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Apollo e Dafne, Ovidio, Appunti di Lingue e letterature classiche

passi in latino, con traduzione e commento, di alcuni versi tratti dal libro I delle Metamorfosi di Ovidio, riguardanti il mito di Apollo e Dafne

Tipologia: Appunti

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Caricato il 26/05/2021

LuciaM_
LuciaM_ 🇮🇹

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8 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Apollo e Dafne, Ovidio e più Appunti in PDF di Lingue e letterature classiche solo su Docsity! APOLLO E DAFNE, OVIDIO (liber I) Mito eziologico per spiegare l’abitudine di usare l’alloro per celebrare la gloria poetica e anche simbolo delle vittorie in guerra, emblema della regalità, infatti scelto per ornare la casa di Augusto: simbolo di trionfo e gloria. DESCRIZIONE: plastica e dinamica, sembra di vedere le immagini in movimento e l’evolversi della scena e della vitalità che continua a fluire nonostante la trasformazione di Dafne in alloro. Conte ha parlato della poesia di Ovidio come “retorica dello sguardo” come se fosse questa la tecnica utilizzata cioè le parole sono usate in maniera tale da tradurre delle immagini. Infatti la sua poesia è uno spectaculum quindi chi legge o ascolta immagina, vede, come se si trovasse davanti alla scena. Anche per questo, soprattutto questa scena è stata tanto ripresa nella scultura e nella pittura. PROTAGONISTI: Apollo e Dafne. Apollo: divinità tra le principali, dio dell’arte, della poesia, della musica ma anche guaritore capace di guarire e propagare pestilenze terribili, anche dio della luce. Qui Apollo è vittima di Eros, lui stesso colpito dalle frecce di Eros, vittima e soprattutto sconfitto perché non riesce ad ottenere il suo scopo di avere Dafne che lo respinge per vendetta dello stesso Eros, quindi soffre le stesse pene di un comune mortale. Tanto è forte il suo innamoramento che quando Dafne sfugge definitivamente a lui trasformandosi in alloro grazie all’intervento del padre, lui pur di averla con sé decide che l’alloro sarà per sempre la pianta a lui sacra e quindi con l’alloro si celebrerà lo stesso Apollo e sarà simbolo di gloria. TRAMA: Apollo ha appena vinto il drago Pitone, e si imbatte in Eros che sta scoccando una delle sue frecce. Apollo lo sberleffa dicendogli che si deve limitare a provocare amori insignificanti, Eros, offeso colpisce lo stesso Apollo e lo fa innamorare della ninfa che vedrà di lì a poco e colpisce la stessa Dafne con una freccia così che sia portata a respingere ogni pretendente. Dafne è quindi sprezzante degli amori e degli uomini, dedita alla caccia, alle selve e ad Artemide. La vendetta di Eros è tremenda perché ferisce e danneggia profondamente entrambi. Quando Apollo la afferra riuscito a raggiungerla, Dafne scongiura il padre di salvarla e così lui la trasforma in alloro tra le braccia di Apollo che abbraccia e bacia il tronco e i rami e pronuncia la promessa che non si separerà più da questa pianta. Lei alla fine accetta la sua condizione e annuisce con la chioma accettando di restare unita per sempre ad Apollo, il perché è lasciato alla suggestione della poesia. Mentre in Dante ( es Pier delle Vigne) prevalgono orrore e strazio della perdita della condizione umana, in Ovidio c’è il gusto della trasformazione quindi del confluire in una nuova vita, non è una perdita ma un cambiamento (non sempre cfr Atteone, Eco) Partecipazione di Ovidio: si introduce nella narrazione e a volte, anche se non si introduce direttamente, lascia intuire il suo punto di vista soggettivo. 451 Prīmŭs ămōr Phoēbī Dāphnē Pēnēĭă, quēm nōn fōrs īgnāră dĕdīt, sēd saēvă1 Cŭpīdĭnĭs īră. 451 Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo, e non fu dovuto al caso, ma all'ira implacabile di Cupido. 1: Saeva→ connotazione di Cupido, che è stato crudele. Non è la prima volta che nell’ira degli dei Ovidio getta una luce piuttosto critica anche se con il suo tono sempre leggero. Altro episodio in cui viene messa in discussione l’ira degli dei è quello di Diana e Atteone: vede Diana mentre faceva il bagno, inconsapevolmente, e lei lo trasforma in un cervo e lui viene attaccato dalla sua stessa muta di fedelissimi cani. Ovidio, con gusto del gioco linguistico, fa un lungo elenco dei nomi dei cani di Atteone che sono particolari perché hanno significati che rimandano a loro caratteristiche. Episodio drammatico perché sottolinea il legame forte tra lui e i suoi cani e loro non lo riconoscono, lui è consapevole, presente e assente alla sua morte: non è più riconoscibile ma è diventato il cervo, cerca disperatamente di chiamare per nome i suoi cani ma non esce più voce umana ma un bramito disperato che ovviamente non viene riconosciuto dai cani. Dalla descrizione drammatica emerge la perplessità di Ovidio nei confronti dell’ira e della vendetta delle divinità. 490 Phoēbŭs ămāt vīsaēquĕ cŭpīt cōnūbĭă Dāphnēs quōdquĕ cŭpīt spērāt sŭăque īllum ōrācŭlă fāllūnt. 490 E Febo l'ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei, e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l'ingannano. Lui che dovrebbe conoscere il futuro è stato ingannato dalla sua stessa arte divinatoria, non è stato profetico per se stesso. Insistenza sul crescendo della sua passione (amat, cupit, cupit) sottolineato ulteriormente dalle similitudini: Ūtquĕ lĕvēs stĭpŭlaē dēmptīs ădŏlēntŭr ărīstīs, ūt făcĭbūs saēpēs ārdēnt, quās fōrtĕ vĭātōr vēl nĭmĭs ādmōvīt vēl iām sūb lūcĕ rĕlīquīt, 495 sīc dĕŭs īn flāmmās ăbĭīt, sīc pēctŏrĕ tōtō ūrĭtŭr ēt stĕrĭlēm spērāndō nūtrĭt ămōrēm. Traduzione: Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie, come s'incendiano le siepi se per ventura un viandante accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce, così il dio prende fuoco, così in tutto il petto divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore. Qui abbiamo già in 2 punti delle allusioni alla fine tragica della vicenda da parte di Ovidio stesso, quasi mette in dubbio la potenza di Apollo, ne sottolinea il fallimento, pur essendo un dio potentissimo→ Sterilem accostato ad amorem, anticipa l’epilogo della vicenda, è come se il poeta si intromettesse nella narrazione dando un indizio di cosa accadrà. Spēctăt ĭnōrnātōs cōllō pēndērĕ căpīllōs ēt: "Quīd, sī cōmāntŭr?" ăīt. Vĭdĕt īgnĕ mĭcāntēs sīdĕrĭbūs sĭmĭlēs ŏcŭlōs, vĭdĕt ōscŭlă quaē nōn 500 ēst vīdīssĕ sătīs; laūdāt dĭgĭtōsquĕ mănūsquĕ brācchĭăque ēt nūdōs mĕdĭā plūs pārtĕ lăcērtōs; sīquă lătēnt, mĕlĭōră pŭtāt. Fŭgĭt ōcĭŏr aūrā īllă lĕvī nĕque ăd haēc rĕvŏcāntīs vērbă rĕsīstīt: Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo e: 'Se poi li pettinasse?' pensa. Guarda gli occhi che brillano di fuoco simili alle stelle; guarda la piccola bocca che non 500 gli basta guardare; contempla le dita, le mani, le braccia e la parte superiore del braccio nuda oltre la metà; e se qualche parte è nascosta, l'immagina migliore. Quella fugge più rapida di un’aria leggera e non s'arresta a queste parole di quello che la chiama: crescendo di verbi di percezione per sottolineare la bellezza di Dafne e la contemplazione da parte di Apollo che lo porta sempre più ad ardere "Nŷmphă, prĕcōr, Pēnēĭ, mănē; nōn īnsĕquŏr hōstīs; 505 Nŷmphă, mănē. Sīc āgnă lŭpūm, sīc cērvă lĕōnēm, sīc ăquĭlām pēnnā fŭgĭūnt trĕpĭdāntĕ cŏlūmbaē, hōstēs quaēquĕ sŭōs; ămŏr ēst mĭhĭ caūsă sĕquēndī. Mē mĭsĕrūm! Nē prōnă cădās īndīgnăvĕ laēdī crūră nŏtēnt sēntēs ēt sīm tĭbĭ caūsă dŏlōrīs. 510 Āspĕră, quā prŏpĕrās, lŏcă sūnt; mŏdĕrātĭŭs, ōrō, cūrrĕ fŭgāmque ĭnhĭbē; mŏdĕrātĭŭs īnsĕquăr īpsĕ. Cuī plăcĕās īnquīrĕ tămēn; nōn īncŏlă mōntīs, nōn ĕgŏ sūm pāstōr, nōn hīc ārmēntă grĕgēsquĕ hōrrĭdŭs ōbsērvō. Nēscīs, tĕmĕrārĭă, nēscīs 515 quēm fŭgĭās ĭdĕōquĕ fŭgīs. «Ti prego, Ninfa Penea, férmati; non t'insegue un nemico; 505 férmati. Così fuggono al lupo l'agnella, al leone la cerva, all'aquila le colombe in un turbinio d'ali, ciascuno i suoi nemici; l’amore è per me la causa per cui ti inseguo. Ahimè, bada di non cadere, o che i rovi graffino le gambe indegne di essere ferite, ch'io non sia per te causa di dolore. 510 I luoghi attraverso i quali tu fuggi sono aspri: io ti prego, corri più piano, cessa la tua fuga, io stesso t'inseguirò più lentamente. Almeno cerca di scoprire chi è colui al quale tu piaci; io non sono un montanaro, non sono un pastore, io qui non sono a guardia di mandrie e greggi 515 come uno zotico. Non sai, sconsiderata, chi fuggi, e per questo fuggi. 540 Quī tămĕn īnsĕquĭtūr, pēnnīs ădĭūtŭs Ămōrīs, ōcĭŏr ēst rĕquĭēmquĕ nĕgāt tērgōquĕ fŭgācīs īmmĭnĕt ēt crīnēm spārsūm cērvīcĭbŭs āfflāt. Vīrĭbŭs ābsūmptīs ēxpāllŭĭt īllă cĭtaēquĕ vīctă lăbōrĕ fŭgaē, spēctāns Pēnēĭdăs ūndās: 545 "Fēr, pătĕr" īnquĭt "ŏpēm, sī flūmĭnă nūmĕn hăbētīs; quā nĭmĭūm plăcŭī, mūtāndō pērdĕ fĭgūrām." Vīx prĕcĕ fīnītā, tōrpōr grăvĭs ōccŭpăt ārtūs, mōllĭă cīngūntūr tĕnŭī praēcōrdĭă lībrō,
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