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approfondimento de il romanzo I Vicerè, Appunti di Letteratura Contemporanea

Approfondimento capitolo a scelta de I Vicerè

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 28/08/2023

Ross_09
Ross_09 🇮🇹

4.5

(23)

25 documenti

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Anteprima parziale del testo

Scarica approfondimento de il romanzo I Vicerè e più Appunti in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! PARTE PRIMA- CAPITOLO SETTIMO Personaggio riflettore  Matilde conosciamo tutto attraverso questo personaggio (descrizione di Teresina a sei anni, la gelosia per il marito e la sua corte a Isabella Fersa pag.162-163). In questo capitolo sembra di poter avere accesso alla mente di Matilde: conosciamo i suoi stati d’animo (la gelosia ad esempio)pag.163 Matilde personaggio riflettore, quindi indiretto libero. Questo capitolo si caratterizza per l’alternanza tra narratore autoriale e Matilde. Narratore autoriale pag.163: in quell’ estate del 57 fu visto più assiduo con i Fersa…; riprende poi i fili della narrazione Matilde a pag.163: E udendolo parlare a quel modo (anche Matilde è presente con Raimondo e Isabella e si chiede quindi perché continuasse a stare lì senza mantenere fede alla promessa fattale un anno e mezzo prima). La narrazione del capitolo è in line con l’idea di de Roberto: parte della vita interiore dei personaggi è affidata a loro stessi.  Rif. pag.165  subentra Don Blasco che riporta le sue sensazioni, altro personaggio riflettore. Anche donna Mara Fersa è un personaggio riflettore  pag. 166. Pag.177: E Matilde lasciata sola dal padre […] ella non poteva soffrirlo!  indiretto libero in cui il narratore per non interrompere la narrazione riporta attraverso lo stesso (i.l.) le sensazioni e le emozioni del personaggio. Si parla di riflettorizzazione interna*, tipica del reflector character (Matilde, in questo caso) .--> *quando il narratore si eclissa e asseconda i suoi personaggi. Il personaggio di Matilde Palmi Matilde Palmi è la protagonista di un romanzo dentro il romanzo. La storia infelice di questo personaggio attraversa, infatti, sin dalle prime battute, I Viceré, per occupare una cospicua e centrale parte dell’opera, in modo sostanzialmente monografico. È ovvio, perciò, che anche il lettore meno accorto debba desumere che a questo personaggio De Roberto sia particolarmente legato. Nella sua Introduzione a I Viceré Sergio Campailla osserva: «È legittimo, peraltro, porsi la domanda: che cosa si salva dal naufragio? La fascinazione esercitata dai Viceré su De Roberto è di tipo maligno, il regista o il burattinaio conosce troppo bene i vizi dei suoi personaggi, e buona parte dello spettacolo consiste nello sconfessarli. Sull’altro versante, il popolo nella sua rappresentazione 1 non è più che massa di manovra, il luogo privilegiato del processo verbale. De Roberto sta al di fuori o al di sopra della sua materia, ma se provvisoriamente vi si cala dentro, si schiera con l’elegiaca Matilde, la sposa del conte Raimondo, l’intrusa della famiglia e la vittima» Insieme a sua figlia Teresa, protagonista dell’Illusione, ma personaggio inconsistente ne I Viceré, a Teresina Uzeda ed Isabella Fersa, Matilde rappresenta un’idea del femminile che sembra, inizialmente, affrancarsi dalla misogina attenzione riservata da De Roberto ai personaggi femminili del suo romanzo. Intanto, diversamente dalle donne Uzeda, Matilde è bella, gentile e dolce ed ha sposato il più bello degli Uzeda, Raimondo. Possiede, cioè, tutte le caratteristiche necessarie per diventare l’oggetto privilegiato degli odi delle altre donne. Sin dal suo arrivo in casa Uzeda, dopo la morte della principessa, il narratore riserva a questo personaggio una diversa considerazione. Dalle prime note che le si riferiscono è possibile intuire il ruolo “appartato”, ma dominante di Matilde nella storia corale degli Uzeda, monadi accomunate dall’odio e dall’egoismo. Che sia un personaggio destinato a soccombere lo dicono già le attestazioni di affetto che riceve dai servi, cioè dagli ultimi, al suo arrivo e dal modo in cui interagisce, dimessa eppure quasi regale, con loro: Il conte s’avviò per lo scalone senza curarsi della moglie né del bagaglio. Baldassarre, a capo chino, offerse il gomito alla signora contessa, ma ella smontò senza appoggiarsi. “Più bella che mai!” giudicavan le donne che le si appressavano rispettosamente, “quantunque un po’ dimagrita, in verità…” La moglie del portinaio osservò anche: “Pare più afflitta lei del contino…” E con che dolce voce pregava che portassero su le valigie e i sacchi da notte, e rispondeva al: “Benvenuta, Eccellenza!” dei servi, informandosi della loro salute, domandando a Giuseppe se il suo bambino stava bene e a donna Mena se la sua figliuola s’era maritata! (PARTE 1 CAP.2) Dimenticata dal marito, forse il personaggio più insulso del romanzo, Matilde non ha smarrito la dolcezza, che la contraddistinguerà fino alla morte. Anche se siamo alle prime battute del romanzo, la presentazione che De Roberto ci ha già eloquentemente fornito del clan Uzeda, consente di stabilire una distanza siderale tra Matilde e gli altri personaggi maschili e femminili. Quasi icastiche le osservazioni di Grana: «Fissati e denudati come i dannati danteschi in alcuni caratteri e vizi estremi, nell’inferno di una passione ossessiva e senza sviluppo, che è causa di dolore e rovina altrui e la loro stessa condanna […] si direbbe che in loro De Roberto rappresenti il perfetto negativo dell’idealismo romantico: ovvero un individualismo destituito di ogni giustificazione morale, spogliato di ogni parvenza di dignità e umanità». Gli Uzeda, tutti, hanno ben chiaro il concetto di superiorità della “razza” e non sono inclini a stabilire rapporti umani con chiunque sia inferiore. Si legga quanto scrive Mariella Muscariello: «La storia degli Uzeda alla villa del Belvedere, un avvicendarsi nel tempo di potature ed innesti in funzione dell’utile ed a scapito del bello, sembra riscrivere sinteticamente e per metafora la vicenda 2 quello dell’esclusione, uno dei leitmotiv della letteratura siciliana tra Otto e Novecento. Anche la Duchessa di Leyra, nei cartoni preparatori allestiti da Verga per il Ciclo, era definita così: «Essa è come un’intrusa nella società palermitana, ove pure ha le sue relazioni e parentele». Il pensiero va anche alla Giacinta di Capuana ed all’Esclusa di Pirandello, le cui protagoniste hanno, però, in comune con Matilde Palmi, il solo motivo dell’esclusione dall’ambiente in cui si trovano a vivere: «Non era bastato farsi da parte, non esprimer mai volontà, né desiderii, né opinioni: l’odio aveva trovato sempre ragioni di sfogarsi» (parte 1 cap.4) Viene da pensare, tout court, alla insopportabile cugina Graziella, più intrusa e certamente più impicciona di Matilde, tollerata, però, da tutti e persino premiata con il titolo di principessa alla fine del romanzo. Persino la cugina Graziella, intrusa lei stessa, considera Matilde un’intrusa, una sorta di usurpatrice: «Dev’esser contenta la Palmi!” diceva ora la cugina Graziella alla duchessa. “Suo marito coerede!... Il povero Giacomo costretto a dividere col fratello!... A me dispiace per quest’intrusa, che metterà ancora un altro poco di superbia…». Le ragioni di questa inveterata opposizione al personaggio non sono, perciò, unicamente da ricercare nelle origini poco nobili di Matilde, che sono, invece, la subdola ragione per cui le nozze sono combinate dalla principessa Teresa e rappresentano una macchia indelebile per la sola donna Ferdinanda. Se l’autore attribuisce alla stessa Matilde dei dubbi sulle motivazioni reali di questa opposizione, sta in fondo suggerendo, con quell’ironico, talvolta, cinico distacco che ne contraddistingue la scrittura, al suo lettore di guardare oltre166. Ed il lettore guarderà oltre proprio inseguendo i pensieri di Matilde, che si distendono tra le righe sulle ali di un indiretto libero167, di cui l’amico e Maestro Verga gli ha insegnato l’efficacia: «Una Palmi di Milazzo, la figliuola d’un barone «da dieci scudi» del quale il Mugnòs non faceva e non poteva fare la più lontana menzione! […] La principessa, a cui la nobiltà stava a cuore, se non quanto a donna Ferdinanda, certo moltissimo, aveva giudicato invece sufficienti e fors’anche soverchi quei centocinquant’anni dei Palmi, giusto perché, volendo che la moglie del suo Raimondo fosse sottomessa dinanzi al beniamino come una schiava dinanzi al padrone, e che egli potesse trattarla d’alto in basso e farne quel che gli piaceva, aveva perfino pensato un momento di sceglier per lui l’umile figliuola di qualche ricco fattore…». Se l’autore attribuisce alla stessa Matilde dei dubbi sulle motivazioni reali di questa opposizione, sta in fondo suggerendo, con quell’ironico, talvolta, cinico distacco che ne contraddistingue la scrittura, al suo lettore di guardare oltre: Matilde è solo apparentemente vittima degna di pietas e comprensione; in realtà la sua colpevolezza ne determinerà il destino di morte. 5 Ed il lettore guarderà oltre proprio inseguendo i pensieri di Matilde, che si distendono tra le righe sulle ali di un indiretto libero, di cui l’amico e Maestro Verga gli ha insegnato l’efficacia: Non le facevano festa, in quella casa. Il principe, donna Ferdinanda, don Blasco, un po’ anche la cugina Graziella, dovevano trovare in lei colpe imperdonabili, se la punzecchiavano assiduamente, se la trattavano senza riguardi; ma ella perdonava le mancanze di riguardo e gli sgarbi fatti a lei; non soffriva quelli che toccavano a suo marito. Forse era questa la sua grande colpa: l’amore che portava a Raimondo!... (parte 3 cap.4) All’ingenua contessa, la cui vicenda è singolarmente narrata secondo il punto di vista dello stesso personaggio, il motivo dell’odio dei Viceré appare l’amore che ella nutre nei confronti del marito. In realtà, questo amore la rende sostanzialmente diversa da tutti gli altri personaggi, nella cui vita non c’è amore, inteso come il sentimento disinteressato ed illimitato nei riguardi di un altro essere umano: «Così ella s’era vista bersaglio di quei parenti ai quali era venuta con animo confidente e cuore affezionato; e lo scoprire che il loro astio era tanto acre contro di lei quanto contro Raimondo, invece di attenuare aveva inacerbito la sua pena; poiché perduta d’amore pel marito, ella soffriva e gioiva in lui e per lui…» (parte 1 cap.4). Gli Uzeda di vecchia generazione non conoscono questo amore: la principessa Teresa non ama neanche i suoi figli; don Blasco e don Ludovico, che, in quanto religiosi, dovrebbero praticare questo sentimento, per motivi differenti, amano solo se stessi; donna Ferdinanda non conosce che l’amore per il denaro e per la razza; don Eugenio ed il duca d’Oragua sono così grami da non accorgersi neppure della presenza dell’amore nella gamma delle manifestazioni umane. Gli Uzeda dell’ultima generazione sono loro degni eredi: Giacomo e Raimondo, proprio come la loro madre, non amano neanche i figli; Lucrezia, pur essendosi sposata, sembra seguire le stesse orme della zia Ferdinanda; l’amore di Chiara per Federico, per il suo aborto e per il figlio bastardo è solo una perversione ossessiva; Ferdinando prova sentimenti di fratellanza nei confronti della sola Lucrezia, tonta come lui; i più giovani Consalvo e Teresa rappresentano, in modi diversi, un’ulteriore degenerazione della razza. L’amore di Matilde per Raimondo è, a ben vedere, una delle manifestazioni più naturali del romanzo, come naturali a De Roberto dovevano apparirne gli esiti disastrosi, perché l’amore, quello cantato dai poeti, è destinato al disastro. In Una pagina sulla Storia dell’Amore (Milano, Treves, 1900), De Roberto scriveva: «Accettare l’amore come è naturalmente e dargli quell’importanza che realmente ha, dovrebbe esser consiglio della saggezza; lavorare a farlo credere cosa straordinaria e tutta sublime, è il più sicuro mezzo di farne una cosa sciaguratissima. I poeti, gli artisti, se hanno realmente maggiori capacità mentali ed intellettuali degli uomini medii, pagano la loro superiorità snaturando e avvelenando il sentimento con l’esorbitanza delle loro aspettazioni e con la sottigliezza della loro analisi». 6 In lei si incarna perfettamente la tipologia femminile della signorina di buona famiglia dell’Italia post-unitaria, educata alle arti femminili finalizzate alla celebrazione di un buon matrimonio. La letteratura italiana ed europea coeve ed immediatamente successive, -pensiamo alle donne sognanti dei nostri crepuscolari-, pullula di figure come Matilde, aristocratiche o alto-borghesi, intente a sognare il principe azzurro mentre leggono le avventure di Tancredi o di Orlando: Lo amava fin da quando lo aveva visto, da prima ancora; fin da quando, fidanzata per lettera a quel conte di Lumera del quale suo padre, superbo d’imparentarsi coi Viceré, le faceva lodi senza fine, ella aveva lavorato con la fantasia a rappresentarselo bello, nobile, generoso, cavalleresco come un eroe del Tasso o dell’Ariosto. E la realtà aveva superato le sue stesse immaginazioni; tanto era fine, lo sposo suo, e leggiadro, ed elegante, e splendido; ed ella che non aveva conosciuto da vicino altri uomini, che s’era nutrita unicamente di sogni, di poesia, di fantasia alta e pura, gli aveva dato tutta l’anima, per sempre; lo aveva amato ancora nei suoi cari e idolatrato nella figlia natale da lui. (parte 1 cap.4) Ne I Viceré la sola Teresina avrà sogni e turbamenti simili a quelli di Matilde, ma l’epilogo sarà sostanzialmente diverso. «Più ancora che nell’Illusione, nei Viceré le vite di alcuni protagonisti si modellano e si modificano a contatto con l’immaginario libresco. Matilde, come la figlia Teresa facile preda delle fantasticherie romantiche, immagina il futuro sposo come un cavaliere uscito dalle pagine dell’Ariosto o del Tasso. Quanto poi si incaricherà di deluderla la vita abbiamo appreso, ma la sua autocondanna è già in questo abbandono preliminare alla vacuità di un sogno “letterario”» (A. Cavalli Pasini, De Roberto, cit., p. 65). Infatti, la ragione dell’odio degli Uzeda nei suoi confronti, non è, come il personaggio vorrebbe credere e far credere al lettore, nell’intensità o meglio nell’infinità dell’amore nutrito per Raimondo, ma nell’educazione della Palmi e, dunque, nel suo modo di condurre la vita. Scrive la Muscariello: «Calato nei Viceré senza alterare la scala delle sue temperature, il personaggio di Matilde collide con gli spazi algidi del potere, contrasta l’albagia secolare degli Uzeda con una ingenita remissività ed insinua nella pluridiscorsività corposamente rissosa dei Francalanza “la voce del cuore offeso, della passione tradita”. In virtù della sua appartenenza ad un’altra stirpe, quella delle eroine romantiche ammalate “di cuore e di immaginazione”, Matilde infatti si ritaglia nell’intreccio delle bieche ed impoetiche patologie degli Uzeda uno spazio tutto suo che presenta i caratteri strutturali di “un romanzo nel romanzo”» (M. Muscariello, Un’’Intrusa’ nei «Viceré»: il romanzo di Matilde, in Gli inganni del romanzo. I Viceré tra storia e finzione letteraria, cit., p. 312). Per i Francalanza, infatti, Matilde rappresenta una stravaganza, all’interno di un modello familiare, non fondato sui sentimenti, ma sull’appartenenza alla medesima razza; per questo la sua vicenda monografica all’interno del romanzo corale è apparsa come una sorta di mise en abîme: Ella non aveva altra idea della vita che quella espressa dalla vita sua propria, semplice e piana, tutta trascorsa in mezzo alla sorellina Carlotta, alla mamma loro, soave ed amara ricordanza, ed al padre, uomo di passioni estreme, amico e nemico fino alla morte degli altri uomini, ma cieco e folle d’amore per le sue figlie… Mentre ella adesso si voltava ad ogni tratto a guardar l’uscio della sala con l’ansiosa aspettativa dell’arrivo di Raimondo, la scena che aveva dinanzi le 7 famiglia, se avesse prodigato alla sua bambina le carezze che quella sera faceva al principino!» (parte 1 cap. 4). Anche il suo amore di madre è posto, innaturalmente, in secondo piano, quando arriva quasi a giustificare il disamore paterno verso la piccola Teresa: Che non amasse la figlia, che fosse ingiusto verso il suocero e prepotente, capriccioso, sgraziato, non le faceva nulla: ella non voleva che fosse d’altri! A Firenze, la gelosia di lei non aveva avuto oggetto determinato, o aveva continuamente mutato d’oggetto, poiché egli faceva la corte a quante donne vedeva; ella stessa poi s’era fino ad un certo punto assicurata, giacché, galante a parole con le signore, la mutabilità e l’impazienza dei suoi desideri gli facevano preferire quell’altre, le donne che si pagano… Che vergognoso dolore era stato il suo, nel vedersi ridotta al punto di doversene rallegrare! (parte 1 cap.5) È ancora una volta messo in discussione, nell’universo femminile derobertiano, il ruolo quasi precipuo della donna nella società del tempo, quello di madre. Pur di restare accanto al marito, Matilde accetta anche di rinunciare a questo ruolo. Dopo la morte della principessa, cioè nel tempo raccontato dal romanzo, l’apolide Raimondo è sempre più attratto da Catania, la città non della sua famiglia, ma di Isabella Fersa, che egli vuole a tutti i costi far sua; quindi impone alla moglie soggiorni sempre più lunghi e frequenti in casa Uzeda. Allo scoppio di una epidemia di colera, che minaccia di estendersi in tutta la Sicilia, dopo aver timidamente tentato di convincere il marito a tornare a Milazzo, dove la piccola Teresa è affidata alle cure del nonno e della zia, Matilde si rassegna pacificamente alla lontananza dalla figlia, pur essendo ben cosciente del pericolo mortale connesso al colera. Seguirà gli Uzeda, che la odiano, al Belvedere, dove, nonostante l’assenza della Fersa, che lei, però, ancora ignora, Raimondo trascorre le sue giornate lontano da casa, lasciandola insieme ai nemici. Le lunghe, interminabili giornate al Belvedere sono interamente riempite da Matilde con i pensieri di una penosa ed incurabile gelosia che Raimondo non tenta affatto di placare, anzi ne è irritato, poiché si sente limitato nella propria libertà. Il contino non è sfiorato dal pensiero di dovere rispetto alla moglie e la sua gelosia non lo lusinga come accade di solito quando si ama, ma lo irrita, perché disturba la frivolezza di una vita che egli continua a condurre come se fosse celibe. De Roberto descrive, in realtà, in Raimondo l’uomo sui generis: «È vero, sì, che nella coppia tipica l’uomo ardente, forte, operoso, e la donna fredda, debole, pigra, male riescono a intendersi; ma appunto perché intendersi è necessario a conseguire i fini della natura, noi vediamo ciascuno dei due individui diversi tentar di adattare la propria indole a quella dell’altro; oppure, riuscendo ciò troppo difficile, accettar l’altro così com’è. Allora l’uomo non si sdegna tanto della ottusità, della freddezza, dell’inerzia femminile, quanto la compatisce; ed ammira anche la calma, la rassegnazione, la grazia, le virtù che accompagnano o per meglio dire che 10 sono come il rovescio ed il compenso di quei difetti; allora la donna non si offende della supremazia maschile, ma si abbandona, si affida al forte amante, le cui energie non sono tanto spese ad opprimerla quanto a proteggerla. Questo è l’amore […]» (F. De Roberto, Una pagina sulla storia dell’amore, in Id., Romanzi, Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, cit., p. 1669). Di fronte alla quasi certezza dell’ennesimo tradimento, Matilde si sente smarrita. All’improvviso ricorda di essere madre di Teresa e di avere in grembo un’altra bambina: Improvvisamente, ella ebbe la conferma dei proprii sospetti: rispondeva così quand’era colto in fallo, replicava con le violenze alla ragione; troncava la discussione coi gridi… Appoggiata la fronte a un vetro sul quale la nuova pioggia fine fine tirava umide righe, ella si mise a piangere silenziosamente. Il bene che gli voleva, l’obbedienza che gli prestava, la devozione sommessa di cui gli dava prova ogni giorno non bastavano, dunque: tutto era inutile! Egli la sfuggiva, la tradiva, per chi?... E l’aveva costretta ad abbandonare la sua bambina, e l’aveva esposta ai rimproveri di suo padre, per questo! Per questo!... Un dolore sopra l’altro, sempre, sempre, anche adesso che ella avrebbe dovuto esser sacra per lui, giacché i dolori che le procurava potevano uccidere la creatura che stava per nascere!... (parte 1 cap.5) La maternità è, per Matilde, una sorta di arma. Nelle pagine dei Viceré che raccontano la sua storia, riproducendone, nella maggior parte dei casi, i pensieri, si ha l’impressione che i suoi sentimenti verso le figlie siano sempre, in qualche modo, mediati da quelli nei riguardi di Raimondo: «Il suo bel sogno d’amore e di felicità s’era a poco a poco, di giorno in giorno, dileguato; adesso, rassegnata alle tristezze della realtà, ella non chiedeva che la quiete. Purché Raimondo volesse bene alle sue creature, purché non le abbandonasse un’altra volta, ella era disposta a sopportare ogni cosa…» (parte 2 cap.2) Teresa e la piccola Lauretta sono, dal suo punto di vista, la garanzia del suo matrimonio con il conte; per quanto egli non sia prodigo di attenzioni e d’amore per le figlie, Matilde spera che i legami “di sangue” possano far astenere suo marito da tradimenti e maltrattamenti. La più grande delusione ed il senso di totale smarrimento arrivano in lei, infatti, quando, nonostante sia incinta, Raimondo la tradisce e la trascura. Ma proprio perché le sue figlie rappresentano il legame in fondo più saldo che possa avere con il loro padre, ella soffre profondamente per il disamore, per il risentimento di cui anche le bimbe sono oggetto in casa Uzeda: Non era parso vero a Matilde di vedere Raimondo premuroso per le figlie, ed ella aveva quasi benedetto le sue sofferenze, se per esse godeva di quella tregua; ma appena arrivata in casa degli Uzeda, ella aveva visto ricadere la figliuola e Raimondo trascurarla, lasciarla sola in mezzo a quei «parenti» che la guardavano come prima di traverso e, cosa più dura al suo cuore di madre, la ferivano nelle sue bambine. Della più piccola deridevano le sofferenze e predicevano la morte; ma le maggiori ostilità erano contro Teresina.190 Gli Uzeda maltrattano le bambine di Matilde perché sono figlie sue, a nessuno viene in mente che sono anche figlie di Raimondo, di un Uzeda. Ovviamente questo accade perché si tratta di due femmine. Non solo Matilde è un’intrusa, ma non è stata neanche in grado di generare 11 figli maschi. Delle sue piccole, Teresa è il ritratto della madre a giudicare dalle opinioni espresse dai parenti di Raimondo, e, per questo, degna di ogni biasimo; la seconda, Lauretta, è così debole da far pensare ad un frutto destinato a non diventare maturo. Eppure nelle numerose pagine del romanzo a lei dedicate, raramente Matilde è presentata come madre. Non è mai con le sue figlie. Teresa e Lauretta sono sempre altrove, anche quando sono in casa Uzeda non sono affidate alla madre. Le scene di tenerezza che ci presentano la fobica principessa Margherita circondata dai suoi figli, in quadretti rassicuranti di amore materno e filiale non hanno un corrispettivo in Matilde e le sue figlie. Nonostante la dolcezza remissiva di questo personaggio renda più prevedibili scene d’affetto e di intimità familiare. In realtà Margherita è madre e moglie, Matilde è moglie e madre. La sua mania investe Raimondo, non le figlie, che ella cresce non con l’ansia di Margherita, ma con un’ampia disponibilità a demandare ad altri le incombenze materne, come se non avesse mai smesso di essere figlia lei stessa e non si sentisse, dunque, capace d’esser madre. Quando la cugina Graziella le rivelerà la relazione tra Raimondo e Isabella, Matilde ammetterà candidamente di non esser più madre: «”Io!.. Io!..” balbettava Matilde, con le labbra amaramente contorte dall’ambascia. “Io che piango da due anni… Io che non ho più figlie…Io che l’ho pregato come si prega Gesù!...”» (parte 1 cap.7). Quando il sospetto della relazione adulterina con la Fersa comincia a diventare più acuto, attraverso il solito indiretto libero, che ha il compito di contenere il dilagante stream of consciousness del personaggio, il pensiero delle figlie (l’uso imperante dell’indiretto libero e talora del monologo interiore, esteso anche ai personaggi secondari, contribuisce a isolare ciascuno nella propria interpretazione del mondo, mentre la propagazione corale del discorso vissuto ribadisce il senso di immeschinimento cui soggiace ogni evento storico, filtrato da un’ottica capace di convertire il particolare in universale, atta solo a cogliere il versante inglorioso della vita, l’aura di disagio che la circonda, la sua degenerazione» -A. Cavalli Pasini, De Roberto, cit., p. 55-) indifferenti al marito, attraversa solo fugacemente la sua mente, per essere surclassato da una gelosia prepotente e cieca, vittima della quale consentirà al barone Palmi, suo padre, di accusarla giustamente di volere più bene al marito che alle sue bimbe: «Ma ingiustizie, mala grazia, ella gli avrebbe perdonato ogni torto, tanto gli voleva ancora bene; gli perdonava perfino l’indifferenza con la quale trattava le sue figlie, le innocenti creature che erano sangue suo! Ma vederselo sfuggire, ma saperlo tutto d’un’altra, ma ritrovare sulla persona di lui il profumo degli abiti, delle mani, dai capelli di quell’altra; questo no, ella non poteva soffrirlo!» (parte 1 cap.7) Quello di suo padre è ben più di un sospetto. Quando, infatti, dopo il tradimento subito e la fuga di Raimondo con donna Isabella, Matilde è a Milazzo con le figlie, giungerà a sperare che Lauretta si ammali nuovamente, così che Raimondo possa tornare, vista la gravità della situazione: 12 mentali deviate degli Uzeda, imitando maldestramente la loro caparbia e folle determinazione nel rivendicare la supremazia di un ego ben consapevole che nel mondo homo homini lupus. Il suo personaggio è stato anche avvicinato a quello di Giovannino Radalì, il figlio del pazzo, poi “pazzo” anche lui per amore di Teresa Uzeda. Ma Matilde non ha la purezza di Giovannino. De Roberto rende esplicita la distanza tra i due personaggi proprio attraverso il racconto della loro morte. Quella di Giovannino, avvenuta per suicidio, sarà, in un certo senso, eroica; avrà, infatti, su chi resta, il peso intollerabile della morte dei giusti; alla morte di Matilde, invece, l’autore, che pure l’ha resa protagonista di un romanzo nel romanzo, non dedicherà che le poche righe, quasi casuali, di un racconto indiretto, affidato alla sprezzante e partigiana lingua di Pasqualino Riso, un servo, proprio come lei: Che c’entrava la malattia della signora donna Matilde col silenzio del barone? Forse che a sentire sciolto il matrimonio, la signora Matilde sarebbe guarita dalla contentezza? Era morta, invece –salut’a noi!- qualche mese dopo il matrimonio del conte e di donna Isabella! (parte 2 cap.5). Il conflitto sociale tra aristocrazia e borghesia : il caso di Bendetto Giulente e il barone Palmi La tendenza degli Uzeda ad odiare chi non fosse nobile di nascita investe non solo il personaggio di Matilde. Infatti, il personaggio più rappresentativo del conflitto sociale tra aristocratici e borghesi è senza dubbio Benedetto Giulente, garibaldino e liberale, spasimante di Lucrezia, sorella del Principe Giacomo di Francalanza. Il suo tratto caratterizzante è quello dell’assoggettamento agli Uzeda; l’ingresso del giovane in seno alla famiglia, all’indomani del matrimonio tanto desiderato, si accompagna al suo ostentato tentativo di ingraziarsene i componenti, assecondandone richieste e desideri. Egli scende a ogni compromesso, tradendo palesemente gli ideali progressisti sbandierati, senza peraltro guadagnare alcun rispetto da parte degli Uzeda. Ed è evidente che tale sprezzo riposa su ragioni di ordine sociale: egli è un borghese e come tale irrimediabilmente inferiore ai Viceré. Pertanto non può che farsene sottomesso e servitore, a dispetto di una familiarità che, del resto, gli è stata accordata solo per interesse. Le nozze tra Giulente e Lucrezia, lungi dal corrispondere a un’occasione di effettiva integrazione tra l’universo aristocratico della sposa e quello borghese di Benedetto, segnalano in modo inequivocabile la separazione tra i due mondi. Il giorno del matrimonio, il narratore fotografa impietosamente gli ospiti borghesi del palazzo viceregale, scorciandone con luce fredda i rozzi e volgari atteggiamenti. In un passaggio particolarmente rappresentativo, è assunto il punto di vista di Baldassarre, maestro di casa, il quale coordina il servizio del banchetto nuziale tra le sale e la Galleria dei Ritratti di famiglia. Rispettando gli ordini, egli serve tutti, seguendo la stessa etichetta: 15 quantunque, per dire il fatto della verità, [...] ci fossero certi tipi che non si sapeva di dove sbucassero: se prendevano il piatto del gelato, buttavano a terra il cucchiaio, o si rovesciavano addosso la gramolata tracannandola quasi fosse acqua fresca, o prendevano i dolci a manate come se non ne avessero mangiato mai prima di quella sera. E i Viceré che guardavano dall’alto delle pareti! Basta: a lui toccava eseguire gli ordini dei padroni! L’indiretto libero condensa lo sdegno che anima il maestro di casa: egli avverte come motivo di scandalo il fatto di servire gente che ritiene per statuto inferiore. E lo dimostra lo sguardo contrito ai ritratti di famiglia: un servo si fa così portavoce dello spregio viceregale nei confronti di chi non sia nobile di nascita. Un altro passo illustra in modo limpido il conflitto di classe dell’Italia postrisorgimentale , rendendo conto una volta di più dell’ottusa arroganza dell’aristocrazia e della subalternità della classe borghese: è la scena che raffigura lo scontro più violento fra Raimondo e il suocero, il barone Palmi. L’atteggiamento del giovane Uzeda è immorale e irriguardoso nei confronti di Matilde, così che il padre della donna decide di affrontare il genero. Il barone è un uomo fiero, che non può accettare l’ingiustizia di cui è vittima la figlia: egli intende difenderla, animato da un oggettivo senso di equità. Con una semplice parola, Raimondo è però in grado di zittirlo. Il racconto è affidato alla voce narrante, che assume progressivamente il punto di vista del servo Pasqualino e poi quello del barone Palmi: [...] Pasqualino l’aveva proprio udito il colloquio fra suocero e genero, la spiegazione definitiva avvenuta, dopo pochi giorni di calma apparente, giù nelle scuderie del palazzo Rossi, per impedire che Matilde, che le bambine udissero. Alle ingiunzioni sordamente minacciose del barone che gli diceva: «Non vuoi finirla? Non vuoi?» Raimondo aveva risposto col tono consueto di sprezzante superiorità: «Di che intendete parlare? Occupatevi di ciò che vi riguarda!...» Sì, di ciò che lo riguardava, rispondeva il barone, della pace di sua figlia che gli stava a cuore sopra ogni cosa, che voleva garantita a qualunque costo, a costo di portarsela via e di romperla per sempre... «E chi vi trattiene? Andatevene pure!» Era appiattato nella stalla, Pasqualino, lì a costo, e se udiva i padroni non poteva vederli; ma a quella risposta del contino, al breve silenzio da cui era stata seguita, aveva sentito un certo senso di freddo in pelle. «Sì, ce ne andremo... ma prima...» E allora Pasqualino accorse. Col sangue agli occhi, il pugno levato, il barone aveva già agguantato il genero; ma, senza il cocchiere gettatosi in mezzo, era bastato a Raimondo dire una sola parola: «Facchino!...» perché tutt’a un tratto il suocero lo lasciasse. (parte 2 cap.4) Il narratore introduce la scena. Il primo scambio di battute è riportato attraverso il discorso diretto, ma con abile tecnica della variatio, la terza battuta del barone Palmi è riportata in indiretto libero. Segue un momento di silenzio, nel quale il narratore introduce uno spettatore in ombra: Pasqualino assiste di nascosto alla scena e prontamente balza in mezzo ai due litiganti, quando il barone sta per aggredire il genero. Ma il suo intervento è inutile; Raimondo gela Palmi con l’insulto feroce: «Facchino!...». 16 Sicuro, l’aveva detta il conte quella parola, Pasqualino non lavorava di fantasia, riferendola: e bisognava aver veduto l’effetto prodotto sul barone! Quel pezzo d’uomo che con un soffio avrebbe buttato a terra il genero piccolo e delicato, che lo avrebbe spezzato come una canna tra le mani grosse e villose, pareva diventato un ragazzo dinanzi al maestro: il contino Uzeda, il minuto e fiacco discendente dei Viceré fulminava il barone contadino con quella parola, con quell’insulto che diceva la distanza da cui erano separati il signore vizioso ma bene educato e il manesco villano ringentilito. Facchino, sì, approvava Pasqualino: tra persone d’una certa nascita le questioni non vanno definite a pugni: e con quella parola appunto il conte rammentava al suocero l’onore fattogli sposando sua figlia; e se il barone restava immobile come una statua era perché subitamente riconosceva d’esser nel torto. (parte 2 cap.4) Con un abile cambio prospettico, la narrazione è ora condotta grazie al punto di vista di Pasqualino, le cui esclamazioni sono rese in discorso indiretto libero («Sicuro, l’aveva detta il conte quella parola»; «bisognava aver veduto l’effetto prodotto sul barone!»). Dopo il commento del narratore, che evidenzia provocatoriamente la distanza tra «il signore vizioso ma bene educato e il manesco villano ringentilito», è nuovamente riportato il pensiero giudicante del servo: «Facchino, sì, approvava Pasqualino: tra persone d’una certa nascita le questioni non vanno definite a pugni». A questo punto, interviene i narratore: egli chiosa l’episodio con una considerazione che chiarisce il senso politico-sociologico di quanto accaduto: «con quella parola appunto il conte rammentava al suocero l’onore fattogli sposando sua figlia; e se il barone restava immobile come una statua era perché subitamente riconosceva d’esser nel torto». Con un nuovo riaggiustamento del fuoco, il narratore assume ora il punto di vista del barone Palmi: l’indiretto libero ne riporta i pensieri, fino alla considerazione che l’insulto, egli, «aveva riconosciuto di meritarlo, ad alta voce, dinanzi al genero». Il barone riconosce la sua inferiorità e la dichiara apertamente a Raimondo. L’antitesi istituita tra «l’orgoglio d’essere entrato nella famiglia» e «l’istintivo sentimento della propria inferiorità» evidenzia la dinamica del conflitto sociale. La borghesia non ha coscienza della propria responsabilità e disprezza i propri natali; per questo si atteggia secondo il modello aristocratico, di fatto sancendo la propria sottomissione ai vecchi potenti. La società siciliana di fine ’800 è così votata all’immobilismo. Anche in questo campo, De Roberto segnala il proprio spirito innovativo, operando una scelta arditamente alternativa. Ne I Viceré egli decide infatti di dare rappresentazione non ai vinti, ma a coloro che da vincitori cavalcano «la fiumana del progresso». Qui si dovrebbe assistere al mutamento sociologico apportato dai tempi nuovi; la preferenza accordata dal narratore alla rappresentazione della vecchia razza, tuttavia, è opzione atta a dimostrare polemicamente l’arretratezza della penisola, in ragione della vitalità dell’aristocrazia, nonostante tutto. Il narratore siciliano adatta alla peculiare situazione socio-politica italiana il modello del romanzo ambientale francese; la moderna società borghese è contrapposta alle strutture ancora feudali della Sicilia post-unitaria. La scelta è tanto più provocatoria perché, nel romanzo, il narratore illustra 17
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