Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Approfondimento RUNE, Sbobinature di Filologia Germanica

Sbobinatura della quinta lezione del prof. De Bonis. Lezione di approfondimento sulle RUNE.

Tipologia: Sbobinature

2021/2022

In vendita dal 07/12/2023

noname_99
noname_99 🇮🇹

4.6

(24)

72 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Approfondimento RUNE e più Sbobinature in PDF di Filologia Germanica solo su Docsity! Rune In Inghilterra, gli Anglosassoni portarono il futhark dall’Europa continentale nel V secolo e lo modificarono: il futhark subisce un arricchimento di simboli grafici perché si passa da 24 lettere a 33. Ciò succede perché l’inglese ha vissuto un aumento dei suoni, in particolare vocalici, per cui si è reso necessario un incremento della sequenza runica (questa modifica è stata resa necessaria per esprimere i mutamenti fonetici che si stavano verificando nell’inglese antico, parlato dagli Anglosassoni, rispetto al germanico). Il fatto stesso che il futhark nell’Inghilterra Anglosassone non sia più tale ma futhorc (con pronuncia arrotondata della /a/), dà il senso del cambiamento del sistema vocalico in area anglosassone. In inglese antico /a/ seguita da nasale si trasforma in /o/. Il sistema che viene fuori è caratterizzato così: Nel futhark, la “a” di futhark è messa all’ultimo rigo= æ. Nel futhorc, questo cambio di pronuncia della vocale “a” è segnalato con l’aggiunta di due tratti ascendenti obliqui. Sappiamo di questo cambiamento grazie ad una serie di iscrizioni runiche in area Anglosassone che sono documentate. Nel territorio anglosassone abbiamo anche un’altra fonte indiretta, in latino, che ci parla della diffusione e della consuetudine di utilizzare i simboli runici anche Inghilterra Anglosassone (l’uso delle rune, strumento di scrittura pagano, in area anglosassone poteva essere in conflitto con la cristianizzazione dell’isola, ma il clima di tolleranza con cui la fede cristiana fu diffusa e accolta, ha favorito la sopravvivenza e l’uso delle rune accanto all’alfabeto latino, strumento di comunicazione dei cristiani). Chi informa della presenza delle rune anche in questo territorio è Beda il Venerabile, ultimo padre della Chiesa. Egli è stato un dotto, un filosofo, teologo; si è occupato anche di computo (a lui si devono due trattati di computo, ovvero come organizzare il calendario standard [per contare i giorni] ma anche il calendario con le famose “tavole pasquali” [importante per la chiesa], cioè un calendario perenne che indicava tutte le date della Pasqua nel calendario cristiano). Beda menziona le rune in latino nel libro IV della sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum (una fonte storica per lo studio dell’Inghilterra Anglosassone), in cui si fa riferimento a queste consuetudini non propriamente cristiane dell’uso di queste lettere divinatorie: “Interea comes qui eum tenebat, mirari et interrogare coepit quare ligari non posset, an forte litteras solutorias de qualibus fabulae ferunt, apud se haberet, propter quas ligari non posset.At ille respondit nihil se talium artium nosse”Intanto il conte che lo teneva prigioniero cominciò a meravigliarsi e a chiedere perché non fosse possibile legarlo, se per caso avesse con sé lettere liberatorie – di cui parlano le storie – a causa delle quali non poteva essere legato. Ma egli rispose di non conoscere nessuna di quelle arti. Utilizza l’espressione “literas solutorias”, cioè lettere liberatorie, facendo probabilmente un riferimento alle rune. Questo stesso brano è stato ripetuto nella versione in inglese antico della Historia ecclesiastica gentis Anglorum, traduzione effettuata all’incirca uno/due secoli dopo il periodo di Beda. Anche in inglese antico il testo è esattamente corrispondente: “Ond hine ascode hwæðer he ða alysendlecan rune cuðe, ond þa stafas mid him awritene hæfde, be swylcum men leas spel secgað ond spreocað, þæt hine mon forþon gebindan ne meahte. Þa ondsvarede he þæt he noht swylcra cræfta