corpo” Mauss lancia un programma di etnografia descrittiva riguardo gli usi del corpo che si apprendono in modo differenziato in diverse culture. Propone uno schema classificatorio per lo studio di queste tecniche basato su un percorso di ciclo della vita e sulla distinzione tra varie funzionalità. “Un percorso a ritroso nell’ovvio”: Mauss si riferisce a questa cultura incorporata col termine latino habitus abitudini che variano con il variare delle società, delle educazioni, delle mode, ecc. In questo senso si può dire che il corpo è percorso dai rapporti di potere interni a una determinata società e rende evidenti i rapporti tra la cultura dominante e quella subalterna. M.Douglas che introdusse “la regola della purezza”, che riguarda la rilevanza o la misura in cui vengono tenute nascoste le funzioni organiche. Da questa regola derivano anche le dimensioni che esprimono la distanza sociale: la vicinanza/distanza da mantenere nei confronti degli altri e le parti del corpo che possono essere esposte, ci porta a formulare la teoria dei due corpi, fisico e sociale, che stanno tra loro in un rapporto di tensione: il primo contrae o espande le sue esigenza in modo direttamente proporzionale alle esigenze del corso sociale, con il tendersi o il rilassarsi delle pressioni sociali. La distanza fra i due corpi coincide con l’ampiezza delle pressioni e delle classificazioni nella società. 4.Le sindromi culturalmente influenzate Un utile punto di partenza può essere la distinzione posta dagli antropologi fra tre diverse accezioni di malattia che corrispondo ai termini inglesi disease, illness e sickness. • Con DISEASE si intende la malattia come entità nosologica (raccolta dei differenti tratti e segni caratteristici che permettono di definire le diverse forme patologiche) identificata dalla biomedicina. Si tratta di una trasformazione fisicamente evidente della struttura o della funzionalità del corpo, cioè l’allontanamento da uno stato di normalità, che viene fatto discendere da cause specifiche. Nella medicina moderna le cause appartengono a un ordine invisibile, ma riconoscibile da parte di specialisti. Nel linguaggio comune la malattia disease è trattata come un’entità autonoma con la quale si entra in rapporto. • Con ILLNESS si intende l’esperienza soggettiva di sofferenza ed ha un significato che fa spesso riferimento a categorie e modelli di spiegazioni “popolari” che non sempre coincidono con quelli della scienza medica. • Con SICKNESS si riferisce al ruolo sociale dell’ammalato, alle conseguenze sul piano dei comportamenti e delle relazioni interpersonali del riconoscimento pubblico di un soggetto come colpito da una malattia. Queste tre accezioni dovrebbero coincidere nella prospettiva biomedica, ma non sempre è così. Si può avere illness ma non disease, come quando prova un disagio che i medici non collegano ad alcuna anomalia; si può avere disease ma senza illness, come quando esami di laboratorio indicano valori fuori norma ma il soggetto non prova alcun disturbo. Lo stato di sickness è collegato agli altri due in modi cmplessi, secondo norme sociali che si collegano all’organizzazione istituzionale della sanità. Un tema studiato dall’antropologia per mostrare gli aspetti culturali della salute e della malattia è quello delle SINDROMI CULTURALMENTE CONDIZIONATE. Si tratta di malattie riconosciute e diffuse in una specifica area socio-culturale sono attribuite a cause particolari e legate a forme di diagnosi e terapia previste dalla tradizione. In Italia il caso più noto e discusso è quello del TARANTISMO PUGLIESE, che De Martino ne “La terra del rimorso” descrive. Il tarantismo è un istituto culturale diffuso tra i ceti contadini del Salento. Consiste in un disturbo psichico che si ritiene causato dal morso di un ragno, una taranta o tarantola, che viene curato attraverso un rito esorcistico di carattere coreutico-musicale. L’ammalata danza per ore e talvolta per giorni al ritmo della pizzica suonata da un’orchestra locale, di fronte all’intera comunità di villaggio. La danza insieme ad altri simboli fa manifestare ed emergere la taranta che la possiede finché quest’ultima non ne abbandona il corpo. De Martino tratta il tarantismo come un dispositivo medico: un modo per dare un nome, un senso e una configurazione culturale a una crisi in sé caotica e irrelata, e nello stesso tempo una terapia che porta a risolverla. Questa convinzione porta De Martino a individuare in questa come in altre forme della medicina popolare un meccanismo di efficacia simbolica: concetto che sarà centrale per tutti i successivi sviluppi dell’antropologia medica. 5.Efficacia simbolica Levi-Strauss formulò in concetto di efficacia simbolica raccontando in un saggio un incantesimo per favorire un parto difficile: “la cura consisterebbe nel rendere pensabile una situazione data all’inizio in termini affettivi e nel rendere accettabile alla mente dei dolori che il corpo si rifiuta di tollerare… lo sciamano fornisce alla malata il linguaggio,nel quale possono esprimersi stati non formulabili ed è proprio il passaggio a questa espressione verbale che provoca lo sblocco del processo fisiologico.” Levi-Strauss sottolinea come questo processo somigli alla psicoanalisi che attraverso un linguaggio specifico, rende possibile esprimere conflitti che non si potrebbero manifestare. La cura sciamanica si pone a metà tra medicina organica e una terapia basata sul linguaggio come la psicoanalisi perseguendo un modello di efficacia psicosomatico. In che modo si passa dall’ordine culturale a quello organico, ce lo spiega Levi-Strauss attraverso l’omologia tra le strutture che organizzano i diversi livelli della vita: organico, dell’inconscio e del pensiero cosciente. “L’efficacia simbolica consisterebbe in questa capacità induttrice che possiederebbero, le une in rapporto alle altre, strutture fondamentalmente omologhe”: capacità di indurre una trasformazione organica che si ottiene vivendo intensamente un mito. Il tema dell’efficacia simbolica sta al centro della riflessione medico-antropologica. È qui che risiede il problema dei rapporti tra gli aspetti biologici e fisico-chimici, psicologici e sociali della vita umana ed è qui che l’antropologia può costruire un rapporto più saldo con la biomedicina. In realtà, in ogni momento della pratica biomedica gli aspetti simbolici si intrecciano con quelli tecnici: sottoporsi a cure mediche significa vivere un’esperienza sociale peculiare che prima di intraprendere una terapia, muta le condizioni esistenziali del paziente. In chiave antropologica l’interazione medico- paziente è molto più di un momento tecnico di raccolta di informazioni: è invece il momento cruciale dell’intero percorso terapeutico, quello in cui il senso del male viene negoziato e assume una sua precisa configurazione. Tullio Seppilli, fondatore della moderna antropologia medica in Italia, ritiene che discipline come la psiconeuroimmunologia(studia l’influenza del sistema nervoso centrale sui processi di difesa organica legati al sistema immunitario) potranno colmare il divario tra biomedicina e antropologia: condurre cioè ad una medicina unitaria che integri nel linguaggio biomedico il ruolo svolto dalle esperienze sociali e culturali negli stati di salute , malattia e guarigione. 6.Incorporazione ad antropologia critica Nel campo della salute e della malattia, la ricerca può rappresentare un’impresa neutrale e distaccata. I ricercatori si trovano di fronte la sofferenza di concreti esseri umani, in situazioni di miseria, fame, povertà, condizioni di vita dure sul piano materiale e su quello delle relazioni sociali. Questo aspetto esplode quando la ricerca si sposta da piccoli e isolati gruppi sotto l’ombrello coloniale alle periferie degradate delle città post-coloniali. In questi casi è difficile considerare il rapporto con il corpo e con il male in termini di semplici differenze culturali, invece emerge da un lato la disuguaglianza con l’Occidente agiato e dall’altro il legame diretto tra gli stati del corpo e i fattori economico- politici che producono povertà, privazioni, sofferenze. Le istanze dell’aiuto si sovrappongono a quelle dell’osservazione e della distaccata comprensione. Il punto di partenza è il ruolo del corpo nel sapere antropologico, o per meglio dire il concetto di INCORPORAZIONE. T.Csordas teorizza l’incorporazione come concetto chiave di una nuova fase dell’antropologia medica: si tratta del “postulato metodologico che il corpo non è oggetto da studiare in relazione alla cultura, ma deve essere considerato come il soggetto della cultura stessa, il terreno esistenziale della cultura”. La prospettiva dell’incorporazione intende superare la classica dicotomia fra mente e corpo, facendo di quest’ultimo il protagonista e il soggetto attivo delle pratiche sociali. Due antropologhe americane hanno coniato l’espressione di corpo pensante o consapevole e alla teoria di M.Douglas dei due corpi sostituiscono una teoria basata sulla competenza di tre dimensioni del corpo: SOCIALE, POLITICO e PERSONALE. Il corpo sociale è quello di cui parla l’antropologia simbolica, che appare come un peso morto, inerte e passivo, attaccato ad una mente vivace, attenta e nomade, che rappresenta il vero agente della cultura. Il corpo politico è quello plasmato dalle relazioni di potere: qui il potere non si esercita più attraverso una violenza imposta dall’esterno, bensì attraverso una plasmazione e una presa in carico dall’interno dei corpi e delle personalità sociali. Il corpo personale, non è solo vittima del controllo politico, ma soggetto attivo di strategia di autoaffermazione, difesa e resistenza. Un corpo agente che non si limita a subire le società e il potere ma cerca di trasformarli. Si apre qui il campo che possiamo chiamare “un’economia politica della sofferenza” dove la malattia non è considerata come un evento “naturale” ma è posta in relazione a condizioni di sfruttamento economico, forme di depressione, ecc. S.Hughes (autrice) interpreta la sindrome “dei nervi”: “il corpo nervoso-arrabbiato del bracciante si offre come metafora e metonimia di un sistema sociopolitico nervoso, e della posizione paralizzata del lavoratore rurale nell’attuale disordine economico e politico”. L’antropologia critica ha avuto il merito di richiamare a un collegamento tra due dimensioni cruciali nella comprensione antropologica: l’etnografia di microcontesti delle sottili reti di significati locali da una parte e dall’altra le analisi delle macrocondizioni che determinano le condizioni di salute e malattia di individui e collettività. L’importanza si è manifestata nello studio delle epidemia quali l’AIDS in Africa. Qui gli antropologia hanno smontato la naturalità della malattia non solo relativizzandola in termini culturali ma soprattutto mostrando i grandi meccanismi socio-economici che la producono la gestiscono e la definiscono. 7.Pluralismo medico e medicine non convenzionali Con la nozione di “PLURALISMO MEDICO” ci si riferisce alla compresenza, istituzionalizzata o di fatto, di biomedicina e medicine tradizionali nei sistemi di diagnosi e cura. La medicina scientificamente fondata avrebbe voluto far scomparire l’inefficacia delle pratiche popolari della tradizione, ma così non è stato e le medicine tradizionali hanno spesso mantenuto un ruolo importante come risorse diagnostiche e terapeutiche affiancate a quelle scientifiche e ufficiali. Le medicine “popolari” sono facilmente accessibili, più vicine all’esistenza quotidiana delle persone e alla cultura locale e continuano spesso a dimostrarsi insostituibile in riferimento a certi disturbi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cercato di considerare le medicine e i guaritori tradizionali come un patrimonio da preservare più che come un ostacolo di cui liberarsi. Negli ultimi decenni del ‘900 ha avuto grande impulso il fenomeno delle “MEDICINE NON CONVENZIONALI” (MCN) : saperi e pratiche diagnostiche e terapeutiche che si differenziano in modo netto dalla biomedicina, proponendo stili di cura radicalmente alternativi ( omeopatia, agopuntura, iridologia, fiori di Bach, ecc); uno stile olistico che dichiara di prendere in considerazione l’essere umano come indivisibile unità di corpo, mente e spirito; una concezione “energetica” piuttosto che meccanicistica o biochimica del corpo. Gli utenti tra i più frequenti sono i giovani. Le MCN sono interessanti per l’antropologia perché delineano un sistema di pluralismo medico di fatto e segnalano importanti mutamenti nelle concezioni contemporanee del corpo. Il principale di questi mutamenti è la rivendicazione della libertà di scelta terapeutica. Nel quadro biomedico classico il paziente si rimette all’autorità dello specialista, annullando la propria soggettività nel processo terapeutico: ciò che invece emerge in questi decenni è la volontà di diretta presa in carico dei problemi del corpo da parte degli attori sociali. Dopo secoli di separazione sembra che le due prospettive –la salute e la salvezza- tornino ad accostarsi. Uno dei punti fermi delle MCN riguarda il fatto che non ci si ammala per caso: la malattia come la cura, è sempre una questione di responsabilità individuale. La malattia non sarebbe altro che un segnale cifrato inviato dal corpo per segnalare un modo di vita squilibrato; la cura a sua volta è la riconquista di uno stato di armonia ed equilibrio. Capitolo 10: TEMPO, MEMORIA, STORIA In antropologia la memoria svolge la funzione fondamentale di “componente costitutiva delle sue fonti più importanti”. Infatti tutti i fenomeni sociali su cui l’antropologia punta l’attenzione quali riti, cerimonie, simboli, luoghi pubblici ecc. sono considerati forme di memoria collettiva. Questo capitolo parte con delle definizioni psicologiche della memoria, passando poi a considerala come un fenomeno collettivo e sociale. La memoria si articola in dimensioni ufficiali e vernacolari ed è spesso motivo di conflitti e divisioni. Sia l’antropologia che la storia sono prevalentemente interessate alla memoria a lungo termine. Invece per memoria a breve termine si intende la capacità di richiamare informazioni appena assunte nel giro di pochi secondi. Quest’ultima viene a sua volta distinta dalla memoria a brevissimo termine o memoria sensoriale consistente nella capacità immediata di gestione degli stimoli esterni, i quali divengono memoria a breve termine solo quando sono stati selezionati dall’attenzione. Memoria sensoriale e memoria a breve temine sono ricomprese nella memoria di lavoro costituita da una “centrale esecutiva” con funzioni di direzione dell’attenzione e da due “servosistemi” dove in uno sono trattate le informazioni linguistiche e nell’altro c’è l’immagazzinamento e trattamento dell’informazione sensoriale e visuale. Per memoria a lungo termine si intende la capacità di richiamare informazioni per un tempo superiore a pochi secondi che caratterizzano la memoria del lavoro. Essa è divisa in tre sistemi: andassero distrutti dopo che le fonti fossero state pubblicate, noi non perderemmo alcuna conoscenza ma il passato resterebbe privo del suo “sapore diacronico” ovvero sarebbe pensabile ma non fisicamente testimoniabile. Quindi sia i Churinga che gli Archivi incorporano la memoria di un gruppo sociale, ne sono i materiali portatori e questo fa di essi degli oggetti sacri da maneggiare con cura e con modalità rituali. L’accostamento tra Churinga e Archivi, trova tuttavia un limite nella distinzione che Strauss fa tra le società calde, come quella occidentale moderna, che interiorizzano la storia per farne il loro motore di sviluppo; e le società fredde che cercano di annullare l’effetto che i fattori storici potrebbero avere sul loro equilibrio e sulla loro continuità. Attraverso questa contrapposizione, gli studi sociali hanno cercato di spiegare la trasformazione della memoria sociale dalla tradizione alla modernità. Nel primo caso la memoria è depositata in riti o narrazioni mitologiche che si tramandano secondo il principio della ripetizione; nel secondo caso si può parlare di una coerenza testuale che apre lo spazio all’interpretazione. Vediamo come al giorno d’oggi tutte le scienze sociali tendono ad essere molto scettiche nei confronti di tutte quelle categorie che accentuano la distanza tra modernità e tradizione in quanto questo senso di discontinuità con il passato pone un grande problema di ricostruzione della memoria tramite istituzioni e pratiche sociali specifiche. Al contrario, il concetto di “luogo di memoria” si è dimostrato molto fecondo per aprire nuovi scenari di comprensione della struttura simbolica, degli spazi sociali e delle pratiche celebrative e collaborative. Negli ultimi anni c’è stato un vero e proprio Boom della Memoria: Maggiore interesse sullo studio di monumenti, musei, denominazioni di luoghi e strade, raduni, cortei, tradizioni, film ecc. Il tema della memoria è così diventato il concetto centrale attorno al quale si organizzano gli studi storici e ciò vale anche per l’antropologia, la sociologia e la psicologia sociale, discipline in cui la memoria è spesso il motivo strutturante della stessa ricerca empirica e non solo un tema di rilievo. Memoria ufficiale e Vernacolare – Nazionalismo e Oltre: Assman propone una distinzione tra memoria comunicativa e memoria culturale intese come delle modalità che coesistono. La prima è basata principalmente sulla comunicazione orale quotidiana e su un ambito relazionale relativamente ristretto (famiglia,comunità locale,gruppi associativi), ha un basso grado di istituzionalizzazione e gerarchizzazione ovvero non vi sono membri del gruppo che per principio hanno maggiori diritti interpretativi. Invece la seconda è fortemente istituzionalizzata, legata alle forme di potere e gestita da specialisti o professionisti, la memoria culturale è caratterizzata dal patrimonio dei ricordi istituzionalizzati di una comunità. A questo punto dobbiamo distinguere una memoria istituzionale e formalizzata da una memoria popolare o quotidiana: Utilizziamo i concetti di MEMORIA UFFICIALE e MEMORIA VERNACOLARE. La memoria pubblica emerge dall’intersezione fra espressioni culturali ufficiali e vernacolari. Memoria ufficiale: Deriva dagli interessi di leader o autorità culturali oppure che occupano una posizione importante in piccole città, comunità etniche ecc. Questa si fonda su una riaffermazione della realtà in termini ideali, evitando la complessità e l’ambiguità: Presenta il passato su basi astratte, sacrali e senza tempo. Memoria vernacolare: Rappresenta una gamma di interessi particolari, che affonda le radici nell’insieme sociale. I difensori di tali culture sono numerosi e mirano a proteggere valori e a riaffermare visioni della realtà che derivano dall’esperienza diretta in piccole comunità piuttosto che in “comunità immaginate” di una vasta nazione. La memoria vernacolare trasmette quindi il senso di come la realtà sociale è avvertita e non come dovrebbe essere. La sua esistenza è una minaccia per la natura sacra e temporale della memoria ufficiale. “Il boom della memoria” di cui parlavamo prima, si è concentrato prevalentemente sulle strategie della memoria utilizzate dagli Stati Nazione in età contemporanea per costruire il consenso e il senso di identità e appartenenza alla massa. Su questo piano l’interesse del concetto di memoria si è saldato con gli studi sulla nazionalizzazione. Il modello di memoria culturale che oggi ci è più familiare, infatti, nasce con le grandi rivoluzioni moderne ovvero quella americana e quella francese. Grazie alle rivoluzioni, al loro culto del “nuovo inizio” e al loro senso di rottura verso il passato, sono emerse espressioni di memoria in grado di coinvolgere la totalità dei cittadini. Tutto ciò che le rivoluzioni comportano ovvero monumenti, parate militari e civili, raduni di massa, comizi, bandiere, inni nazionali ecc. sono gli strumenti che consentono a persone lontane, che non si sono mai viste né sentite, di sentirsi legate da un medesimo passato e da una memoria comune. Questo processo raggiungerà il suo apice con le guerre mondiali e con le celebrazioni di vittoria e lutto che ne seguiranno. Oltre che alla plasmazione nazionalista della memoria ovviamente c’è anche una condivisione dell’oblio. L’Oblio riguarda “certi aspetti scomodi del passato” infatti vediamo come le minoranze etniche, le classi lavoratrici e le donne entrano raramente a far parte delle memorie ufficiali di una nazione e non sono nemmeno oggetto di pratiche di commemorazione. In particolar modo è da sottolineare l’assenza delle donne alle quali in età moderna non si erigono monumenti e il cui ruolo è a volte solamente allegorico (come nelle immagini della Libertà e della Repubblica). Quindi le Politiche Celebrative Nazionaliste esaltano la memoria pubblica istituzionale, lasciando in secondo piano le memorie private e vernacolari. Questo però cambia verso il XX secolo: Una serie di fattori politici e culturali cominciano ad indebolire il ruolo dello Stato Nazione. Anche la globalizzazione comincia ad aprire nuove possibilità per la costruzione di memorie e identità trasversali, etniche, particolaristiche. La memoria culturale diventa molto più complessa della descrizione di Assman: Non è più controllata da professionisti, non si concentra in luoghi e spazi ben delimitati ma si presenta come “più democratica”. Contemporaneamente la polverizzazione e desacralizzazione della vita pubblica, insieme all’etica individualista della società tardo-moderna, conducono ad una personalizzazione delle pratiche della memoria. Cominciano a comparire le prime memorie autobiografiche, i diari, la celebrazione dei compleanni e anniversari, raccolta periodica di fotografie, conservazione di archivi personali ecc. e tutto ciò diventa un fenomeno di massa. Tutto ciò avvenne grazie anche allo sviluppo della tecnologia per la registrazione e l’archiviazione delle informazioni. Perciò alla narrazione del passato, come origine del significato della storia, si sostituisce una grandissima moltitudine di narrazioni autobiografiche, che possono essere accessibili a tutti. Quindi avviene un’integrazione fra le pratiche vernacolari e quotidiane di gestione del ricordo, due livelli che è molto difficile tenere distinti al giorno d’oggi. È come se con l’indebolirsi delle forme pubbliche e istituzionali della memoria culturale, gli individui cominciassero a ricordare di più e a sentirsi obbligati a registrare, collezionare e salvare quanto più possibile i ricordi della loro caducità. Nell’incertezza su cosa sia più importante ricordare, si può registrare e mettere da parte tutto e ci sentiamo in dovere di farlo come se non facendolo le nostre esperienze perdessero autenticità! Si vive in funzione di quella che è chiamata la futura memoria ovvero si cercano certe esperienze per poterle poi rievocare e ricordare. Memoria e storia - Gli usi pubblici del ricordo: Gli storici e antropologi sono accomunati dal difficile compito di costruzione della memoria pubblica e del patrimonio culturale, restando consapevoli dei complessi meccanismi che li costituiscono retoricamente e politicamente nel presente. Infatti, è molto difficile per gli storici e gli antropologi lavorare in un ambiente di fonti sovrabbondanti e di archivi che non potranno mai essere controllati in modo integrale: Ci troviamo di fronte ad un “eccesso della memoria” a causa della moltitudine di fonti autobiografiche, oggetti, luoghi e discorsi della memoria. Gli storici e gli antropologi svolgono un ruolo fondamentale nei confronti di quella memoria culturale che oggi è il loro oggetto di studio; vengono coinvolti come arbitri o periti in caso di conflitti nella memoria o di memoria divisa. Essi sono chiamati a testimoniare la semplice e assoluta verità, la verità oggettiva e molto spesso si trovano a competere con altre figure portatrici di memoria: La figura del testimone. La prospettiva soggettiva e autobiografica del testimone, infatti, può rappresentare una fonte per lo storico, il quale tuttavia deve trascenderla per considerare i fatti da un punto di vista generale. La sofferenza che emerge dai racconti della Shoah oppure dai testimoni del processo di Eichmann, può essere considerata come autentica e vera narrazione del passato; ma anche come un muro di fronte al quale il metodo storiografico si infrange. Un ulteriore dilemma che storici e antropologi devono affrontare è quello del tema dell’identità in quanto memoria ed identità sono strettamente legate. Infatti come è evidente, quella che un gruppo sociale percepisce come propria identità, si concretizza nelle produzioni (discorsive,monumentali, rituali) della sua memoria collettiva. Ma bisogna dire che l’identità, in quanto proprietà sostantiva dei gruppi sociali, si è fatta strumento di politiche di esclusione ed inclusione e quindi bisogna essere consapevoli dei suoi ambigui usi politici. Capitolo 11: IL DONO FRA ECONOMIA E ANTROPOLOGIA Ci sono due principi basilari che spingono gli esseri umani a scambiarsi i beni. Il primo è un principio utilitarista ovvero lo scambio o meglio il comportamento economico sono motivati dalla ricerca del maggior utile possibile per sé o per il proprio gruppo sociale. Il secondo principio è che le forme dello scambio possono essere descritte attraverso modelli di validità universale come ad esempio la legge del rapporto domanda/offerta. Gli antropologi hanno difficoltà a tener fermi questi due principi poiché mettono in discussione l’esistenza di una dimensione economica autonoma e separata dalle altre sfere della vita sociale e l’esistenza di un soggetto come “agente economico” puro. Esiste un concetto che va contro la razionalità economica, stiamo parlando del concetto di DONO. Marcel Mauss ha scritto il “Saggio sul Dono” dove il tema principale sono le varie forme di scambio di beni di prestigio che lui chiama prestazioni sociali totali e che rintraccia nelle società arcaiche. Queste sono: • Delle forme di scambio non legate alla logica del mercato o del baratto • La transazione è una pratica pubblica che avviene tramite riti e cerimonie • Non ci sono accordi di tipo contrattuale; le transazioni avvengono in tre momenti: dare, ricevere, ricambiare in quanto poiché la catena non si interrompe è necessario che ciascun dono sia accettato e successivamente ricambiato • Queste prestazioni sono di tipo agonistico ovvero le parti in gioco gareggiano per dare e non per ottenere di più • Sono pratiche sociali totali in quanto sono sia pratiche economiche ma anche pratiche in cui si intrecciano altre dimensioni come quella giuridica, morale, politica e religiosa. In questo saggio Mauss analizza in particolar modo due casi etnografici, il primo è quello del Kula delle isole Trobriand già studiato da Malinowski. In questo arcipelago, lo scambio di oggetti preziosi (collane di conchiglie rosse e braccialetti di conchiglie bianche) è un’attività molto importante che comporta lunghe navigazioni tra le isole. Ogni gioiello è famoso per la sua storia e porta su di sé il ricordo delle persone importanti che lo hanno posseduto. Lo scambio di gioielli durante i viaggi Kula ha una particolarità ovvero implica lo “spirito del dono” cioè chi riceve un oggetto cerca di ricambiare con uno ancora più prezioso. Un secondo caso etnografico di cui parla Mauss è il Potlach tra gli indiani e altri gruppi nativi del Nord America. Si tratta di cerimonie rituali nel corso delle quali le famiglie più ricche distribuiscono e talvolta distruggono grandi quantità di beni di prestigio. Qui la componente agonistica è esplicita: Acquisisce un rango più alto non chi trattiene di più ma chi sperpera di più. Ci sono state varie interpretazioni del Potlach, alcuni pensavano fosse una forma di protezione dell’equilibrio del sistema economico indigeno contro le pressioni esercitate dal mercato capitalistico, altri saranno interessati alla distruttività e ad una visione antiutilitarista: Al centro dei più profondi desideri umani c’è il dispendio e non il possesso o profitto. Al contrario, Mauss era interessato al fatto che sia nei Kula che nei Potlach, lo scambio dei beni era posto al servizio della costruzione di relazioni sociali al contrario di quanto avviene nella moderna logica del mercato che tenta invece di usare le relazioni sociali per acquisire più beni. Ma visto che il dono è libero, ci deve essere qualcosa che in assenza di norme contrattuali obbliga l’altro a ricambiare. Mauss nel suo saggio trova la risposta proponendo un ulteriore caso etnografico: I Maori della Nuova Zelanda. Qui si attribuisce ai Taonga, oggetti cerimoniali, un’essenza spirituale che obbliga colui che ha ricevuto il dono a ricambiare, se non dovesse farlo la pena sarà la sua distruzione. Stiamo parlando dello Hau o “spirito della cosa donata” che vuole tornare da dove è partito, incarnandosi nel contro-dono. Mauss è interessato in particolar modo al legame tra le persone e le cose cui lo Hau allude: Ciò che obbliga l’altro a ricambiare è che la cosa donata non è inerte, anche se il donatore l’ha abbandonata rimane pur sempre qualcosa di lui e quindi questo obbliga il beneficiario a ricambiare. L’obbligo di ricambiare fonda quindi il legame sociale. Infatti mentre il donatore rende altrui qualcosa che in realtà è una particella della sua natura e della sua sostanza; il beneficiario accetta questo qualcosa dal donatore e ciò equivale ad accettare una parte della sua anima e della sua essenza spirituale. Inoltre Mauss osserva che sia il Kula, che il Potlach, che lo Hau, contribuiscono, ciascuno con un loro tratto specifico, a comporre un modello di dono che non esiste nella realtà. In più, definendo “dono” queste prestazioni, Mauss le compara a ciò che noi oggi intendiamo con questo termine ovvero un regalo cerimoniale o uno scambio gratuito che avvengono fuori dal mercato. Mauss proietta anche il rapporto tra dono e mercato su scala storica. Prevalentemente nelle società arcaiche, il dono sarebbe stato soffocato nella modernità dallo sviluppo del mercato in cui le forme di scambio sono subordinate al principio dell’equivalenza del valore. Nel mercato lo Hau scompare: Le cose non incorporano più una parte di anima di chi le ha date, ma un valore astratto calcolabile in termini monetari e universalmente fruibile. Nel mercato quindi non è necessario un legame sociale fra il donatore e il beneficiario. Inoltre Mauss ritiene che le nascenti forme di assistenza statale e gli istituti previdenziali dei suoi tempi, rappresentino una rinascita moderna del dono. L’intervento statale e quindi pubblico riporta nell’economia quell’elemento morale che era stato cancellato dal mercato (Ad es. impiegare parte del reddito di impresa per sostenere la classe operaia e i ceti più poveri). Reciprocità: Malinowski ritiene che il classico modello utilitarista dell’Homo economicus non basti a comprendere pratiche come il Kula. Infatti secondo lui e secondo alti autori, non è soddisfacente il fatto che Mauss sia ricorso ad una singola credenza religiosa di una particolare cultura per spiegare un principio così generale come l’obbligo di ricambiare. Lo scambio secondo loro non poggia su una serie di singoli atti di dono, concatenati dalla paura superstiziosa per lo hau, ma su una vera e propria logica di organizzazione di questi scambi che tiene in equilibrio l’intero sistema economico delle società primitive, in assenza di istituzioni di governo. Stiamo parlando della reciprocità: logica che regola il corpo sociale. “Malinowski si rende conto dell’importanza della reciprocità ovvero del dare e ricevere: Il dono costringe a ricambiare e da qui si mantengono le relazioni sociali, la reciprocità quindi promuove la solidarietà sociale.” Nel 900 vediamo come la reciprocità sia il tema principale di molti dibattiti antropologici. Per Polanyi è una delle tre principali forme di integrazione dell’economico nel sociale insieme alla redistribuzione e al mercato; e come Mauss anche egli la caratterizza come uno scambio in cui la costruzione dei legami sociali è più importante dei beni che circolano. Per Strauss invece c’è una concezione diversa in quanto egli pone la reciprocità al centro delle sua teoria delle strutture elementari della parentela e individua due errori nello Hau: il primo è che non si può ricorrere ad una credenza locale per spiegare un fenomeno generale; soprattutto prendendolo alla lettera e non comprendendo la realtà che c’è al di sotto di quella credenza. Il secondo è che per Strauss la struttura dello scambio o della reciprocità, preesiste ai singoli atti separati di dare, ricevere e ricambiare. Questo perché è lo scambio che costituisce il fenomeno primitivo e non i singoli atti in cui Mauss scompone la vita sociale e che generano un tutto attraverso lo Hau che è l’elemento di coesione. Quindi Strauss pone in ombra ciò che per Mauss era decisivo ovvero gli aspetti etici dello scambio, la partecipazione fra persone e cose e la condivisione di un principio spirituale che lo scambio implica. La reciprocità di Strauss non ha nulla di etico tanto che gli attori sociali non ne sono neppure consapevoli. Foucault: Individuano nell’ Impero la potenza plasmante che penetra in profondità su tutti i livelli dell’ordine sociale, anche sulla soggettività. L’impero non amministra solo un territorio e una popolazione ma vuole creare il mondo reale in cui abita, non si limita a regolare le relazioni umane ma vuole dominare direttamente la natura umana; quindi l’oggetto del suo potere è la totalità della vita sociale. Quindi, secondo teorie di orientamento Marxista, la Globalizzazione è una fase estrema di sviluppo del capitalismo caratterizzata da aspetti totalizzanti, da una logica di sfruttamento e da una mancanza di equa distribuzione sociale. Altre teorie sostengono che lo sviluppo tecnologico sia il motore, e non la conseguenza, della globalizzazione. Infatti secondo Manuel Castells è la tecnologia informatica a creare un nuovo modello di sviluppo basato sulla produzione e sullo scambio di beni sempre più immateriali. La nuova economia secondo questo approccio è basata sull’informazione, sui saperi e sull’innovazione ed è caratterizzata da estrema flessibilità e dalla tendenza ad ignorare confini geografici e politici. Internet ne è un particolare esempio in cui sono i segni a diventare merce e ciò che conta è la possibilità di avere accesso al loro contenuto informativo. 2. Trans nazionalismo Oltre che da flussi economici e finanziari, la Globalizzazione è costituita anche da flussi di persone, merci e comunicazioni. Se prendiamo in considerazione la dimensione demografica, emerge che ci sono grandi movimenti migratori dalle aree più povere del mondo verso quelle che rappresentano maggiori opportunità lavorative e un tenore di vita più alto. Questo fenomeno non è di certo una novità ma con la Globalizzazione assistiamo ad un passaggio da un modello internazionale ad un trans nazionale di migrazione. Con il termine Trans nazionale si intende la costruzione di legami stabili e comunitari che attraversano i confini nazionali. Infatti attraverso lo sviluppo della tecnologia e dei trasporti, i migranti riescono a mantenere rapporti significativi con i paesi e le reti sociali di provenienza. Quindi sono i media a garantire un aggancio stabile con la cultura di provenienza. Stiamo parlando dei cosiddetti fenomeni “diasporici” ma il Trans nazionalismo rappresenta un passo ulteriore. Gli spazi trans nazionali non sono da intendersi semplicemente come spazi dove si preserva la cultura di origine; ma come spazi terzi, nuovi e completamente diversi sia dalla cultura di origine che da quella di arrivo. Le comunità trans nazionali abitano spazi sociali e culturali nuovi e ibridi, dove viene meno sia il concetto di “mescolazione degli ingredienti delle differenti culture” sia le pratiche di assimilazione che tendono ad assorbire le caratteristiche dei gruppi migratori cancellandole e omologandoli alla cultura di destinazione. Infatti, gli spazi trans nazionali non sono costituiti solo dai più classici flussi migratori (come lavoratori con basso livello di specializzazione, prevalentemente maschi ecc.) ma anche dai più alti livelli della scala sociale come manager, operatori finanziari, scienziati, intellettuali ecc. Un altro esempio è quello del turismo dove ci sono spostamenti occasionali e periodici. Grazie all’introduzione dei voli low cost, la distanza spaziale nella programmazione delle mete turistiche diventa sempre meno importante. Anche il turismo produce spazi trans nazionali di grande rilievo: Si pensi ai villaggi turistici o alle grandi navi da crociera dove si raccolgono persone provenienti da moltissimi paesi diversi, questi rappresentano dei luoghi artificiali creati appositamente per il mercato del tempo libero. Ma anche i luoghi reali cambiano con l’introduzione di figure come guide turistiche, albergatori, venditori di souvenir, ristoratori ecc. che mediano la cultura locale con quella degli ospiti. Inoltre studi più recenti sui flussi demografici trans nazionali hanno evidenziato altri fenomeni: I campi profughi dove le persone sperimentano una vita sociale de territorializzata senza nessuna forma di cittadinanza oppure i richiedenti asilo che fuggono dalle aree di conflitto. Oppure ancora altri studi riguardano le forme “specializzate” di movimenti migratori come quelli femminili legate ai lavori domestici o all’assistenza: Esse riescono a mantenere vive le relazioni familiari e sociali originarie e a divenire parte integrante per le famiglie con le quali lavorano. 3.Post – modernità Ma è bene chiedersi come riescono i flussi globali di risorse culturali a mutare l’esperienza quotidiana e le più profonde strutture antropologiche; i modi di vivere il tempo, lo spazio, le relazioni sociali e i rapporti di potere. Il discorso sulla Globalizzazione qua coincide in parte con quello sulla Post- modernità. Con il termine post-moderno ci riferiamo principalmente a cambiamenti nei modi di intendere la storia e il progresso. Il pensiero post-moderno accetta la frammentazione e la molteplicità dell’esperienza e quindi implica l’abbandono delle ideologie e delle aspirazioni di avanguardia. Alcune teorie sulla Globalizzazione si soffermano sul fenomeno della de-differenziazione dell’agire sociale. Infatti, se la Globalizzazione consiste nella “perdita dei confini”, ciò sembra riguardare anche i confini tra le sfere dell’agire sociale. La facilità di produzione e diffusione delle informazioni, ad esempio, rende più difficile separare la sfera pubblica da quella privata. I dettagli della vita privata emergono più facilmente e non c’è più una differenza tra stage e backstage. Allo stesso modo risulta molto evidente anche la confusione dei confini tra le sfere “alte” e “basse” della cultura ovvero la grande arte, la scienza e la politica da un lato e dall’altro l’intrattenimento, le forme commerciali, la pubblicità ecc. Sembra quasi che l’autorevolezza del più grande scienziato e quella del meno esperto dei giornalisti è più o meno la stessa. Questo carattere cosiddetto “orizzontale” appare evidente in Internet in cui tutto scorre sullo stesso piano. Un altro esempio è sicuramente l’Università in quanto istituzione del sapere scientifico vero e serio; la sua attuale crisi sta nella difficoltà del trovare un equilibrio fra il suo modello classico (che non sembra più svolgere alcuna funzione sociale) e un rinnovamento che la porterebbe a inglobare stili e linguaggi avvertiti come estranei. Questa confusione dei confini è rappresentata da alcuni atenei che ricorrono a sponsorizzazioni, insegnamenti di discipline “pop”, figure di testimonial del mondo dello spettacolo ecc. Un altro tratto del modello Weberiano di modernità che sembra invertirsi con la Globalizzazione è quello del “disincanto del mondo”. Weber indicava nel processo di secolarizzazione la separazione della fede e della politica, da finalità pratiche e da dimensioni magiche e miracolistiche. Al giorno d’oggi invece, l’irrazionale si fa sempre più esplicitamente presente nella sfera pubblica, dopo una fase in cui sembrava destinato ad essere bandito. Vediamo infatti come nelle grandi religioni si sono fatte di nuovo strada istanze mistiche e miracolistiche (Apparizioni della madonna di Medjugorie, culto di Padre Pio ecc.). Ritornano i movimenti carismatici all’interno del Cristianesimo, malattia e peccato, guarigione e salvezza tornano a toccarsi. In molti paesi africani invece troviamo la stregoneria che si pone come una chiave di lettura della stessa post-modernità sia per i ceti popolari che quelli dirigenti. Si tratta di fenomeni che non sono necessariamente connessi alla Globalizzazione ma sicuramente provengono dall’indebolimento dei confini, della sfera normativa e della razionalizzazione della modernità. 4.Omologazione e Ibridazione La Globalizzazione da un lato viene considerata come un processo di omologazione ovvero un processo di acculturazione che comporta un’imposizione dall’esterno di una cultura che cancella quella dominante. Questo processo può essere ben riassunto nell’espressione “McDonaldizzazione della società” (Anche dal titolo del lavoro del sociologo Ritzer). Il riferimento alla famosa catena americana di fast-food è da intendersi in due sensi: Prima di tutto, la McDonald’s esporta in tutto il mondo, con migliaia di ristoranti, sia un modello industriale e organizzativo, sia una cultura alimentare standardizzata, che si impone in ogni angolo del mondo sradicando le peculiarità locali. È una pratica che investe tutti gli ambiti del mercato e secondo Ritzer la sua caratteristica fondamentale è la “prevedibilità” in quanto i consumatori sanno già in ogni minimo dettaglio cosa aspettarsi dalla qualità del cibo e dal personale. Più che di globalizzazione si dovrebbe parlare di americanizzazione in quanto è il sistema industriale statunitense che detta le regole. All’omologazione si contrappongono le teorie dell’eterogeneità o ibridazione. L’interesse qui si sposa nel modo in cui queste pratiche interagiscono con i contesti locali, modificandoli ma venendo anche a loro volta modificati e assumendo una grande varietà di forme e significati. Alcuni studiosi parlando del cosiddetto “effetto karaoke” con una base standard da cui possono poi scaturire diverse interpretazioni. Sono soprattutto i prodotti occidentali a circolare (o meglio americani) ma diffondendosi anche essi vengono “indigenizzati” ovvero riletti su uno specifico sfondo culturale. Ritornando all’esempio del cibo, la diffusione del McDonald’s in tutto il mondo, non ha cancellato i modi locali di mangiare e cucinare. Spesso è accaduto infatti che di fronte a questa invasione dei fast-food, si sono ripresi e valorizzati i cibi e le pratiche culinarie tradizionali. Nei paesi più ricchi, vediamo che la diffusione di cibi ha prodotto da una parte una difesa verso la tradizione, dall’altra si sono create pratiche ibride, mescolazioni e combinazioni di vario tipo. Non stiamo parlando né del puro “BigMac”, né della pura tradizione, ma di qualcosa di nuovo! 5.Dal Globale al Locale Quindi come abbiamo detto finora, non bisogna considerare la Globalizzazione come quel “grande nulla” che distrugge la realtà e la cultura autentica là dove la tocca; piuttosto per l’Antropologia è molto importante studiare il modo in cui i processi di globalizzazione influiscono sui contesti locali producendo mutamento e ibridazione. Bisogna dire che l’analisi antropologica ed etnografica è sempre riferita a qualche unità di luogo in quanto le risorse possono circolare in modo globale ma sono consumate e acquistano significato in mondi locali: Infatti, il perfetto cosmopolita ovvero il cittadino che si trova d’dappertutto ugualmente “a casa”, non esiste. Prendiamo l’esempio di internet e della comunicazione on line. Questo tipo di comunicazione annulla ogni ostacolo spazio-temporale e sociale in quanto possiamo comunicare con ogni altro individuo del mondo, che sia il nostro vicino di casa o uno sconosciuto dall’altra parte del pianeta. Ma bisogna comunque dire che la comunicazione di rete come ad es. Facebook vanno di fatto a rafforzare la rete di rapporti locali. William Blake afferma: “La vocazione dell’antropologia è quella di vedere il mondo dentro un granello di sabbia” questo vuol dire che se vogliamo cogliere le forze della Globalizzazione, dobbiamo partire dal modo in cui queste si manifestano all’interno di universi locali. Prendiamo altri due esempi nell’ambito della cultura globale di massa: Le serie televisive e il gioco del calcio. Prendiamo serie televisive come Dallas o Beautiful e vediamo che siamo di fronte a dei prodotti fortemente standardizzati, con contenuti narrativi elementari, stili di vita alti e valori occidentali dominanti. È molto importante sottolineare il vedere queste soap operas in paesi diversi o fra gruppi sociali diversi in quanto fa differenza vederle in salotti borghesi o nelle braccopoli sudamericane, stando in silenzio oppure facendo lavori domestici poiché i prodotti standard svolgono funzioni e assumono significati culturali molto diversi a seconda delle pratiche d’uso locali. Prendendo anche il gioco del calcio vediamo che esso acquisisce significati diversi nelle varie parti del mondo: Il culto argentino per Maradona, la natura multirazziale del calcio in Brasile, il rapporto tra calcio e stregoneria in Tanzania e così via. Quindi vediamo che in entrambi questi esempi da un lato emerge la Globalizzazione (Per cui nessun contesto è mai chiuso a se stesso) ma dall’altro la grandissima varietà di significati simbolici che possono assumere in situazioni locali. In definitiva possiamo dire che le culture peculiari e distintive che gli antropologi hanno sempre cercato, possiamo trovarle nelle forme di “indigenizzazione” della cultura di massa. Capitolo 13: SPAZIO, LUOGO, CITTA’ 1.In altre terre L’antropologia culturale ha sempre incentrato le sue ricerche all’interno di contesti locali che generalmente corrispondono a territori specifici. Negli studi antropologici, la descrizione dell’ambiente può avvenire in forma soggettiva ad esempio quando l’etnografo arriva sul campo e riporta le sue prime impressioni che esprimono il suo senso di stupore e di interesse verso la novità; oppure in maniera oggettiva facendo delle citazioni sul clima, la flora, la fauna ecc. Bisogna però andare a vedere come si intreccia la differenza tra l’ambiente fisico e quella delle società umane che lo abitano. In geografia spesso si utilizza la differenza tra elementi naturali ovvero quelli che esistono indipendentemente dall’uomo come il clima, la vegetazione, i corsi d’acqua; e gli elementi antropici ovvero tutte le trasformazioni che ha effettuato l’uomo sull’ambiente a scopi produttivi attraverso l’uso dell’economia e della tecnologia come fabbriche, centri abitati, vie di comunicazione ecc. In poche parole quindi un ambiente naturale puro non esiste se non per poche zone disabitate e deserte; e non esiste neanche un determinismo ambientale che modelli il comportamento umano in base alle specificità climatiche e fisiche del territorio. Infatti è lo spazio che viene modellato in maniera quasi radicale dall’attività umana! Tuttavia bisogna sottolineare che in antropologia le caratteristiche fisiche di un certo territorio, pur non essendo l’argomento centrale, sono lo sfondo e la premessa della ricerca; in quanto l’approccio etnografico non può prescindere dalle particolarità di un certo spazio che siano esse l’ambiente naturale, la casa o il villaggio. In antropologia l’oggetto fondamentale sono i gruppi di persone in relazione diretta fra loro. 2.Spazio e Cultura Un’altra caratteristica fondamentale degli studi antropologici sta nella lettura del tema dello spazio dal punto di vista del “nativo” (persona appartenente ad un territorio diverso da quello dell’etnografo). Infatti mentre il ricercatore è abituato a descrivere il territorio attraverso ciò che lo colpisce quando arriva sul campo, le impressioni degli abitanti del posto sul loro ambiente potrebbero essere diverse. Vediamo infatti come al giorno d’oggi avviene una “minuziosa costruzione sociale degli spazi umani differenziati e regolati” vale a dire che vengono tracciati dei confini, precisati degli spazi, disegnati dei percorsi e tutto ciò deriva dalla precisa tradizione culturale di quell’ambiente. Questo influenza la nostra conoscenza sui luoghi. Ad esempio vediamo come, attraverso l’influenza delle nostre convenzioni cartografiche, per noi il Nord si trova “sopra” e l’Ovest si trova “a sinistra”; oppure vediamo come molto spesso vengono tracciati dei confini formali ed informali nella nostra vita quotidiana che provengono da un preciso status sociale. Flaubert, a proposito di questo, mostrò come alcuni palazzi cittadini (nell’epoca precedente all’introduzione degli ascensori) avevano una stratificazione sociale interna che dipendeva dal numero di scale che si era costretti a salire; così che “al piano nobile, ovvero quello con pochi gradini da fare, non si parlava come al quarto piano”. Il termine confine riguarda quindi l’individuazione di uno spazio propriamente nostro, una parte di territorio dove un gruppo umano accampa determinati diritti. Proprio per questo motivo, per gli antropologi è molto difficile maneggiare i diversi criteri che regolano il rapporto tra territorio e gruppi umani. È importante però non pensare ai confini come a qualcosa che racchiuda necessariamente porzioni ben delimitate di territorio in quanto il tema dello spazio “è ovunque e in nessun posto”. Basti pensare all’ esempio degli Aranda dell’Australia ovvero dei gruppi familiari nomadi che fanno riferimento ad un centro, che non è tale per la sua posizione, ma perché è sede degli spiriti degli antenati. Quindi gli spazi qualitativi dei popoli studiati hanno poco a che fare con il carattere geometrico e misurabile che siamo abituati ad associare alla parola spazio. Ma non bisogna nemmeno dimenticare quanti spazi sacri, solenni e minacciosi oppure riconducibili ad una certa idea del “noi”, siano presenti nelle nostre città e campagne. 3. Spazi e Luoghi Il tema dello spazio è diventato nell’antropologia più recente il principale oggetto di attenzione. Infatti non si osserva più come un determinato sistema culturale impatta e modella un ambiente, ma si considera lo spazio come una delle dimensioni fondamentali della cultura. Heidegger ha fatto una riflessione sui temi di spazio e luogo e si è interessato in particolar modo alla dicotomia tra spazio naturale e oggettivo – percezione soggettiva di questo spazio. Secondo Heidegger noi “soggiorniamo presso le cose” ovvero siamo umani in quanto abbiamo dei luoghi concreti all’interno dei quali pensiamo e costruiamo. È solo da qui che posso ordinare e pensare ad uno spazio astratto e geometrico in quanto “Gli spazi ricevono la loro essenza dai luoghi e non dallo spazio!”. Al di là di queste riflessioni filosofiche, con la nozione di luogo ci riferiamo quindi a qualcosa che attribuisce grande importanza alle dinamiche della vita quotidiana. Secondo Marc Augé se i luoghi sono riconoscibili per i fenomeni di appartenenza, le relazioni sociali e la memoria locale; allora la modernità crea non-luoghi ai quali nessuno può appartenere. Esempi di non-luoghi sono l’autostrada, la stazione, l’aeroporto, il centro commerciale ecc. ovvero tutti luoghi dove non è possibile essere altro che un utente o un uomo medio. Ma soprattutto bisognerebbe chiedersi se i non-luoghi siano non-luoghi per tutti. In altre parole la contrapposizione tra luoghi e non-luoghi è da interpretare dall’esterno e bisogna distinguere gli uni dagli altri in base al loro uso “normale” e a quelli che sono i principi sociali ed economici della civiltà contemporanea. Per Michel De Certeau bisogna immergersi nei luoghi per capire se ciò che essi rappresentano per coloro che vi dominato dai mass media, allo sfruttamento delle immagini di violenza e all’infiltrazione morbosa nell’intimità emotiva ai fini di audience e successo commerciale. Dunque sarebbe più corretto e rispettoso tacere? Naturalmente no, in quanto tacere non serve a testimoniare, né a chiedere giustizia per le vittime. 3.Le testimonianze e la memoria traumatica È difficile trovare un equilibrio tra uno sguardo troppo distante e uno troppo ravvicinato verso la violenza. Una possibile soluzione può essere quella di concentrare l’etnografia attorno alle voci dirette dei testimoni. L’antropologo deve diventare uno scriba che documenta fedelmente ciò che la gente narra. Tuttavia però, qui sorgono nuove difficoltà soprattutto nel momento in cui i testimoni non sono le vittime, bensì coloro che hanno messo in atto la violenza e quindi la posizione morale del ricercatore si fa ancora più complessa. Ad esempio: “Cosa succede quando per studiare la memoria della guerra in Argentina, si deve cordialmente parlare con gli ex torturatori?”. È ovvio che eticamente è più facile sostenere un progetto etnografico che si metta a servizio delle vittime per dare loro voce. Ma bisogna anche dire che la voce delle vittime non rappresenta in sé la verità, è una fonte importante ma come tutte le altre fonti deve essere sottoposta ad un’analisi critica. Prendiamo l’esempio della Shoah: Proprio per la sua posizione di protagonista degli eventi, il testimone non può parlare in maniera oggettiva, critica ed equilibrata come fa la storia. Infatti mentre la testimonianza fa appello al cuore, al coinvolgimento emotivo e all’empatia; la storia è rivolta alla ragione e alla ricerca della verità. Quando i testimoni raccontano devono fare i conti con un lacerante trauma esistenziale che li ha colpiti nel corpo, negli affetti più cari e nei principi base della socialità. In questo modo quindi il problema dell’antropologia della violenza finisce per coincidere in gran parte con quello della memoria traumatica. Inoltre è importante evidenziare un’altra caratteristica che prende il nome di “Figli della Shoah”: Secondo una psicoanalista a causa della “radioattività” le esperienze traumatiche si insidiano nella psiche degli individui, continuando ad agire anche dopo molto tempo che si sono concluse e tramandandosi così alle generazioni successive. Quindi lo studio della memoria traumatica tocca due punti: Da un lato è un tentativo di comunicare con le soggettività ferite e dall’altro invece ci porta verso le forme pubbliche di elaborazione del lutto (Commemorazioni, celebrazione degli eventi drammatici, monumenti, musei, luoghi di memoria ecc). L’elaborazione del lutto inoltre si intreccia spesso con il raggiungimento della giustizia: ovvero l’accertarsi della punizione dei colpevoli attraverso interventi istituzionali e giuridici. Si può dire che il raggiungimento della giustizia è una delle condizioni necessarie per il superamento del trauma. Ma la giustizia non può essere praticata come un compromesso; infatti molto spesso le società che escono dalla violenza sono sempre divise in due parti: Quelli che non vogliono ricordare e quelli che non possono dimenticare. La memoria è destinata così ad essere divisa e a rimanere un terreno di manifestazione dei conflitti rispetto ai quali la giustizia deve cercare mediazioni. 4.Mito e realtà nel conflitto etnico Il tratto specifico di queste nuove guerre è che si caratterizzano come movimenti che partono dall’identità razziale, etnica o religiosa, per rivendicare a sé il potere dello Stato. Nel linguaggio giornalistico e nell’opinione pubblica occidentale, infatti, si pensa che le cause dei conflitti siano da ricondurre ad un odio ancestrale tra gruppi etnici, che cova sotto la cenere per emergere poi in modo esplosivo. Gli antropologi invece sono intervenuti per smontare questo “mito del conflitto etnico globale” in quanto, come ha scritto Ugo Fabietti, quando gli uomini entrano in conflitto non lo fanno perché hanno costumi o culture diverse, ma per conquistare il potere, ed evidentemente quando seguono schieramenti etnici per ottenere questo potere vuol dire che era il mezzo più efficace per raggiungerlo”. Quindi l’identità non è la causa dei conflitti, al massimo ne è la conseguenza. Tuttavia, ci sono ancora dei problemi aperti: Bisogna dire che ci troviamo di fronte a casi di violenza di massa che si indirizzano verso nemici percepiti come etnici, penetrano nella società civile e assumono forme particolarmente atroci. Tutto ciò non si può assolutamente spiegare solo in termini di razionalità economico-politica della guerra, né come effetto delle propagande nazionaliste. Questo è qualcosa di più profondo: è un elemento che si consolida storicamente, che si immerge nella profondità dei corpi e nella vita quotidiana. Un fattore che può aver contribuito all’atrocità dei conflitti etnici può essere la Globalizzazione e il suo conseguente indebolimento dei confini. Secondo un antropologo indiano, infatti, la furia della violenza etnica può essere legata alle incertezze che il mondo contemporaneo comporta a proposito delle nostre identità e di quelle degli altri. Le cornici identitarie nazionali si indeboliscono e diventano confuse di fronte alla circolazione globale di persone, merci e idee. Quindi la violenza può essere considerata come un mezzo per raggiungere la certezza, per liberarsi da una situazione di angosciosa incertezza e per dare forzatamente un ordine a quella realtà dove l’anomalia è diventata una regola. In questo preciso punto l’analisi storica e antropologica si saldano: Gli storici invocano gli antropologi per spiegare la quantità e qualità di una violenza che un’analisi in chiave di razionalità politica non è in grado di spiegare. 5.Un Continuum Genocida A questo punto ci chiediamo: Come sono stati possibili avvenimenti come la Shoah, le guerre mondiali, regimi totalitari e simili tragedie in un secolo dominato dall’emancipazione femminile, dalla decolonizzazione, dalla cultura della pace e della tolleranza? Inoltre questa domanda si scinde in due parti: Da un lato ci chiediamo quali siano state le condizioni sociali, economiche, politiche che hanno permesso non solo le guerre in sé ma anche la creazione di progetti genocidi e luoghi come lager e gulag; dall’altro ci chiediamo come i persecutori siano stati in grado di compiere atti così atroci, non solo senza rifiutarsi ma anche in modo zelante e come allo stesso tempo grandi masse di persone hanno assistito a tutto questo senza reagire minimamente. “A quali condizioni saremmo disposti a infliggere fortissime scosse elettriche ad un innocente sconosciuto?” Secondo alcuni studi di psicologia sociale la compassione umana non è sufficiente a sottrarsi al volere dell’autorità. In questi casi gli individui si trovano in uno stato di Eteronomia ovvero obbedendo all’autorità, essi delegano ad altri la responsabilità dei loro comportamenti e quindi anche la loro coscienza morale. Un’altra interpretazione dei genocidi novecenteschi è quella che chiamiamo con il nome “Banalità del male” che è un’espressione che è stata coniata come commento alla figura di Adolf Eichmann, criminale di guerra nazista responsabile della deportazione degli ebrei nei campi di sterminio. Eichmann durante il processo si difese presentando se stesso come un normale burocrate, che non aveva fatto direttamente del male a nessuno ma che si era limitato solo al suo lavoro organizzativo. Queste affermazioni di Eichmann dimostrano come il suo fosse un male anonimo, astratto, che non ha bisogno di “mostruosità” per manifestarsi ma si esercita attraverso gli ordinali canali dell’amministrazione. È quindi BANALE. Al giorno d’oggi possiamo usare l’espressione “Continuum Genocidio” ovvero un genocidio continuo per indicare come questi atti di violenza ancora non siano completamente spariti ma si praticano nella vita quotidiana in maniera nascosta e molto spesso autorizzata come: la violenza nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle case di cura, negli ospedali, nei tribunali, nelle prigioni ecc. Questo atteggiamento è caratterizzato dalla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non – persone, di mostri o di cose attraverso l’utilizzo di forme di esclusione sociale, spersonalizzazione, disumanizzazione. Cap. 15: PARENTELA, FAMIGLIA, GENERE 1.La parentela: relazioni biologiche, sociali e culturali Parentela, matrimonio e famiglia sono probabilmente i temi più studiati nell'intera storia dell'antropologia. I rapporti di parentela sono, infatti, il livello più basilare nell'organizzazione delle relazioni sociali, riguardano ogni aspetto della vita quotidiana e coinvolgono necessariamente ogni individuo fin dalla sua nascita. Rappresentano dunque il livello più profondo della sua identità. Famiglia e parentela sono basilari nel senso che sono vicine, più di ogni altra istituzione, a quelli che potremmo chiamare i "fatti generalissimi" della natura umana. La loro vicinanza al piano dell'esistenza biologica non le rende istituzioni naturali: possiamo piuttosto considerarle come istituzioni che interpretano e plasmano gli aspetti naturali incastonandoli all'interno di sistemi culturali e legandoli ad altri aspetti della vita sociale, economica e politica. Lo studio della parentela si è sviluppato in antropologia nella tensione tra due opposte esigenze. Da un lato, comprendere un aspetto della vita che sentiamo come intimo, profondo ed elementarmente umana; dall'altro, il timore di usare modelli che proiettano inconsapevolmente sugli altri quelle che sono le nostre prospettive, conferendo loro una presunta universalità. In altre parole l'ombra dell'etnocentrismo si proietta sull'intero campo degli studi di parentela. Rodney Needham e David Schneider contestano però che tali relazioni si possono comprendere sulla base di una griglia genealogica universale dipendente dai fatti biologico riproduttivi. L'antropologia potrebbe solo tentare di descrivere la molteplicità dei significati culturali che i legami primari possono assumere, rinunciando a una teoria generale della parentela. 2. Concetti di base per una antropologia della parentela La parentela è stata trattata come un sistema di legami fra persone che poggia su tre tipi di relazioni: - La discendenza indica le relazioni di filiazione (ad es. in un sistema patrilineare prevede la discendenza per via maschile: figlio-padre-nonno-bisnonno...) - La collateralità si riferisce ai rapporti fra due o più individui che non discendono l'uno dall'altro, ma tutti discendono da un antenato comune (es. fratelli-sorelle, cugini, zii-zie...) - L'affinità o alleanza, indica i legami acquisiti tramite il matrimonio. I sistemi di parentela possono essere: - Bilaterali: un soggetto riconosce come proprio gruppo di parentela si agli ascendenti di parte paterna che quelli di parte materna (moderne società occidentali) - Unilineari: privilegiano invece i rapporti con una sola ascendenza: -esclusivamente quella paterna (patrilineare) -esclusivamente quella materna (matrilineare) Una unità sociale è esogamica quando vige l'obbligo di sposarsi al di fuori del gruppo di discendenza stesso. In molte società agricole o pastorali studiate dagli antropologi, la discendenza unilineare costituisce un gruppo corporato: vale a dire un concreto insieme di persone che dicono, si trasmettono di generazione in generazione beni, diritti, status e obblighi rituali, e rappresentano un unità socio economica. Comunemente un simile gruppo fondato sulla parentela viene definito lignaggio; mentre un insieme di lignaggi che si riconoscono in un unico antenato mitico è denominato clan. L'antropologia classica ha attribuito grande importanza ai lignaggi, considerati come la base naturale della società. La discendenza matrilineare ha attratto l'attenzione degli antropologi per le differenze che propone rispetto al modello più diffuso nella storia occidentale. Occorre distinguere però il concetto di discendenza matrilineare da quello di matriarcato. Matriarcato è un termine introdotto da alcuni studiosi ottocenteschi che sta a indicare un'ipotetica fase originaria delle società umane caratterizzata dalla ginecocrazia (potere femminile). L'idea, per quanto affascinante, è rimasta un'ipotesi indimostrata. Nelle forme di discendenza matrilineare la prole appartiene al gruppo di parentela della donna, nel quale l'autorità familiare e politica è comunque di solito tenuta dagli uomini. Nel classificare le forme della parentela, gli antropologi classici hanno attribuito grande importanza ai sistemi terminologici (ossia ai modi in cui una determinata cultura definisce linguisticamente i diversi legami di parentela). Morgan aveva distinto due tipi di terminologia: -Descrittiva: in cui ogni rapporto di parentela viene indicato da una parola specifica; -Classificatoria: che ripartisce i parenti in classi di individui contrassegnati da un unico termine. Gli studi novecenteschi hanno distinto una più complessa classificazione, basata sulla combinazione di 8 diversi criteri distintivi (criteri di Kroeber): 1.la generazione, 2.il sesso o genere, 3.la distinzione tra consanguinei e affini, 4.la distinzione tra consanguinei in linea diretta o collaterale, 5.la biforcazione tra parenti di lato materno e paterno, 6.l'età relativa (specificare fratello maggiore e minore), 7.la distinzione parallelo/incrociato, 8.la condizione del parente(vivo o defunto). Diversamente combinati, questi criteri darebbero vita a 6 tipi fondamentali di terminologie, identificate con il nome di gruppi etnici: • eschimese: distingue i fratelli da tutti gli altri collaterali (cugini, padre/madre dagli zii) • hawaiano: non distingue gradi di parentela all'interno di una stessa generazione (chiama con lo stesso termine padre e zii, madre e zie, fratelli e cugini, sorelle e cugine) • irochese: accomuna linguisticamente i genitori e gli zii, ma all'interno della generazione usa termini diversi per i cugini incrociati e quelli paralleli • crow: (tipicamente di società matrilineari) fonde la madre e le sue sorelle, il padre e i suoi fratelli, accomuna nello stesso termine tutti gli individui maschi del matrilignaggio della madre indipendentemente dalla generazione • omaha: (tipico di società patrilineari) fonde gli individui del patrilignaggio della madre di ego senza distinguere per generazione • sudanese: (sistema a massima distinzione terminologica) usa termini diversi per ogni parente di ego, biforcando ma distinguendo anche per sesso, generazione e gli altri criteri. 3.Le teorie della parentela Alla fine degli anni '40 Lévi-Strauss propone un tipo di analisi del tutto diverso (vedi cap. 5 strutturalismo). Accostando le più diverse forme di parentela, egli cerca di comprendere la loro "grammatica generativa"; una grammatica imperniata sul "principio di reciprocità" che struttura le alleanze matrimoniali. L'idea chiave della "teoria della discendenza", sviluppata tra gli anni '20 e i '60, è che nelle società primitive, i gruppi di discendenza unilineare rappresentino la base dell'organizzazione economica e politica. La discendenza forma gruppi corporali, che detengono il controllo del territorio e delle risorse, esprimono le principali istituzioni sociali ed esercitano le autorità sulle base genealogica. Questa teoria distingue dunque il sistema di discendenza, regno della politica, dal gruppo domestico o familiare, incentrato su valori e sentimenti morali e sulla regola della solidarietà. Nella "teoria dell'alleanza", introdotta da "Le strutture elementari della parentela" di Levi-Strauss, l'elemento essenziale della vita sociale è la reciprocità, e la sua forma più elementare è lo scambio matrimoniale (scambio ristretto nelle società dualistiche/scambio generalizzato in tre o più gruppi). Inoltre, Strauss distingue tra: - forme elementari: quelle di parentela e regole matrimoniali che prescrivono in modo stringente le persone con cui Ego si deve sposare; - forme complesse: quelle che si limitano ad alcune generali interdizioni, e la scelta matrimoniale avviene sulla base di criteri esterni alla struttura di parentela. La teoria della discendenza e quella dell'alleanza condividono 2 presupposti. 1)Per entrambe la parentela è una forma culturale autonoma e primaria, che si articola secondo propri criteri formali irriducibili a dimensioni diverse, come quelle economica e politica: la parentela viene prima, in quanto organizzazione delle fondamentali relazioni biologiche, e solo successivamente un ordine economico e politico. 2) entrambe le teorie sono accomunate dal ruolo passivo attribuito alle donne: le loro funzioni riproduttive, si ritiene, le confinino nella sfera domestica e impediscano loro l'accesso al campo della politica e delle istituzioni pubbliche. 2 critiche: - E.Leach dimostra che le scelte matrimoniali seguono regole strettamente intrecciate al potere e agli interessi economici. • Per C.Meillassoux dominio di classe e sfruttamento sono da ricercare nella struttura stessa della parentela e nelle relazioni di dipendenza che essa crea, soprattutto nei confronti delle donne, per mezzo della divisione sessuale del lavoro. La parentela è il modello primario delle relazioni economiche di sfruttamento. Queste critiche conducono a quella relativizzazione o decostruzione del concetto di parentela che abbiamo evocato all'inizio del capitolo. Per David Schneider, totemismo, complesso matrilineare e matriarcato, non esistono in alcuna cultura nota all'uomo. Sempre secondo Schneider ('72) vi sono sistemi di relazioni fra gli esseri umani, che condividono ambienti e pratiche quotidiane, ideologie o ontologie culturali locali, che spiegano queste relazioni. Tali culture locali possono essere 6.La famiglia Come la parentela, anche la famiglia è uno dei grandi e ricorrenti temi della ricerca e della riflessione antropologica. Sul delle regole matrimoniali si distingue: -la famiglia monogamica (si può avere un solo coniuge) -la famiglia poligamica (si possono avere più coniugi): poliginica (un uomo con + mogli)(largamente diffusa nel continente africano); poliandrica (una donna con + uomini) Sul piano delle dimensioni e della struttura della famiglia, si distingue: -famiglia nucleare (coniugi + figli) -famiglia estesa (f.nucleare + parenti non sposati) - famiglia multipla (+ nuclei: in senso verticale e orizzontale) Fino a un passato abbastanza recente, la famiglia multipla era largamente diffusa in alcune regioni d'Italia dominate dall'organizzazione mezzadrile del lavoro agricolo. I possidenti terrieri suddividevano le proprietà in unità di lavoro o poderi, assegnando ciascuno di essi ad una famiglia colonica in cambio della metà del raccolto prodotto. La famiglia mezzadrile coincideva in questo caso con l'unità produttiva, e doveva essere abbastanza estesa da coprire le esigenze di forza lavoro (non meno di 10 persone). In questo sistema erano perlopiù le donne che andavano a vivere con i suoceri abbandonando la famiglia di origine. Storicamente, in Italia questa forma di gruppo familiare domestico si esaurisce rapidamente nel secondo dopoguerra, con la scomparsa della mezzadria e con i fenomeni di urbanizzazione che posero al centro la famiglia nucleare. Negli anni del dopoguerra i nuclei familiari sempre meno numerosi, la tendenza a sposarsi ad avere figli in età più avanzata, la diminuzione del tasso di fecondità, il costante aumento di separazioni e divorzi, la creazione di gruppi domestici a reti parentali complesse, la sempre minor disponibilità sia di donne che di uomini ad anteporre le esigenze della famiglia a quelle della propria realizzazione personale e passionale, furono fattori che si stavano sviluppando e videro la famiglia sottoposta ad un profondo attacco ideologico da parte dei movimenti e delle culture di protesta. Su un versante del tutto diverso, sempre nel contesto del dopoguerra, il "familismo" era divenuto una delle principali categorie esplicative del sottosviluppo economico e sociale. In Italia, sulla scia dei lavori del sociologo Edward Banfield, si parlava di un "familismo amorale" come profonda caratteristica antropologica del mezzogiorno, causa delle difficoltà di modernizzazione economica e politica: tutti presi a massimizzare i vantaggi per il proprio gruppo familiare, i soggetti sociali sarebbero stati incapaci di costruire una società civile e di collaborare per il bene comune. In realtà, secondo la tesi sostenuta da Paul Ginsborg, la famiglia sembra semmai aver rappresentato un momento di difesa e resistenza rispetto all'invadenza degli Stati totalitari. Le tesi di Banfield sono state largamente superate, evidenziando casi in cui la famiglia è stata tutt'altro che amorale, giocando piuttosto un ruolo virtuoso nella promozione di valori civici ed esperienze cooperative. Malgrado la trasformazione radicale e gli attacchi subiti, la famiglia rappresenta ancora di gran lunga il più importante crogiuolo dei legami interpersonali e il luogo dei valori più sacri per gli individui. Mantiene nonostante tutto una funzione economica (sul piano produttivo come nel caso delle numerose imprese artigianali e commerciali a conduzione familiare) anche nella cosiddetta economia informale o morale (costruzione di reti di sostegno, dono, solidarietà, aiuto e collaborazione). I dati raccolti dall’Istituto Centrale di Statistica a cavallo degli anni 2000 mostrano una compattezza familiare straordinaria con le relazioni intergenerazionali che restano fortissime anche quando i figli escono dal nucleo familiare (frequentazione, forme di aiuto riguardanti prestazioni sanitarie, assistenza fornita bambini o adulti e anziani, ospitalità e accompagnamento, sostegno economico). Infine la ricerca Istat misura la coesione delle reti familiari attraverso la pratica dei ritrovi tradizionali (pranzi e cene) e dello scambio di doni o in occasione di ricorrenze e festività. Possiamo affermare che le reti di relazioni e solidarietà restano stabili o addirittura si rafforzano di fronte alla crisi delle forme tradizionali della famiglia. Il principio per cui alla maggiore “liquidità” dei rapporti si risponde con un accurato lavoro di ricucitura culturale, plasma anche altri aspetti delle forme di vita familiare contemporanea. Riti come le celebrazioni delle festività, sono occasioni di ricomposizione domestica, che privilegiano le relazioni con vaste reti parentali; sono organizzate attorno a forme di consumo vistoso del cibo, irradiatori di valori e significati all'interno del gruppo familiare. La memoria culturale assume anche in famiglia la sua classica forma del conservare, archiviare, collezionare; gli studi sulla cultura materiale domestica, vale a dire sugli oggetti ordinari che popolano gli ambienti di vita quotidiana, mostrano la costante presenza nelle case di costruzioni memoriali che rimandano a una continuità del gruppo familiare. In sintesi, dunque, lo scenario del nostro presente sembra essere quello di una parentela e una famiglia che si sono indebolite come strutture normative portanti della compagine sociale, ma che resistono e anzi si rafforzano come strutture di sentimento. Legami non più obbligatori, le forme di questa relatedness sono spesso nuove e mutevoli aperture alle unioni di fatto. Il fenomeno delle separazioni e delle nuove unioni danno luogo a reti assai estese di parentele acquisite. Le cosiddette unioni Arcobaleno possono essere eversive di una morale sessuale tradizionale, ma certo non lo sono nei confronti dei modelli classici di famiglia nonché dell’”amore romantico”.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved