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Antropologia culturale - Schultz & Lavenda, Dispense di Antropologia

Riassunto del libro antropologia culturale

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 05/09/2022

gallettediriso15
gallettediriso15 🇮🇹

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Scarica Antropologia culturale - Schultz & Lavenda e più Dispense in PDF di Antropologia solo su Docsity! ANTROPOLOGIA CULTURALE – Schultz & Lavenda Che cos’è la prospettiva antropologica? (cap. 1) L’antropologia può essere definita come lo studio della natura umana, della società umana, del passato umano. Essa è olistica, ovvero si sforza di integrare tutto ciò che si conosce riguardo gli esseri umani e le loro attività. Comparativa, ovvero per formulare generalizzazioni sulla natura, società e passato umano, occorre trovare prove tratte dalla più ampia gamma possibile di società umane. È basata sulla ricerca sul campo, ciò significa che, la raccolta di dati avviene a diretto contatto con le persone, i siti o gli animali a cui sono interessati. Infine è evolutiva, in quanto gli antropologi sono interessati a documentare e spiegare i cambiamenti che hanno avuto luogo nel corso del tempo nel passato umano. Gli antropologi esaminano l’evoluzione biologica della specie umana documentando come sono cambiati nel tempo le caratteristiche fisiche e i processi vitali degli esseri umani. Per lungo tempo si sono interessati anche all’evoluzione culturale, occupandosi dei cambiamenti avvenuti nel tempo alle credenze, ai comportamenti e agli oggetti materiali che plasmano lo sviluppo degli uomini e la vita sociale. Uno dei contributi più importanti dell’antropologia è stato quello di aver dimostrato che l’evoluzione biologica non coincide con quella culturale. Che cosa intendiamo con il concetto di cultura? La cultura è l’insieme di idee e comportamenti appresi che gli esseri umani acquisiscono in quanto membri della società, insieme agli artefatti e alle strutture materiali che gli umani creano e usano. La nostra eredità culturale permette a noi umani di adattarci al mondo, di trasformarlo attraverso le connessioni che stabiliamo con altre persone, le azioni dei nostri corpi e le idee e valori delle nostre menti. Il concetto di cultura è fondamentale per spiegare perché gli esseri umani sono ciò che sono e fanno ciò che fanno. Gli antropologi sono capaci di dimostrare che membri di un certo gruppo sociale si comportano in un certo modo, non perché quel modo di agire sia programmato dai loro geni, ma perché hanno osservato altre persone o interagito con queste e imparato a mettere in atto anche loro lo stesso comportamento. Gli esseri umani sono organismi bioculturali, la nostra costituzione biologica, è il prodotto di processi di sviluppo a cui i nostri geni e la nostra chimica cellulare danno un contributo fondamentale; inoltre essa ci rende capaci di creare e usare la cultura. Al tempo stesso, la nostra sopravvivenza come organismi biologici dipende da modi appresi di pensare e agire. Infine gli antropologi stanno prestando un’attenzione crescente al ruolo giocato dalla cultura materiale nelle vite degli esseri umani, enfatizzando il fatto che i modi in cui le persone si relazionano agli artefatti è modellato dai significati culturali che attribuiscono a tali artefatti. L’antropologia nordamericana è stata tradizionalmente suddivisa in quattro branche: antropologia biologica, antropologia culturale, antropologia linguistica, archeologia. Antropologia biologica Dal 19esimo secolo, gli antropologi hanno studiato gli esseri umani come organismi viventi per scoprire che cosa li rendeva diversi dagli altri animali, oppure simili ad essi. Alcuni ricercatori elaborarono delle tecniche complicate per misurare varie caratteristiche osservabili (colore della pelle, dei capelli, corporatura) delle popolazioni, sperando di scoprire prove scientifiche che avrebbero permesso loro di incasellare tutti i popoli del mondo in una serie di categorie, basate su specifiche combinazioni di caratteri biologici. Tali categorie furono chiamate razze. Per prima cosa, gli scienziati europei applicarono le categorie razziali ai popoli della stessa Europa, ma ben presto si estesero ai popoli non europei sotto il dominio politico/economico delle società capitaliste in piena espansione. Questi popoli differivano dai “bianchi” europei non solo a causa della colorazione più scura della pelle, ma anche per i loro linguaggi e costumi inconsueti. Durante il 19esimo secolo, naturalisti influenti ampliarono questa concezione di razza, classificando le popolazioni in base alle dimensioni del cervello. Ovviamente i cervelli dei “bianchi” europei e nordamericani risultarono più grandi, mentre le altre razze avevano gradi variabili di inferiorità (africani al gradino più basso). Queste conclusioni servirono a giustificare la pratica sociale del razzismo, ovvero la sistematica oppressione dei membri di una o più “razze” socialmente definite da parte degli appartenenti ad un’altra “razza” socialmente definita, che viene giustificata sulla base della presunta superiorità biologica intrinseca dei dominatori e dell’altrettanto presunta inferiorità biologica intrinseca dei dominati. All’inizio del 20esimo secolo alcuni antropologi cominciarono a sostenere che la razza è un’etichetta culturale inventata dagli esseri umani per classificare le persone in gruppi e che le razze, intese come insiemi distinti e unici di attributi biologici, non esistono. Questa nuova visione introdusse quella che chiamiamo antropologia biologica, molto diversa dalla vecchi antropologia fisica legata alla classificazione razziale. Antropologia culturale Dagli inizi del 20esimo secolo, gli antropologi si sono resi conto che la biologia razziale non poteva spiegare perché le persone non vestono nello stesso modo, parlano la stessa lingua, pregano lo stesso dio o mangiano insetti a cena; doveva esserci qualcos’altro a cui attribuire la responsabilità di queste variazioni, ovvero la cultura. Verso la fine del 20esimo secolo, gli antropologi hanno cominciato regolarmente a distinguere tra il sesso (caratteristiche fisiche osservabili che distinguono i due tipi di esseri umani, femmine e maschi, necessari per la riproduzione biologica) biologico di cui un individuo si ritrovava dotato e i ruoli di genere (costruzione culturale delle credenze e dei comportamenti), modellati dalla cultura, considerati appropriati per ciascun sesso in una data società. Alcuni antropologi studiano i modi in cui particolari gruppi di esseri umani si organizzano per portare a termine compiti collettivi, e l’enfasi su questi temi porta l’antropologia culturale ad assomigliare molto alla sociologia. Ciò che le differenzia era l’interesse antropologico per la comparizione tra forme differenti di vita sociale umana. Oggi, gli antropologi sono impegnati a studiare tutte le società umane e rifiutano le etichette di civilizzato e di primitivo per la stessa ragione per cui rifiutano il termine razza. Dal momento in cui gli antropologi hanno iniziato ad acquistare sempre più consapevolezza rispetto a come le influenze socioculturali si diffondono nello spazio producendo effetti diversi nelle comunità locali, è cresciuta anche la loro sensibilità riguardo al modo in cui tali pratiche culturali di coloro che li circondano che gli esseri umani giungono a padroneggiare gli appropriati modi di agire e pensare necessari ad assicurarne la sopravvivenza. Infine, la cultura ha carattere simbolico. Un simbolo è qualcosa che sta per qualcos’altro. Le lettere dell’alfabeto per esempio simboleggiano i suoni del linguaggio parlato. Suoni uguali o simili sono rappresentati simbolicamente da lettere molto differenti negli alfabeti latino, cirillico, ebraico, arabo e greco, per nominarne solo cinque. Il linguaggio, però, non è l’unico ambito della cultura che dipende da simboli. Qualunque cosa facciamo possiede una dimensione simbolica, da come ci comportiamo a tavola, a come seppelliamo i morti. Le scimmie antropomorfe (gorilla, oranghi) possiedono apparentemente una rudimentale capacità di codificazione simbolica, cosa che, senza alcun dubbio, possedevano anche i nostri antenati. Le nuove specie, però, possono sviluppare nuove capacità che non si riscontrano nei loro progenitori. Ciò è avvenuto, nel passato umano, quando i nostri antenati svilupparono per la prima volta l’attitudine alla rappresentazione simbolica complessa, che comprende la capacità di comunicare liberamente sul passato, futuro e l’invisibile. La cultura e il cervello dell’uomo sono coevoluti. Una componente di questa coevoluzione è stata sicuramente la cultura materiale, che ha trasformato gli ambienti a cui i nostri antenati si stavano adattando attraverso un processo chiamato costruzione di nicchia. Abbiamo usato le nostre elaborate abilità simboliche per creare ciò che Potts chiama istituzioni: forme complesse, variabili e persistenti di pratica culturale, che organizzano la vita sociale. Cultura, storia e agency umana La cultura, in quanto parte della condizione umana, ha carattere storico, essendo rielaborata e ricostruita di generazione in generazione. La nostra eredità bioculturale ha prodotto una specie vivente che usa sia la cultura intesa come insieme di significati che la cultura materiale per superare le limitazioni biologiche e individuali. Le persone lottano regolarmente, spesso contro grandi ostacoli, per esercitare una qualche forma di controllo sulle loro vite (donne di Plaza de Mayo). Gli esseri umani che si attivano in questo modo sono definiti agenti, questi esercitano la loro agency umana, una capacità di azione che si esprime attraverso l’elaborazione di interpretazioni, la formulazione di obiettivi e la preparazione di ciò che serve per perseguirli. Il punto di vista antropologico chiamato olismo muove dall’assunto che non esistono confini netti a separare la mente dal corpo, il corpo dall’ambiente, l’individuo dalla società, le mie idee dalle nostre idee o le loro tradizioni dalle nostre tradizioni. L’olismo è concepito come una prospettiva sulla condizione umana in cui si ritiene che il tutto sia superiore alla somma delle sue parti. Per esempio, gli esseri umani sono entità viventi complesse e dinamiche, trasformate dai geni, dalla cultura e dall’esperienza in entità le cui proprietà non possono essere ridotte ai materiali con i quali sono state costituite. Gli esseri umani che si sviluppano e vivono insieme in gruppi plasmati da modelli culturali sono profondamente influenzati dalle esperienze culturali condivise; diventano differenti da quelli che sarebbero stati se fossero maturati in isolamento. Modo utile di concepire le relazioni tra le parti che formano un insieme è in termini di coevoluzione. Un approccio coevolutivo alla condizione umana sottolinea il fatto che gli organismi umani, il loro ambienti fisico, i loro manufatti e le loro pratiche simboliche si codeterminano a vicenda; con il passare del tempo possono anche coevolvere insieme. Perché contano le differenze culturali? Gli stessi oggetti, azioni o eventi hanno spesso un significato diverso per le persone di culture differenti. Ciò fu illustrato dall’esperienza di alcuni volontari dei Corpi di pace operanti in Africa meridionale. Nei primi anni 70, l’ufficio dei Corpi di pace in Botswana era preoccupato per il numero di volontari che apparivano “esauriti”: non riuscivano ad assolvere i propri compiti, abbandonavano i villaggi ai quali erano stati assegnati e sviluppavano una crescente ostilità verso gli Tswana che lo stavano ospitando. Alverson, un antropologo, scoprì che uno dei maggiori problemi che avevano i volontari del Corpo di pace riguardava proprio il fatto che azioni simili avevano significati completamente differenti. I volontari si lamentavano che gli Tswana non li lasciavano mai soli e questo li faceva arrabbiare, perché per loro chiunque ha diritto ad un po' di privacy. Per gli Tswana invece, la vita umana è vita sociale e le uniche persone che vogliono stare sole sono le streghe o i pazzi. Che cos’è l’etnocentrismo? Etnocentrismo è il termine che gli antropologi usano per definire l’opinione secondo cui il proprio modo di vita è naturale o giusto, l’unico modo per essere pienamente umani. A volte individuiamo correttamente significative aree di sovrapposizione culturale, ma altre volte restiamo shoccati dalle differenze in cui ci imbattiamo. È possibile che finiamo con il pensare che se il nostro modo è giusto, quello degli altri non può che essere sbagliato. I membri di una società possono decidere che l’altro modo di vita è sbagliato, ma non fondamentalmente cattivo, e che i membri dell’altro gruppo possono essere convertiti al loro stesso modo di fare le cose. Se, però, gli altri non sono inclini a mutare condotta, può generarsi un dualismo attivo. Il risultato ultimo può essere la guerra e il genocidio. È possibile evitare il pregiudizio etnocentrico? Un modo per affrontare tale questione consiste nell’evitare di vedere relazioni tra individui con cultura differente come fondamentalmente differenti dalle relazioni tra individui con cultura molto simile. Le persone dotate di un retroterra culturale diverso dal nostro possono aiutarci a intravedere la possibilità di credenze e azioni in contrasto con tutto quanto la nostra tradizione considera accettabile. In questo modo diventiamo persone diverse. Che cos’è il relativismo culturale? Il relativismo culturale può essere definito come “la comprensione di un’altra cultura nei suoi propri termini in maniera sufficientemente empatica da farla apparire come un progetto di vita coerente e dotato di senso”. Il fine del relativismo culturale consiste nel promuovere la comprensione delle pratiche culturali, in particolare quelle che un estraneo trova sconcertanti o incoerenti. In tutto il mondo sono diffusi rituali che iniziano ragazzi/e alla vita adulta. In alcune zone questo comporta il taglio dei genitali. Per esempio gli esperti del rituale possono asportare il prepuzio del pene degli adolescenti. Nel caso delle ragazze, il taglio rituale può limitarsi ad un’incisione sul clitoride con un coltello per fare uscire sangue. Vi sono casi, però, in cui l’intervento chirurgico è molto più estremo; il clitoride può essere asportato (o escisso), procedura chiamata clitoridectomia. In alcune parti dell’Africa orientale, l’intervento è ancora più estremo: le piccole e parte delle grandi labbra vengono escisse insieme al clitoride e la pelle rimanente viene suturata così che si formi una cicatrice che chiude parzialmente l’apertura vaginale (circoncisione faraonica o infibulazione). Quando queste donne si sposano o devono partorire è possibile che occorra una nuova operazione per allargare l’apertura vaginale. Taglio genitale, genere e diritti umani Le donne appartenenti a società nelle quali la mutilazione genitale femminile è tuttora praticata, nonostante per la maggior parte si stia impegnando attivamente per scoraggiare queste pratiche, ritengono che quando degli osservatori esterni condannano pubblicamente i rituali tradizionali africani come la clitoridectomia e l’infibulazione, le loro iniziative possono fare più male che bene. A partire dalla metà degli anni 90, la crescente consapevolezza in merito a questa pratica e la pubblica condanna in cui è incorsa hanno portato all’approvazione di leggi che criminalizzano il taglio genitale femminile in 15 stati africani e in 10 nazioni industrializzate. Inoltre esistono organizzazioni no-profit che offrono assistenza legale, considerando il taglio genitale femminile alla stregua di una violazione dei diritti umani. Tuttavia gli sforzi per proteggere donne e ragazze possono rivelarsi controproducenti quando madri immigrate che cercano di far eseguire alle loro figlie il taglio rituale vengono stigmatizzate dai mezzi di comunicazione come persone che “mutilano” o “maltrattano minori” e scoprono che questa pratica è considerata reato grave. Il taglio genitale come rituale apprezzato Janice Boddy, antropologa culturale, ha condotto uno studio etnografico, svolgendo ricerche sul campo nel villaggio musulmano di Hofriyat, Sudan, dove la chirurgia genitale femminile viene eseguita durante l’infanzia. In quel villaggio le circoncisioni venivano eseguite tanto sui ragazzi quanto sulle ragazze, ma il rituale assumeva significati differenti. Una volta circonciso, un ragazzo compie un passo verso l’età della virilità, mentre una ragazza non sarà donna fino a quando non si sposa. La circoncisione femminile è necessaria per far si che la ragazza sia maritabile, dal momento che la rende fertile. Tra le diverse giustificazione offerte per l’infibulazione, Boddy rilevò che quelle più significative nel villaggio di Hofriyat, erano preservare la castità e porre un freno al desiderio sessuale femminile. Le donne che ebbe modo di conoscere Boddy, descrivevano i corpi femminili infibulati come puliti, lisci e puri. Boddy ha concluso dunque che il rituale era meglio compreso come un modo di socializzare la fertilità femminile e di trasformare le donne infibulate in potenziali “madri di uomini”. Infine Boddy scoprì che la purezza, la pulizia e la levigatezza associate al corpo femminile infibulato venivano associate anche ad oggetti riscontrabili nelle usanze quotidiane del villaggio. Per esempio, la fertilità femminile era associate a “cibi puliti” come uova, gusci di uova di struzzo e zucche, che assomigliavano a gusci di uova di struzzo. La forma di uova di struzzo, con il suo minuscolo orifizio, corrisponde a quella idealizzata del ventre della donna circoncisa. Cultura e ragionamento morale Una comprensione relativistica del taglio genitale femminile serve, dunque, a più scopi. Rende la pratica comprensibile e persino coerente. Rivela come un procedimento pericoloso possa apparire del tutto accettabile, indispensabile, quando è inserito in un della polizia. Non tutti i luoghi in cui si fa ricerca propongono un contrasto così netto con il retroterra di ceto medio di tanti ricercatori. Dovunque, però, ci si può attendere di dover fare i conti con un senso di spaesamento fisico e mentale, e con lo stress; col tempo però, iniziano ad adattarsi e ritmi dell’attività quotidiana divengono familiari. Di questi tempi, i computer portatili, le fotocamere digitali, le videocamere e i registratori digitali sono considerati indispensabili per registrare i dati raccolti. L’etnografo raccoglie informazioni, le mette per iscritto, ci riflette, le analizza e poi riporta nuovi interrogativi e interpretazioni alle persone con cui sta lavorando. Ci si deve rendere conto, però, che anche le migliori note di campo non sono etnografie, ovvero libri pubblicati o articoli basati sulla ricerca antropologica svolta sul campo. L’approccio positivista Il metodo tradizionale delle scienze naturali oggi è spesso definito scienza positivistica. Il positivismo si propone di spiegare come funziona il mondo materiale rifacendosi a cause e processi materiali rilevabili con l’uso dei 5 sensi. Inoltre i positivisti si affidano ad una metodologia scientifica che separa i fatti dai valori e altra caratteristica del positivismo è la convinzione secondo cui si possa usare un unico metodo scientifico per investigare qualsiasi dominio della realtà. Sulla base di queste premesse, l’obiettivo del programma positivista è stato quello di produrre una conoscenza oggettiva, che sia vera per tutti in qualsiasi epoca e qualsiasi luogo. Che cosa non andava nel positivismo? Inizialmente, l’etnografia positivista esigeva che gli antropologi scrivessero sugli esseri umani come se non fossero per nulla diversi da rocce o molecole. A partire dagli anni 70-80 gli antropologi iniziarono a scrivere etnografie che mettevano in luce i modi in cui il loro coinvolgimento con gli altri sul campo aveva contribuito alla crescita di una conoscenza interculturale. Iniziarono a trattare i loro informatori come esseri umani a tutti gli effetti e dovettero anche iniziare a vedere se stessi come esseri umani a tutti gli effetti, non come registratori impersonali. Questi requisiti per una ricerca sul campo scientifica, implicano, però, che gli antropologi non possano più accettare gli assunti fondamentali della ricerca positivista, senza porsi delle domande. Gli antropologi riuscirono a dimostrare come osservatori diversi, partendo da assunti diversi, producano spesso conoscenze diverse sulla stessa società. Prendiamo ad esempio la ricerca sul campo che Annette Weiner ha svolto nelle Isole Trobriand negli anni 70, quasi sessant’anni dopo che Bronislaw Malinowski vi condusse la sua originale ricerca sul campo. Weiner ha dato un importante contributo alla nostra comprensione della vita nelle Trobriand descrivendo le attività riguardanti la “ricchezza” delle donne trobriandesi, essenziali al mantenimento di un sano funzionamento della vita nelle isole, aspetto su cui Malinowski non aveva scritto nulla. I suoi interessi avevano indotto Malinowski a scrivere di aspetti della vita trobriandese diversi da quelli sui cui si era focalizzata Weiner. Di conseguenza egli ha lasciato un ritratto della società trobriandese che Weiner, in seguito, si sentì di dover integrare. Il ripensamento della ricerca sul campo portò a prestare maggiore attenzione alle dimensioni etiche e politiche delle relazioni che gli antropologi stabiliscono con i loro informatori. Spesso coloro che mettono in dubbio i metodi positivisti vengono accusati di trasformare la ricerca sul campo in impressioni soggettive sugli altri. Ma i dati raccolti sul campo non sono, soggettivi, bensì intersoggettivi: sono il prodotto di lunghi dialoghi tra ricercatore e informatore. L’approccio riflessivo Al centro della ricerca sul campo vi è la gamma di significati intersoggettivi che gli informatori condividono. Al fine di rendere espliciti tali significati l’antropologo e l’informatore, di tanto in tanto, devono fare insieme un passo indietro rispetto al flusso ordinario della vita quotidiana ed esaminarli criticamente. Devono riflettere sul modo in cui i membri di una certa cultura concepiscano le proprie vite. Questo riflettere sul riflettere è conosciuto come riflessività, cosicchè l’esperienza della ricerca sul campo in antropologia culturale è un’esperienza riflessiva. Una ricerca sul campo riflessiva continua a tenere in gran conto la raccolta di informazioni, che devono essere dettagliate e accurate, ma presta anche attenzione al contesto etico e politico della ricerca, al retroterra dei ricercatori, al pieno coinvolgimento degli informatori e alle relazioni collaborative che si instaurano. La ricerca sul campo riflessiva prende in considerazione una gamma di informazioni contestuali più vasta rispetto a quanto non faccia la ricerca positivista. La conoscenza etnografica, modellata dalla riflessività dell’etnografo, va dunque concepita come una conoscenza situata, prodotta sulla base di conoscenze parziali di specifici etnografi che lavorano con specifici informatori, le cui relazioni reciproche sono plasmate da particolari contesti etici e politici. L’adozione del metodo riflessivo rende gli studiosi obbligati a rendere pubblico il modo in cui hanno raccolto i dati. Alcuni antropologi sostengono che si debba includere nelle etnografie che vengono pubblicate, le riflessioni dei propri informatori su tali conclusioni. La ricerca sul campo può essere multisituata? I cambiamenti che hanno coinvolto tutto il mondo, specialmente negli anni 80-90, hanno portato molti antropologi a concludere che le loro conoscenze etnografiche sarebbero state incomplete, se avessero circoscritto la ricerca a un unico contesto, anche qualora fossero rimasti fedeli alla prospettiva riflessiva. Intorno ai primi anni 90, vi sono stati il collasso dell’Unione Sovietica, l’avvento del capitalismo in Cina e stravolgimenti politici ed economici in tutto il mondo, tali da stimolare una straordinaria ondata migratoria su scala internazionale. In questo contesto, molti antropologi cominciarono a sviluppare un nuovo approccio all’etnografia chiamato ricerca sul campo multisituata, in cui gli etnografi si focalizzano su processi culturali che non sono circoscrivibili entro confini sociali, etnici, religiosi o nazionali, seguendo tali processi da un sito all’altro, spesso facendo ricerca di campo in luoghi e con persone che tradizionalmente non sono mai stati sottoposti ad analisi etnografica. Gli etnografi dell’approccio multisituato seguono persone, cose, metafore, storie e vite. Tra gli etnografi che seguono le persone, si annoverano quelli che studiano turisti o migranti. La ricerca di Philippe Bourgois nell’Harlem spagnolo comportò questo genere di lavoro: sebbene il suo quotidiano lavoro di ricerca sul campo fosse focalizzato principalmente sul quartiere in cui vivevano gli spacciatori di crack, Bourgois li ha seguiti fuori da El Barrio, quando cercavano lavoro in altre parti di NYC. Inoltre ha visitato le località del Portorico da cui i loro genitori e nonni erano emigrati verso gli USA. Arricchì, inoltre, l’osservazione partecipante con una ricerca sulla storia dell’Harlem spagnolo, collocando così il quartiere nel contesto sempre mutevole di NYC, modellato da processi più vasti come l’immigrazione, le forme di occupazione e la perdita di lavoro. Che cos’è la dialettica della ricerca sul campo? La ricerca sul campo è una faccenda rischiosa. Chi la fa, non solo rischia di offendere i propri informatori equivocando il loro modo di vita, ma affronta anche lo shock dell’inconsueto e la propria vulnerabilità. L’antropologo Michael Agar usa l’espressione punti ricchi per definire i momenti inattesi in cui emergono problemi nella comprensione interculturale. Per esempio mentre stava facendo ricerca sul campo in India negli anni 60, Agar aveva pianificato di camminare da suo villaggio a un villaggio vicino verso la metà del giorno. L’uomo che cucinava per lui gli preparò il pranzo da portar via, lo avvolse in un panno e vi mise sopra un piccolo pezzo di carbone. Questo gesto catturò l’attenzione di Agar che non ne comprendeva il significato, chiese allora al cuoco il perché di quel pezzo di carbone e ricevette una sola parola di risposta: “spiriti”. Gli spiriti erano particolarmente attivi a metà giornata e le persone sole erano vulnerabili agli attacchi degli spiriti; il carbone era un note repellente. Il carbone è stato un punto ricco per Agar, poiché segnalava che c’era qualcosa che loro comprendevano e lui no, e che c’era dunque bisogno di fare chiarezza. Interpretazione e traduzione: aspetti importanti della ricerca Abbiamo bisogno di una forma di interpretazione che non riduca i nostri informatori a oggetti, ciò significa che deve essere basata sulla riflessività, anziché sull’oggettività. Per l’antropologo sul campo, il compito dell’interpretazione è arrivare a comprendere il sé culturale passando per la comprensione dell’altro culturale. Di fatto, antropologi e informatori si trovano faccia a faccia, osservando e discutendo gli stessi oggetti e le stesse attività. All’inizio parlano senza capirsi da momento che ciascuno descrive le attività da una prospettiva differente e usando un linguaggio differente. Una discussione costante permette all’antropologo e all’informatore di andare alla ricerca di modi per comunicare riguardo a ciò che sta avvenendo intorno a loro. Questo processo di costruzione di un ponte di comprensione tra sé e l’altro è ciò che Rabinow definisce dialettica della ricerca sul campo. Per esempio la tradizionale ricerca sul campo spesso inizia raccogliendo dati su come le persone della comunità locale si considerano imparentate tra loro. Quando il ricercatore sul campo inizia a porre le sue domande sulle relazioni sociali, può scoprire che nella lingua degli informatori non esiste alcuna parola che corrisponda esattamente alla gamma di significati trasmessi da termini come parentela o gruppo etnico. A questo punto l’antropologo deve entrare nel processo dialettico di interpretazione e traduzione. Il processo funziona così: l’antropologo fa domande sui “gruppi etnici” utilizzando un termine nella lingua degli informatori che sembri avere un significato simile a quello di gruppo etnico nella sua lingua. Gli informatori si sforzano di interpretare la domanda in un modo che abbia senso per loro. Una volta che si è dato una risposta, l’informatore risponde in termini che ritiene comprensibili per l’antropologo. Ora tocca a quest’ultimo interpretare la risposta ricevuta. Se vi è buona volontà da entrambe le parti, allora ciascuno tenterà di fornire risposte che abbiano un senso per l’interlocutore. L’esperienza di Rabinow illustra quello che egli chiama lo shock culturale, talvolta gli antropologi scoprono che la ricerca sul campo assume un tono tutt’altro che piacevole e sereno. Per molti antropologi, ciò che la caratterizza, almeno nelle prime fasi, è l’ansia: l’ansia di un individuo isolato che non ha nulla di familiare a cui riferirsi, che non può contare su alcun senso comune e che non ha relazioni che possano essere dato per scontate. Da dove viene la conoscenza antropologica? La dialettica della ricerca sul campo comporta spesso prolungate discussioni su che cosa si possa esattamente considerare come i “fatti” che costituiscono la conoscenza antropologica. I fatti si rivelano fenomeni complessi, da una parte asseriscono la verità di un certo stato di cose a proposito del mondo. Dall’altra, l’analisi riflessiva ci ha insegnato che è estremamente importante sapere chi ci dice che x è un fatto, perché i fatti non parlano da soli, bensì devono essere interpretati e posti in un contesto di significato che li rende intelligibili. I fatti sono costantemente costruiti e ricostruiti sul campo, quando i ricercatori riesaminano le note di campo e riflettono, più tardi, sull’esperienza vissuta, e quando scrivono le loro esperienze o le discutono con altri. La conoscenza antropologica è illimitata? Non esiste alcuna conoscenza puramente oggettiva e quando gli esseri umani sono contemporaneamente soggetti e oggetti di studio occorre parlare di riflessività piuttosto che di oggettività. Coltivare la riflessività ci consente di produrre prospettive meno distorte sulla natura e sulla condizione umana. Il resoconto etnografico è e deve essere incompiuto: gli esseri umani sono sistemi aperti, la storia umana continua, i problemi e le loro possibili soluzioni mutano. Inoltre mentre il contatto con l’altro si prolunga, possiamo sempre apprendere qualcosa di più. Gli esseri umani, sono organismi aperti, dotati di un’elevata capacità di apprendere cose nuove. Questo è significativo perché anche se non potremo mai conoscere tutto, non sembra che le nostre attitudini alla comprensione di noi stessi e degli altri siano destinate a esaurirsi presto. Ciò avviene non solo perché siamo aperti al cambiamento, ma anche perché la nostra cultura e l’ambiente che ci circonda possono mutare e continueranno a farlo finché continuerà la storia umana. Cosa ci insegna l’antropologia sulla religione e sui modi di vedere il mondo?(cap.7) Nel 1976, poco tempo dopo essere arrivati a Guider, in Camerun, Emily A. Schultz e Robert H. Lavenda, acquistarono una bicicletta. Dopo circa un mese la bicicletta fu rubata e si recarono alla gendarmerie per sporgere denuncia. Un mese più tardi, mentre Levenda stava parlando con Amadou, 19enne appartenente al gruppo etnico Ndjegn, il ragazzo menzionò il fatto che i Ndjegn erano famosi per il potere della loro magia, e che suo fratello maggiore era un potente mago. Una delle magie che sapeva fare era quella di far restituire le proprietà rubate, Amadou disse all’antropologo che non glielo avevo detto prima perché pensava che i bianchi non credessero affatto a queste cose e che quindi gli avrebbero riso in faccia. Lavenda voleva sapere che cosa sarebbe accaduto al ladro se il fratello di Amadou avesse compiuto il suo sortilegio, e il suo informatore rispose che lo stomaco comincerà a fargli male e se non restituirà la bicicletta entro due settimane, il suo stomaco si gonfierà fino ad esplodere e lui morirà. Allora Levanda disse che voleva venisse fatta la magia. Erano ormai passate tre settimane, ma la bicicletta non ricomparve e l’antropologo chiese spiegazioni ad Amadou, il quale gli spiegò che la magia non poteva funzionare perché era passato troppo tempo dal giorno del furto, e che avrebbe funzionato solo se fatta subito dopo il furto; inoltre il ladro si trovava in Nigeria, troppo lontano per essere raggiunto dalla magia. Levanda non capiva come un ragazzo sveglio, diffidente verso gli imbrogli potesse credere alla magia. Gli antropologi si interessarono quindi a ciò che fa funzionare una magia, e la consueta spiegazione antropologica è che la magia funziona quando le persone che credono nel suo potere scoprono che è stata fatta contro di loro. Dopo tutto, in Camerun, si soffre spesso di mal di stomaco. Molti a Guider, sapevano che la magia era stata fatta e solo un disperato avrebbe corso il rischio di veder esplodere il proprio stomaco; in questo caso però, il ladro allontanatosi da un pezzo, non sapeva nulla dell’incantesimo contro di lui e la distanza aveva neutralizzato l’effetto. Che cos’è una visione del mondo? Sebbene non vi sia nessun insieme di credenze o di pratiche culturali perfettamente integrato e privo di contraddizioni, gli antropologi ritengono che la cultura non sia solo un’accozzaglia di elementi senza alcune relazione tra loro. In qualsiasi società la cultura tende a produrre modelli ricorrenti, infatti i membri di una stessa società fanno uso di assunti condivisi riguardo al modo in cui funziona il mondo. Interpretando le proprie esperienze quotidiane alla luce di questi assunti, le persone riescono a dare un senso alle loro vite. Le risultanti immagini generali con cui viene abbracciata l’intera realtà sono chiamate visioni del mondo. In una stessa società possono coesistere molte visioni del mondo. In che modo gli antropologi studiano le visioni del mondo? Le persone si servono ovunque di simboli per ricordare a loro stesse le convinzioni che considerano significative e le connessioni esistenti tra di esse. Un simbolo è qualche cosa che sta per qualcos’altro. Alcuni simboli, che Sherry Ortner chiama simboli riassuntivi, rappresentano un intero dominio semantico e ci invitano a considerarne i vari elementi all’interno. Altri, chiamati simboli elaborativi, rappresentano soltanto un elemento di un dominio e ci invitano a collocare tale elemento in un più ampio contesto semantico. I simboli riassuntivi rappresentano per le persone in un modo potente dal punto di vista emozionale, ciò che il sistema significa per loro. Per esempio, la bandiera degli USA rappresenta il modo d’essere americano il quale, però, è un insieme complesso di idee che comprende cose come il patriottismo, democrazia, lavoro duro, libera impresa, progresso, superiorità nazionale, torta alle mele e relazione materna. La potenza simbolica della bandiera però è a doppio taglio: per alcuni cittadini americani inclusi, questa stessa bandiera rappresenta l’imperialismo, razzismo, opposizione alla legittima lotta di popoli sfruttati e il sostegno a dittature di destra. La cosa più strana è che per molti americani divenuti maggiorenni negli anni 60, la bandiera riassume tutte queste cose per quanto siano in contraddizione tra loro. I simboli elaborativi sono essenzialmente analitici, forniscono alle persone le categorie per pensare a come è ordinato il loro mondo. Consideriamo i Dinka, popolo di pastori dell’Africa orientale, il bestiame fornisce loro la maggior parte delle metafore che usano per pensare l’esperienza. La percezione che hanno del colore, della luce e dell’ombra è connessa ai colori che vedono nel bestiame. Metafore chiave nella costruzione delle visioni del mondo Spesso visioni del mondo che ci appaiono inconsuete risultano più comprensibili se siamo capaci di cogliere le metafore chiave su cui si fondano. Le metafore chiave riguardano aree dell’esperienza quotidiana che più si associano all’ordine, alla regolarità e alla prevedibilità. Esistono tre importanti immagini di ordine e stabilità che hanno regolarmente fornito le metafore chiave per le visioni del mondo. Le prime sono quelle che chiamiamo metafore sociali. In molte epoche e in luoghi diversi le relazioni sociali umane hanno offerto un grande esempio di ordine, regolarità e prevedibilità. In tali società si ritiene che l’universo e la società funzionino sulla base degli stessi principi. Una seconda immagine di ordine e stabilità deriva dalle metafore organiche basate sulla conoscenza degli organismi viventi. I progressi compiuti dai biologi indussero gli studiosi di scienze sociali a concepire le società e le lingue come organismi viventi. Molti teorici nel 19esimo secolo si servirono di metafore organiche per analizzare lo sviluppo storico delle lingue o delle civiltà, pensandole in termini di nascita, giovinezza, maturità, riproduzione, vecchiaia e morte. Di contro, nel 20esimo secolo, si ricorse ad una diversa metafora organica per elaborare una prospettiva scientifica della società detta funzionalismo. I funzionalisti richiamarono l’attenzione sul fatto che fosse possibile suddividere un organismo in vari sistemi (digerente, riproduttivo, respiratorio ecc), ognuno dei quali svolgeva una funzione specifica. Le metafore tecnologiche usano le macchine costruite dagli esseri umani come predicati metaforici, man mano che la scienza e la tecnologia si sono sviluppate e modificate, diverse metafore meccaniche si sono succedute l’una all’altra. Per esempio, nel mondo di Isaac Newton, 17esimo secolo, i modelli dell’universo si basavano sull’artefatto più complesso realizzato in quell’epoca: l’orologio meccanico a molla. Nella seconda metà del 20esimo secolo, la metafore informatiche hanno acquistato popolarità presso alcuni scienziati impegnati nello studio del funzionamento della mente. Che cos’è la religione? Secondo Bowen la religione è un insieme di idee e di pratiche che postulano una realtà al di là di quella immediatamente accessibile ai sensi. Gli studiosi hanno spesso argomentato che una religione differisce da altri tipi di visione del mondo perché presume l’esistenza di un dominio soprannaturale: un mondo invisibile popolato da uno o più esseri dotati di un potere superiore a quello degli uomini e capaci di influire sugli eventi del mondo umano “naturale”. L’antropologo A.F.C. Wallance ha proposto, infatti, un insieme di categorie minime del comportamento religioso che comprende molte pratiche solitamente associate alle religioni. • Preghiera. Laddove si postulano forze cosmiche personificate esiste un modo abituale di rivolgersi ad esse, di solito parlando o cantando ad alta voce. Esistono luoghi sacri in cui la gente prega in pubblico. • Esercizio fisiologico. Molti sistemi religiosi adottano metodi per manipolare fisicamente gli stati psicologici in moda da indurre una condizione spirituale estatica. Esistono quattro tipi principali di manipolazione: droghe; deprivazione sensoriale; mortificazione della carne tramite dolore, veglia prolungata e fatica; deprivazione di cibo, acqua, o aria. • Mana. Si riferisce a un potere impersonale di natura sovrumana che talvolta si crede possa trasferirsi da un oggetto che lo contiene a un altro che non lo contiene. Lurhmann osserva che il movimento Vineyard è emerso dal fermento sociale e spirituale degli anni 60 e dei primi anni 70, periodo in cui alcune persone si misero attivamente a ricercare un’esperienza più diretta con Dio. L’antropologa impostò la sua ricerca in base alla domanda su come si possa avere la certezza che Dio esiste. Luhrmann ha scelto come esempio uno stile di Cristianesimo evangelico in cui si ritiene che Dio sia presente quasi fosse una persona nella vita quotidiana del credente. Le persone che Luhrmann ebbe modo di conoscere nelle chiese, erano caratterizzate dal fatto che si aspettavano di avere un’esperienza di Dio immediata, diretta e personale. A quanto le dissero vari appartenenti alla Vineyard, Dio era un amico intimo che voleva sapere tutto di loro, una persona con cui instauravano una relazione reale. Tale relazione veniva coltivata attraverso la preghiera, cioè l’atto di parlare con Dio. Quindi Dio è un amico, buono, onnipotente e onnisciente, che si prenderà cura di coloro che lo cercano e imparano a pregarlo. Ma se le cose stanno così, in che modo questa concezione di Dio può spiegare perché nel mondo accadono eventi negativi? Luhrmann afferma che i teologi hanno proposto tre soluzioni generali: il male è l’assenza del bene di Dio, e gli uomini lo creano quando non scelgono Dio; il mondo sarà buono alla fine dei tempi, anche se adesso non lo è; viviamo nel migliore dei mondi possibili, sebbene in questo momento possa non sembrarci così. Secondo l’antropologa, chiese come quella di Vineyard si confrontano col problema della sofferenza attraverso una quarta soluzione: lo ignorano, trasformano il dolore in un’opportunità di apprendimento. In che modo le persone affrontano il cambiamento? I cambiamenti drastici dell’esperienza inducono le persone a creare nuove interpretazioni capaci di aiutarle ad affrontare tali mutamenti. A Guider, i migranti che dalle zone rurali si trasferivano da soli in città spesso abbandonavano le vecchie pratiche religiose e assumevano le abitudini urbane. A volte il risultato era un sintesi creativa tra le vecchie e le nuove pratiche religiose, processo chiamato sincretismo. Quando i gruppi difendono o trasformano la propria visione della vita di fronte a intromissioni esterne, gli antropologi parlano di rivitalizzazione: il tentativo deliberato e organizzato di alcuni membri della società di creare una cultura più soddisfacente. La religione Bwiti Un movimento rivitalizzatore che ha goduto di notevole longevità è la religione sincretica Bwiti dei Fang dell’Africa centrale. Nel secolo scorso i Fang dovettero far fronte a tre notevoli sfide alla loro visione del mondo. In primo luogo, la realtà del “molto lontano”, rappresentata dal colonialismo francese, mise in discussione la realtà del “vicino” e del familiare. In secondo luogo, le potenze protettrici tradizionali che stavano “in basso” furono messe in discussione dal messaggio dei missionari cristiani che proponevano una divinità che veniva “dall’alto”. In terzo luogo, il pluralismo della vita coloniale costituiva un doppio standard che per i colonizzati prevedeva un trattamento diverso da quello dei colonizzatori. La religione Bwiti consente si suoi membri di affrontare la prima sfida assumendo la iboga, una droga con cui è possibile trasformare il “lontano” in “vicino”. Nel secondo caso, il Dio cristiano dell’alto e gli dei tradizionali del basso sono stati entrambi incorporati nel pantheon Bwiti. Per la terza sfida, il rituale Bwiti promuove fra i suoi membri il sentimento comunitario del “sentirsi una cosa sola”. La religione Bwiti ha creato una visione del mondo che permette a molti Fang di far fronte alle tensioni create dallo sfruttamento. In che modo le visioni del mondo sono usate come strumenti di poteri? All’interno di qualsiasi particolare tradizione culturale coesistono sempre visioni del mondo differenti. Per concorrere al ruolo di immagine ufficiale della realtà, una visione del mondo dev’essere in grado, di dare senso ad alcune esperienze personali e sociali delle persone. Quando una visione del mondo è appoggiata da chi ha potere all’interno della società e le visioni alternative sono censurate, molti studiosi di scienze sociali considererebbero questa visione dominante del mondo un’ideologia, ovvero una visione del mondo che giustifica gli ordinamenti sociali cui sono soggette le persone. Il secolarismo è una visione del mondo? L’illuminismo europeo del 18esimo secolo dette origine a una nuova visione del mondo che venne definita secolarismo. Lo sviluppo di idee e pratiche secolari trasformò profondamente le istituzioni politiche e religiose che avevano dominato la società europea nel corso del Medioevo. Di recente gli antropologi sono stati indotti a riconsiderare sia la natura dell’illuminismo sia quella del secolarismo, sollecitati da alcune forme di resistenza nei confronti delle istituzioni secolari tipiche degli stati nazionali occidentali. Religione e secolarismo Si è soliti definire il secolarismo come la separazione della religione dallo stato, e lo si considera la soluzione illuminista alle sanguinose e irresolubili guerre di religione che seguirono la Riforma. Le controversie dottrinali durante la Riforma e le guerre di religione riguardarono questioni di ortodossia, cioè di corrette credenze religiose. Nel secolarismo europeo, quindi, con “religione” si intendono principalmente quelle credenze a cui i fedeli si sentono vincolati. Analogamente lo “stato” secolare è sempre concepito come il moderno stato nazionale caratterizzato dall’economia capitalista. Nella visione secolare i cittadini sono prima di tutto, individui che possiedono dentro di sé la motivazione necessaria per formulare obiettivi, che hanno le risorse per avviare un’azione che consenta di perseguirli. In altre parole, i cittadini secolarizzati sono concepiti come liberi da legami restrittivi con altri gruppi sociali. Il secolarismo non è una semplice questione di assenza di religione nella vita pubblica del moderno stato nazionale, perché la religione occupa un posto variabile anche nei moderni paesi secolari. L’adattamento alla vita di uno stato liberale secolare risulterà probabilmente più difficile per coloro la cui fede religiosa è radicata soprattutto in forme di ortoprassi. Il velo musulmano Negli ultimi decenni molti degli immigrati in Francia sono arrivati da paesi musulmani, e verso la fine degli anni 80, molte scuole pubbliche francesi erano frequentate da un’alta percentuale di studenti musulmani. Al crescere di questi numeri scoppiò una forte polemica quando ad alcune studentesse venne negato il diritto di indossare a scuola il tradizionale velo con cui si coprono il capo. Per capire il motivo per cui il governo francese sia stato così inflessibile, occorre capire quale significato abbia il secolarismo nella repubblica francese. A partire dalla Rivoluzione, lo stato francese è stato risolutamente secolare, richiedendo a tutti i cittadini francesi di astenersi dal manifestare in pubblico la propria affiliazione religiosa. La decisione del governo di bandire l’uso del velo derivava dalla visione secolare propria dello stato francese, infatti fu sostenuta da molti simpatizzanti della sinistra, non soltanto da quelli di destra. Lo stato francese garantisce pieni diritti di cittadinanza agli immigrati, ma in cambio il “contratto sociale” prevede che i figli vengano educati alla cultura francese. Lo stato francese vede il velo come una sfida al secolarismo e sostenitori della sinistra francese lo considerano come simbolo dell’oppressione delle donne. Alla fine nel febbraio e marzo del 2004 l’assemblea nazionale francese e il senato votarono a stragrande maggioranza il divieto di esibire nelle scuola simboli religiosi “vistosi”. In che modo cultura e potere sono connessi tra loro? (cap. 8) Chi detiene il potere di agire? Le società sono in grado di organizzare con successo l’interdipendenza umana solo se riescono a trovare modi per gestire le relazioni di potere tra gli individui e tra i gruppi che le compongono. Il potere può essere concepito, in senso ampio, come una “capacità trasformativa”: l’abilità di trasformare una situazione data. Quando le scelte condizionano un intero gruppo sociale, parliamo di potere sociale. Eric Wolf descrive tre modalità di potere sociale. La prima, il potere interpersonale, indica la capacità di un individuo di imporre la propria volontà. La seconda, il potere organizzativo, evidenzia come gli individui possano limitare le azioni di altri individui in particolari contesti sociali. La terza, il potere strutturale, organizza gli aspetti sociali stessi e controlla la divisione del lavoro sociale. Lo studio del potere sociale nella società umana è il campo di indagine dell’antropologia politica, la quale continua ad essere indispensabile perché comporta una complessa interazione fra la ricerca etnografica sul campo, la teoria politica e la riflessione critica su quest’ultima. Che cos’è la coercizione? Per alcuni pensatori occidentali, l’assenza di uno stato poteva significare solo anarchia, disordinate lotte per il potere tra individui. In questa visione il potere viene identificato con la forza fisica, o coercizione. Una scazzottata può essere vista come una manifestazione tipica e naturale dei tentativi messi in atto da individui di esercitare una coercizione fisica. L’assunto di fondo era che la vita sociale collaborativa non è naturale per gli individui umani, poiché nascono dotati di libertà di agency, ovvero gli istinti li portano a perseguire i propri interessi personali al di sopra di qualsiasi altra cosa e a sfidarsi l’un l’altro per il predominio. Esiste la coercizione nelle società senza stato? Alcuni antropologi, tra cui E.E. Evans-Pritchard, dimostrano che le istituzioni di parentela potevano organizzare in maniera ordinata la vita sociale delle società senza stato, lui si basò sul lavoro svolto tra gli Azande. La sua descrizione della vita sociale degli Azande non assomigliava affatto a quella di una guerra di tutti contro tutti, sebbene gli Azande vivessero in una società senza stato. Evans-Pritchard osservò che gli Azande discutevano apertamente di stregoneria, e se credevano di essere stati stregati erano più inclini ad arrabbiarsi che a spaventarsi. Questo perché per la maggior parte di loro condivideva una visione del mondo in cui la stregoneria occupava un posto dotato di significato. mezzi coercitivi per arrivare ad attingere alle fonti del potere. Un modo di accostarsi al potere è attraverso la preghiera e la supplica. I nativi americani (come i Lakota) tramite il digiuno e le sofferenze fisiche autoindotte, speravano di muovere a pietà la fonte del potere, così da indurla a concedere loro di sua volontà il potere che ricercavano, sotto forma di una visione o di un canto. Tutto ciò conduce ad una quarta conseguenza: nell’ambito di una simile visione del mondo, la violenza e l’accesso al potere si contraddicono a vicenda. Le culture che concepiscono in questo modo il potere cosmico tendono anche a considerare i singoli esseri umani come entità a loro volta indipendenti, che non possono essere costrette con la forza, ma solo supplicate. In simili società gli individui esercitano il potere della resistenza. Una quinta conseguenza di considerare il potere come un’entità indipendente è l’importanza che acquista il consenso come mezzo appropriato per decidere sulle questioni che interessano il gruppo. Coloro che propongono un particolare modo di agire devono ricorrere alla persuasione, anziché alla coercizione, per cercare di convincere gli altri membri del gruppo a sostenere la loro causa. Questo atteggiamento nei confronti del potere, per esempio, si riscontra in alcune regioni del Pacifico, dove Roger Keesing descrive ‘Elota, il suo amico kwaio, come un uomo influente. Quando parlava, le persone gli prestavano sempre attenzione, nonostante non alzasse mai la voce e non parlasse irosamente. In parte doveva la sua influenza a una memoria straordinaria perché riusciva a ricordare i dati genealogici di 3000 o 4000 persone. Per ‘Elota, prestigio e influenza discendevano dalla distribuzione di oggetti di valore, soprattutto se si tratta di finanziare matrimoni e dare feste. Secondo Pierre Clastres i membri delle società senza stato, si impegnano fortemente per impedire l’insorgere di una gerarchia, poiché si rendono conto che la crescita di un potere statale condanna a morte l’autonomia individuale. Che cos’è il potere dell’immaginazione? Molti antropologi considererebbero incompleta una discussione sul potere sociale che non prendesse in esame il modo in cui le persone usano i vincoli e le opportunità di agire che hanno a disposizione. Quindi è necessario tener conto dell’immaginazione, il potere che tutti gli esseri umani hanno di conferire significato al mondo. Il potere dei deboli Nel 20esimo secolo, il prototipo dell’essere umano sfruttato e oppresso era l’operaio dell’industria. Karl Marx usò il termine alienazione per descrivere la profonda separazione che i lavoratori sembravano sperimentare fra il loro intimo senso di identità e il lavoro che erano costretti a compiere per guadagnare il denaro sufficiente per vivere. Alcuni sostengono che la condizione dei lavoratori industriali in quello che si è soliti chiamare Terzo mondo, dovrebbe essere di gran lunga peggiore di quella dei lavoratori occidentali, poiché il contesto dell’industrializzazione non occidentale è molto più arretrato. Questa posizione è nota come tesi delle “ferite della schiavitù”. Hoyt Alverson decise di verificare sul campo la tesi delle “ferite della schiavitù”; i suoi informatori erano Tswana che vivevano nella nazione indipendente del Botswana. Negli anni 60 e 70, il Botswana era un paese povero e la sola fonte di sostentamento per le famiglie era il salario guadagnato dagli uomini lavorando nelle miniere sudafricane. Se la tesi delle “ferite della schiavitù” fosse corretta, gli Tswana dovrebbero essere alquanto alienati e disumanizzati. Invece, nonostante le condizioni di vita nelle miniere erano brutali e le difficoltà delle famiglie considerevoli, gli informatori di Alverson non mostravano molti segni di alienazione e disumanizzazione. Come apparve chiaro, l’esperienza nelle miniere semplicemente non aveva per gli Tswana il senso che gli osservatori esterni presumevano avesse. Tutti i fenomeni sono ambigui e possono essere investiti di molteplici significati. Uno Tswana può assimilare le relazioni le relazioni esistenti nella miniera fra i capi e i lavoratori a quelle che esistono tra padre e figlio. Se davvero crede a tale analogia, il significato che attribuisce alla disuguaglianza sarà diverso da quello attribuitole da uno Tswana che definisca la relazione nei termini di un insieme di scambi contrattuali fatti fra persone vincolate dal medesimo insieme di diritti e doveri generali. Secondo Alverson la forza e il genio della cultura tswana si rivelavano nella capacità dei suoi informatori di dare un senso alle proprie esperienze basandosi sulle loro narrazioni tradizionali. Che cosa significa contrattare la realtà? Qualunque sistema di potere egemonico corre il rischio che i dominati possano creare racconti nuovi e plausibili della loro esperienza di dominazione. Il politologo James Scott definisce verbali segreti questi racconti non ufficiali. I dominati possono essere capaci di persuadere parte di coloro che li circondano, che la loro interpretazione controegemonica dell’esperienza sociale sia migliore o più veritiera del discorso egemonico di chi li governa in quel momento. L’antropologo Lawrence Rosen ha lavorato nella città marocchina di Sefrou, nel momento in cui ascoltò i propri informatori discutere e definire le loro relazioni reciproche, si rese conto che qualsiasi definizione proposta da una persona poteva essere contestata da un’altra. Rosen giunse alla conclusione che la vita sociale e politica di Sefrou non era comprensibile a meno di non accettare che, per i suoi informatori, la negoziazione costituiva la norma. Rosen la chiama contrattazione della realtà. La contrattazione sul matrimonio in Marocco Gli uomini di Sefrou considerano le donne meno intelligenti, meno capaci di autocontrollo e più egoiste, e si aspettano da loro obbedienza. A Sefrou le donne dipendono per il sostentamento dagli uomini (padre e marito). Le donne tentano di influenzare le negoziazioni matrimoniali, perché il matrimonio riconfigura le relazioni sociali nella famiglia. Le donne desiderano proteggere se stesse e le proprie figlie dalle richieste oppressive del marito e della famiglia di lui. Spesso giudicano gli uomini egocentrici e puerili e non accettano i loro punti di vista sulle donne. Di fatto, gli uomini e le donne del Marocco condividono le esperienze, ma le interpretano in maniera differente. Dal momento che i generi non entrano molto in contatto diretto tra loro, le differenti interpretazioni non sfociano in un perenne conflitto. Il risultato è una contrattazione della realtà, in quanto più attori distinti tentano di far prevalere la propria definizione della situazione. Rosen descrive un negoziato di matrimonio in cui si era imbattuto a Sefrou. Una ragazza rifiutava di sposare il pretendente proposto dalla famiglia e Rosen fece visita a questa famiglia accompagnata da un informatore amico di famiglia. Durante la visita quest’ultimo e la madre della ragazza discussero perché diedero interpretazioni diverse sul fatto. L’amico di famiglia descrisse il comportamento della ragazza come un tipico caso di egoismo e immoralità femminili. La madre non contraddisse mai apertamente tali affermazioni, ma continuò in maniera calma, a portare argomentazioni contrarie. Spiegò che la figlia si rifiutava perché l’uomo che avrebbe dovuto sposare veniva da molto lontano, quindi lei avrebbe dovuto lasciare la sua famiglia per trasferirsi da estranei. Alla fine la ragazza fu persuasa a sposare la persona proposta, ma solo dopo un anno e mezzo di vittoriosa resistenza. Gli uomini possono far si che le donne si conformino ai loro desideri, ma le ragioni che esse hanno per farlo possono non avere nulla in comune con quelle che gli uomini adducono per giustificare le proprie richieste. In che modo la storia diventa un prototipo di e per l’azione politica? In qualche misura, nell’ambito di qualsiasi cultura, le persone continuano a ridisegnare, non solo quale parte della loro tradizione condivisa sia da ritenersi rilevante in una particolare situazione, ma anche quale sia la versione della tradizione su cui cercare l’accordo. Consideriamo l’affermarsi, nelle montagne del Perù, dei gruppi rurali chiamati rondas campesinas che ebbero inizio negli anni 70, come ha descritto Orin Starn. Le ronde sono costituite da gruppi armati di contadini che, durante la notte, pattugliano i sentieri intorno ai loro villaggi per vigilare contro i ladri di bestiame. Star nota che almeno cinque motivi spinsero i contadini a instaurare un loro sistema giudiziario alternativo. Prima di tutto vi fu l’esplosione di furti di bestiame all’insorgere della crisi economica a metà anni 70. In secondo luogo, i contadini non trovavano protezione nel sistema giudiziario ufficiale, con la crisi crebbe anche la corruzione, le tangenti e l’estorsione. In terzo luogo, nelle zone montane la presenza dell’autorità governativa era debole. In quarto luogo, le persone che vivevano nelle campagne del Perù apprezzavano la fermezza e il coraggio di fronte alla violenza e furono capaci di incanalare la propria aggressività al servizio dell’ordine dando origine alle ronde. Infine, gli organizzatori locali avevano dei sostenitori esterni; nella provincia in cui nacquero le ronde si trattava del partito maoista Patria Rossa. Per creare le ronde, i contadini attinsero a modelli culturali nazionali e locali. Per esempio, quando le ronde assunsero un ruolo giudiziario, adottarono alcune forme della burocrazia statale, usando un tavolo come banco del giudice, timbri, un segretario verbalizzante e così via. Starn conclude che, le ronde hanno dato ai contadini del Perù la visione di una modernità alternativa e hanno rinnovato fra loro un potente senso di identità indipendente. Come può essere negoziato il significato della storia? I significati dei simboli fondamentali di qualunque tradizione culturale sono essenzialmente negoziabili, cioè ciascun simbolo evoca un’ampia gamma di significati fra coloro che lo accettano. Non è mai ovvio, che cosa significhi un certo simbolo in una particolare situazione, ne quanto si appropriato applicarlo ad essa. Come ci procuriamo da vivere? (cap. 9) Che cosa sono le strategie di sussistenza? Le strategie di sussistenza sono le modalità di produzione, distribuzione e consumo che i membri di una società utilizzano per assicurarsi il soddisfacimento dei bisogni materiali fondamentali, legati alla sopravvivenza. Gli antropologi hanno formulato una suddivisione di fondo tra le strategie di sussistenza: raccoglitori di cibo (coloro che raccolgono, pescano, cacciano) e produttori di cibo (coloro che dipendono dalla domesticazione di piante o animai). Le strategie seguite dai raccoglitori di cibo dipendono dalla ricchezza degli cerimonia. Ritornati ai propri villaggi, gli ospiti ridistribuivano a loro volta i beni fra i loro seguaci. Lo scambio di mercato, costituisce la forma di scambio più recente. Il capitalismo comporta uno scambio di beni (commercio) che viene regolato da un mezzo polivalente di scambio e da uno standard di valore (denaro) ed effettuato tramite un “meccanismo di domana-offerta-prezzo” (il mercato). In una stessa società coesistono differenti forme di scambio, anche se solamente una funziona come modalità di integrazione economica della società. Il lavoro Alcuni antropologi economici vedono la produzione come la forza motrice sottesa all’attività economica, questi mutuano questa visione dell’attività economica, dalle opere di Karl Marxs. Il lavoro è il concetto marxiano più importante adottato da questi antropologi, è l’attività che collega i gruppi sociali umani al mondo materiale che li circonda. Marx enfatizzò l’importanza del lavoro fisico umano nel mondo materiale, ma riconobbe anche la rilevanza del lavoro mentale o cognitivo. I modi di produzione Marx classificò le modalità attraverso cui i diversi gruppi umani effettuano la produzione; ognuna di esse costituisce un modo di produzione. Strumenti, tecnica, organizzazione e conoscenza costituiscono ciò che Marx ha chiamato mezzi di produzione. Le relazioni sociali che connettono gli esseri umani che usano un dato mezzo di produzione nell’ambito di un dato modo di produzione si chiamano rapporti di produzione. Wolf sostiene che tre modi di produzione siano stati particolarmente importanti nel corso della storia umana: il modo di produzione basato sulla parentela, nel quale il lavoro sociale si esplicita in base alle relazioni di parentela (fra cacciatori-raccoglitori); il modo tributario, in cui il produttore primario può accedere ai mezzi di produzione, mentre un tributo gli viene prelevato attraverso mezzi politici o militari (agricoltori o pastori in un sistema sociale diviso tra governanti e governati); il modo capitalistico. Quest’ultimo presenta tre caratteristiche principali: i mezzi di produzione sono di proprietà dei capitalisti, ai lavoratori viene negato l’accesso a tale proprietà e devono vendere il proprio lavoro ai capitalisti per sopravvivere; questo lavoro genera surplus di ricchezza per i capitalisti, che possono trattenerlo o reinvestirlo nella produzione, aumentando il prodotto e generando ulteriore surplus. Il ruolo del conflitto nella vita materiale Gli antropologi hanno sempre dato importanza ai legami esistenti fra l’organizzazione di una certa società e la maniera in cui tale società soddisfa i bisogni fondamentali per la sua sussistenza. Molti antropologi, per nulla convinti che il cambiamento sociale sia ordinato o che l’organizzazione sociale sia per sua natura armoniosa, ritengono utile l’approccio marxiano perché considera il conflitto una componente naturale della condizione umana. Marx osservò, che il modo di produzione capitalistico incorpora i lavoratori e i padroni in modi differenti e contraddittori. Questi gruppi che egli chiama classi, hanno interessi differenti e ciò che è bene per una classe può non esserlo per le altre. I desideri dei lavoratori sono per forza opposti a quelli dei proprietari. Ciò non significa che le diverse classi coinvolte nella produzione siano sempre in guerra; significa però che il potenziale per il conflitto è insito nel modo stesso di produzione. L’applicazione della teoria della produzione alla vita sociale e culturale Gli antropologi economici che si concentrano sulla produzione come prima forza causale della vita materiale tendono ad applicare la metafora della produzione anche ad altre aree della vita sociale. Se un dato modo di produzione deve persistere nel tempo, anche i mezzi e i rapporti di produzione devono essere fatti per persistere nel tempo. Per esempio, gli agricoltori producono il grano, questi scambiano una certa quantità di grano con i pastori per avere latte e carne, e permettono a questi ultimi di condurre le bestie a pascolare nei campi dove è già stato, così da avere in cambio il concime con cui fertilizzare il terreno. In questo modo, ciascun gruppo avrà ciò che gli occorrerà nella stagione successiva per rinnovare i propri mezzi di produzione. Gli esseri umani producono e riproducono anche le interpretazioni del processo produttivo e dei rispettivi ruoli in questo processo. Marx usava il termine ideologia per riferirsi ai prodotti culturali della riflessione cosciente, quali la moralità, la religione, la metafisica. Per Marx, l’ideologia non era indipendente dal processo produttivo e serviva a spiegare e giustificare i rapporti di produzione a coloro che vi erano coinvolti. La metafora della produzione mette in evidenza processi e relazioni che la metafora dello scambio tende a ignorare. L’obiettivo della teoria della produzione è dimostrare che l’accesso alle risorse risulta determinato prima dello scambio dai rapporti di produzione, che stabiliscono chi ha il diritto a cosa e in quale quantità. I diversi modi di produzione favoriscono alcune classi a discapito di altre, e questo è particolarmente chiaro nel modo capitalistico, in cui i padroni hanno un accesso sproporzionato alla ricchezza, mentre l’accesso dei lavoratori è drasticamente limitato. Infine, la teoria della produzione si focalizza sulle persone, più di quanto non si concentri sui beni che le persone producono. Perché le persone consumano in un certo modo? Di solito si ritiene che il consumo si riferisca all’utilizzo di beni materiali necessari per la sopravvivenza umana. Fino a non molto tempo fa, gli studiosi hanno trascurato lo studio del consumo, perché sembrava chiaro che le persone consumassero per ragioni ovvie. Ma gli antropologi che conducono confronti interculturali hanno sempre notato notevoli differenze nei modelli di consumo presenti nelle diverse società. Sono stati sviluppati, quindi, diversi approcci fondamentali per analizzare tali modelli: la spiegazione interna, la spiegazione esterna e la spiegazione culturale. La spiegazione interna: Malinowski e i bisogni umani fondamentali La spiegazione interna dei modelli umani di consumo si deve al lavoro di ricerca di Bronislaw Malinowski. La sua versione dell’antropologia funzionalista spiega le pratiche sociali riconducendole ai bisogni umani fondamentali che ciascuna di esse ha ipoteticamente la funzione di soddisfare. Malinowsi formulò un elenco di bisogni umani fondamentali, che comprendevano la nutrizione, la riproduzione, il benessere dell’organismo, la sicurezza, il movimento, la crescita e la salute. Malinowski fu in grado di dimostrare che molte usanze, che appaiono bizzarre a osservatori occidentali, sono in realtà “razionali” perché servono a soddisfare bisogni umani fondamentali. D’altra parte il suo approccio non era sufficiente per spiegare perché le società non condividono gli stessi modelli di consumo. La spiegazione esterna: l’ecologia culturale Gli antropologi di una generazione successiva, influenzati dagli studi sull’ecologia e sull’evoluzione, tentarono di rispondere a quell’interrogativo sulla diversità dei modelli umani di consumo. L’ecologia si occupa del modo in cui le specie viventi si relazionano tra loro e con l’ambiente fisico. Quest’ultimo si suddivide in diverse ecozone, formate dalla mescolanza delle specie viventi vegetali e animali che le abitano. L’ecologia culturale è il tentativo dell’antropologia di applicare le intuizioni dell’ecologia agli esseri umani e alle loro società. Per gli ecologi, i modelli di consumo umano derivano dalle caratteristiche delle ecozone nelle quali i gruppi vivono. Ciascun essere umano, se vuole sopravvivere, deve imparare a utilizzare le risorse disponibili nella sua ecozona. Conservazione e condivisione del cibo Occorre considerare la connessione esistente tra conservazione e condivisione del cibo. L’obbligo di condividere il cibo rende la conservazione non necessaria, ma puntualizza anche che condividere con gli altri oggi, di solito, obbliga gli altri a condividere con noi domani. Le prove archeologiche indicano che quanto più cibo c’è da conservare, tanto più si investe in mezzi di conservazione e tanto più velocemente i gruppi diventano sedentari. Le tecniche di conservazione del cibo su vasta scala comportano una serie di “cambiamenti di luogo” che per lunghi periodi salvaguardano la popolazione da fluttuazioni ecologiche. Ma di per sé queste tecniche non dicono nulla dei “passaggi di mano” che gli alimenti subiranno una volta conservati. Un fondamentale difetto delle spiegazioni interna ed esterna dei modelli di consumo è che entrambe ignorano o negano la possibilità dell’agency. Che cos’è l’originaria società opulenta? Molti occidentali hanno creduto a lungo che i popoli di raccoglitori conducessero la più miserabile delle esistenze. Per verificare sul campo tale assunto, Richard Lee andò a vivere fra gli Ju/’hoansi di Dobe, popolazione di raccoglitori dell’Africa meridionale. Lee riuscì a dimostrare che per popolazioni come gli Ju/’hoansi, la raccolta a tempo pieno era tutt’altro che un modo di vita disprezzato e disprezzabile. Lee accompagnava i suoi informatori nella caccia e nella raccolta, e registrava le quantità e i tipi di cibo che consumavano. Egli trovò che gli Ju/’hoansi si assicuravano una dieta varia ed equilibrata, basata sulla selezione delle fonti disponibili nel loro ambiente. Marshall Sahlins coniò l’espressione “originaria società opulenta” per riferirsi agli Ju/’hoansi e ad altre popolazioni simili. Sahlins contestò il tradizionale assunto occidentale secondo cui la vita dei raccoglitori sarebbe caratterizzata da scarsità. Si ha abbondanza affermò, quando si dispone di più di quanto è necessario per soddisfare i bisogni di sumo. Ci sono due modi per creare abbondanza, uno consiste nel produrre molto (società capitalista), mentre l’altro consiste nel desiderare poco (raccoglitori). I raccoglitori non possono essere considerati poveri, anche se il loro livello di vita materiale è basso, in base ai criteri occidentali. La povertà non è una condizione assoluta, né un rapporto fra mezzi e fini: è piuttosto un rapporto fra persone. parentela attraverso la linea maschile, esaltando il ruolo paterno nel concepimento. Un terzo tipo di società può incoraggiare ad adottare fratelli non solo da bambini ma anche in età adulta, rendendo così sfuocato il nesso fra riproduzione biologica e creazione di una famiglia. La parentela, quindi, è un’interpretazione selettiva delle comuni esperienze umane di accoppiamento, nascita e accudimento, che si traduce in un insieme di principi coerenti i quali permettono alle persone di attribuirsi reciprocamente l’appartenenza a un gruppo. Sesso, genere e parentela Pur basandosi sulla biologia, la parentela non si riduce a un fatto biologico. Gli antropologi usano il termine sesso per riferirsi alle caratteristiche fisiche osservabili che distinguono i due tipi di esseri umani, femmine e maschi, necessari per la riproduzione. Ovunque nel mondo si presta attenzione al sesso morfologico (aspetto dei genitali esterni e caratteri secondari osservabili). Gli scienziati distinguono ulteriormente le femmine dai maschi in base al sesso gonadico (ovaie nelle femmine, testicoli nei maschi) e al sesso cromosomico (due cromosomi X nelle femmine, XY nei maschi). Allo stesso tempo, è stato dimostrato che le differenze sessuali fisiche non possono da sole prevedere i ruoli che maschi e femmine ricoprono in una data società. Di conseguenza, gli antropologi distinguono il sesso dal genere, ossia dalla costruzione culturale di credenze e comportamenti che si considerano appropriati per ciascun sesso. In realtà, neanche le caratteristiche fisiche possono risultare così ovvie, infatti alcuni fattori genetici o ormonali possono dare luogo a genitali esterni ambigui, un fenomeno detto ermafroditismo. Quanti sono i sessi? Ci sono casi in cui gli antropologi hanno potuto documentare l’esistenza di sessi soprannumerati nell’ambito di culture in cui la presenza di genitali ambigui al momento della nascita non sembra comportare ambiguità di ruolo. Altrove, si sono sviluppati ruoli di genere soprannumerati che apparentemente non avevano nulla a che fare con anomalie morfologiche del sesso. Il caso più famoso è quello dei cosiddetti berdache. I caratteri fondamentali del ruolo dei berdache maschi o femmine erano, la specializzazione in campo produttivo (lavori artigianali e domestici per i maschi; guerra, caccia per le femmine), la sanzione sovrannaturale (sotto forma di autorizzazione di poteri derivanti da fonti al di fuori della società) e la variazione di genere, comunemente, caratterizzati da travestimento. I bardache erano membri accettati e rispettati delle loro comunità perché le loro attività economiche e religiose erano ritenute a livello culturale più importanti delle loro pratiche sessuali. Per gli esploratori francesi, il termine bardache, significava “prostituto maschio”, per questo molti antropologi si rifiutarono di usare questo termine. Comunque sinora non esiste un termine che abbia raggiunto un’accezione universale, anche se i nativi americani hanno iniziato ad usare l’espressione Due Spiriti, anziché i termini gay o lesbica. L’interpretazione dei diversi sistemi di parentela Sono le pratiche di parentela, più che gli statuti scritti, a chiarire alle persone quali diritti e quali obblighi abbiano l’una nei confronti dell’altra. Gli esploratori occidentali scoprirono, per esempio, che alcuni popoli non occidentali distinguevano i loro parenti solo sulla base dell’età e del sesso. Per riferirsi a persone più vecchie di una generazione rispetto a quella di chi stava parlando occorrevano solo due termini: uno applicabile agli uomini e l’altro alle donne. L’uomo che era sposato con la madre di chi parlava, pur essendo ritenuto importante, a livello sociale aveva più o meno la stessa importanza dei fratelli di quell’uomo o della madre. Gli esploratori conclusero erroneamente che quelle persone fossero incapaci di distinguere fra il padre e gli zii, visto che usavano in entrambi lo stesso termine di parentela. Quegli antropologi partirono dal presupposto che termini come padre e zio fossero categorie di parentela universalmente riconosciute, quando non è così. Qual è il ruolo della discendenza nella parentela? Vi sono due strategie principali impiegate per stabilire i modelli di discendenza: discendenza bilaterale e discendenza unilineare. La prima, è il principio secondo cui un gruppo di discendenti è costituito da persone che si ritengono imparentate tra loro tramite connessioni stabilite per via materna e paterna in eguale misura. La seconda, è il principio secondo cui un gruppo di discendenti è costituito da persone che si ritengono imparentate tra loro tramite legami stabiliti solo per via materna o paterna. Parentado bilaterale Il parentado bilaterale è il gruppo parentale più conosciuto alla maggior parte degli europei e dei nordamericani. Tale gruppo si forma attorno a un particolare individuo e comprende tutte le persone di entrambi i sessi a lui/lei collegati, che convenzionalmente chiamiamo parenti. La persone centrale, nella terminologia di parentela è detta Ego. Nella società nordamericana il parentado bilaterale si riunisce in varie occasioni della vita dell’Ego: battesimo, cresima, raggiungimento maggiore età, laurea, matrimonio o funerale. Il parentado può essere molto esteso e può dare origine a vaste reti di persone in qualche modo imparentate fra loro. Un classico esempio di parentado bilaterale si riscontra fra gli Ju/’hoansi, nell’Africa meridionale. Qualsiasi individuo della società ju/’hoansi può essere collegato a qualsiasi altro mediante un termine di parentela. In sostanza un accampamento degli Ju/’hoansi è composto da parenti, amici e parenti acquisiti che si sono resi conto di poter vivere e lavorare bene insieme. Agli Ju/’huansi il parentado bilaterale assicura flessibilità sociale. Gruppi di discendenza unilineare L’appartenenza al gruppo di discendenza unilineare dipende dal gruppo a cui appartiene il genitore appropriato. La distinzione tra i termini patrilineare e matrilineare non significa che all’uno appartengono solo uomini e all’altro solo donne; questi termini si riferiscono piuttosto al principio in base al quale si attribuisce l’appartenenza al gruppo. In una società patrilineare, uomini e donne appartengono a un patrilignaggio formato dai legami padre- figlio/a. In una società matrilineare uomini e donne appartengono a un matrilignaggio formato dai legami madre-figlio/a. L’appartenenza al lignaggio La caratteristica più importante dei lignaggi è la loro organizzazione di tipo corporato, nel senso che il lignaggio gode di una singola personalità giuridica. Per gli estranei, tutti i membri di un lignaggio sono di diritto uguali a tutti gli altri. Nel caso, per esempio, di una faida, la morte di un qualsiasi membro del lignaggio rivale vendica la morte da cui la faida aveva avuto inizio. Nelle società che li prevedono, i lignaggi costituiscono anche le principali associazioni politiche, sicché gli individui non godono di uno status politico o legale se non tramite l’appartenenza al lignaggio. I lignaggi hanno un’esistenza indipendente perché durano fintanto che le persone possono ricordare da chi discendono. Il clan è costituito, da lignaggi che i membri della società considerano imparentati tra loro tramite vincoli che risalgono a tempi mitici; pertanto è più ampio di qualsiasi lignaggio. La logica delle relazioni di lignaggio I lignaggi resistono nel tempo in società in cui nessun’altra forma di organizzazione riesce a durare. Sebbene possano apparire solidi e immutabili, spesso sono molto più flessibili di quanto non si pensi; i ricordi che le persone hanno dei loro antenati sono spesso trasmessi sotto forma di mito o di leggenda. Per esempio, Paul e Laura Bohannan, effettuarono la loro ricerca presso i Tiv della Nigeria e osservarono che Tiv, che in precedenza non si erano considerati parenti, talvolta rinegoziavano i loro rapporti di lignaggio annunciando pubblicamente di avere alcuni antenati in comune. Tale rinegoziazione consentiva ai Tiv di mantenere la corrispondenza tra i loro rapporti di lignaggio e i cambiamenti incorsi nelle relazioni legali e politiche. Patrilignaggi La forma più comune di organizzazione dei lignaggi è il patrilignaggio, che è formato da tutti gli individui che si ritengono imparentati fra loro per via del legame con un antenato maschio comune, attraverso una linea di discendenza maschile. Il nucleo prototipico di un patrilignaggio è la coppia padre-figlio. In queste società si presuppone l’esistenza di una gerarchia: gli uomini ritengono di essere superiori alle donne e molte di queste sembrano d’accordo. Una classico sistema patrilineare fu osservato fra i Nuer del Sudan e dell’Etiopia. Evans-Pritchard trovò che i Nuer erano suddivisi in almeno 20 clan, ognuno di questi è suddiviso in lignaggi collegati fra loro da presunti vincoli di discendenza patrilineare. Lo stadio più basilare del lignaggio è il lignaggio minimo. L’antropologo osservò che il sistema di parentela dei Nuer funzionava nel seguente modo: i membri dei lignaggi A e B potevano considerarsi imparentati perché credevano che il capostipite del lignaggio A fosse stato il fratello maggiore del fondatore del lignaggio B. Nell’insieme questi due lignaggi minimi costituivano un lignaggio minore formato da tutti i discendenti di un padre comune. I lignaggi minori si collegavano ad altri lignaggi grazie ad un ulteriore antenato comune e formavano i lignaggi maggiori. Questi ultimi condividevano a loro volta un antenato comune, fino a formare un lignaggio massimo. Nonostante fossero patrilineari, i Nuer riconoscevano come parenti persone che non rientravano nel loro lignaggio. Nella loro lingua “mar” si riferiva a “parente, parentela”, cioè tutti coloro con cui una persona poteva rintracciare una relazione parentale di qualsiasi tipo, incluse persone appartenenti alla linea materna. Matrilignaggi Nei matrilignaggi la discendenza viene tracciata tramite la linea femminile anziché quella maschile. Il nucleo prototipico di un matrilignaggio è la coppia sorella-fratello. Un matrilignaggio può quindi essere definito come un gruppo di fratelli e sorelle connessi in linea femminile. L’uomo che conta di più nella vita di un ragazzo non è suo padre (che non riguarda lo Sri Lanka. Fra i cingalesi dello Sri Lanka una donna può sposare due uomini, ma raramente più di due. La poliandri associata cingalese comincia in forma monogamica, nel senso che il secondo marito verrà accolto solo in seguito. Inoltre, è il primo marito quello che rappresenta il marito principale in termini di autorità; una donna e i suoi mariti vivono e lavorano insieme, anche se il possesso delle risorse rimane individuale. Matrimonio secondario L’ultima forma di poliandria, chiamata matrimonio secondario, si pratica solo nella Nigeria settentrionale e nel Camerun settentrionale e prevede che una donna sposi uno o più mariti secondari rimanendo comunque sposata a tutti i mariti precedenti. La donna vive con un solo marito per volta, ma conserva il diritto di ritornare con uno di quelli precedenti e di avere da lui dei figli legittimi in un secondo momento. Il divorzio non è ammesso. In tale sistema, gli uomini sono poliginici e le donne poliandriche, ma in realtà il matrimonio secondario non è né una forma di poliginia né una forma di poliandria, piuttosto una combinazione delle due. Distinzione fra sessualità e capacità riproduttiva La poliandria dimostra che la sessualità di una donna si distingue dalla sua capacità riproduttiva. Nei gruppi poliandrici, infatti, la sessualità di una donna può essere condivisa tra un numero illimitato di uomini, ma non vale lo stesso per la sua capacità di mettere al mondo dei figli. Che cosa può dirci l’antropologia sulla disuguaglianza sociale? (cap. 12) Il genere Gli antropologi hanno inizialmente definito il genere come la costruzione culturale fatta di credenze e comportamenti considerati appropriati per ciascun sesso. A partire dagli anni 70, le antropologhe femministe, insoddisfatte della disuguaglianza di genere presente nelle loro società, analizzarono i dati etnografici per capire se il dominio maschile fosse una caratteristica costante di tutte le società umane. I primi risultati sembravano confermare questa teoria, ma poi alcune antropologhe dimostrarono che i ruoli di uomini e donne all’interno di una famiglia, variavano enormemente sul piano storico e interculturale. Ne conclusero che la “famiglia nucleare” fosse ben lontana dall’essere un modello universale e che potesse essere meglio compresa come una conseguenza storica, dell’ascesa del capitalismo industriale nelle società occidentali europee. In seguito antropologi come Marilyn Strathern hanno sostenuto che le particolari relazioni tra maschi e femmine in una società vanno considerate solo come un esempio di simbolismo di genere. Questo spiega non solo perché, in alcune società, le persone applichino le forme di disuguaglianza basate sul genere agli individui maschi e femmine, ma anche perché vengano usate categorie di genere per strutturare le relazioni fra i diversi livelli di gerarchie di uomini. Per esempio, i colonizzatori bianchi europei concepivano il loro rapporto con i maschi indigeni in termini di disuguaglianza “razziale” e di genere. I colonizzatori, ponevano se stessi, maschi bianchi, al di sopra dei maschi indigeni “non bianchi” che avevano sottomesso. Inoltre reprimevano con violenza qualsiasi accenno di coinvolgimento sessuale tra maschi indigeni e donne bianche, mentre loro potevano andare con le donne indigene. (es di Haiti) La classe In generale le classi sono gruppi sociali ordinati gerarchicamente e definiti su base economica. Ciò implica che, nella società, le classi di rango superiore hanno un accesso sproporzionatamente elevato alle fonti della ricchezza, accesso che per i membri delle classi inferiori è molto più limitato. Marx definisce le classi in base ai differenti rapporti che i loro membri hanno con i mezzi di produzione. Ciò significa che, finché in una società prospera un particolare insieme di rapporti di produzione ineguali, le classi definite dalla disuguaglianza dei ruoli nella divisione del lavoro sono destinate a persistere. Inoltre Marx era ben consapevole del fatto che tutti coloro che sono collegati ai mezzi di produzione nello stesso modo spesso non riconoscono ciò che hanno in comune e possono perciò non riuscire a sviluppare quel tipo di solidarietà reciproca. In realtà, in molte società stratificate, la possibilità che emerga una solidarietà di classe fra gli operai viene messa a rischio dall’istituzione della clientela. Questa è una relazione fra individui piuttosto che fra gruppi e la parte che ha uno status superiore è il patrono, mentre l’altra il cliente. La concezione di classe di Marx è sicuramente diversa dall’idea di egemonia di classe presente negli Stati Uniti. Per generazioni il “sogno americano” è stato che, negli USA, tutti potevano perseguire ricchezza, potere e prestigio senza essere intralciati dalle rigide barriere di classe. Di conseguenza, molti studiosi formatisi negli USA hanno avuto la tendenza a definire le classi sociali principalmente in base al reddito e a sostenere che tali classi fossero aperte, piuttosto che rigide. Tuttavia, la promessa del sogno americano, cioè di offrire pari opportunità di mobilità sociale ascendente, non si realizzò per i cittadini di origine africana, a causa di una rigida “barriera del colore”. La casta Con il termine casta ci si riferisce a un gruppo, posizionato a un certo livello di una società gerarchicamente stratificata, che si caratterizza per la sua chiusura, in quanto è proibito il passaggio degli individui da una casta a un’altra. Il vocabolo casta è di origine portoghese e rimanda all’idea di qualcosa di casto. Gli esploratori lo usarono per riferirsi alle società dell’Asia meridionale, che erano divise in una gerarchia ordinata di sottogruppi, ciascuno dei quali era appunto “casto”, nel senso che erano proibiti i legami sessuali o maritali che travalicavano i confini dei gruppi. Le caste in India Nel termine casta confluiscono due diversi concetti provenienti dall’Asia meridionale. Il primo è espresso dal termine varna e si riferisce alla nozione diffusa secondi cui la società indiana è idealmente suddivisa in sacerdoti, guerrieri, agricoltori e mercanti. Il secondo concetto, espresso dal termine jati, si riferisce a gruppi localizzati, dotati di un nome ed endogamici. Sebbene i nomi degli jati corrispondano spesso a mestieri (agricoltore, salinaio), non esiste alcun modo accettato di raggruppare i molti jati locali all’interno dell’uno o dell’altro dei quattro varna. Gli abitanti di Gopalpur, India meridionale, diedero all’antropologo Alan Beals una definizione di jati. Dissero che si trattava di una categoria di uomini che si considerano imparentati, che si sposano tra loro, seguono particolari pratiche e svolgono determinate occupazioni. Gli Jati, inoltre, si distinguono anche in base ai cibi che i loro membri possono mangiare, in quanto nelle credenze indù certi cibi sono classificati come puri, mentre altri come contaminati. Queste caratteristiche hanno un significato rituale che influenza le relazioni tra i membri di jati diversi. Tutti gli jati vengono classificati su una scala che va dal più puro al meno puro; al livello più alto vi sono i Bramini vegetariani, mentre a quello più basso troviamo gli scalpellini e fabbricanti di ceste che mangiano carne di maiale. In realtà, non esiste nessuna correlazione diretta fra lo status di uno jati nella scala della purezza e della contaminazione e lo status di classe dei suoi membri. Per esempio, Beals notò che lo status elevato dei Bramini significava che esisteva un numero relativamente ampio di modi in cui un Bramino povero poteva diventare ricco. Nonostante l’interdipendenza degli jati trovi una spiegazione teorica nelle loro specializzazioni occupazionali, la realtà sociale è diversa. Per esempio, i salinai di Gopalpur erano agricoltori e di fatto producevano ben poco sale, che in caso di bisogno si poteva acquistare nelle botteghe. È principalmente nel contesto rituale che l’interdipendenza degli jati acquista tutto il suo peso. La lotta di casta nell’India contemporanea Lo studio di Beals a Gopalpur ha documentato tre dimensioni delle relazioni di casta in India. Innanzitutto Beals descrive un villaggio rurale nel quale l’appartenenza agli jati acquisiva importanza soprattutto nelle occasioni rituali. Negli ultimi 40 anni, le pratiche culturali associate alle caste si sono attenuate sempre di più, nel momento in cui un numero considerevole di indiani si è trasferito nelle grandi città. In secondo luogo, Beals descrive gli appartenenti agli jati di ceto medio che, a Gopalpur, si trattavano da eguali al di fuori dei contesti rituali. Questo perché dagli anni 60, la mobilitazione elettorale aveva dato luogo alla mobilitazione orizzontale, attraverso cui persone collocate a livelli equiparabili nella gerarchia castale si riunivano in associazioni di casta; molte di queste sfociavano in partiti politici. In terzo luogo, Beals ha mostrato che a Gopalpur, negli anni 60, gli jati di ceto medio erano inclini a usare la violenza per bloccare la mobilità economica ascendente degli appartenenti a uno jati di rango inferiore. Di recente nell’India urbana gruppi di casta inferiore hanno intrapreso uno sforzo collettivo per elevarsi dal fondo della società o imitando le pratiche rituali delle caste superiori o convertendosi a una religione che non assegni alcun ruolo alle caste. La razza come categoria sociale Nella seconda metà del 19esimo secolo i pensatori europei inventarono schemi per classificare gerarchicamente le “razze dell’umanità”. In questo modo, l’identificazione delle razze si trasformò in razzismo. È importante sottolineare che le razze sono solo comunità immaginate e che il tradizionale concetto di razza della società occidentale è privo di significato sia sul piano biologico che genetico. Eppure il pensiero razzista perdura anche all’inizio del 21esimo secolo. Ciò significa che le categorie razziali hanno origine non nella biologia ma nella società. Gli antropologi, infatti, sostengono che la razza è una categoria sociale costruita culturalmente, i cui membri vengono identificati sulla base di particolari caratteristiche fenotipiche come il colore della pelle. La razza nella Oaxaca coloniale L’antropologo John Chance studiò lo sviluppo delle idee riguardanti razza e classe nella città di Oaxaca, in Messico. Oaxaca fu fondata su un altipiano, che prima della conquista Nazionalità e nazionalismo Uno stato che comprende popolazioni eterogenee può essere trasformato in una nazione a condizione che tutti i popoli che vivono entro i suoi confini possano essere messi in condizione di adottare una nazionalità comune: un senso di identificazione con lo stato nazionale e di lealtà nei suoi confronti. Gli sforzi messi in atto dai funzionari governativi per instillare nei cittadini di uno stato questo senso di nazionalità sono stati definiti nazionalismo. Il prototipo dell’identità nazionale si basa di solito sugli attributi del gruppo dominante, in cui vengono integrati alcuni elementi espressamente selezionati delle pratiche culturali dei gruppi subordinati. Il nazionalismo australiano L’Australia nacque come insediamento coloniale della Gran Bretagna. Nel corso degli ultimi 200 anni, il prototipo dell’identità nazionale australiana si è basato sulle caratteristiche razziali e culturali della popolazione dei coloni. I popoli indigeni, che avevano caratteristiche nettamente distinte sul piano fenotipico, furono chiamati aborigeni dai coloni e completamente esclusi dalla cittadinanza. Le rivendicazioni dei coloni sulla terra e sulle altre risorse poggiavano sulla dottrina nota come terra nullius: principio secondo cui, prima del loro arrivo, la terra non era stata di proprietà di nessuno. Ma i tempi cambiano e oggi gli australiani stanno profondamente ripensando la natura della loro identità nazionale. Negli ultimi anni si è sviluppato un dibattito nazionale per favorire la creazione di una nuova repubblica australiana, la cui costituzione affermerebbe l’esistenza e i diritti dei popoli indigeni del paese. Affinché ciò avvenga, la nazione deve reimmaginare se stessa attraverso un processo di creazione di miti, ma ciò si scontra con un secondo processo creativo innescato dalle minoranze indigene, le quali hanno combattuto per decenni per costruirsi un senso di identità “panaborigena”. Tema centrale di questa lotta è stata la rivendicazione di diritti sulla terra, che ricevette una grande spinta dalla cosiddetta sentenza Mabo, la quale rigettò la dottrina della terra nullius, proclamando che il diritto di proprietà nativo dei popoli indigeni australiani faceva parte del diritto australiano. Per gli australiani questa sentenza apriva la strada alla costruzione di un’identità nazionale multiculturale. Inoltre la sentenza Mabo ha portato all’esplosione dell’espressione culturale aborigena, che gli australiani hanno finito per apprezzare. Un decennio dopo, però, tutto ciò ha subito una battuta d’arresto, quando nel 1996 è divenuto primo ministro John Howard. Il suo governo è stato responsabile della sospensione del Racial Discrimination Act, al fine di implementare alcune sue politiche. Secondo Melinda Hinkson questo intervento era volto alla creazione di una popolazione aborigena normalizzata, le cui preoccupazione per le proprie usanze, parentele e terre sarebbero state abbandonate a favore di aspirazioni individualistiche come la proprietà privata della casa, la carriera e l’autorealizzazione. Solo nel 2009 il governo di Kevin Rudd propose al parlamento un progetto di legge per ristabilire il Racial Discrimination Act. Discorsi naturalizzanti Molti membri delle società che gli antropologi studiano rappresentano regolarmente particolari identità (casta, classe, razza, etnicità, nazione) come se fossero il prodotto della biologia o della natura, anziché della storia o della cultura, facendole così apparire eterne e immutabili. Questi discorsi prendono il nome di discorsi naturalizzanti. Il paradosso delle identità essenzializzate Reagendo ai gruppi dominanti che tentavano di sminuire la loro umanità, i popoli aborigeni decisero di accettare la designazione razziale, vedendola però come un’essenza positiva, posseduta da chiunque fosse aborigeno. Gli antropologi descriverebbero ciò che gli attivisti aborigeni stanno promuovendo come un essenzialismo strategico: una retorica essenzialista usata come consapevole strategia politica. La maggior parte degli attivisti sono consapevoli che le identità etniche o razziali essenzializzate sono semplicistiche e di dubbio valore. Nonostante questo avanzano le loro rivendicazioni, sperando che, accentuando la loro differenza, riusciranno a strappare al governo nazionale concessioni che non può rifiutare, se non violando le proprie leggi. Allo stesso tempo, però, l’essenzialismo strategico rischia di riprodurre la stessa logica che un tempo opprimeva gli aborigeni, anziché approdare a una società più giusta. Costruzione del senso di nazionalità in un mondo post coloniale: le isole Figi Le isole Figi sono una nazione del Pacifico meridionale che ha conquistato l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1970. L’immagine simbolo della nazione delle Figi era quella di uno sgabello a tre gambe, dove ogni gamba rappresentava una distinta categoria di votanti: elettori generali (minoranza che comprendeva gli europei), figiani (indigeni, discendenti degli abitanti originari dell’isola) e indiani ( o indofigiani, discendenti dai lavoratori proveniente da Bombay e Calcutta). Si diceva che queste tre categorie corrispondessero a razze distinte, che si erano concretizzate nella legge coloniale e lo status legale dei figiani era diverso da quello degli indofigiani. Ai primi venne concessa un’identità legale collettiva, mentre i secondi avevano lo status legale di individui. Gli indofigiani iniziarono a resistere all’oppressione razziale e a combattere per l’uguaglianza dei diritti alle Figi, ma i loro tentativi furono ripetutamente repressi dai britannici. Nel 1969 finirono per acconsentire alle liste elettorali suddivise in base alla razza, allo scopo di ottenere l’indipendenza. Quando i partiti politici, sostenuti dagli indofigiani, vinsero le elezioni nel 1987, l’esercito si impossessò del paese dopo appena un mese. Nel maggio del 2000 ci fu un nuovo colpo di stato ma alla fine nel 2001 i figiani indigeni ottennero nuovamente il controllo del governo. Il nuovo governo è durato fino al 2006 e nel 2009 il Commonwealth inglese ha espulso le Figi per essere venute meno all’impegno di fissare elezioni democratiche entro il 2010. Ciò che divenne evidente negli anni successivi all’indipendenza fu che figiani indigeni e indofigiani avevano immaginato comunità nazionali molto differenti. Questi ultimi avevano immaginato una nazione in cui tutti i cittadini avrebbero goduto del medesimo status, lavorando insieme per costruire una democrazia costituzionale. I figiani indigeni, invece, non si consideravano allo stesso livello degli indofigiani, e si impegnarono a costruire un’immagine della nazione basata sulle tradizioni principali, nelle quali gli indofigiani non avevano alcun posto significativo.
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