ne cuðe”. E gli domandò se conoscesse rune liberatorie e avesse con sé scritte quelle lettere di cui gli uomini dicono e raccontano false storie, che non si poteva legarlo per questo motivo. Egli rispose allora che non conosceva nessuna di quelle arti. In inglese antico “literas solutorias” viene reso con “alysendlecan rune”, un richiamo alle rune. Il fatto che Beda ne parli quindi è un chiaro segno della diffusione delle rune anche in territorio anglosassone. Abbiamo anche oggetti che presentano chiaramente questa sequenza runica modificata rispetto al futhark antico e un documento famoso di area anglosassone è il cofanetto Franks (dalla prima metà dell’VIII secolo), un oggetto oggi conservato al British Museum, il coperchio invece presso il Museo del Mugello a Firenze. È un cofanetto dal tono giallastro, realizzato in osso di balena, ed è un oggetto molto interessante perché è un perfetto esempio di sincretismo culturale perché su di esso abbiamo elementi germanici, cristiani e latini compresenti sulle varie facce di questo oggetto. L’incisione runica, che va letta dal lato sinistro e in senso orario percorrendo il perimetro della facciata, non dice nulla che abbia che fare direttamente con le scene rappresentate in bassorilievo sul cofanetto, ma ci dice della provenienza del materiale di cui è fatto l’oggetto. “Osso di balena. La marea scaraventò il pesce sugli scogli, il re del terrore (è un kenning, ovvero un’espressione poetica che in questo caso sta per “la balena”) si rattristò quando nuotò sulla ghiaia”. Si dice chiaramente che quest’osso di balena è ciò che rimane di una balena spiaggiata. Ban: come bone dell’inglese moderno. È un esempio di sincretismo culturale perché sulle varie facciate abbiamo: l’adorazione dei Magi, l’arrivo di Tito a Gerusalemme e affianco ai Magi, si ha un fabbro in una fucina e dei cigni, che fa riferimento ad un episodio caro al mondo Germanico antico, l’episodio di Weland il Fabbro. I fabbri nel mondo germanico antico non erano famosi solo perché maneggiavano ferro, ma perché forgiavano armi e oggetti preziosi. Le scene, quindi, fanno riferimento a vari ambienti culturali; il testo è scritto invece in versi allitteranti (si ripete sempre lo stesso fonema all’interno dello stesso verso, che è un riferimento alla poetica germanica). Importante è soprattutto questo riferimento alla vicenda di Weland Il fabbro. Sul coperchio del cofanetto si leggono queste lettere “ÆGILI”, che dovrebbe essere il fratello di Weland il fabbro. Egill è poi documentato anche in un carme che s’intitola la “Völundarkviða”, il carme di Völundr (IX secolo), che è la versione islandese antica del nome di Weland (tedesco). La vicenda del fabbro è particolare perché egli aveva creato delle spade molto potenti nel mondo germanico antico e nella Völundarkviða si racconta, in particolare nell’introduzione al carme, l’antefatto, ovvero la vicenda: “Volundr, fabbro e orafo abilissimo, è rimasto solo nella Valle del Lupo, dopo avervi trascorso sette anni felici insieme a due fratelli e a tre valchirie (che loro avevano conosciuto sotto forma di cigni). Là foggia gioielli che attirano l’attenzione di re Nidhudhr. Viene quindi catturato dagli uomini di quest’ultimo e storpiato (gli spezzano e tagliano le gambe perché non volevano che scappasse); perché non possa proprio fuggire, viene relegato su un’isola in mezzo al mare. Ma Volundr riesce, approfittando della loro ingenua curiosità, a uccidere i due figli di Nidhudhr e a fare con i crani, gli occhi e i denti splendidi gioielli da offrire al padre, alla madre e alla sorella delle due vittime”. La fama di Volundr si era diffusa in tutto il mondo germanico antico, quindi il sovrano Nidhundr si era ripromesso di catturare il fabbro perché voleva che lavorasse esclusivamente per lui e per fare ciò gli spezza le gambe, non lo imprigiona ma lo costringe a vivere su un’isola in mezzo al mare. Per un po’ Volundr svolge il suo lavoro perché approfitta della sua fama di fabbro e della fiducia che molti sovrani/regnanti accordavano ai fabbri perché erano ritenuti molto saggi, quindi solitamente i sovrani mandavano i propri figli a osservare il lavoro del fabbro perché doveva istruirli nell’arte della guerra e doveva raccontare loro vicende famose di combattimenti noti nel mondo germanico. Quindi Volundr, un po’ alla volta, conquista la fiducia dei figli di Nidhudhr e alla fine li uccide. Volundr non avvisa la famiglia, che si dispera perché non sanno che fine abbiano fatto. Un giorno anche Beadohilde, un’altra figlia, raggiunge l’isola e, dopo aver conquistato anche la sua fiducia, Volundr la violenta (viene compiuta un’ulteriore vendetta). Ad un certo punto entra in gioco Egill. La domanda che sorge spontanea è: come ha fatto Nidhudhr a catturare Volundr se viveva con i 3 fratelli e le 3 mogli? Le mogli erano Valchirie (originariamente erano cigni) e dopo alcuni anni se ne vanno, lasciando soli i fratelli di Volundr, che decidono di partire alla ricerca delle proprie consorti e lasciano Volundr da solo, diventando facile preda di Nidhudhr e dei suoi seguaci. Quando Egill torna e viene a sapere della cattura di Volundr, gli prepara la fuga: vengono costruite delle ali da fargli indossare. Immaginando che nell’atto della 1. Le popolazioni che vivevano in Danimarca probabilmente, sarebbero entrati in contatto con gli ambienti della scrittura prelatina grazie ai commerci (questa è una motivazione che la tesi etrusco- settentrionale condivide con la tesi latina). 2. Ci sono una serie di reperti archeologici che sono collocabili nell’area dell’attuale Danimarca che confermano un avvio di trasformazione culturale in quell’area perché ci sono dei reperti archeologici che sembrano indicare la creazione di una classe nobiliare orientata alla scrittura, un po’ più forte rispetto alle altre classi del mondo germanico antico. 3. Una certa vivacità culturale, frutto del contatto con l’ambiente delle Alpi, avrebbe favorito uno sviluppo culturale anche in senso alfabetico, nell’uso di simboli grafici, prima a scopo magico- oracolare e in seguito, forse per influsso dei contatti frequenti con l’impero romano, l’uso della scrittura per comunicazioni di servizio (ad esempio per indicare il nome del proprietario su armi e oggetti o il nome dell’artigiano e dell’incisore). Le popolazioni germaniche hanno visto nei romani l’uso dell’alfabeto latino per comunicare anche ordini militari e cose semplici legate alla quotidianità. L’ipotesi etrusco-settentrionale è supportata anche dalla somiglianza grafica tra i tratti dell’alfabeto runico e i tratti delle altre sequenze alfabetiche di tipo etrusco-settentrionale. Schema che mostra scritture alfabetiche dell’area alpina che somigliano alle rune: Anche queste sequenze alfabetiche potevano essere scritte in entrambi i versi: sia da destra verso sinistra che viceversa, proprio come la sequenza runica. Alfabeti delle Alpi e futhark Elenco più dettagliato dei vari sistemi alfabetici dell’area delle Alpi. Queste sono sequenze alfabetiche (o scritture prelatine) simili tra di loro che avrebbero poi dato vita alla sequenza alfabetica latina. Secondo la tradizione questi sistemi scrittori si sarebbero poi diffusi verso sud, dalle Alpi arrivano in Toscana, nella zona Osco-Umbra e poi a Roma. Vi è poi un’altra ipotesi più recente formulata dallo studioso tedesco Theo Vennemann (ha delle teorie sempre molto originali e rivoluzionarie sullo studio delle antichità). La terza ipotesi presupporrebbe un insediamento di tribù germaniche lungo l’arco delle Alpi, il che è un po’ complicato da giustificare (ma l’ipotesi etrusco-settentrionale e al massimo quella latina sono quelle più accreditate dagli studiosi), questo studioso ha ipotizzato, sulla base di alcuni tratti simili, un’origine addirittura fenicia dell’alfabeto runico. Ha fatto questo sulla base di una serie di rotte commerciali ben documentate fra Nord e il Mediterraneo, e la sua ipotesi deriva dal fatto che l’alfabeto fenicio era un alfabeto creato sulla base di un criterio acrofonico: ogni simbolo indicava un concetto e rappresentava anche il suono iniziale della parola che designava quel concetto. Tutto ciò non rimane ben documentato perché alla fine l’ordine dell’alfabeto runico rimane un ordine unico nel suo genere perché non ci sono altre sequenze alfabetiche che cominciano per: f, u, th, a, r, k come quello runico. Mentre gli altri alfabeti sono a base a, b, c, d… Alcuni studiosi hanno provato a valutare le sequenze alfabetiche sulla base dei significati delle lettere: in fenicio vediamo aleph ovvero alpha in greco, che originariamente significava “il bue”(ovvero “capo di bestiame”), così come la prima runa fehu, che significa “bestiame/capo di bestiame”. La seconda lettera non aveva corrispondenza (beth significava “la casa/dimora/focolare domestico”). Nell’area germanica, soprattutto nell’area intorno alle Alpi, in Stiria (oggi ricade in Slovenia), è stato rinvenuto un oggetto: l’Elmo B di Negau, datato al II secolo a.C. La datazione di quest’oggetto è molto controversa perché alcuni ritengono, invece, che sia databile al V secolo a.C. e che l’iscrizione sia successiva. Il testo che vi è inciso è accompagnato da una iscrizione che è di tipo venetico (i caratteri utilizzati per inciderlo sono di area Veneta), quindi non sono rune. Le parole che sono state scritte con questo alfabeto mostrano chiari tratti germanici sul piano linguistico. Il testo è: harikhasti teiva… (hil?), è dubbia l’interpretazione dell’ultimo tratto perché l’incisione ha perso chiarezza a causa del tempo. In harikhasti abbiamo vari elementi che possiamo classificare come germanici su piano linguistico perché questa parola rimanda ad una voce germanica “harja-gastiz” che potrebbe significare “ospite dell’esercito”. Gastiz (guest in inglese o Gast in tedesco): ospite; harja= esercito. Harikhasti potrebbe essere un epiteto. Interpretando singolarmente gli elementi di quest’iscrizione: - Hari è confrontabile con la voce germanica ricostruita harja, che sarebbe la riproposizione di una base indoeuropea korjo “esercito/guerriero”, una voce lessicale che in greco troviamo come Kouros “il giovane/ragazzo guerriero”. Corrispondenza di tipo germanico: K occlusiva sorda; H fricativa sorda. - Khasti è più problematico da interpretare. A KH dovrebbe corrispondere una G germanica e rimanda alla voce indoeuropea ghosti- che significa “ospite/straniero”, la quale produrrà in latino Hostis che è sempre stato un sostantivo ambivalente: l’oste è colui che ospita ed è ospitato ma, l’ospite in quanto tale, proviene da lontano/esterno, quindi non è detto che sia sempre una persona gradita ed è per questo che in latino significa anche “lo straniero nemico”, da cui poi “ostile/ostilità”. Quindi è la lontananza della provenienza che determina il possibile tratto negativo dell’ospite. - “Teiva”, che è confrontabile con una base germanica ricostruita “Tīwaz” sembra corrispondere alla voce indoeuropea “deywos”: un “deus” latino. Ciò dovrebbe significare “Dio” o Tyr, una delle divinità germaniche. Questa iscrizione è importante anche in base alla sua datazione. Il testo è datato al II secolo a.C. però, come abbiamo visto, le prime iscrizioni runiche a nostra disposizione risalgono al II secolo d.C., al massimo I. L’area di provenienza è la Stiria, zona non lontana dall’arco delle Alpi, ed è molto probabile che questa iscrizione rappresenti una fase evolutiva intermedia che deve aver portato da un alfabeto venetico settentrionale verso il futhark antico. Ciò ha qualcosa di verosimile perché gli studiosi che si sono occupati nel tempo dell’affermazione dei sistemi alfabetici hanno osservato che un sistema alfabetico per affermarsi e per entrare nell’uso comune del popolo, ha bisogno di un arco di tempo che oscilla fra i 100 e i 200 anni. Se applichiamo questo intervallo di tempo a quest’iscrizione, potrebbe veramente essere una fase intermedia della vita di un certo tipo di sequenza alfabetica che poi ha portato al futhark antico così com’è documentato dalle iscrizioni datate a partire dal I o II secolo d.C. Esiste tuttavia un’altra interpretazione ulteriore per quest’iscrizione, secondo cui l’iscrizione sarebbe in realtà formulata da un soldato che dovrebbe aver militato nell’esercito romano (probabilmente una firma). Probabilmente si tratta di soldati ausiliari (auxilia/arum in latino), delle famose truppe di stirpe germanica a servizio dell’esercito romano (questo confermerebbe la datazione al I-II secolo a.C.). Quindi quel testo poteva essere segmentato/ricostruito in modo diverso: Harigasti Tei V(exillatio) A(I.) III Illir, le stesse lettere separate diversamente produrrebbero dei genitivi. V è un’abbreviazione per Vexillatio, una parte dell’esercito romano (distaccamento di soldati o squadrone di cavalleria). Potrebbe essere un nome o un patronimico declinato ad uso latino per indicare il reparto di appartenenza del soldato proprietario dell’elmo (Tollenaere 1967). Resta la struttura Harigasti tipicamente germanica nel consonantismo. Come ulteriore riflessione sull’alfabeto runico e sulla lettura del mondo germanico possiamo dire che la ricostruzione linguistica tende a proporre il germanico come un’entità fissa e unitaria/monolitica. Riflettendo però sulle fonti storiche e archeologiche, il germanico forse non dovrebbe essere pensato come un’entità rigida e unitaria. Probabilmente il germanico, come idea, potrebbe rappresentare un ambiente linguistico caratterizzato da più dialetti affini tra di loro che hanno visto aumentare i tratti comuni grazie a momenti di contatto geografico e culturale. Tutto ciò avrebbe contribuito a rendere via via più affini tra loro le lingue delle tribù germaniche e questo avrebbe poi permesso a Tacito, e a chi è entrato in contatto con i territori germanici, di riconoscere una comunità omogenea sul piano linguistico e culturale. L’insieme di questi dati, raccolti fino ad ora, ci porta ad osservare come il dato sociale, linguistico, culturale, siano molto ben connessi tra di loro (situazione sociale e mutamento linguistico sono strettamente connessi), al punto da giustificare la condivisione di tratti linguistici simili tra i parlanti delle lingue germaniche antiche. Ci sono dei tipi particolari di rune, le Geheimnisrunen (le rune segrete). È un uso crittografato documentato delle rune, quasi una sorta di scrittura in codice delle rune. Quest’ultime (sia nel futhark antico che in quello recente) erano suddivise in tre gruppi (detti ættir) di otto lettere ciascuno disposti in righe e colonne: ogni runa nel sistema di scrittura crittografica era identificata da due coordinate, una indicante la riga (il gruppo, ætt, sost. femm., pl. ættir “parte, un quarto, porzione, gruppo”), l’altra la colonna (la posizione della runa all’interno del gruppo). Le coordinate del sistema gruppo/colonna erano rappresentate da piccole aste disposte lungo i lati di un’asta centrale verticale o obliqua: le aste di sinistra indicavano il gruppo di appartenenza della runa in questione e le aste di destra indicavano la posizione della runa all’interno del gruppo di appartenenza (si vedano, ad esempio, le iscrizioni runiche di Maeshowe, sulle isole Orkney). Spesso le aste in questione venivano collocate all’interno di alcune raffigurazioni di pesci, di figure umane o di croci, come si osserva nelle iscrizioni di Bergen. Testimonianze di questo genere giungono fino al XII secolo, periodo cui si fa risalire l’iscrizione proveniente da Schleswig, che sembra fungere da manuale per l’apprendimento di questa modalità di scrittura delle rune, poiché su ogni runa sono indicati dei numeri. Come funziona questo sistema? Ogni runa si trova all’interno di uno ætt e all’interno di ciascun gruppo ogni runa occupa una posizione. Ad esempio la runa per F occupa il primo posto del primo ætt, la U occupa il secondo posto del primo ætt… è come se ogni runa potesse essere descritta da una coppia di numeri (come se fosse un punto X-Y del piano cartesiano). Ci sono quindi delle iscrizioni runiche in cui non si usano le rune propriamente dette, ma si utilizzano queste coppie numeriche che identificano ogni runa all’interno di un ættir. Lo scopo era quello di rendere incomprensibile il testo runico, o meglio, comprensibile solo al destinatario che conosceva il sistema di decodifica delle rune stesse. Le caratteristiche indoeuropee delle lingue germaniche: Isoglosse indoeuropeo-germanico consonantico dell’indoeuropeo che il sistema consonantico germanico, rimane un fatto: i tipi di suoni consonantico che noi ricostruiamo, tanto per l’indoeuropeo che per il germanico, si somigliano abbiamo sempre a che fare con delle occlusive con un’articolazione sorda o sonora, forte o lene, ma sempre per coppie. Inoltre abbiamo anche un sistema vocalico con una distribuzione fra vocali lunghe, brevi, può cambiare il numero delle vocali ricostruibili per l’indoeuropeo e il germanico. Esistono anche suoni particolari, le sonanti (suoni caratterizzati da un forte carico di sonorità e sono particolari perché rendono pronunciabili nessi consonantici apparentemente impronunciabili: ḷ - ṛ - ṃ - ṇ. Ad esempio la parola “gelato” in ceco è smrlna ed è pronunciabile perché è una sequenza di sonanti, ovvero dei suoni fortemente sonori, il che significa che porta dietro di sé una coda di tipo vocalico, che agevola il passaggio da una consonante all’altra). Come funziona la creazione delle parole e quali sono i criteri che le lingue indoeuropee utilizzano per creare parole? Esiste la strategia dell’apofonia, ovvero una variazione vocalica indipendente: la vocale viene modificata non perché la pronuncia sia influenzata dai suoni circostanti (non è un fenomeno di assimilazione) ma perché produce un cambiamento nella funzione della parola, cambia quindi la vocale e il ruolo morfologico della parola. Esempio: latino-> toga-tĕgere-tectum: la parte consonantica di questa parola sia rimasta la stessa (tg - tg – tc). La radice che individuiamo in questo trittico è teg- (indoeuropeo), che esprime l’idea del “coprire”. Quindi l’apofonia, grazie alla semplice variazione della vocale radicale, ci permette di muoverci in più settori morfologici della lingua pur rimanendo nello stesso ambito semantico, ovvero cambia la vocale e cambia anche il settore semantico. Nell’esempio latino, se alla radice teg- sostituiamo la vocale –e- in –o- otteniamo il sostantivo toga, ovvero un indumento, quindi, essendo un indumento, serve a coprire (siamo nello stesso ambiente semantico); tĕgere con la ĕ indica l’azione del coprire, è un verbo; mentre la –e- in tectum doveva essere in principio un grado 0, ovvero senza vocale, indica un sostantivo che copre non l’essere umano ma un’abitazione. Quindi siamo sempre nel settore semantico della copertura, ma ci riferiamo a diversi aspetti dell’azione del coprire. Lo stesso accade in inglese con sing-song-sang-sung, in cui le consonanti sono sempre le stesse, ma a seconda della vocale abbiamo elementi lessicali differenti: sing può essere l’azione del cantare; song il prodotto del canto (“canzone”); sang e sung collocano l’azione del cantare in momenti diversi della storia perché sono tempi verbali differenti. Andando più a fondo nel sistema morfologico, le lingue germaniche come tutte le altre lingue indoeuropee sono caratterizzate da un sistema flessivo: hanno una radice (l’elemento della parola che ne comunica il contenuto semantico essenziale) per sostantivi, verbi e aggettivi e possono modificare il valore di quella radice mediante l’aggiunta di affissi (suffissi, prefissi, infissi) e desinenze (quest’ultime possono indicare in maniera specifica chi è l’autore di un’azione, chi la subisce…).Sono elementi che aggiungiamo alla radice, mediante le quali definiamo meglio l’azione o il valore di quella parola. Per esempio: la parola gebō (ricostruita in questa forma per il germanico e significa ‘dono/regalo’) in gotico è documentata come giba, in inglese antico come giefu (in inglese moderno è gift in tedesco moderno è gabe). In questa parola vediamo una radice, geb- e un suffisso ō. Quest’ultima, che vediamo come suffisso tematico, ha un ruolo grammaticale perché ci fa capire che stiamo parlando di sostantivi femminili, che corrispondono ai femminili in ā dell’indoeuropeo (cambia la vocale ma resta il fatto che sia un suffisso tematico, quindi è sempre lo stesso concetto). Questo suffisso ci fornisce due informazioni, una morfologica e una sintattica: - Ō identifica il sostantivo come femminile, usato al singolare (morfologia: descrive la forma di una parola); - Ō indica anche il caso nominativo (sintassi: parte della grammatica che studia l’interazione fra le parole che compongono un pensiero/un’unità di senso) definendo la funzione sintattica del sostantivo all’interno di una frase (caso del soggetto). La stessa cosa vale anche per il verbo. Per esempio: verbo del gotico “tiuhand” che significa “conducono”. In questo caso riconosciamo una radice tiuh- che corrisponde ad una forma indoeuropea deuk-, che indica “il condurre”, da cui è derivata la forma latina duc-ō. Nel verbo gotico riconosciamo un tema suffissale - and, che è formato da una vocale tematica a, vicina all’indoeuropeo o, che è la vocale tematica del tempo presente (ovvero quella singola vocale della parola ci dice che ci stiamo muovendo nel presente, ci dà un’indicazione temporale); invece la parte finale vera e propria, -nd, sono due consonanti che formano la desinenza della voce verbale che corrisponde alla terza persona plurale del verbo (ci dice chi è che sta svolgendo l’azione). La stessa cosa accade anche in latino. La forma “tiuhand” del gotico corrisponde al latino dicunt, che significa “conducono” è sempre una terza persona plurale. La desinenza quindi ci fornisce quest’informazione: il protagonista del condurre è un soggetto plurale e che l’azione si svolge nel presente. Possiamo notare come il germanico, come tutte le altre lingue indoeuropee, usufruisce della flessione di due categorie del discorso: il nome e il verbo. Solitamente quando si parla di flessione del nome si utilizza l’espressione declinazione, quando si parla di flessione dei verbi, si parla di coniugazione. Anche nel sistema pronominale, le lingue germaniche rivelano il loro essere lingue indoeuropee. Le lingue germaniche dispongono di pronomi, come l’indoeuropeo ricostruito, come il latino e il greco. In particolare possiamo riflettere sul dimostrativo. Al livello indoeuropeo si ricostruisce un dimostrativo *so, *sa, *tod (maschile, femminile, neuto), che corrispondono al germanico *sa, *so,*þat che ritroviamo in gotico come *sa,*so,*þata e in inglese antico come *se,*seo,*þœt. Questo sistema pronominale a 3 a base S, non è visibile in italiano standard (è scomparso ben presto dal latino), ma è riscontrabile in una varietà dialettale italiana, ovvero il sardo che ha come espressione ‘sa abba’ per indicare “l’acqua” (sa è uguale al pronome dimostrativo che si ricostruisce per l’indoeuropeo, traccia della diffusione di questo sistema pronominale dimostrativo anche in un territorio molto vicino all’Italia). Questo tema si è affermato probabilmente in sardo dopo che quest’ultimo si è distaccato dal celtico, che invece ha sviluppato altri temi in hon-ce ‘hunc’, a base pronominale ki-/ke- (palatalizzate) di tipo indoeuropeo. Le lingue germaniche come le altre lingue indoeuropee, hanno anche i pronomi personali, corrispondenti agli individui che compiono le azioni. In latino ego corrisponde al germanico ek, al gotico ik, all’islandese antico ek, all’inglese antico ic, al tedesco antico ih. Abbiamo sempre una consonante di tipo velare e una vocale palatale. In latino tu, in gotico þu, in tedesco moderno du abbiamo una consonante dentale e una vocale velare (in inglese ai tempi di Shakespeare abbiamo il pronome di seconda persona singolare thou, che poi è stato cambiato in you successivamente).
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved