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Apollo E Dafne - appunti, Schemi e mappe concettuali di Archeologia

riassunto e spiegazione dei temi da studiare

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 28/04/2024

federicarobertoo
federicarobertoo 🇮🇹

8 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Apollo E Dafne - appunti e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Archeologia solo su Docsity! FILOSOFIA DELL’ARTE – PROF. FERRARI LEZIONE 1: 26 OTTOBRE 2023 Contenuti del corso: Rapporto che occorre indagare tra la parola critica, la parola che si pone a una certa distanza e si propone di dire qualcosa dell’opera. Le metodologie di approccio all’opera sono molteplici e possono anche essere diametralmente opposte tra loro. La storia della critica d’arte ha una storia lunghissima. Negli ultimi 100 anni la parola critica ha assunto una sempre maggiore rilevanza, fino ad arrivare ad una sorta di punto massimo della propria influenza negli anni ’50 -70 per poi declinare progressivamente venendo relegata in una sorta di cantuccio specialistico. Questo fenomeno è interessante e complesso da capire, perché Il ruolo dei critici è limitato e oramai marginale nel sistema dell’arte odierno, ma è altrettanto vero che l’opera d’arte deve essere accompagnata da una spiegazione critica, da un qualcosa che spieghi l’opera (Statement). Interessante è il passaggio di questa richiesta di una parola critica dell’opera da una parola specialistica del critico ad una parola che viene affidata all’artista stesso. All’artista si chiede: Che cosa vuol dire quest’opera? È singolare che ci sia un tramonto della critica, ma dall’altra parte un obbligo di Statement, un obbligo per l’artista di dire e di inquadrare la propria opera all’interno di un discorso. È interessante pensare a questo come se fosse un chiasmo: il rapporto tra le arti visive e la parola. Non viene chiesto ad un poeta uno Statement della propria poesia, non gli si chiede che cosa voglia dire ciò che ha scritto (almeno per ora). Viene richiesto quando appare qualcosa di visivo per cui, ad esempio, nel teatro – che pure viene insieme alla parola – appare la figura del drammaturgo, una figura in espansione nel teatro contemporaneo. Il drammaturgo e critico che costruisce quello che nelle arti figurative è lo Statement. Critico teorico di un’opera teatrale; banalizzando, dice che cosa vuole dire il regista o colui che scrive la pies teatrale; ci dice che cosa vuol dire quello che stiamo vedendo. Il teatro si pone in una posizione mediana tra questa assenza di necessità di spiegazione e la totale necessità di spiegazione delle arti visive. Quello che resta un punto fondamentale nel rapporto che noi contribuiamo a creare è questa necessità di mediazione della parola rispetto alle immagini, alle arti. Nella contemporaneità questa mediazione della parola viene intesa come una mediazione chiarificatrice; necessità di un passaggio da una situazione di oscurità alla posizione di chiarezza, intesa nel senso della parola grezza. Vi è la necessità di passaggio da una dimensione di oscurità/ ombra ad una dimensione di chiarezza/linearmente comprensibile. ➔ Questo passaggio non è sempre esistito! Per confrontarci con la contemporaneità non dobbiamo cadere nella trappola o nell’illusione che sia sempre stato così, perché a noi sembra normale che sia così, ma non è sempre stato questo. Esempi che ci fanno capire come le cose sono cambiate, che ci dimostra che quello che per noi è naturale un tempo non lo era (naturalità che cambia nel corso del tempo): - Storia della sessualità di Foucault, dove analizza come si trasforma la percezione della sessualità dai greci ai giorni d’oggi e ci dimostra come non esista una sola sessualità. L’omosessualità in Grecia era considerata la forma di sessualità più alta. - Storia della Follia di Foucault, dove analizza la trasformazione della follia dall’età classica all’800/900, dimostrando come la follia stessa sia stata molte cose diverse. Dalle forme di follia che hanno portato ai patrocini a diventare, nel corso dell’800 una malattia, ma non è sempre stata patologica. Forse una dimensione straordinaria, ma non patologica. I testi che ci aiutano a pensare e a capire che la parola critica non è sempre stata il luogo di spiegazione del quadro artistico. Quasi appunto come se sia naturale che un artista debba saper spiegare quale sia l’immagine che ha creato; è quasi naturale che un artista sappia spiegare che cosa ha fatto -> ma non è sempre stato così! Questo passaggio nella morte/aporia dell’apparato critico affidata al critico ha una storia che potremmo far risalire alla fine del 1700 nell’apparizione di due scrittori francesi: 1. Diderot, uno dei padri dell’illuminismo, che scrisse l’Enciclopedia (summa del sapere). Siamo all’interno della logica illuminista, ovvero una logica per cui il fine del sapere è liberare l’umanità dall’ignoranza. Non è più così. Noi non pensiamo che sia il sapere a liberare l’Umanità. Ma pensiamo che siano la tecnica, gli sviluppi tecnologici a liberare l’umanità o la possibilità di essere visibili; visibilità come liberazione, perché posso rendere visibile quello che sono e non perché conosco qualcosa. (società degli Influencer – i grandi sostituiti della critica sono gli influencer d’arte). 2. Baudelaire: che scrisse i fiori del male. Ma anche autore delle sue cronache dei Salon – luoghi in cui si esponeva e si veicolava l’arte al tempo. Scrisse anche un testo di critica d’arte, il pittore della Vita moderna, in cui lo scrittore pone le basi di una rottura tra le arti moderne e neoclassiche, che era un’arte dominante se pur in decadenza (pensiamo a David) e l’emergere di una nuova tendenza che non sia la bellezza immutabile dei canoni classici, ma che sia una bellezza che sia in grado di tenere insieme alla dimensione interna e l’attimo fugace (questa è la bellezza moderna di Baudelaire, che non è più la nostra) à Ad oggi il concetto di bellezza non fa quasi più parte dell’arte, perché non è dimensione fondante del gesto artistico produrre opere belle; esempio biografico: 10/15 anni fa il prof ebbe a che fare con un’artista americana, Hellen Mir, che produceva opere in cui comparivano pietre e muschi che lei stessa raccoglieva. Stratificazioni naturali accompagnate da stoffe. Il professore disse che erano molte belle, disposte in uno spazio espositivo importante. Lei ha smesso di fare opere così perché non voleva più fare opere belle. Il bello nella contemporaneità diventa un elemento da evitare perché il contemporaneo non si interessa a ciò. Tutto muta: quello che noi oggi pensiamo e sappiamo essere arte, non era quello che anche solo 100/200 anni fa era considerato arte. Era evidente che Baudelaire quando pensa al pittore moderno, pensa a Manet o descrive il grande mito della Delacroix. David con le sue forse neoclassiche che cerca di inserire la tradizione francese in un contesto passato la democrazia ateniese; invece, Delacroix pensa alla rivoluzione come una rivoluzione della forma anche. La democrazia che appare nel 1789 è tutta un’altra cosa; inventa un’altra forma pittorica. Un artista è un veicolatore/inventore di forme, mentre David è un veicolatore di significati. Inventore della forma rivoluzionaria - Emblema dell’iconografia della rivoluzione. ➔ Questione che ci poniamo: cercare di capire! (non si ha una risposta certa rispetto alla domanda che ci stiamo ponendo. Non si sa quale sia la possibilità di una parola critica oggi e non si sa neanche con certezza se esiste uno spazio per la parola critica oggi). Tuttavia, sappiamo che vi è una contraddizione nella prassi dell’arte contemporanea che da una parte produce delle opere che sempre più risultano incomprensibili per il senso comune – è all’ordine del giorno leggere che opere contemporanee vengono buttate via per errore, perché incomprensibili al senso comune (opere che vengono ad esempio scambiate per i resti del lavoro dell’imbianchino – è successo anche a ‘ruota di bicicletta’) à In qualche modo nell’arte contemporanea, forse grazie a Duchamp, è subentrata una dimensione a-semantica (al di fuori del significato). Questa introduzione alla dimensione asemantica ha portato, negli schemi psicanalitici, ad un ritorno del rimosso (citazione di Freud) = teoria psicanalitica con cui si descrive il processo di rimozione, ovvero quando una dimensione psichica/istanza psichica (es. un desiderio) viene negato. Più però a questo desiderio gli si impedisce di manifestarsi (viene rimosso), più tornerà a galla. L’inconscio è un territorio, un luogo di forze. Il ritorno nel rimosso, nella sfera del semantico, nel nostro caso è una necessità di significato, di qualcuno che ci dica che cosa vuole dire quell’opera. Quasi che l’opera privata del suo significato venga privata del suo significato reale à Circolo vizioso in cui l’opera per la quasi totalità degli esseri umani, guardandola non significa nulla al punto che se viene delocalizzata da un posto espositivo ad un posto non espositivo non viene riconosciuta come opere. (se sposto un sasso da un museo ad un bosco, quel sasso non ha più significato in quanto opera) se faccio il contrario e porto il sasso all’interno del museo quello diventa un’opera, per tutta una serie di convenzioni sociali, economiche, etc. posso dire che quella è un’opera d’arte (è in un museo, su un piedistallo, firmata). De-locazione che in base ad un contesto istituzionale fa diventare un’opera insignificante un’opera d’arte e questo basta a chi si adegua al codice istituzionale/ chi ha i mezzi per capire che una stanza è una galleria d’arte/un luogo espositivo e che dunque vi riesce a vedere un’opera. Ma chi non ha i mezzi per capire che siamo in un luogo espositivo continua in quell’oggetto a NON vederci un’opera. Non lo riconosce perché non riconosce i codici sociali (spaziali, economici, etc.) che danno significato all’opera. Da qui la delega della società all’artista a spiegare la sua opera; il sogno è avere l’artista che possa spiegare al maestro. Ci troviamo difronte ad un’aporia = impossibilità di decidere se andare da una parte o dall’altra. Produrre delle opere che non si interessano alla sfera del significato e Dall’altra dover ottenere un significato da colui che produce l’opera stessa. Giustificare dando un significato. Aporia che potrebbe essere schizofrenia; far entrare l’opera in una rete di significati altamente comprensibili. Questa schizofrenia è una forma di traduzione/ di traslitterazione dell’opera attraverso un linguaggio semplificatorio. Vi è una semplificazione dell’arte, perché si toglie all’arte la propria complessità/inafferrabilità. Niezsche per nichilismo intende un passaggio epocale di cui si sente un ago di un sismografo che sente un terremoto e un passaggio da una società fondata sull’essere con tutti i suoi valori (fino al 600 i valori biblici) che sta crollando nel nulla. L’essere quindi sprofonda nel nulla, sprofondando nel nulla la metafisica porta con sé tutti i valori che gli si erano attaccati intorno. Viviamo in un'epoca nichilista cioè che non ha più valori perché sono sprofondati nel nulla. Quello che succede, come aveva individuato anche Dostoevskij, nei Fratelli Karamazov: se non esiste dio allora tutto può è possibile e nulla ha valore. L’avvento del nichilismo con Niezsche si ha con la morte di dio nel suo libro. Così parlò Zarathustra. Il sistema valorale decade e viene sostituito da un altro sistema di equivalenza universale cioè il denaro, comprensibile a tutte le civiltà. L’unico linguaggio che è rimasto è il denaro, in questo momento storico tutto ha un prezzo compresa la vita e la morte, ad esempio nel sistema sanitario americano. Esistono due tipi di nichilisti, uno passivo cioè colui che dice nulla ha senso e il nichilista attivo che vuole fondare un nuovo sistema. Bey aggiunge a questo concetto il come cioè tramite l’immaginazione. Tutto questo Bey lo chiama anarchismo ontologico o anarchia ontologica dal quale si traggono delle conseguenze politiche come, ad esempio, la forma-stato che si fonda su un’idea di essere. Stato indica qualcosa di definito che non muta più perché è già stato. Bey invece vuole puntare all’infinito, non a ciò che è stato ma a ciò che sarà, quindi qualcosa di indefinito e non concluso. Bey rivendica il caos e il nulla come elemento vitale, lo stato è un elemento morto. Bey aggiunge poi una sfumatura alla prima frase in cui l’immaginazione converge con quello che lui chiama il desiderio; a fondamento dell’immaginazione c’è il desiderio. “Solo il desiderio crea valori”. Far coincidere l’atto creativo con il desiderio significa sottrarlo ad una dimensione di razionalità, di economia. Il desiderio è il luogo dove si fanno cose che non hanno una ragione, che non seguono principi della razionalità. Il desiderio è una forma di spinta, una pulsione cieca (come direbbe Freud). L’artista deve essere colui che non mette a tacere il proprio desiderio. I valori normali della società sono la negazione del desiderio o la sua regolamentazione. L’arte dovrebbe ricordare che il desiderio è il principio fondante della scala valoriale. • Hakim Bey: sostiene che il senso della sua vita e l’essenza stessa del lavoro e del lavoratore. Infatti, l’artista che comunque utilizza un lavoro libero, esprime il senso di un lavoro e di una vita intera dentro un’opera d’arte. • Sostiene che l’arte ha un corpo, l’arte è un corpo, che l’arte gioca di immaginazione che crea potenza. Non si può dire se l’arte e comunicabile e toccabile, perché ogni persona la vede in maniera diversa. • L’arte si occupa di fenomeni sociopolitici • Per bey è importante il modo con cui viene condivisa l’arte, più condivisione che consumo, la condivisione crea la comunità. • Non può esistere una rivoluzione nell’arte perché crea oppressione, il singolo crea libertà. • Una delle possibilità per arrivare al libero legame è l’arte, perché è un legame che si fonda su delle regole, che si basano sulla comunicazione e la comunità che a sua volta è composta da individui che sono arrivati alla libertà, vivono senza imposizioni e vivono comunque il legame sociale. CONSAPEVOLEZZA DELL’IMMEDIATEZZA (IMMEDIATO) 1993 IMMEDIATISMO Lui dice che noi artisti ci occupiamo di arte, ci occupiamo dei fenomeni artistici, tutti questi all’interno di questa costanza devono stare attenti all’immediato, perché quello che tu crei, lo rendi immediato nell’istante in cui lo crei, perché così riesci a farlo arrivare, trasmetterlo a chi guarda. L’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte; la vita in sé rischia di fuggire, talmente grande che deve passare in mezzo all’arte, l’arte fa comprendere che la vita è decisiva. Hakim Bey Cosa significa Immediatismo? Significa rendere l'esperienza e la comunicazione con gli altri il meno mediata possibile, perché la mediazione finisce per favorire la dimensione utilitaristica ed economica. L’Immediatismo è un concetto introdotto da Hakim Bey, pseudonimo di Peter Lamborn Wilson, che consiste nell’invito a vivere l’esperienza diretta della vita, senza mediazioni. L’Immediatismo, che vive di questa strana ambiguità tra l’essere solo un gioco e, allo stesso tempo, incarnare, attraverso il suo modus operandi, delle istanze estetico-politiche rivoluzionarie, sembra rivelarsi infine e più ingenuamente una sorta di semplice slancio, pulsione o incoraggiamento. Anarchismo ontologico: ovvero l'idea di un'esistenza infondata - da intendersi come caos articolato dal desiderio, che è eros e causa prima generatrice di forme e di valori - espressa attraverso l’immaginazione, in un flusso dinamico, in divenire, non mediato. L’immediatismo così si auspica la penetrazione del meraviglioso nella vita quotidiana, attraverso la creazione di situazioni che appartengano al principio corporeo della materia, all’immaginazione e al tessuto vivente del presente. La realizzazione di questa immediatezza e la sperimentazione dei confini dell’esistenza, amplierebbe “il circolo di piacere” (Nietzsche e Faurier), che realizzerebbe l’individuo, la sua autonomia o un gruppo di individui nelle loro relazioni. Si tratta della pratica di una creatività gratuita, nel contesto di una convivialità, di un’auto-organizzazione e auto-valorizzazione del tempo libero; nel contesto del gioco (epistemologia dada) e della festa, in cui gli oggetti e l’arte vivano in un regime basato sullo scambio dei doni. Questa pratica sociale si porrebbe al di fuori della società spettacolare, che prevede una struttura psichica ed economica organizzata e alienante, in cui rientra anche un’arte mercificata e “corrotta”, lontano della vita. Si tratta così di un’arte outsider, calata nella vita, non rappresentativa, definita im-mediata in quanto non passa attraverso il para-medium dello spettacolo, ma è destinata all’artista e alla sua cerchia, in una reciprocità positiva, in cui l’immaginazione viene praticata, con l’ideale di uno sciamanesimo democratico, che si auspica un paleolitico psichico, una tecnologia psichica e un materialismo primitivista, in cui si fondano vita e bellezza, senza separazioni. Prevale l’affermazione di un “senso” fisico e fondato nell’organico. Nel gioco immediatista la persona è coinvolta corporalmente e in prima persona, non rappresenta ma è la vita quotidiana, sostenendo così, con i situazionisti, la soppressione dell’arte che altro non è che la realizzazione della vita. Questa è secondo Bey la salvezza rispetto ad un linguaggio autoreferenziale e corrotto che riproduce sé stesso, di debordiana memoria, staccandosi dalla vita. L'immediatismo non è una dottrina definita, non istituisce nuovi canoni estetici o morali; l'immediatismo è una spinta, un incoraggiamento, un "trieb", una pulsione affinché il soggetto, ognuno di noi, si getti nell'esperienza vivente di un'esistenza che sperimenta i propri confini, al di là delle barriere in cui la società, la dimensione economica e quella utilitaria sembrano rinchiuderla. FEDERICO FERRARI – ANTINOMIA CRITICA In questo libro non viene affrontato un discorso, ma viene affrontato un percorso sul metodo, attraverso la spiegazione di esso, e dell’utilizzo di leggi e risposte che alla fine non vengono mai date per davvero. Il titolo ‘’Antinomia Critica’’ ovvero opposizione alla legge, opposizione al metodo, perché non ne abbiamo uno, unico e certo, in quanto ogniuno di noi cammina su una via senza sapere dove porterà, questa teoria viene portata avanti anche da Feyerabend, dove lui sosteneva che "tutte le metodologie, anche quelle più ovvie, hanno i loro limiti" e che accettare un determinato metodo, sia anche quello scientifico, ha come conseguenze la perdita della complessità umana e del flusso storico, ovvero quello che noi potremmo fare senza seguire nulla, senza avere dei metodi e delle leggi, come se il metodo le leggi bloccassero il flusso naturale delle cose, infatti afferma che molte scoperte sono state realizzate per caso, proprio nel momento in cui l’uomo non stava affatto seguendo il metodo, quindi, lui crede che bisogna concedere libero spazio alla creatività e all’immaginazione, evitando di lasciarsi ingabbiare nelle strettoie del metodo. Il libro ci parla di Andrea Cortellessa, un critico letterario della letteratura italiana, lui infatti applica delle vere analisi per quanto riguarda il linguaggio critico, lui rende giustizia alla polisemia dell’arte guidando i propri lettori in un labirinto di parole, in quanto tende a dare ad ogni parola tutti i propri significati, varia con la varietà di significati. Ci parla dell’antinomismo, è la dottrina secondo la quale i membri di una particolare comunità sono liberi di non osservare determinati precetti etici o morali. , ovvero non seguire le leggi, parla del suo non sostenere le leggi, che per quanto non vengono comprese a pieno, vengono comunque rispettate, vede la legge come una forza violenta, in quanto tende a imporre delle cose che non ci sono chiare, che non conosciamo a pieno e che non ci vengono spiegate. Nella spiegazione delle leggi, ci parla di Kafka e dei kafkiani che non arrivano mai a sapere da dove vengono le leggi, i decreti, le ragioni dei giudizi che vengono applicati e quella dei racconti, che spesso non giungono alla fine. Il libro successivamente ci parla ‘’dell’opera’’ dice che l’opera ha una voce, e il critico indica il punto in cui questa voce si rende udibile, ovviamente non è detto che lui riesce a comprendere esattamente quel che la voce dell’opera vuole dire, in ogni caso ciò che percepisce e quello che percepisce lui, cerca di dare risposte a quello che sente, a quello che l’opera vuole trasmettere, alla voce che ha. Lui fa da eco a chi è muto, come dice Kafka, il critico, parla, analizza per rendere esplicito ciò che è implicito. All’interno di ogni opera noi vediamo e sentiamo quella che è la voce dell’autore, esprime il suo vedere, il suo sentire, la voce dell’autore, ci permette di dare un'identità all’opera. La parola critica nasce dal sapere, per quanto da spesso un sapere non gradevole, dà la possibilità comunque di sapere qualcosa in più. Il critico si muove nello spazio che l’autore lascia nel momento in cui si ritira dalla possibilità di dare un significato all’opera reale nel momento della realizzazione. Il critico si muove dove l’autore decide di non muoversi. Praticare e mettere in atto un pensiero critico, non è facile, perché significa, avere coraggio, il coraggio non solo di opporsi a tutte quelle che sono le leggi, ma non farsi mai sconti ed essere sempre sinceri, potremmo trovare crudeltà nel coraggio, ma ci permette di vivere una vita più reale, ci rende meno pagliacci e andare contro questo grande circo. Ci parla di quanto il coraggio ci permette di portare avanti le nostre idee, e la nostra dignità e che questo non potrà portare al cambiamento del mondo, però potrà portare ad un cambiamento di noi stessi, l’obbiettivo non è arrivare dove gli altri vogliono che arriviamo, ma arrivare ad essere fieri e non deludere noi stessi. Ci parla della costante ricerca nel cercare un significato alle opere, come le l’opera stessa non fosse abbastanza, come se ci fosse il bisogno di cercare un significato perché non si regge il calore e la luce dell’opera stessa, come se l'opera fosse un testo a cui applicare un metodo, ma guardare l’opera dovrebbe dopo, solo potare a vedere il mondo e certe cose, con occhi diversi, in quanto l’arte tende a riuscire a rompere i muri dell’irrealtà. Ci parla dell’infante (bambino) partendo da una fotografia di Nan Goldin (fotografa e attivista, Il suo lavoro più noto è The Ballad of Sexual Dependency (1985), una sorta di slide show composto da circa 700 immagini scattate tra il 1979 e il 1985, nelle quali Goldin ha ripreso le sue esperienze personali e amorose all'interno della "famiglia allargata" in cui ha vissuto nel quartiere di Bowery in quegli anni, la sottocultura gay e dell'eroina, trasformando "l'istantanea familiare intima in un genere artistico" e in un'arte fotografica) dove rappresenta una bambina che danza, il momento in cui il bambino si stacca dal mondo per diventare altro, ci parla della vita, della felicità, della semplicità del bambino. Tutto è ancora lì, guardo quello che ero e che non sono più. Vuole che sia il mondo a girare intorno a lui, guardare l’immagine ci dà la possibilità di renderci conto che si può ricominciare sempre tutto daccapo, la possibilità di non dare mai niente per scontato, quindi cadiamo nell’immaginazione, nel trasporto, ci permette di sognare, come i sognatori come i visionari, gli artisti che si perdono nell’immagine attivando la loro immaginazione. Chiudere gli occhi sul presente per provare a d'immaginare il futuro. Michele Mari: (Milano, 1955) è un autore poliedrico: scrittore, poeta traduttore, filologo italiano, sperimentatore nell’ambito della fumettistica, professore di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Milano, collaboratore con il “Corriere della Sera”, la “Repubblica” e il “Manifesto”. Anticonformista rispetto ai tempi, non si è mai piegato all’aspetto pubblicitario, che ha vinto, invece, la letteratura di oggi: detesta i firmacopie, si concede a poche interviste e convegni. In questi, risponde alle domande con naturalezza, senza costruzioni artificiose, concedendosi a raccontare curiosità dell’ambito privato. Ha confessato di essere vinto da una smania di collezionismo: accumula costantemente oggetti. I suoi oggetti, che siano un pezzo unico o un prodotto in serie, diventano portatori di pezzi di memoria, e l’autore si rivede in questi, assumono significati personali ed esclusivi. Lui è stato capace di scrivere sulla nostra epoca e sulla nostra società; infatti, l’atto creativo nella scrittura poetica di Michele Mari nasce da un senso di duplicità, da mostri doppi: è una leggenda privata, citando il titolo della sua autobiografia. È una poesia spirituale, in cui ritorna spontaneamente la complessità strutturale e metrica della tradizione poetica. I suoi studi, il materiale erudito acquisito, il mondo contemporaneo e le curiosità approfondite riaffiorano, infatti, nella scrittura in maniera totalmente automatica e naturale, non perdendo complessità strutturale. È una scrittura originale in cui la leggenda, ciò che appartiene all’ambito della tradizione erudita, si unisce al privato. Colpiscono gli ingenti richiami all’arte canonica, moderna e contemporanea: richiami biblici, della tradizione letteraria italiana e straniera, delle arti figurative, della filosofia e del mondo dei mass media. Come gli oggetti collezionati, questi richiami perdono alcuni aspetti dei loro significati originari, acquisendone di intimi e privati. Winfried Sebald (scrittore tedesco Più volte annoverato da eminenti critici letterari fra i più grandi saggisti e prosatori contemporanei, prima della sua improvvisa e tragica morte, avvenuta in un incidente stradale, in molti lo avevano individuato come possibile vincitore del Premio Nobel per la letteratura. Le opere di Sebald si concentrano soprattutto sul tema della memoria e dei ricordi, specie quelli personali e collettivi. Sono principalmente un tentativo di riconciliare sé stesso - in termini sia personali sia letterari - con il trauma della Seconda guerra mondiale e i suoi effetti sul popolo tedesco. Le sue profonde preoccupazioni in merito all'Olocausto vengono espresse in diversi scritti, che tracciano le sue connessioni biografiche con gli ebrei. Le sue opere sono scritte in tedesco, ma tradotte in diverse lingue, tra le quali l'inglese che lui stesso controllava attentamente insieme ai relativi traduttori, tra cui si annoveravano Anthea Bell e Michael Hulse. Tra le opere principali si segnalano Austerlitz, Gli anelli di Saturno, Gli emigrati e Vertigini. Tali scritti sono una combinazione curiosa di fatti (o fatti apparenti), memorie e fantasia, spesso corredati di fotografie in bianco e nero che vengono a fungere da contrappunto alla narrativa, piuttosto che illustrarla direttamente. Tutti i suoi romanzi sono presentati come osservazioni e rimembranze di Sebald mentre viaggiava in svariate parti dell'Europa) a differenza sua, non cerca di far dire all’immagine la verità del testo, né al testo la verità dell’immagine, ma lascia che ogniuna rende misterioso la verità dell’altra. Lui pone immagine e testo come due specchi posti uno di fronte all’altro, ovvero che quello che viene descritto nella scrittura si ritrae nell’immagine e quindi viene riprodotto all’infinito. Georg Groddeck: è stato un medico e psicoanalista tedesco, è considerato il fondatore della medicina psicosomatica, era un uomo fermamente convinto delle sue idee, era affascinato dal mistico in quanto per lui lo portava verso la il sentiero della vita. Lui nella sua infanzia, aveva conservato dentro di sé l’idea e dentro il suo pensiero un bambino, (infatti il termine ES nella psicoanalisi si deve a lui, lasciava libero dentro di sé, il pensiero di quei ricordi.) Infatti, all’interno del suo libro dell’es, scrive che l’essere adulti e sono qualcosa che mostriamo in superfice in quanto non è facile esserlo sempre, perché noi ci limitiamo a giocare a fare i grandi, proprio come i bambini, e quando veniamo presi dalla vita sentimentalmente, torniamo bambini. Infatti, la vita comincia con l’infanzia, e per tutto il resto della vita l’uomo non fa che seguire uno scopo. Elvio Fachinelli: si batte tutta la vita per la ricerca sull’inconscio, lui cercava di contaminare i saperi, in primo luogo il suo sapere, perché era convinto che ci fossero molti luoghi il cui l’inconscio poteva emergere. Nel suo libro la mente estetica, Facchinelli, in questo libro parla della questione dell’inconscio, andando oltre i confini della psiche. Lui si oppone alle teorie, infatti, Fachinelli si opponeva all’interpretazione della psicoanalisi che era stata imposta dall’Ego Psychology, sulla scia dell’opera di Anna Freud. Secondo questa concezione l’Io – considerato parte sana dello psichismo, di contro a quel mascalzone dell’Es e a quello sbirro severo del Super-Io – deve essere rinforzato dall’analisi in modo da resistere, come una fortezza assediata, agli attacchi opposti e congiunti delle pulsioni da una parte, e del Super-io (delle coartazioni morali) dall’altra. L’Io è una cittadella minacciata che deve adattarsi all’ambiente circostante per sopravvivere. Questa concezione proviene da una certa parte della visione di Freud dell’inconscio, come luogo in cui viene ricacciato tutto ciò che ci dà fastidio. Invece per Fachinelli (e per un certo Freud) l’inconscio non è solo la pattumiera del rimosso che non troverà mai il suo incineratore, ma è una forza creativa e dirompente che tende a far saltare i sistemi di difesa. È l’idea di inconscio che Freud ha fatto emergere in un saggio – considerato irrilevante dal mainstream psicoanalitico – Il motto di spirito nei suoi rapporti con l’inconscio. Qui Freud ci descrive l’humour non come il ritorno di qualcosa di rimosso, ma come un processo creativo che ci dà piacere, difatti ci fa ridere. Nelle battute di spirito l’inconscio non ci infligge guai, e nemmeno sogni, ma ci libera nel riso. Si prenda una battuta qualsiasi, anche assurda: “Perché gli elefanti hanno le zampe rotonde?” Risposta: “Per non cascare nelle buche quadrate”. Da ragazzo questa battuta mi fece molto ridere. C’è qui ritorno di qualche rimosso? No. La battuta può farci ridere perché avviene una trasgressione, certo, ma non della rimozione, bensì di quella che chiamerei “spiegazione scientifica”. La potremmo considerare una satira flash delle spiegazioni “darwiniste” che oggi vanno per la maggiore, e che nelle università si insegnano come psicologia evoluzionista. Quando facciamo una battuta, non muoviamo delle cose rimosse, ma giochiamo, per lo più col significante. Quindi l’inconscio non è solo rimuovere, reprimere, metter via, ma è anche una forza attiva, trasgressiva e creativa. L’idea fachinelliana dell’inconscio è quindi un’estensione del Freud del Witz, del motto di spirito. E difatti giungerà a dire che ciò che tendiamo a evitare, in fondo, non sono le cose che veramente ci disturbano e ci fanno male, ma qualcosa che lui stesso chiamerà gioia eccessiva. È il paradosso dell’umano, sia a livello della vita individuale che di quella collettiva: che fuggiamo da una gioia che consideriamo sovrabbondante. Il che si congiunge al tema, così importante nell’ultimo Lacan, del godimento come essenza stessa dell’umano. Peter Handke: è uno scrittore, drammaturgo, saggista, poeta, reporter di viaggio, sceneggiatore e regista austriaco. Lui ci parla di realtà, dai suoi libri comprendiamo la vita, infatti non si ferma mai a ciò che è, senza dimenticare mai quello che è il mondo brutale, non fugge da se stesso, ma si affaccia sempre, anche se minima, esistenza su se stesso, crede nella parole e nelle immagini, non troviamo entusiasmo ma troviamo attenzione in verso tutto ciò che accade, troviamo una fedeltà nel suo vissuto, alla vita, al ritmo di ogni giorni, troviamo curiosità un appetito del mondo che lo porta a scoprire a conoscere e ad apprezzare. Gershom Scholem: è stato un filosofo, teologo e semitista israeliano, proveniente da una famiglia ebraica di origine tedesca. Scholem pone il suo approccio storiografico allo studio del misticismo ebraico in diretto contrasto con quello della scuola ottocentesca della Wissenschaft des Judentums (scienza del giudaismo). L'analisi del giudaismo da parte di questo movimento ha, agli occhi di Scholem, due gravi carenze: studia il giudaismo come un oggetto morto posto su un vetrino di microscopio anziché come un organismo vivente e non tiene in considerazione il "fondamento" stesso del giudaismo, le forze irrazionali che vivificano là religione. Per Scholem le componenti mitiche e mistiche sono altrettanto importanti che quelle razionali. Tuttavia, egli non vuole seguire le orme di chi ha abbracciato la mistica ma non là storia degli Ebrei. In particolare, è in disaccordo con Martin Buber a cui rimprovera la personalizzazione dei concetti cabalistici e l'ignoranza della storia, della lingua e della patria ancestrale del popolo ebraico. Nella Weltanschauung di Scholem l'indagine del misticismo ebraico non può prescindere dal contesto storico. Partendo da una sorta di Gegengeschichte (controstoria) nietzschiana egli arriva ad includere nella storia "pubblica" molti degli aspetti meno "normativi" del giudaismo. Quest'impeto di conferire legittimità all'irrazionale deriva, come quello della Wissenschaft, più o meno direttamente da Buber. Tuttavia, le vedute "contro-storiche" (gegengeschichtlich) di Scholem comportano il concetto di tradizione come forte legame tra gli Ebrei di ieri e gli Ebrei di oggi (adesione al sionismo). Specificamente Scholem concepisce la storia ebraica come formata grosso modo da tre stadi: 3. Durante il periodo biblico il monoteismo lotta contro il mito senza riuscire a sopraffarlo completamente. 4. Nel periodo talmudico parte delle "istituzioni" – per es. nozione del potere magico dell'adempimento dei sacramenti – viene eliminata a favore di un concetto più puro della trascendenza divina. 5. Nel periodo medievale, posti di fronte all'impossibilità di conciliare il Dio astratto della filosofia greca col Dio personale della Bibbia, i pensatori ebrei come Mosè Maimonide, nel loro tentativo di eliminare i residui del mito, snaturano la figura del Dio vivente. È a partire da quest'epoca che si sviluppa il misticismo inteso come sforzo teso a ritrovare l'essenza del Dio dei padri. La nozione dei tre stadi, con le sue interrelazioni tra irrazionale e razionale, porta Scholem a formulare tesi assai controverse. Secondo la sua opinione è dalla Qabbalah luriana che si sviluppò il movimento messianico cinquecentesco del sabbatianesimo. Per neutralizzare il sabbatianesimo, come sintesi hegeliana, sarebbe sorto il Chassidismo. Molti che aderivano al Chassidismo perché vi vedevano una congregazione ortodossa accolsero come uno scandalo l'idea che la loro comunità avesse un rapporto così stretto con un movimento "ereticale". Similmente Scholem ipotizzò come fonte della Qabbalah duecentesca un ipotetico gnosticismo ebraico anteriore a quello cristiano. L'approccio storiografico di Scholem implicava anche una teoria linguistica. Diversamente da Buber egli credeva nella capacità del linguaggio di evocare realtà sovrannaturali. E, in contrasto con Benjamin, poneva l'ebraico in posizione privilegiata in quanto unica lingua in grado di adombrare la verità divina. Scholem immaginava i cabalisti come interpreti di una rivelazione linguistica preesistente. (per lui e pe Kafka il senso del racconto resta nascosto) Un pensatore che è stato capace un po' per merito un po' per il caso della vita a lasciare un'impronta nel proprio tempo, influendo sulle successive generazioni è Georges Didi-Huberman, storico dell’arte e filosofo francese, (1953) e noto per il suo approccio multidisciplinare alla teoria dell’arte. Nel corso della sua carriera, Didi-Huberman ha sviluppato un pensiero complesso e innovativo che si basa sull’analisi delle immagini e sulla loro relazione con la memoria, la storia e la politica. Il suo concetto sul “regime delle immagini” di Didi-Huberman, che si riferisce alle diverse modalità attraverso le quali le immagini vengono prodotte, distribuite e consumate. Didi-Huberman sostiene che ogni epoca storica ha il suo regime delle immagini, che influisce sulla nostra percezione e comprensione del mondo. Esploreremo come Didi-Huberman analizza il passaggio dal regime delle immagini sacre a quello delle immagini profane, e come quest’ultimo ha influenzato la nostra società contemporanea. Didi-Huberman analizzano come l’iconoclastia (ovvero la distruzione o la rimozione di immagini considerate eretiche o idolatriche.) sia una pratica politica che mira a cancellare la memoria e a imporre un nuovo regime delle immagini. Esploreremo come Didi-Huberman collega l’iconoclastia alla violenza politica e alla negazione della storia. Didi-Huberman sostiene che le immagini possono rivelare tracce della storia che altrimenti sarebbero state dimenticate o negate. Esploreremo come Didi-Huberman analizza l’immagine come documento storico e come strumento di testimonianza. Ma quindi lui chi è? Un filosofo, uno scrittore? Uno storico dell'arte. La sua identità, la sua immagine. Le sue figure di pensiero si rincorrano come fantasmi. Non hanno un'unica forma, una forma finale su cui poggiare. Il lettore alla fine dovrebbe cercare di rintracciare il filo conduttore per mettere in ordine frammenti della sua identità. Una volta montata una sequenza. Una volta che viene intravista una faccia del suo pensiero, è possibile forse avere un quadro chiaro. Alla fine, lui ci ha aiutato a guardare noi stessi, a guardare il mondo, e già questo lo rende un grande pensatore, uno di quelli che permette a una generazione di vedere i propri occhi nell'atto di guardare, guardare, dare valore a ciò che guarda. In fondo l'occhio sa che può solo vedere, vedere, la bellezza, ma non la può trattenere nei suoi occhi, non può fissarla. John Berger: è stato un critico d'arte, scrittore e pittore britannico. Il suo romanzo G. ha vinto il Booker Prize e il James Tait Black Memorial Prize nel 1972. Lui con la sua scrittura ha aiutato diverse generazioni, uno dei suoi libri più stimolanti è ‘’ I nostri volti, amore mio, leggeri come foto.’’ È un libro particolarmente disordinato, Si tratta di una raccolta di poesie, alcune narrative e altre saggistiche, e sono divise in due grandi sezioni, ‘’una volta’’ e ‘’qui.’’ Sullo sfondo troviamo la figura di una donna alla quale ogni testo è destinato, Questo Libro parla d'amore, di un amore che sta prima di ogni cosa, prima di ogni individuo, l’amore in queste pagine appare come condizione di possibilità. Vedere è molto più semplice di quello che abbiamo sempre pensato, vedere e amare, amare e vedere. Andrej Tarkovskij: è stato un regista, sceneggiatore, montatore, scrittore e critico cinematografico sovietico. Il suo cinema è caratterizzato da lunghe sequenze, da strutture narrative atipiche e non convenzionali, da un distinto uso della fotografia cinematografica e da tematiche di tipo spirituale e metafisico. Roman Opalka (1931-2011) fu un artista concettuale polacco, nato in Francia, che trascorse la propria carriera artistica dipingendo dei numeri, un’attività funzionale alla rappresentazione grafica del trascorrere del tempo. Iniziò dal numero 1, nel 1965, e passò tutti i giorni della propria vita a disegnare i numeri seguenti, raggiungendo il numero 5.607.249 il 5 agosto del 2011, vigilia della sua morte. Per la sua prima tela, o “dettaglio” come li chiamava, Roman decise per uno sfondo nero di 195 x 135 centimetri, con l’altezza corrispondente alla sua altezza fisica e la larghezza presa a prestito dalla porta del suo studio di Varsavia. Iniziò dall’angolo superiore sinistro, disegnandovi sopra l’1, e continuò a dipingere file ordinate di piccoli numeri consecutivi da un lato all’altro della tela. Quando raggiunse l’angolo in basso a destra disegnò il 35.327, ma quello era solo l’inizio del suo viaggio verso l’infinito. Tutte le tele si chiamano 1965 / 1 – ∞. Nel corso dei 46 anni seguenti, trascorsi a dipingere sequenze di numeri, Opalka completò un totale di 222 tele, o dettagli, e disse che sperava di raggiungere il numero 7.777.777, un numero con “un significato profondo, filosofico e religioso”. La morte lo fermò prima, a quota 5.607.249. Nel 1972, Roman Opalka prese la decisione di rendere ogni tela più bianca dell’1% rispetto a quella precedente, in modo che a un certo punto riuscisse a dipingere bianco su bianco, un traguardo che chiamò “blanc merité” (meritato bianco). Opalka raggiunse il proprio obiettivo nel 2008, e quindi i numeri dipinti durante gli ultimi 3 anni sono tutti bianco su bianco. In un saggio del 1987 descrisse l’impossibile sfida di dipingere all’infinito come metafora dell’esistenza umana. “Il tempo che viviamo incarna la nostra progressiva scomparsa. Siamo allo stesso tempo vivi e di fronte alla morte, questo è il mistero di tutti gli esseri viventi “. Opalka, che visse la propria carriera artistica fra Parigi, Varsavia e Venezia, partecipò a diverse Biennali d’Arte della città lagunare e venne insignito di numerosi riconoscimenti per la propria attività artistica. Morì nel 2011 durante una vacanza in Italia, vicino Roma. Robert Morris: è stato uno scultore statunitense. È uno dei principali e teorici artisti del minimalismo, ma ha anche dato importanti contributi sulla performance art e sull'installazione. Dal 1964 propone grandi strutture di geometria solida elementare, realizzate con lamiera o con pannelli traforati a graticcio. L'attenzione delle grandi strutture doveva protrarsi tutta all'esterno, cioè alle caratteristiche reali. L'artista intendeva eliminare i giochi di relazione tra le varie parti di una composizione. Nel 1964 diventa professore d’arte all’Hunter College, dove rimane per tre decenni. Nel 1966 Morris pubblica una serie di saggi su Artforum intitolati Notes on Sculpture, in cui spiega come l’arte minimalista dipenda dal contesto della sua creazione e dalla natura della percezione. “Vedere un oggetto nello spazio reale potrebbe non essere un’esperienza molto immediata. Gli aspetti sono sperimentati; il tutto è assemblato o costruito”, scrive l’artista, e molte delle opere realizzate in questo periodo e fino agli anni Settanta giocano su questi fattori: Untitled (L-Beams), un’opera iconica del Minimalismo realizzata nel 1965, presenta forme a L costruite in compensato e presentate piegate sul pavimento, stese su un fianco o in piedi, in modo che gli spettatori possano girarle attorno. Altre opere sono state fatte con specchi, che portano lo spazio espositivo circostante nell’opera stessa attraverso i riflessi, alluminio, legno, stracci, terra, video. Morris ha realizzato alcune opere legate anche al Concettualismo: in Card File del 1962, l’opera racconta la sua stessa produzione. Attraverso una serie di testi dattiloscritti su schede che sono indicizzate alfabeticamente in una scatola di metallo, l’opera descrive il processo di Morris, a partire dall’acquisto delle carte da parte dell’artista e dall’ideazione del pezzo elaborata nella biblioteca pubblica di New York. E Box "alcuni dei suoi enunciati sono volutamente ambigui, poiché crede che abbiano simultaneamente un significato ordinario e un significato più complesso" (Wittgenstein, Lettere a C. K. Ogden, ed. Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 122). Esso appare come un testo dogmatico, come una sorta di Bibbia o di Corano, oggetto di rivelazione. Ma è un testo "religioso" molto particolare, in quanto è come se avesse trasferito l'ideologia mistica nel campo della logica. Wittgenstein ha dato certamente un contributo significativo alla logica, che è una delle scienze della filosofia, separandola però dai fatti, cioè rendendo i concetti di vero e di falso del tutto formali (fittizi). C'è della presunzione insopportabile nel primo Wittgenstein, che doveva avere una grande considerazione di sé, almeno sul piano intellettuale. Egli, infatti, era convinto d'essere talmente avanti rispetto agli altri filosofi (o logici, poiché in cui i due ambiti coincidono), da ritenere quasi impossibile che il suo Tractatus potesse essere capito. Eppure, lui stesso, nella seconda fase del suo pensiero, arriverà a rettificarlo in molti aspetti, "umanizzando", per così dire, il suo pensiero. Parla chiaramente di questa particolare difficoltà interpretativa nella Prefazione dello stesso Trattato: "Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili" (p. 23). Dunque, figuriamoci come avrebbero potuto capirlo tutti gli altri! È incredibile che un filosofo arrivi a dire che la sua opera potrà essere compresa solo da un lettore che preventivamente la pensa come lui. È come se qualcuno chiedesse d'essere letto non perché ha qualcosa da comunicare, ma soltanto per chiarire a sé stesso le proprie idee: questo atteggiamento, che sarà una costante nella sua vita, fa parte di una filosofia più generale chiamata solipsismo. (ogni interesse è incentrato su sé stesso, tutto ciò che non è nella propria sfera di interesse viene ignorata, in filosofia afferma che l’individuo pensate può affermare con certezza solo la propria esistenza, in quanto tutto il resto fa parte di un mondo a lui esterno.) La suddetta presunzione è infatti visibile anche nell'obiettivo che il Trattato si pone: quello di mostrare che la filosofia non è in grado di risolvere i propri problemi perché non è abbastanza logica. In altre parole, la filosofia dovrebbe parlare solo di ciò che ha già un senso logico: "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.’’ proposizione numero uno: Secondo Wittgenstein la logica ha bisogno di partire da quel che c'è, limitandosi a svolgere un lavoro interpretativo, quindi interpretare quello che si ha, per lui i I fatti devono essere semplicemente meglio compresi, non modificati, quando avviene una contraddizione, questa è formale, ovvero viene fatta perché richiesta dalla logica, che ha bisogno di verificare l'opposto di ciò che viene affermato, per trovare una sorta di verità al negativo. È la logica che decide la coerenza dei fatti, non sono i fatti che decidono la coerenza della logica. Viene da una famiglia benestante, di alta cultura, è un ragazzo estremamente intelligente e particolarmente problematico, studiato in una scuola statale di indirizzo tecnico, Adolf stava nella scuola con lui. Si appassiona alla matematica e al fondamento del sapere scientifico e matematico, appartiene ad una famiglia benestante è molto inserita nella cultura, si rende conto che esistono altre persone che si occupano di queste teorie ovvero rassel, nel 1912 a 23 anni e scrive ad rassel dicendo che si sta interessando a queste questioni, che vorrebbe studiare, e rassel lo sprona ad andare in Germania a seguire i corsi di freghel, e resta colpito, perché scopre una sua vocazione, scopre qualcosa che gli interessa davvero, segue i suoi corsi e continua una relazione co rassel, che scrive un trattato i principi della matematica cercando di fondarli, secondo dei principi logici esterni alla matematica, nel giro di pochi anni scoppia la guerra (1914) (seconda 1939) , si arruola come volontario, è una scelta, perché crede che il prezzo di un pensiero di paga con il coraggio, quindi per portare avanti il suo pensiero e crederci davvero, decide di arruolarsi, concepisce questo pensiero come una sfida esistenziale, (come ogni pensiero ) mostra la sofferenza del chiacchiericcio culturale) nutre un insofferenza su questo riempirsi la bocca di parole e pensieri, con il coraggio, cerca di toccare i limiti del proprio pensiero, arrivare a capire fino a che punto si ha coraggio. Esperimento umano, vedere i limiti della condizione umana (questo è quello che cerava, vede egoismo vigliaccheria, fame, violenza, egoismo, vede questo campionato dell’umano, fin dove si spinge l’umano). Nel 1918, viene catturato e portato in prigionia vicino cassino, negli anni della guerra, scrive il trattatus, è composto da una struttura ben definita, si estrae dal mondo, mette alla prova i limiti del suo coraggio, per lui questa cosa così astratta che scriveva, era perché rappresentava quello che viveva, ogni momento che vive può essere l’ultimo, questo libro ha una radice profondamente esistenziale, è terribilmente astratto. Oltre a scrivere il tuo trattato legge tostoy, ne rimane fortemente influenzato (una sorta di cristianesimo popolare) una forma di povertà altruista, resta estremamente colpito dalla sua utopia religiosa sociale, nel 1913 era morto suo padre, quando finisce la guerra, insieme ai suoi fratelli ottengono una grande ricchezza. Avviene una riunione familiare ed esprime il desiderio di non volere l’eredità, le sorelle non erano d’accordo, ma lui decide che di far inserire al notaio la nota di rendere impossibile la possibilità che lui possa riavere l’eredità e cambiare idea. Muore a 62 anni nel 1951 a Kembring, muore di tumore a casa di un ex allievo, e pare che dopo una vita estremamente tormentata, questo suo allievo, riporta che le sue ultime parole sono state ‘’ di loro che ho avuto una vita meravigliosa’’ senza sapere chi sono ‘’i loro’’. Il trattatus è un libro molto complesso, troviamo un sacco di livelli di pensiero, il titolo è in latino perché ritiene che sia un trattato classico, e tutte le proposizioni del trattatus sono numerate in una forma precisa, da 1 a 7, poi abbiamo delle sotto proposizioni, come se fossero approfondimenti pe spiegare le proposizioni principali, il resto e spiegazione delle sette proposizioni principali. In quel periodo si legava la filosofia alla matematica, lui la lega anche alla logica che in quell'epoca era il modo in cui i matematici fondavano il sapere matematico ovvero il linguaggio di base del sapere scientifico. Le sette proposizioni principali descrivono da una parte la struttura logica del mondo che ha in qualche modo un rapporto con il linguaggio, di conseguenza il tractatus mostra i limiti del linguaggio (parole) (quindi limiti del discorso filosofico). Leggere la sua prefazione che lui stesso al suo tractatus; la prefazione inizia spiegando, ‘’questo libro, forse verrà compreso solo da colui che già ha pensato ai pensieri qui espressi’’ lui ripercorre le tappe della filosofia, senza saperlo. Nella proposizione numero due: per i fatti (del mondo), per essere compresi in maniera scientifica, devono essere sottoposti alle regole della logica, che sono regole linguistiche di tipo formale. Ovvero on ci può essere un uso inappropriato delle parole, proprio perché ogni singola parola deve giustificare sé stessa, ovvero deve dare una spiegazione esatta del suo significato e del suo uso, altrimenti è meglio non usarla. Quindi viene interpretato quello che è, non quello che "dovrebbe essere". La categoria della "necessità" è fondamentale per essere rigorosi sul piano scientifico. Ciò che è, è ciò che deve essere all'interno di una serie determinata di possibilità. Quindi in una serie di possibilità, c’è una sola cosa che deve essere certa. Avviene una scomposizione delle cose ma esiste una sostanza, che è la sostanza che le tiene unite indipendentemente dalla loro forma, in quanto le forme possono cambiare. Tale sostanza va individuata logicamente, in quanto fa parte della logica, ma non può essere spiegata concettualmente: semplicemente va data per scontata, come un qualcosa di indimostrabile, che rende però mostrabile e quindi decifrabile tutto il resto. Da questa concezione di "sostanza" emergerà poi il lato "mistico" della filosofia di Wittgenstein. Una volta che viene individuata la sostanza, si è in grado di capire perché ciò che non è, non è. È vero che le forme sono tutte possibili, ma va individuata quella necessaria, che rende impossibili tutte le altre. Nell’ultima parte parla dell’immagine: Wittgenstein si limita soltanto a dire che la verità o falsità di un'immagine dipende dal modo in cui essa si rapporta alla realtà, cioè che non è possibile sostenere l'idea di un'immagine vera "a priori", in quanto, per poterlo essere, l'immagine deve trovare una "concordanza" con la realtà. La realtà, di per sé, non può essere falsa, proprio perché essa sussiste. È solo l'immagine che può essere vera o falsa, a seconda del suo grado di "conformità". Proposizione numero tre: Ogni parola può quindi essere usata in maniera vera o falsa, oppure - e Wittgenstein lo preferirebbe - in maniera sensata o insensata: "sensata" per ottenere qualcosa di vero o di falso, e, nel caso in cui la soluzione sia falsa, resta sempre sensata, poiché s'è comunque ottenuto qualcosa di reale. Stando infatti alla sua logica, la falsità, connessa a qualcosa di etico, non esiste: nella logica tutto è vero, anche quando si ottiene il falso come soluzione; il falso è solo uno strumento formale per decidere il vero, che resta non meno formale. La coerenza è solo una forma di tecnicismo, un'operazione intellettualistica, dal sapore matematico, che serve solo per far quadrare i conti, ma che non può essere, stricto sensu, applicata alla realtà. D'altra parte, applicare una mera coerenza logica alla realtà, dopo averla ottenuta proprio separandosi da questa realtà, potrebbe anche comportare conseguenze letali per l'etica: bisogna dare atto a Wittgenstein di non aver mai tentato un'operazione del genere, benché la trattazione dell'etica in chiave mistica non lo renda immune da un certo irrazionalismo. Le cose, infatti, vanno prese per quello che sono, cioè prescindendo dalle intenzioni con cui sono state volute. Solo dagli effetti che procurano si può ragionare sull'opportunità di considerarle vere o false. Solo dopo che il ciclope uscì dalla grotta, i suoi compagni s'accorsero che la parola "nessuno" poteva essere usati in maniera ambigua. A quel punto però - direbbe Wittgenstein - la logica non c'entra più nulla e fa posto all'etica, oppure avrebbe detto che Polifemo si era lasciata ingannare perché non aveva saputo analizzare la parola "nessuno" in tutti i suoi possibili significati logici. Il punto tuttavia è proprio questo, che la logica di Wittgenstein non serve affatto a trovare la verità delle cose, in quanto ogni cosa, per essa, ha la sua propria "verità": a priori tutte le scelte sono giuste. È sufficiente aver compiuto il proprio dovere, anzi aver avuto la semplice intenzione di volerlo compiere. Parla che la realtà necessita di un'interpretazione è in qualche modo per poter interpretare qualcosa devi averlo già capito, devi aver pensato a qualcosa di simile di quello che ho pensato io, se non abbiamo un terreno comune non capirai. Scopo del libro, che venga letto e compreso da qualcuno, per quanto possa sembrare che ci stia prendendo in giro, non è così lui è molto serio. Troviamo un che di involontariamente comico, (se viene letto fino in fondo e mettiamo insieme i pezzi, ci rendiamo conto che il fine del libro non è costruire un manuale scientifico ma descrivere qualcosa su dei pensieri che qualcuno potrebbe aver già pensato, con il fine che vengono riconosciuti.) Il libro tratta i problemi filosofici e mostra, ‘’credo’’ (dice lui), che questi grandi problemi filosofici ‘’senso della vita’’ ‘’esiste la vita’’ perché dio è stato creato’’ ‘’essenza dell’uomo’’, questi problemi dice che sono un fraintendimento, della logica del nostro linguaggio, perché? Perché i problemi filosofici si creano attraverso il nostro linguaggio. Cosa significa questo? Significa che io cosa posso dire? lo posso dire ma in modo chiaro. Perché se il problema sono i linguaggi filosofici, quindi il nostro linguaggio ovvero il nostro modo di parlare e di esporre non chiaro non va bene, lui dice che devo esporre le cose in modo chiaro e logico, queste cose, possono essere esporre. Su ciò che non si può parlare, si deve tacere, ovvero, è inutile parlarne se non siamo chiari perché ci fraintendiamo creiamo chiacchiericcio, raccontiamo storie che non portano a niente che corrisponde ad una realtà del mondo, non troviamo nulla che corrisponde a quello che stiamo dicendo nel mondo. Lui nei primi anni punta a queste idee a queste concezioni. Non esiste per noi un gesto che corrisponde ad una visibilità linguistica; quindi, un gesto non visibile e non linguistico è inesistente, non raggiunge per lui l’esistenza, come Debon dice che tutto ciò che appare è buono e tutto che è buono appare: quindi tutto ciò che appare ha un valore e tutto ciò che ha un valore deve apparire, ‘’apparire’’ diventa la questione fondamentale. Il libro vuole tracciare al pensiero un limite, più che altro all’espressione del pensiero, dice che pensare l’altro lato del pensiero, (il mio pensiero) dovrei vederlo da fuori non dà dentro, il pensiero dovrebbe pensare qualcosa che non è pensabile. Dice ad una lettera ad un suo conoscente dove parla del tractatus e dice in questa lettera che si trova in un libro introvabile, che dice ‘’l’argomento del libro ma è la generazione che lo fa inconsapevolmente oppure consapevolmente. ‘’Ogniuno ha il suo rimpianto del mondo che fu’’ perché il mondo cambia. Quello che noi siamo è immerso in un’immensità. Cambia il mondo quando cambia il linguaggio. Il sentimento e l’ascolto della musica non sono del mondo e sono fuori dai limiti del linguaggio e dai limiti del mondo. Ma fuori dai limiti del mondo c’è un mondo intero ma io non posso dirlo se non parlando a vanvera. A tutti noi è capitato di sentire un concerto e avere di fianco qualcuno che commenta e si pensa che si è rovinato il momento, mi ha rovinato l’essenziale e la cosa decisiva che non è il tentativo di trasformare in linguaggio questo. Witt è molto radicale, per lui non ha senso che uno mi venga a descrivere le qualità di dio, e lo stesso per le qualità di un ascolto musicale, sono chiacchere prive di senso che non corrispondono a uno stato di cose. Lo stato di fatto è un insieme di cose che si correlano tra di loro. “questo telefono ha lo schermo nero” verificabile “questo telefono è bello” non è verificabile. “è bello ciò che piace” non si può dire perché è un sentire. A lui non interessa la critica d’arte come non gli interessa la filosofia perché sono discorsi scollegati dal mondo, dallo stato di cose, a lui tutto questo non interessa perché reputa che sia insensato. Gli interessa l’arte ma non la critica d’arte, gli interessa molto Dio ma non la religione. Non gli interessa il discorso su perché reputa che sia insensato perché quelle non sono cose, l’arte non è una cosa, posso ridurre la scultura a una cosa ma se la riduco allora perdo l’arte. L’arte contemporanea è quasi tutta fatta di materia ove tutto è oltre la cosa in sé, per cui ogni tot si legge che l’impresa di pulizie ha buttato l’opera pensando che fosse scarto. In questo senso Witt si pone in una posizione estrema in cui la cosa decisiva è fuori dalla parola. Witt è un mistico, è il misticismo che ritiene che dio non è percepibile se non con un salto estatico ovvero fuori da sé e dal mondo. Witt è un mistico immanente, vuole stare ancorato alla realtà, che l’uomo parli di ciò che è reale ma deve sapere che esiste una dimensione che va oltre il mondo (cosa che i mistici hanno sempre sostenuto, esempio stata Bernini dell’estati esci dal mondo perché perdi la coscienza con il terreno e vai oltre, la figura è un orgasmo si dice perché l’orgasmo in qualche modo è mistico perché è l’uscita da sé, uno si dimentica di sé per una frazione di secondo e diventa impossibile descrivere a parole un orgasmo) La parola critica potrebbe servire per arrivare al limite, per portare il pensiero al limite, spingi il pensiero al limite e poi abbandona il pensiero. Non si vogliono porre limiti al pensiero ma all’espressione del pensiero. Non è che dopo il limite del pensiero non ci sia più pensiero però non è più esprimibile. Allora la parola critica ha senso se ti porta al limite e dopo necessita di un salto. Proposizione numero quattro: "Il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell'abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito" (4.002). Per lui il pensiero è più profondo del linguaggio, e questo, il più delle volte, non è in grado di adeguarsi al pensiero. Qui Wittgenstein ambisce a produrre una filosofia del linguaggio adatta a comprendere la logicità del pensiero. Egli vede l'uomo come un "essere pensante" che, invece di esprimersi fluentemente e con sensatezza, balbetta parole perlopiù incomprensibili. Ecco perché dichiara di non avere intenzione di affrontare alcun classico argomento filosofico, se prima non ci si chiarisce sul significato delle parole che si usano. Qui vien quasi da sorridere al pensare che se una ragazza, innamorata di lui, gli avesse detto: "Ti voglio bene", lui si sarebbe sentito indotto a chiederle anzitutto di precisare la parola "bene". Non avrebbe accettato che, in una situazione emotiva, si desse per scontato il significato di certe espressioni. Nei film di fantascienza quando un robot è costretto ad affrontare situazioni emotive, in genere va in cortocircuito, oppure si ribella a chi l'ha costruito. Per lui non è vero che il nulla non esiste, per lui esiste, non ha fiducia del linguaggio fino in fondo, il linguaggio per lui incontra un limite. La teologia negativa è una tradizione, ed è unita da un elemento comune, e non posso dire che cos’è dio, perché significa dubbiarlo, perché dio è l’assoluto che va oltre ogni limite, posso descriverlo solo negativamente. Se vai oltre il limite con il linguaggio, cadi nell’insensato. Questo accade con la filosofia, è un po' contro i filosofi. Si mette in difficoltà da sola, e cerca di risolverle per non impazzire, cerca di far quadrare la questione, ma sa che non ci riesce, e dopo aver terminato in tractatus, non pulica più niente, perché non è sicuro di quello che fa, in quanto cerca di risolvere qualcosa ma non sa se ci sta riuscendo, non riesce a trovare un punto finale. Per lui l’amicizia è l’uscita da sé. Il mondo degli amanti non è il mondo di tutti, vivono in un mondo loro, amano stare da soli e parlare dietro le porte, è un mondo a parte. Wanda Szymborska dice, ‘’Chi non ha mai conosciuto il mondo degli amanti dica pure che non esiste e si consola così.’’ È un mondo al di là delle parole, non si dice. Non gli interessa neanche di condividerlo con gli altri, quando si ama molto tutto il resto scompare. Il mondo che descrive lui è un mondo di significati, ci capiamo. Esperienza di amore e amicizia sono esperienza di senso, il lavoro e tante altre cose sono esperienza di significato. Leibnitz dice: Noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, è dovuto ad una scelta di dio, ad un'infinità di mondi possibili, lui ha scelto il migliore. Lui (Wi) è inconsapevole che sta facendo una fondazione metafisica della realtà, dicendo che il mondo è tutto ciò che accade e tutto ciò che non accade, sta riscrivendo la filosofia dell’accidente, a volt in maniera consapevole ed altre volte in maniera meno consapevole. Proposizione numero cinque: Tutti gli enunciati del gruppo 5 sono un'apologia della tautologia. Stabiliti i principi di metodo, ora Wittgenstein passa ai contenuti veri e propri, ed è un fiume in piena, e lo sarà anche per gli enunciati del gruppo 6. Qui, se non si hanno fondate nozioni di logica, è davvero meglio tacere, per cui procederemo coi piedi di piombo, evitando di fare passi falsi, a meno che non ci venga voglia di saltellare come gli astronauti sulla Luna, limitandoci a fare semplici osservazioni a titolo di conferma di quanto fin qui già detto. D'altra parte, siamo in buona compagnia: lo stesso Wittgenstein ha ammesso nella Prefazione di aver letto soprattutto Frege e Russell per elaborare il suo Trattato. Quando un logico ritiene che tutto quanto i filosofi han scritto prima di lui abbia un valore prossimo allo zero, non può poi pretendere che chi lo interpreta faccia eccezione. Pertanto, vista la nostra totale inadeguatezza, ci accingiamo a interpretare gli enunciati del gruppo 5 senza particolari patemi d'animo. Se poi qualcuno ritiene che questo atteggiamento sia poco logico, non si lamenti che i lettori di questa super scienza si contano sulle dita di due mani. Tautologia: un enunciato composto che risulta sempre vero, qualsiasi sia il valore di verità delle proposizioni che lo compongono; il termine tautologia deriva dal greco tauró + loyia e significa stesso discorso. Sarebbe fare la ripetizione di un significato oppure di un concetto, quando già è stato espresso, non ha un'utilità. Proposizione numero sei: essendo la summa summarum del senso della logica proposizionale, va discusso. E lo faremo riportando la spiegazione del suo significato tecnico da parte di B. Russell. Lo dice a pag. 11 della sua Introduzione: dove il primo termine sta per tutte le proposizioni atomiche, il secondo per qualsiasi insieme di proposizioni e il terzo per la negazione di tutte le proposizioni contenute nelle parentesi tonde. "L'intero simbolo significa tutto ciò che può essere ottenuto facendo una qualsiasi scelta di proposizioni atomiche, negandole tutte, facendo poi una qualsiasi scelta dall'insieme di proposizioni ora ottenuto, insieme con alcune delle proposizioni originarie - e così via, indefinitamente". Egli riduceva praticamente tutta la matematica a un'operazione logica, dove i numeri sono soltanto gli esponenti di espressioni linguistiche. Qui però, nelle Proposizioni n. 6, la cosa è diversa. Sin dall'inizio del Trattato, in verità, egli aveva usato la logica non limitandosi a dare un contributo alla matematica o alle scienze esatte e naturali. La sua pretesa era quella d'interpretare il mondo. I limiti del suo linguaggio determinano quelli del mondo, che coincide col "suo" mondo. Non esiste un mondo oggettivo, indipendente dal soggetto, con una propria logica da scoprire; esiste anzitutto il soggetto che deve interpretare il mondo, che in sé è solo contraddittorio. Sembrano due posizioni, in ultima istanza, equivalenti. Invece sono molto diverse, poiché in una si ascolta la realtà, nell'altra solo se stessi; in una ci si lascia coinvolgere, nell'altra la si aggiusta. Le proposizioni n. 6 sono come il pettine cui devono giungere i nodi di tutti i discorsi fatti nelle proposizioni precedenti: il loro valore non può essere soltanto logico, ma anche metafisico. Le proposizioni logiche - sostiene Wittgenstein, e non solo lui - sono riconoscibili come "vere" dall'uso corretto dei loro simboli, a prescindere dai riferimenti a realtà specifiche. Se mai è l'uomo che deve abituarsi all'idea che medesimi simboli, a seconda della loro collocazione, possono significare cose molto diverse. La logica anzi è così rigorosa che non si azzarda a giudicare di verità o di falsità quanto non appartiene al suo mondo. Proposizione numero sette: Dice che la proposizione numero sette che è quella che dice che di quello che non si può parlare si deve tacere è l’unica proposizione a non avere sotto proposizione. Ci lascia intuire che l’ultima proposizione rimanda al concetto che quello che è più importante del suo libro è quello di cui non ha parlato. La parte finale del Trattato dà l'impressione di un grido d'allarme, un appello all'umanità. È come se il giovane Wittgenstein chiedesse di potersi incontrare con qualcuno che avesse trovato un senso praticabile della propria vita, pur essendo incapace di "dirlo", cioè di formalizzarlo logicamente. È come se da un lato gli piacesse chiedersi il motivo per cui gli uomini non sanno spiegarsi razionalmente il fatto d'aver trovato un senso alla propria vita, e dall'altro però non fosse capace di chiedersi se il suo mancato incontro con questi uomini fosse dipeso di più dalla loro incapacità comunicativa o non piuttosto dalla sua incapacità ad ascoltare. FRANZ KAFKA AFORISMI DI ZURAU Franz Kafka nasce a Praga nel 1883 da una famiglia di ebrei in cui pesava la figura autoritaria del padre di Franz, Hermann, un macellaio rituale molto religioso. Al contrario, Franz non si mostra mai molto interessato alle questioni religiose pur avendo cominciato i suoi studi nella scuola elementare ebraica-tedesca della città. Nel 1901 è ammesso all’Università tedesca di Praga e, dopo un primo anno di studi di chimica, decide di passare alla facoltà di giurisprudenza, più consona alle sue inclinazioni ed in grado di offrirgli maggiori possibilità di carriera. Nell’ambiente universitario sembra riuscire ad abbandonare i modi schivi che aveva avuto fino a quel momento: organizza riunioni letterarie, si fa notare per il suo acume e la sua intelligenza ed entra in contatto con giovani studenti come Oskar Baum e Franz Werfel, che diventeranno noti scrittori. Di le scienze naturali, anche se quello che è dentro le scienze naturali non è filosofia. Le sue preposizioni illustrano, che quello che lo comprende le riconosce insensate, ha utilizzato le proposizioni come una scala. Dice che può buttare la scala dopo esserci salito. Lui ci è salito e le ha utilizzate per arrivare alla struttura logica, il punto finale è sopra la scala. Il lettore se va oltre le proposizioni, la logica e le scienze naturali, allora vede ciò che è del mondo, ovvero che ciò che va oltre il mondo non va spiegato ma mostrato, non vuol dire che esiste solo il mistico e solo le scienze naturali, perché cadere in entrambe e come non vederlo. Su ciò di cui non si può parlare bisogna parlare e dire se una cosa è vera oppure falsa, su ciò che non si sa bisogna tacere. Kafka sa che abbiamo una legge, lui è ebreo, quando la legge per lui diventa non comprensibile, è una questione molto concreta, i rabbini sono dei saggi non dei preti, saggi, perché conoscono molto bene la bibbia, interpretano la bibbia, hanno un'etica, un modo di vivere, un modo che hanno di comportarsi nel mondo, l’ebraismo per questo si differenzia con gli altri, se tu chiedi ad un buon ebreo cos’è l’ebraismo, ed è una forma etica non è una religione è un modo di stare al mondo, ed è determinato da una legge, una legge che si costituisce per chi appartiene alla comunità. Il padre gli insegnava come viveva un ebreo, faceva parte della comunità ebraica di Praga, lui rispetta la legge ma non la capisce è qualcosa di incomprensibile, sa che la legge tiene unita gli umani della comunità ma non la capisce non sa cosa sia la legge del padre, non sa cosa significa, ma allo stesso tempo, capisce, che nella legge è custodito qualcosa di decisivo perché è ciò che ci tiene unito in generazione e generazione nel corpo di qualcosa, un'alleanza con dio, qualcosa che ci trascende che è oltre di noi, ma non comprende cos’è, non capisce cosa tiene uniti gli umani. Parte dalla concezione ebraica. Ci rende nevrotici la civiltà perché si fonda principalmente sul super IO di Froid, esistono tre componenti della psiche umana, io es (inconscio) super io, il più ampio l’ES l’inconscio un insieme di pulsioni, forza di energia psichica che si vuole liberare, sono desideri, desideri di possedere le altre cose del mondo, aumentare il proprio io e le pulsioni e desideri di morte, la liberazione dell’energia tramite la distruzione del mondo, capisce questa cosa guardando un bambino. Esiste una pulsione distruttiva che da piacere, l’inconscio è pieno di energia. L'energia deve liberarsi devono sfogarsi. L'IO è l’esperienza psichica, questa massa informe di neonato che incontra il mondo, io sono la somma delle mie esperienze psichiche, le esperienze sono diverse, quindi tutti hanno un IO diverso. IO sono la somma delle mie esperienze. L’esperienza psichica di chi non ha avuto il calore materno, avrà delle carenze rispetto all’io di tutti gli altri, chi ha avuto il calore, gli farà credere che il mondo è caldo, è accogliente, non è gelido. Chi non ha avuto il calore materno, può avere un rapporto con il mondo più di timore, di difficoltà. La terza fase, del super Io è che se l’io si forma con l’esperienza diretta, il super io è una forma di esperienza, ovvero quando il bambino ascolta i primi NO, non si rende conto perché ma comprende perché non farlo, questo non deriva dalla sua esperienza, ma da quella degli altri. I no sono la civiltà, la civiltà è la legge, i no della civiltà, sono i no forti, sono i dieci comandamenti. Questi no, sono frustanti, perché quando gli dici no, il bambino piange, ma la madre sa che non è possibile. Perché appena nati siamo tutti IO e ES, un io che vuole soddisfare il suo ES. Tutti siamo nevrotici, abbiamo delle nevrosi. La nostra nevrosi è compatibile con gli altri, quando si va avanti la nevrosi diventa psicosi e non sono più compatibile con le altre nevrosi, esco dalla realtà. (schizofrenico e tante altre) entro in quelle cose che la civiltà definisce patologie, un disagio così grande che non sto più dentro un livello di nevrosi compatibile. La questione della legge è un elemento fondamentale non ce vita comune al di fuori della legge. Non ci sono più i valori di una volta e bisogna restaurarli, vorrei tanto poterlo fare. Kafka un ebreo della contemporaneità, pensare all’ebraismo aldilà della legge, la possibilità di una vita in comune. Kafka non sa se si può andare al di fuori della legge, le due fidanzate di Kafka che lui non arriva mai a sposare, il suo no finale, perché non sa e non capisce cosa vuol dire sposarsi, anche se è la legge che vincola il sentimento, ma non capisce cos’è questa descrizione. Bloom saggio dedicato a Kafka, ed inizia con una citazione tratta dal discorso di Milena la fidanzata di Kafka, la seconda, in occasione della morte, ‘’era un eremita uomo di intuito e timoroso della vita, vedeva demoni che volevano attaccare l’uomo, colpa incolpevole degli esseri umani.’’ Le fidanzate non erano felici del fatto che lui non comprendesse la legge e che non potevano sposarle. Come liberarsi di un apparato teorico, morale, senza cadere nell’oblio della cosa decisiva. Come fare arte oggi, cultura oggi, comunità oggi, come? Non è perché la domanda, il perché è ancora visibile nei resti e nelle rovine della legge, il perché è quello che ci dice froid ovvero perché la civiltà seno non sta in piedi, è la necessità di qualcosa che trascende il semplice stare e sopravvivere al mondo ,esiste qualcosa che Kafka chiama negli aforismi , qualcosa di indistruttibile, per lui l’indistruttibile è uno, dice qualcosa di pesante detto da un autore di origine ebraica, perché l’ebraismo dice che esiste un'unica realtà che forma tutto il mondo. Dice che l’indistruttibile prendesse il posto dell’io, quell’io che è dio. L'indistruttibile e uno, ogni singolo uomo lo è, ogni singolo uomo è indistruttibile. Prima era dio ora ogni singolo uomo, è un passaggio da brividi perché traferisce il divino nell’umano. Che significa che un uomo è indistruttibile? Lo è ed è comune a tutti l’indistruttibile, qui esiste il legame fra gli uomini, come si vive insieme? Se non ce qualcosa di comune a tutti? Cosa ci lega? Il legame tra uomini è indissolubile come nessun altro. Il legame fra gli uomini non è più fuori dagli uomini ma e dentro ad ogni uomo ed è la sua parte indistruttibile. Kafka non spiegherà mai in maniera chiara che cos’e l’indistruttibile, ma allo stesso tempo continuerà a sottolineare come una possibilità fra la questione del posto vacante di dio, è l’indistruttibile che è dentro ogni essere umano. Qui troviamo un aforisma fatto a zurau, raccoglie e numeri, il fatto che numeri fa pensare che ci tenesse particolarmente, è un testo molto importante per lui, in uno di questi dice ‘’se ciò che sarebbe stato distrutto (non l'ho dà per certo) in paradiso era distruttibile (la felicita eterna) allora non era decisivo, ma se era indistruttibile allora viviamo in una falsa credenza.’’ Una pulsione infinta verso la felicita, la legge può essere distrutta con la pulsione infinita verso la felicita, non rinunciare alla felicita. Queste righe parlano di una serie di questioni enormi, ma comunque trovano una loro sistemazione. Perché l’essere umano non ha piena coscienza dell’indistruttibile (ovvero la felicità)? Kafka dice che è una via da seguire, se vogliamo continuare a vivere, occorre che comprendiamo che ogniuno di noi vede nell’altro la parte indistruttibile (bisogno, invocazione, verso la felicita, ogni essere umano ha una felicita dentro di sé, che non si può negare e non si può distruggere, non puoi negarla per sempre, non puoi allontanare quella cosa che ti rende felice.) Esigenza di felicità e di condivisione. ‘’In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità’’ ovvero credere nell’indistruttibile (quindi in quella cosa che ci rende felici), senza aspirare a raggiungerla (perché ciò che deve accadere accadrà.) Attesa infinta di essere felici, questo è essere felici: attendere l’irruzione della felicità nella nostra vita. Dobbiamo conservare intatta la possibilità di felicità, perché è possibile, ed è quella felicità l’unica parte indistruttibile dell’uomo. Rinunciare ad un'idea di felicità, per lui la felicità non è una cosa, è un rischio trasformare la felicità in una cosa, in una cosa materiale, no che non sia importante ma non deve essere solo quello. La fede se si trasforma in chiesa diventa dottrina, diventa legge. Un'artista, come può utilizzare questa felicità? Per gli artisti la felicità è una pratica di vita, non distinguono la vita dall’arte, le confondono. Andiamo a commentare un frammento di Kafka che è possibile trovarlo anche su internet, dove trascrive questo frammento ‘’della morte apparente’’ non si sa esattamente a quando risale, ed ipotizza gli ultimi scritti di Kafka, una racconta fatta dopo la sua morta, si ritiene che risale al periodo del soggiorno a zurau, il periodo dove scrisse tutti gli altri frammenti, insieme di appunti e frammenti che numera, la numerazione fa pensare che lo concepisce in un certo modo con volontà compiuta, perché ci sta un ordine, anche se non è mai stato definito. Accenna a qualcosa che assomiglia ad un piccolo elemento narrativo, porre una questione, ‘’la cosa decisiva’’, è un testo breve, leggendolo fa pensare che la cosa decisiva, è un Kafka che prende consapevolezza di essere ammalato e che comprende di essere segnato, di non avere possibilità di sopravvivere, potremmo anche dire, che è un individuo che fa esperienza per la propria immortalità, che esiste qualcosa nell'essere umano, che è in relazione con l’esperienza della propria mortalità. Questa costatazione, fa parte della storia della cultura umana. Esiste uno degli argomenti principali, un confronto un ripensamento della morta e di cosa ci sarà dopo la morta, i racconti sono racconti di personaggi, che si inoltrano negli inferni, e compiono diverse peripezie, per tornare nella terra dei vivi. Il mito è lo sguardo dell’uomo sulla morta è la possibilità di vedere in vita ciò che farà la morte. Questo topos, elemento primario comune, si rivela essere, uno degli elementi decisivi, del fare arte. Questo libro avrà un'influenza grande. Vuole far capire che l’uomo si rivela in quel frangente di tempo, l’essere trascende il tempo, è il senso del mondo dell’esistenza, di quello che c’è, quel l’uomo che pensa al suo essere qui. Manifesta il suo senso della vita. Questa tematica della mortalità è estremamente sentita, grande lingua tedesca. Troviamo una riflessione tra rapporto morte ed esistenza, molti anni più tardi raccontiamo un'esperienza che racconta al periodo bellico. Opera estremamente complessa, questo racconto narra dell’esperienza autobiografica. Riflessione della letteratura, pensare l’istante in cui io ho vissuto alla morte e sono sopravvissuto. Le questioni che si aprono qui sono molto importanti, i primi elementi artistici, sono tutti legati alla morte e a qualcosa che sopravvie alla morte, l’arte è ciò che permette di sopravvivere alle sorte degli umani, l’arte è qualcosa che sopravvive alla morte, addirittura alcuni pensano che vinca la morte, è un ripensamento infinito. Qui guarda la morte, allo stesso tempo, nello stesso momento perde la possibilità della vita. Lo sguardo verso la morte, perde la vita, perché è un individuo che non vive pienamente, oppure vive pienamente da privarsi dalla gioia immediata della vita. L'arte è una mediazione tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Vive un'esperienza particolare che li porta a vivere una vita preziosa, descrive quel ‘’topos’’ cerca di creare strutture narrative che hanno un interesse finzionale, usando questa ‘’morte apparente’’ hanno un'esperienza post-mortem, ovvero sembrano morti e poi ritornano in vita. Alcuni vedono la vita da fuori, il proprio corpo da fuori, ricordi post-mortem. Ogniuno di noi analizza le grandi
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