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Appunti completi 23/24, Appunti di Filosofia Politica

File che racchiude completamente il corso di filosofia politica

Tipologia: Appunti

2023/2024

Caricato il 14/05/2024

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martina-j1c 🇮🇹

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Scarica Appunti completi 23/24 e più Appunti in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! Filosofia politica Non è facile definire la teoria democratica Prima lezione (introduttiva) Agli inizi, ma talvolta anche oggi, la democrazia si basava sulla tesi del sorteggio, anche se poi diventa cardine la rappresentanza politica (essa non è equiparabile a quella giuridica). Difatti, in quella politica, c'è l’idea che con la rappresentanza si rappresentino sogni e desideri del popolo, motivo per cui esiste anche una mistica della rappresentanza, che viene spacciato per tale qualcosa che in realtà non lo è. È necessario domandarci che cos’è la democrazia; e sicuramente l'elemento di competizione tra le élite è un elemento qualificante delle nostre democrazie. Nel concetto di democrazia rientrano anche una serie di diritti che fanno riferimento alla libertà, quindi la democrazia non è soltanto il momento delle elezioni con la formazione di una maggioranza, ma anche il modo in cui si arriva ad esse. Quando parliamo dei limiti della maggioranza e dei limiti della minoranza più specificamente parliamo di liberaldemocrazia. Liberalismo e democrazia sono due teorie tra loro diverse: nella storia si sono intrecciate ed amalgamate pur mantenendo una frattura. La democrazia è il problema della legittimità del potere. Il liberalismo è il problema della limitazione del potere. Una parte democratica non accetta la limitazione del popolo e del potere. Esiste una teoria pura della democrazia, una democrazia non influenzata da altre correnti? Il diritto di votare è già comunque una buona immagine di democrazia. Ma la democrazia è anche la procedura delle elezioni; il fatto che si presentino idee politiche, che il popolo voti e che chi prende più voti governi porta all’idea che essa sia esportabile. Parte integrante è appunto come si arriva alle elezioni: diritto di informazione. Caso della Turchia: serie di interventi dell’esercito, non poteva vincere un partito islamico che volesse introdurre la religione, doveva essere laico. Se avesse vinto il partito non democratico, sarebbe intervenuto l'esercito e si sarebbe andati incontro a nuove elezioni. Poi è arrivato Erdogan che ha riscosso grande consenso popolare nonostante i risultati si siano dimostrati discutibili e non eccellenti. Il problema è che alla democrazia ci siamo arrivati per gradi: difficoltoso è stato ed è soprattutto l’incontro con la religione, anche se col tempo viene accettata la laicità dello stato. Nonostante questo non è detto che non si possano avere posizioni religiose forti. Oggi è difficile non dare diritto di voto a persone non considerate ancora mature. Non possono venire a meno certi valori come libertà e tolleranza (liberalismo), valori fondanti della nostra idea di democrazia, anche se ci sono società dove ciò non esiste ancora. Chi vota in base a principi non proprio democratici (es: islamismo, comunismo, nazismo) può imporre cosa pensa? È importante far riferimento ai diritti delle minoranze che però devono rispettare le regole di convivenza civile, di conseguenza sorge un po’ il problema dell’anarchico, che non trova giuste certe regole e non vuole sottostare. Il politico ha il potere di coercizione che gli altri ambiti dell’interazione umana non hanno. Quindi, che cos’è la politica? Sono le scelte collettive, ovvero le decisioni che prendiamo tutti insieme (in realtà le prende una maggioranza) e che poi valgono per tutti, anche per chi pensava fossero migliori altre scelte o vede quelle prese come pessime ed illegittime. Infatti per ogni decisione presa esiste una minoranza che è in disaccordo e resiste il potere di coercizione del politico... quindi le decisioni politiche devono essere usate solo quando sono necessarie, ma quando lo sono? Non è un problema semplice. Seconda lezione: il problema della libertà (antichi e moderni) Il pensiero greco è molto diversificato: si inventano i meccanismi del sistema dell’autogoverno collettivo e il termine democrazia. Ci sono elementi che troviamo nella modernità, mentre altri sono ormai lontani. Un buon punto di partenza è un saggio di Benjamin Constant, che deriva da un suo discorso tenuto a teatro e che si intitola La democrazia degli antichi e dei moderni. Da esso: - per i moderni la libertà è: essere sottoposti soltanto alle leggi; vivere come si vuole, senza avere obblighi imposti; vivere gran parte della propria vita come si preferisce; - paragona libertà moderna con quella degli antichi; - la libertà degli antichi è una libertà collettiva: si decide tutti insieme, con un’inevitabile riduzione delle libertà individuali che vengono meno; ci si sente uomini in quanto cittadini (polites) che partecipano alle scelte della società; la libertà “privata” non trovava spazio qui e le esigenze vengono gestite tutte collettivamente. Un altro pensatore è Isaiah Berlin, temporalmente più vicino a noi, che distingue libertà positiva e negativa. Da lui: - non vi è connessione necessaria tra libertà individuale e pensiero democratico; - contrasto tra i concetti di libertà positiva (che emerge rispondendo alla domanda “da chi sono governato?”) e libertà negativa, rispettivamente “libertà di” e “libertà da” (per alcuni la “libertà di” sarebbe il superamento della “libertà da”). La “libertà di” è qualcosa di qualitativamente diverso perché impone un meccanismo di risorse pubbliche (tutti devono avere il diritto di fare una determinata cosa); - bisogna però capire i limiti: quante decisioni possiamo prendere collettivamente e quante decisioni devono essere lasciate ai singoli individui?; - la libertà di partecipare al processo politico diventa qualcosa di diverso; - gli antagonisti della democrazia non sono per forza altre forme politiche, ma può essere essa stessa: se il popolo decide su tutto, crea problemi sulla concezione di libertà che abbiamo nel mondo moderno. La libertà degli antichi era collegata a principi e caratteristiche del tempo, basti pensare alle piccole città stato (città bellicose e con presenza di schiavitù). Per alcuni pensatori la schiavitù consentiva la libertà politica nell’antica Grecia. Anche la libertà di commerciare con gli altri è un esempio fondamentale di libertà proposto da Constant. Più l’umanità progredisce più la ragione prevale sull’istinto e parallelamente il commercio prevale sulla guerra. La prima caratteristica delle polis erano le piccole dimensioni. valutazione comparativa su quelli che sono i bisogni delle persone, bisogna guardare alla moneta, al valore economico. Imponendo di utilizzare il denaro nello scambiare i bisogni si utilizza l’economia per guardare al diritto. Secondo Popper esisteva nell'antica Grecia la convinzione, pericolosa, in base alla quale ciò che esiste è il risultato di un disegno deliberato, pensato e realizzato per l’uomo. Questa idea è radicata in Licurgo, secondo cui c’è qualcosa di divino nella società. Platone Critica la democrazia e la repubblica. Ritiene che la filosofia divenga quasi l’espressione di una verità, che deve poi essere obbligatoria una volta che viene identificata. Nella sua teoria a governare devono essere i filosofi, che conoscono tutto e puntano al bene comune. Il filosofo è quello che nel mito della caverna rompe le catene, esce e racconta agli altri com’è e cos’è il mondo. Sono loro che possono indirizzare le persone, dire come possono essere utili alla comunità. La giustizia invece per lui è stare al proprio posto, ovvero ricoprire il proprio ruolo ed esserne contento. Anche la politica è un problema “scientifico”, perché come esiste un ordine morale universale, esistono anche aspetti politicamente giusti. La Repubblica è la prima utopia politica. Se si vuole costituire la città perfetta si deve fare dell’uomo una tela pulita, un uomo nuovo. Una delle cose prodotte dagli uomini è la proprietà, un interesse privato e quindi opposto al bene della comunità. Ci sono l’idea di una polis limitata e l'idea di una contrarietà al commercio: infatti Platone ritiene che la cooperazione economica debba essere subordinata alla politica e che chi è ricco non possa esser felice. C’è l’idea della programmazione delle nascite: non ci deve essere un’estensione della città e quest’ultima se si arricchisce troppo deve tornare indietro: oggi parliamo di decrescita felice, secondo cui nelle nostre società, stando dietro al consumismo, si perdono di vista i valori importanti (lavorare bene e pensare alle cose che ci rendono felici ?). Paradosso platonico: Platone ci propone un dogmatismo, la società perfetta, con in mezzo una persuasione filosofica. Due domande: 1) Può esistere politica senza persuasione propaganda? No. 2) Quali sono i diritti della propaganda? Fino a dove ci si può spingere nella manipolazione della realtà? Nella politica esiste un confine labile tra persuasione e propaganda. La provocazione di Platone era quella di individuare un’essenza della giustizia nel diritto. La stessa legge giuridica, la discussione, si risolve dinanzi ad un unico criterio vero, dato alla ragione dei filosofi. Le leggi, che sono un qualcosa che nasce dai tentativi molteplici di persone esperte del passato ben intenzionate, sono migliori, perché il governo assoluto, quindi un governo dove il detentore politico non è detentore della scienza, non sarà mai il governo dei filosofi. Quarta lezione: il problema della sovranità e della titolarità del potere Nel mondo greco non c’era la distinzione tra questi due aspetti: il popolo esercitava entrambe. Nella modernità invece questa distinzione esiste. La democrazia, nella quale il popolo fa e disfa le leggi a suo piacimento, rappresenta una degenerazione. La libertà degli antichi risiedeva nella realizzazione comune del governo della città. La democrazia si caratterizza come opposizione allo Stato, a qualunque forma di potere possa violare i diritti individuali. La svolta avviene quando si capisce che il pluralismo non è un nemico del sistema politico sociale, ma tutt’altro. La dimensione del conflitto come qualcosa di positivo per la politica si affaccia maggiormente nel mondo romano. La democrazia contemporanea esiste nel momento in cui supera quella greca, quando si realizza che essere indipendenti dai poteri esterni non vuol dire necessariamente essere liberi. Tema del diritto: giusto per natura o giusto per convenzione. Nel mondo greco è qualcosa di connesso alla religione che poi diventa la legge, qualcosa di umano producibile e modificabile, dunque un prodotto della libertà dell’uomo. - Nomos: ordine sociale inteso come qualcosa di diverso dalla physis (qualcosa di naturale), che quindi emerge dalla convenzione. È un diritto che nasce dal potere giuridico ed emerge da un fattore di volontà. - Physis: è un diritto fondato su qualcosa di naturale, anche su un certo principio di razionalità. In Socrate il nomos è sì un diritto che viene dalla volontà dei cittadini, ma è anche una manifestazione della physis. C’è la prima conciliazione tra questi due aspetti: esiste il modo naturale di manifestarsi della volontà umana, che però ha un aspetto di trascendenza dall’uomo. Esiste un diritto che appartiene alla natura dell’uomo. In Platone c’è l’esigenza di individuare l’essenza stessa della giustizia, del diritto. Le leggi sono frutto del lavoro intenzionato; si avvicina il nomos alla physis. Successivamente la physis scompare, viene assorbita nel nomos e viene fuori il termine tesis, che amplia la distinzione. Nel mondo contemporaneo c’è una distinzione tra regole di giusta condotta e di organizzazione. Le prime sono leggi generali e astratte che fissano non scopi da seguire, ma ciò che non possiamo fare, quindi sono descrittive e non prescrittive. Mondo romano: i romani cambiano il vocabolario politico (es: da polis a civiltà); infatti la politica del mondo romano ha sostanziali differenze con quella greca. Fondazione del diritto romano: è tutt’oggi un’istituzione. Nel mondo romano il diritto è coltivato da una categoria ben definita, dagli esperti che contribuivano alla formazione di leggi: gli oratori. Il diritto, chiamato talvolta diritto vivente, veniva amministrato e creato dai giudici. Si trattava di accertare una realtà, non tanto di difendere una causa. Si lasciava poi agli oratori il compito di un rapporto favorevole a una delle due parti in causa. Si crea il diritto o lo si ricerca all’interno della società? I giudici romani cercavano di scoprire il diritto, lasciando spazio a un’attività giuridica spontanea, articolata dai giudici, che, di fronte alle controversie, non intervenisse continuamente con leggi, ma che piuttosto scoprisse il tutto davanti ai giudici ?. Cristianesimo: esseri umani tutti uguali di fronte a Dio ,ognuno è custode della propria anima e ne risponde davanti al creatore. La religione cristiana, a differenza di altre religioni, non offre delle indicazioni politiche stringenti e nemmeno una logica giuridica. C’è un’imperscrutabilità che fa vacillare l’ancoraggio delle istituzioni ai dettami del cristianesimo. Il diritto si sostituisce alla spada: le università nascono per far capo allo scontro tra impero e curia papale. Quinta lezione: il populismo e la democrazia È controverso parlare di democrazia pura. I greci non avevano questo concetto della democrazia; e in molti aspetti ci propongono una democrazia pura, si pensi agli elementi contingenti (come estensione del territorio, vivere la comunità in gruppo e non come individui). Il concetto che ci lasciano i greci è quello dell’uguaglianza, di un’uguale partecipazione dei cittadini alle diverse decisioni, escluso solo qualcuno (come ad esempio i minorenni, gli schiavi e le donne). Si rovescia l’idea che solo alcuni siano qualificati a partecipare al processo democratico (questa era la prospettiva di Platone): l’idea dei greci si riafferma nei tempi moderni con Rousseau. La rappresentanza oggi è il compromesso necessario che è stato trovato tra queste due opzioni. La rappresentanza è funzionale anche per una certa necessità dell’individuo, in quanto chiunque vorrebbe realizzarsi anche in altre sfere. La democrazia funziona quando ci sono delle alternativa reali. Populismo: l’idea secondo cui al centro c’è il popolo. È il rifiuto delle mediazioni; è l’idea che mette al centro il popolo; è l’idea di restituire il potere decisionale al popolo. Le decisioni non sono prese dal popolo, ma da uomini che si trovano nell’ombra, potremmo dire, e quindi si vuole “restituire” questa capacità al popolo stesso. Non è un'ideologia politica perché non ha un nucleo di valori stabili, non ha dei testi a cui richiama. Realizzare la volontà del popolo non richiede qualcosa di preciso, ma può variare nel tempo, nei momenti, a seconda delle relazioni. Si vuole realizzare quello che vuole il popolo, quindi è importante identificare il popolo come qualcosa di unito e parlarle di un popolo al singolare, di un solo popolo. Si deve costruire il concetto di popolo. Realizzare la volontà popolare è un qualcosa di estremamente difficile, proprio per questo si cerca di giocare sulla dinamica di identificazione di un nemico comune. Alcuni autori affermano che si possa definire il populismo come “idealtipo”. Si può parlare di populismo ideologico, in cui il termine ideologia è un termine ambivalente, inteso in senso forte, vicino alla politica e spesso usato anche in termini negativi (esempio: ideologia comunista), oppure in senso marxista, secondo cui il termine ideologia viene usato per camuffare un determinato discorso. L’ideologia può essere uno eletto che viene usato per fini propagandistici, quindi il termine ideologia in questo caso viene usato in senso debole, non forte ???. Il populismo è l’idea di voler realizzare le promesse disattese della democrazia; può essere definito in certi casi l'alter ego della democrazia. C’è l’idea che esista un unico popolo, quindi un unico bene comune che si realizza seguendo quella che è l’anima popolare (esempio: la persecuzione delle streghe, questo lo voleva la comunità). Il populismo estremizza quindi il concetto di democrazia. Chi non è d’accordo con la loro concezione politica viene escluso (esempio: streghe, élite...). Le minoranze non fanno quindi parte dell’idea di popolo. Nell’opera Defensor Pacis (1324) di Marsilio da Padova c’è la prima volta la distinzione tra il potere legislativo ed esecutivo. L'idea era di un governo delle leggi e non degli uomini, i quali fanno le leggi per evitare discordie. Il diritto era visto come il prodotto della comunità politica, non del re o del governante in generale, non ha una legittimazione esterna. Si va strutturando il principio di rappresentanza, c’è il diritto di candidarsi che sostanzia la volontà popolare. A differenza della Grecia non ci sono le assemblee e tantomeno l’agorà. Si sostanzia ciò che non c’era nel mondo greco, ovvero la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere. Il popolo vagamente definito è titolare del potere ma non lo esercita. Emerge anche il termine Stato, qualcosa che prima non esisteva; c’erano le città stato, l’impero, ecc., ma niente di nemmeno avvicinabile a ciò che intendiamo oggi con il termine Stato, appunto. Per molto tempo hanno parlato di “sistema politico” invece di “Stato”; i romani parlavano di “status” come “situazione” (equilibrio dei poteri tra loro, in quel momento), mentre oggi quando parliamo di “Stato” diamo una definizione giuridica: il monopolio del potere in un determinato territorio. La parola Stato nasce quindi prima che nascesse lo Stato moderno, anche se delimitava fenomeni che non sono quelli che ritroviamo nella modernità. Comunque parlare e pensare di politica nei soli termini di Stato è un grande errore. Quando nasce lo Stato, nasce da un processo di concentrazione e assolutizzazione del potere che prima era diversificato: assorbe poteri intermedi e rivendica la piena indipendenza rispetto all’esterno, alle altre entità da cui non accetta più regole; viene a mancare un diritto universale. Marsilio da Padova (1275-1342) Rappresentante delle dottrine favorevoli all’imperatore. Forte sentimento anticuriale, testimone della lotta di Filippo il Bello contro il papato. Defensor Pacis (1324) Giovanni XXII emise una bolla papale segnalando una serie di dichiarazioni contenute nell’opera che non potevano essere tollerate, tra cui le più scandalose erano: 1) Gesù pagava le tasse all’imperatore romano perché era obbligato a farlo; 2) Pietro non era il capo della Chiesa e quindi non possedeva più autorità degli altri apostoli; 3) L’imperatore ha l’autorità di correggere, punire, nominare e deporre il Papa, quindi il potere temporale è gerarchicamente superiore a quello spirituale; 4) I sacerdoti sono tutti su un piano di parità e né il Papa né la Chiesa possono infliggere pene, se non su specifica delega imperiale. Marsilio venne condannato in quanto eretico. Egli riteneva che la Chiesa e il suo universalismo fossero il massimo fattore di instabilità politica del suo tempo. È evidente la sua richiesta di estromissione della Chiesa dagli affari civili. Per lui la genesi e l'evoluzione della comunità politica sono fenomeni simili a quelli naturali: come gli uomini sono dotati dalla natura di differenti capacità e disposizioni, così l’ordinamento della comunità politica rispecchia la vita sociale e la natura. È convinto che la maggioranza dei cittadini sia sempre alla ricerca dei mezzi per far sì che trionfi l’armonia nella comunità politica. Il popolo è titolare del potere di legiferare e, qualora necessario, di deporre i governanti. Se le leggi sono fatte senza il consenso del corpo dei cittadini, la comunità politica ne soffrirà in quanto i cittadini non osserveranno le leggi emanate senza il loro consenso. Inoltre ritiene che la cooperazione umana sia il fondamento della comunità politica: il singolo sceglie la comunità perché gli conviene, per le sue esigenze. La finalità fondativa della società umana è il soddisfacimento dei bisogni materiali. Come nasce la società politica? Sulla base delle esortazioni degli “uomini prudenti”, i prudentes, che convocarono i padri di famiglia, i capifamiglia, che tramite organizzazioni sociali fondarono un ordine sociale. Ritiene che la democrazia sia una forma difettosa del regime politico. *legge di natura = regole che stanno alla base dell’universo fisico, della “natura umana”, o delle relazioni sociali e politiche; oppure i principi di ciò che è giusto, allora una guida per la ricerca della giustizia.* Machiavelli È un autore che segna il passaggio all’età moderna a una sensibilità nuova nella riflessione politica europea. Agli inizi del ‘500 la monarchia assoluta era la forma istituzionale prevalente in Europa, fatta eccezione per le aree italiche e germaniche. Machiavelli fu un uomo politico e un fine umanista, centrale nel Rinascimento europeo e molto attivo negli affari pubblici tra fine ‘400 e inizio ‘500. Fu capo della seconda cancelleria e quindi uno dei segretari del Primo Cancelliere, ma ma anche segretario d’ambasciata (“Segretario fiorentino”). Nelle sue missioni diplomatiche in Francia e nelle aree germaniche capì che il clima politico europeo era ormai poco favorevole alle repubbliche. Nel 1512, col ritorno al potere dei Medici, fu imprigionato e torturato per mesi, poi non poté più occuparsi di politica e fu confinato a San Casciano, dove studiò i classici greci e romani, grazie ai quali capì che gli antichi hanno tanto da insegnarci. È convinto che la religione cristiana abbia provocato una cesura profonda nella storia, portando debolezza e ozio, e che sia incapace di esaltare le virtù guerresche, caratteristiche che invece sono proprie degli antichi. Il Principe (1513) Utilizza per la prima volta il termine “Stato”, con cui intende ogni comunità politica e la fonte di legittimazione delle pubbliche funzioni. La politica per Machiavelli è la capacità di un uomo o di un gruppo di conquistare e mantenere il potere, ovvero il controllo dello Stato. Le virtù del Principe non hanno niente a che fare con la concezione cristiana, la sua virtù politica sta tutta nel conquistare ed estendere i propri possedimenti; non esistono altri criteri di giudizio se non quelli del successo e dell’insuccesso: la morale non conta agli effetti della politica. Il Principe deve essere feroce al punto giusto: la disonestà diventa situazionale, poiché dosata. “È molto più sicuro essere temuto che amato”. Inoltre non deve affidarsi alla lealtà altrui, poiché gli uomini sono naturalmente ingrati e malvagi. Anche la sfortuna e il destino avverso hanno un loro peso, ma non ci si deve abbandonare al fatalismo. Il sistema di Machiavelli si fonda su un duplice egoismo: le moltitudini vogliono la sicurezza e il Principe vuole il potere. La Riforma 1517, Martin Lutero, 95 tesi, porte della chiesa del castello di Wittenberg. 1521, piena rottura. 1555, Pace di Augusta, “cuius regio, eius religio” (è la scelta del Principe a determinare la religione dei sudditi). Calvinismo Giovanni Calvino (1509-1564), riformatore francese, si trasferisce a Ginevra, dove nasce il calvinismo. Per Calvino Dio ha salvato alcuni uomini, che sono predestinati alla salvezza, ma nessuno sa e può sapere se è parte o meno della ristretta cerchia. Ottava lezione: Hobbes Hobbes fu scienziato, filosofo, storico e cultore della classicità. Sentendosi minacciato dagli sviluppi politici nel suo Paese, nel 1640 si trasferì a Parigi e ql quo ritorno pubblicò il Leviatano (1651). Rivoluziona in maniera integrale il problema della politica. Riparte dal problema antropologico. Come si immagina l'uomo? Com’è l’uomo nelle relazioni con gli altri? È antisociale. Essere antisociale: cercare l’altro per dominarlo; gli uomini cercano il conflitto. L’uomo non ha alcun istinto naturale a costruire la società; Hobbes ribalta l’idea aristotelica dell’uomo come animale politico. Seicento inglese Guerra civile inglese: situazione potenzialmente anarchica. L'anarchia era un’anarchia di idee che rompe col passato. C’è il primo regicidio dell’età moderna: nel 1649 Carlo I viene decapitato e Oliver Cromwell instaura una dittatura rivoluzionaria. Dopo la morte di Cromwell gli succede il figlio che non ha però la sua tempra: gli ex alleati fanno la guerra e torna un altro re, Carlo II Stuart, il quale vuole essere sovrano assoluto. Si arriva quindi alla gloriosa rivoluzione, in cui si ha una nuova monarchia, quella degli Orange dove vengono riconosciute le prerogative del parlamento: si costituisce quindi un regime elettivo parlamentare, in cui il parlamento ha il potere assoluto e si sostituisce al sovrano. I livellatori sono un gruppo formatosi nell’esercito di Cromwell (sono una minoranza all’interno dell'esercito); sono all'ordine del movimento dmeocratico. Essi sono il primo gruppo che si organizza sulla base dell’idea di sovranità popolare; pensano concretamente alla democrazia come governo rappresentativo all’interno di uno Stato nazionale, rivendicano l’idea secondo cui l’autorità suprema risiede nel popolo e quindi nella rappresentanza popolare. Tutti gli uomini (le donne sono escluse) sono elettori ed eleggibili, tranne chi vive di elemosine o chi è al servizio del re, poiché ritenuto traditore. Esiste quindi un plebiscito censitario. Elezioni a suffragio quasi universale: avanguardia per il ‘600. C’è anche la rivendicazione, prima di Locke, della libertà di religione e di commercio per chiunque. Se ciò che produciamo con il lavoro ci dà il diritto di proprietà su qualcosa, allora il diritto di proprietà non ha solo una dimensione materiale, ma anche una dimensione in cui si suicidio), dell’uomo: mescola il proprio lavoro con l’oggetto. Quindi è il lavoro che fonda la proprietà; e la proprietà è il frutto di un disegno divino. La clausola lockiana pone dei limiti al diritto di appropriazione, perché: - Ci devono essere abbastanza beni per tutti e di uguale quantità; - L’individuo può prendere solo ciò che può consumare: lo spreco non è ammesso dalla legge naturale, anche se in realtà lo stato di natura è uno stato di abbondanza. Ragiona anche sul fatto che, quando si lavora la terra, ne si aumenta il valore, creando dei benefici per l’essere umani; produrre valore è il lavoro dell’uomo e quindi si possono generare sì grandi ricchezze, ma anche grandi povertà. La spiegazione sta nel denaro e nell’uso che ne viene fatto, perché esso consente l’accumulazione senza limiti, evitando lo spreco: si danno, in cambio di denaro (che non si deteriora), cose che si deteriorerebbero, evitando dunque lo spreco; tutti ne accettano l’uso e questo è l’equivalente di accettare il principio per cui è possibile avere senza limitazioni. Il compito dello Stato è proteggere la proprietà e i diritti individuali: la proprietà privata esiste prima dello Stato stesso come patto naturale. Lo Stato è necessario per risolvere gli inconvenienti dello stato di natura: serve un giudice imparziale, dato che nessuno può essere giudice nella propria causa. Quindi esso è il giudice e deve dare un’equa punizione. La stessa giustificazione del potere politico si basa sulla libertà individuale: gli uomini stipulano un contratto per istituire una sovranità che nasce per la difesa della vita e della proprietà come elementi fondamentali: - Gli uomini si accordano liberamente, all’unanimità, quindi non ci sono la violenza e la paura che producono il patto come in Hobbes; - Il motivo del patto è lo stare meglio e il godere meglio del diritto di proprietà. Appello al cielo: la possibilità di resistenza al potere politico che non segue il suo compito, il diritto di opporsi al sovrano. Può essere considerato il padre del liberalismo, soprattutto per il concetto dei diritti innati (non è lo stato a stabilire i diritti umani), ma anche per l’idea che la sovranità appartenga al popolo. Aggiunge che l’unanimità del consenso è necessaria solamente nel momento costitutivo del governo, poi successivamente si procede per maggioranza. La centralità del diritto di proprietà, importante come fondamento della libertà individuale, è importante sia dal punto di vista lockiano che dal punto di vista dello sviluppo economico: Hernando de Soto, ne Il mistero del capitale, si chiede perché negli USA, che sono stati anch’essi una colonia, si è avuto uno sviluppo economico assai florido e in altre parte del mondo non si è avuto. Questo è accaduto grazie alla legittimazione del diritto di proprietà: quando i coloni si spostavano ad ovest, ottenevano le terre abbandonate, rendendole proprie, ma non lo facevano con un titolo di legittimità, anche se con il tempo queste terre occupate sono state legalizzate dal potere politico; questo purtroppo non è avvenuto in altri luoghi e non ha così permesso di generare capitale e risorse per lo sviluppo. Il problema della proprietà privata è anche culturale: per esempio in Africa, dove ci si basava sull’autonomia della caccia, non esisteva l’elemento dell’accumulazione dei beni, bensì quello della condivisione, aspetto che probabilmente ha impedito lo sviluppo economico. Se non si inizia a pensare che ciò che viene prodotto diventa capitale, non si arriverà mai ad uno sviluppo consistente (all’opposto della riflessione di Locke, per cui la moneta è ciò che permette di accumulare senza spreco). Locke è uno dei padri della democrazia, perché sancisce la sovranità a partire dal popolo, con il presupposto dell’uguaglianza. I principali 7 punti alla base della teoria lockiana: 1) Uguaglianza di tutti gli uomini (per natura); 2) (Legato al primo) la legittimità del potere politico che deriva solo dal consenso 3) Il patto che gli individui circoscrivono è la salvaguardia della vita, della libertà e della proprietà, quindi qui sta la legittimazione del potere politico, che è il giudice rispetto alle controversie degli individui; 4) Il principio di maggioranza per necessità tecnica; 5) Se si rinuncia alla libertà naturale non lo si fa per acquisire dei diritti, perché essi esistono già nello stato di natura, ma per assicurarsi il pacifico godimento dei diritti individuali; 6) La tolleranza religiosa: Locke fissa questo punto con chiarezza, dicendo che lo stato non si occupa della salvezza delle anime e quindi non si occupa della relazione tra le persone e Dio (divide tra l’ubbidienza al Papa, o comunque a una certa autorità religiosa, e gli atei, considerati non affidabili: di solito si ubbidisce perché si pensa esista un Dio, ma loro che pensano non esista alcuna divinità, non sono affidabili perché non giurano di fronte a nessun Dio); 7) Potere esecutivo vs potere legislativo: non c’è una divisione netta, ma sono comunque separati, perché la loro divisione è la garanzia contro la tirannia; chi fa le leggi deve essere anche sottoposto ad esse dall’alto, mentre chi dispone del potere esecutivo non avrà la disponibilità di fare leggi. Non distingue il potere giudiziario da quello legislativo, cosa che verrà fatta successivamente. Dall’Illuminismo alla Rivoluzione Con l’affermarsi dell’Illuminismo la discussione pubblica si amplia e c’è una forte volontà di cominciare a parlare, con quanta più libertà possibile, di argomenti sino ad allora interdetti al dibattito pubblico. L’Illuminismo allude alla “liberazione” della ragione umana dai vincoli della religione. Milano era un importante centro di questo movimento, che però era transnazionale e si fondava su un’idea cosmopolita e inclusiva: i due centri principali erano senza dubbio Parigi ed Edimburgo, dove gli intellettuali (filosofi, pensatori e scienziati) si radunano nei caffè per conversare e fare dibattito. In Scozia si sperimentava un governo relativamente liberale, mentre in Francia c’era l’assolutismo e il clero possedeva circa ⅕ della terra; è qui però che nasce l’opera-simbolo dell’Illuminismo, l’Encyclopédie (1751-1772), curata da Diderot e d’Alembert e composta da 35 volumi che tentano di racchiudere tutto lo scibile umano; grande attenzione è riservata al sapere scientifico, alle scienze fisiche e naturali. Montesquieu È il maggior pensatore politico dell’Illuminismo. Nel suo grand tour nei Paesi europei studia i diversi costumi e i diversi ordinamenti: la riflessione per gli affari sociali è centrale. Sviluppa una grande ostilità nei confronti dell’assolutismo (Filippo d’Orléans prima e Luigi XV poi). Guarda all’Inghilterra post Gloriosa Rivoluzione come a un governo più libero, ammirandone la monarchia costituzionale. Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734) La storia romana viene utilizzata per dare ammaestramenti sul presente. Teoria ciclica dei sistemi politici: gli errori compiuti dagli uomini di Stato sono spesso le conseguenze necessarie della situazione in cui ci trova: gli inconveniente fanno nascere altri inconvenienti, proprio come nel caso di Roma, la cui grandezza si deve, per esempio, all’amore per la patria e alle grandi capacità belliche, e la cui decadenza si deve all’ampliamento territoriale smisurato, alla corruzione dei costumi e alle follie degli imperatori. Nella Roma repubblicana, invece, gli scontri tra patrizi e plebei, proprio agitando il governo, lo rendevano libero ed equilibrato. Lo spirito delle leggi (1748) La gestazione dura più di 20 anni. Analisi sulla natura dei governi. Tema della libertà politica. Teoria dei climi: le leggi devono essere fatte in base al clima, alla geografia, alla cultura e all’economia, i governi durano solo se si adattano a questi fattori. Rapporto tra leggi e costumi. Riflessioni sul commercio. Rapporto tra legge e religione. Rapporto tra leggi e intenzioni dei legislatori. Ritiene che l’uomo sia soltanto un animale timoroso che cerca la pace. Ammira il mondo greco ma sa che quest’ultimo non è un’esperienza proponibile e fattibile. Teoria della tripartizione delle forme di governo (anche se in realtà sono 4): ogni forma di governo ha un principio che ne regola il funzionamento e si basa su virtù e costumi. - Monarchia: principio dell’onore della classe militare; - Repubblica: si divide in due varianti; democrazia: il potere sovrano appartiene al popolo (popolo sovrano e giudice); aristocrazia: il potere sovrano appartiene ai più nobili; virtù = privilegiare l’interesse pubblico a quello individuale; - Dispotismo: principio della paura e del servilismo dei sudditi (differisce dalla monarchia perché è il regno delle decisioni arbitrarie, mentre nella monarchia c’è un governo costituzionale). La virtù repubblicana è difficile da realizzare perché ha bisogno di un piccolo territorio. Per lui il commercio è l’alternativa alla guerra per realizzare lo sviluppo della comunità, ma per realizzare una repubblica virtuosa il commercio dovrebbe essere più contenuto. Guarda quindi alla monarchia militare inglese, che divideva i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, e trova una forma di governo perfetta in quella mista, in cui il potere ferma il potere. Potere legislativo: esercitato dai rappresentanti del popolo, scelti in quanto capaci; Potere esecutivo; Potere giudiziario: è un potere nullo, ha un ruolo di protezione riflette su come le leggi possono limitare il governo. Decima lezione: la Rivoluzione Americana per approvare nuove tasse, soprattutto durante le guerre all’inizio, poi si identificano nei rappresentanti della società, quindi centri decisionali autonomi rispetto al sovrano. In età moderna c’è anche il problema dell’autonomia del rappresentante eletto rispetto ai rappresentanti, e questa autonomia non può essere assoluta, però neanche la sostituzione di volontà (non posso fare un mandato imperativo nelle nostre democrazie e repubbliche anche per questioni di dimensione) ???. Uno spartiacque nella riflessione sulla rappresentanza si ha con Edmund Burke, un autore che ha affermato cose considerate ancora chiare su questo tema, perché dice che l’essenza della rappresentanza non sta nel trasmettere i poteri, ma nella capacità di cogliere gli interessi del popolo. Il rappresentante deve quindi avere capacità intellettuali superiori alla media, perché fare leggi buone e che servono agli interessi del popolo è questione anche di giudizio e di sapienza. La rappresentanza deve essere di tutta la nazione, non si rappresenta mai solo una parte dei cittadini, e questo si ritroverà soprattutto dopo gli eventi della Rivoluzione Francese. Caso del populismo: il concetto di rappresentanza nel populismo è incentrato sulla lontananza dei politici dal popolo; i politici sono diventati un'élite che fa i propri interessi, quindi cosa si deve fare? Bisogna trovare una persona onesta e che sappia cosa vuole il popolo, probabilmente un uomo del popolo stesso. Non conta la capacità di discernimento, ma la sua somiglianza con esso. Bisogna trovare qualcuno che sia uguale al popolo affinché il rappresentante sia onesto. Il meccanismo si basa quindi sulla fiducia, che si trasmette con l’identificazione. Il problema sta però anche nel fatto che chi viene eletto come uomo del popolo con il tempo si trasforma in una parte dell'élite. Vi sono tre declinazioni della rappresentanza: 1) Intesa come rapporti di delega; si ha quando il rappresentante è un esecutore e non ha iniziativa autonoma (lo avrebbero voluto gli antifederalisti). Non c’è solo l’impossibilità di rappresentare un gran numero di persone, ma anche il fatto che non si sa quali siano le idee di queste persone. 2) Rappresentanza fiduciaria: quella di Burke; si dà fiducia a qualcuno che sa cosa sono gli interessi altrui e che decide in base ad essi, si rappresenta la nazione o una parte? Adesso queste cose stanno insieme. 3) Rappresentanza come specchio, come somiglianza: il parlamento diventa un microcosmo in cui sono rappresentate le caratteristiche del corpo politico (idea dei corporativisti). La rappresentanza contemporanea è un bilanciere di questi elementi; se guardiamo alla Costituzione, nell’articolo 67 si vieta il mandato imperativo. La rappresentanza si sviluppa come responsabilità, ma come si realizza? Si possono identificare 3 elementi principali: - La rappresentanza è elettiva (momento delle elezioni periodiche): le elezioni devono essere anche competitive (bisogna sapere successi e fallimenti dei rappresentati); - L’altro elemento centrale sono i grandi contenitori dei partiti politici, che si rifanno a dei valori e delle ideologie: sono corpi intermedi in base ai quali scegliamo i rappresentati proprio per il loro universo valoriale; - Abbiamo poi le istituzioni: il rappresentante non agisce nel vuoto, ci sono procedure, divisioni dei compiti, la burocrazia, la magistratura. Rousseau Il problema di Rousseau esiste anche in Locke ed è quello della democrazia individualista; c’è anche il contrattualismo, ma è diverso da quello lockiano, infatti serve non a giustificare il potere, ma a rovesciare la situazione esistente, a creare una società nuova. Rousseau vede nella società in cui vive una struttura di dominio e di oppressione dei pochi nei confronti dei molti, e si domanda come sia stato possibile giungere in una situazione come questa partendo da una situazione di uguaglianza: tutto ciò può cambiare solo con la costruzione di una comunità politica senza contrasti tra governanti e governati, anzi, senza distinzione tra governanti e governati. Bisogna prima capire l’antropologia di Rousseau e come egli sia in realtà un critico della cultura e della civilizzazione, per questo è necessario il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750), in cui si chiede se il progresso e la scienza abbiano migliorato il genere umano e arriva alla conclusione che no, la scienza e le arti hanno addirittura distrutto l’uguaglianza iniziale perché hanno allontanato l’uomo dai veri valori e l’hanno reso schiavo della società civile: i prodotti culturali dell’umanità hanno fatto regredire l’uomo. Qual è la responsabilità della società? È quella di aver creato dei bisogni artificiali nell’uomo e di averli resi indistinguibili da quelli naturali. Questi desideri fittizi sono moltiplicabili all’infinito proprio perché frutto dello sviluppo tecnico. Per quanto riguarda la perdita delle virtù, Rousseau guarda con ammirazione alle polis greche, esempio di armonia tra individuo e comunità e tra cultura e politica. Il traguardo delle nazioni moderne dovrebbe essere proprio quello di ripristinare la virtù dell’amor di patria (la polis di riferimento è Sparta, una repubblica guerriera, fiera e virtuosa). Il vero nemico dell’uomo è la cultura: la natura vorrebbe preservare l’uomo dal sapere: questo è un attacco all’Illuminismo; infatti Rousseau ritiene che tutti i sentimenti più autentici dell’uomo non siano compatibili con la scienza e il progresso. La contrapposizione tra uomo naturale e civilizzato continua nel Discorso sulle origini della disuguaglianza (1755), in cui si afferma che l’uomo è buono, ma è stato reso cattivo dalle istituzioni, e la prima istituzione che egli condanna è la proprietà. Per lui l’uomo è asociale, non cerca gli altri e proprio per questo si trova in uno stato di pace ed uguaglianza, in uno stato primitivo di innocenza; vive nel presente, non ha coscienza né timore della morte ed è limitato sia nella volontà di conoscere che in quella di relazionarsi. Nello stato di natura l’uomo prova il cosiddetto amor di sé, ovvero l’istinto di conservazione, che sfocia in amor proprio con la nascita della società, quando le persone iniziano a vivere insieme. L’amor proprio è quindi il primo passo verso la disuguaglianza, perché porta l’uomo a preoccuparsi di ciò che pensano gli altri e a voler essere migliore degli altri: questo fa sviluppare nell’uomo dei nuovi desideri artificiali, che quindi nascono da una certa invidia nel prossimo. Da questa invidia pare nascere la proprietà privata, causa della nascita della società. La proprietà privata sta alla base della disuguaglianza fra gli uomini, perché produce disuguaglianza economica, la quale a sua volta produce disuguaglianza di posizioni, per cui l'élite di proprietari che detiene il potere forgia il sistema delle leggi, finalizzato ovviamente all’autoconservazione della propria forza e della propria autorità, creando un circolo vizioso e perpetuando la disuguaglianza. Con l’avvento della proprietà l’uomo sociale ha la meglio sull’uomo naturale e la società vince sulla natura: l’etica comunitaria primitiva è distrutta dalla ragione e dalla proprietà. Bisogna però specificare che Rousseau non negava il possesso, ma l’ineguaglianza più profonda tra ricchi e poveri. Infatti i ricchi presentano ai poveri un contratto, in cui propongono di istituire un potere politico che li protegga, ma questo in realtà è un inganno a cui però ricevono consenso. Contratto sociale (1762) L’assunto di partenza è quello di un’umanità schiacciata tra l’impossibilità di tornare allo stato di natura e l’impossibilità di tollerare lo stato civile. È necessario costruire un uomo nuovo, diverso, con una nuova morale volta al bene comune: bisogna ristabilire l’uguaglianza dello stato di natura. Ciò è possibile com un nuovo contratto, il contratto sociale, che è l’unico mezzo per stabilire la libertà e l’uguaglianza dell’uomo. L’uomo obbedisce solo a se stesso e ritrova la sua libertà originaria: rinuncia al diritto di autogovernarsi se gli altri fanno lo stesso. Dunque obbedire alla legge è obbedire a se stessi, obbedire alla volontà generale è obbedire alla propria volontà, fare l’interesse comune è fare il proprio interesse (le leggi devono essere rispettate anche da chi non le voleva). Il problema è che l’uomo non fa le leggi, le custodisce. La volontà generale non è la volontà della maggioranza che non crea il bene comune, perché esso esiste già e deve essere solo custodito. Non è la volontà generale che scaturisce nella volontà popolare, anzi, tutto il contrario; Rousseau non si domanda se il popolo rifiuta o accetta la legge, ma solo se la legge è conforme alla volontà generale. Rousseau rifiuta il concetto di rappresentanza (è il contrario della democrazia liberale) e la sua democrazia è diretta (si basa sull’unanimità). Egli, guardando al mondo greco, si rifaceva alla comunità di Ginevra e auspicava in uno Stato piccolo; saranno poi i giacobini a fare una trasposizione della comunità rousseauniana in uno Stato. Per Rousseau la democrazia infatti si adatta solo a popoli piccoli e non molto ricchi, infatti ammette che al crescere di queste due dimensioni l’aristocrazia e la monarchia sono forme di governo migliori, se non addirittura inevitabili. In Rousseau scompare il secondo passaggio del contrattualismo, quello in cui si fa un “patto col sovrano”, mentre in Hobbes il primo, quello in cui si fa un accordo con gli altri per la sicurezza comune. La Rivoluzione Francese Se ne parla impropriamente, perché furono tante: nel 1789 inizia per limitare il potere del re (era la rivoluzione di La Fayette, un grande eroe della rivoluzione americana) e si arriva alla dichiarazione dei diritti del cittadino; poi le cose vanno male e dal ‘92 in poi iniziano ad affermarsi i giacobini (Robespierre), per i quali esiste la sovranità del popolo, della nazione: il giacobinismo è quasi la fine della politica per dare spazio alla volontà della nazione (rimane la rappresentanza); per Robespierre i rappresentanti sono mandatari del popolo che li deve controllare: la repubblica funziona se esiste la virtù del popolo, servono quindi i custodi della virtù. Non c’è tolleranza per le opposizioni, perché la politica è realizzazione dell’interesse collettivo che è unico; la democrazia dei giacobini è stata la cosiddetta “democrazia totalitaria” ed è la conseguenza delle idee di Rousseau: è la dittatura di una minoranza che può realizzare una palingenesi della società, che può rendere le persone capaci di capire qual è il vero bene e di governare se stesse. Smith, rivoluzione industriale e nascita dell’economia politica I primi tentativi di ripensare il liberalismo alla luce della Rivoluzione si devono a Benjamin Constant e Madame de Staël. I due scrivono sia saggi che romanzi e animano i più importanti dibattiti dell’epoca. Il padre della de Staël era stato ai vertici dell’amministrazione finanziaria dello Stato francese e fu avvicinato e allontanato più volte da Luigi XVI; egli prestò allo Stato circa 2,5 milioni di livres, che la figlia cercò per tanto tempo di farsi restituire, prima dalla Repubblica francese e poi dall’Impero napoleonico. Madame de Staël in tenera età entra a contatto con i grandi nomi dell’Illuminismo nel salotto della madre; viaggia tanto e Napoleone fa di tutto per non farla tornare in pianta stabile a Parigi, perché è ormai una delle voci più importanti della letteratura europea (riscopre la letteratura tedesca e apre la strada al romanticismo), ma soprattutto perché discute di politica. Napoleone, misogino, non sopporta una figura del genere. Benjamin Constant, anch’egli svizzero, ebbe una formazione errabonda; nel 1802, da tribuno, fece un discorso contro l’emergere della tirannia e non poté più accedere a cariche pubbliche. Fra il 1802 e il 1811 condusse un’esistenza legata a Madame de Staël in Svizzera. Nel 1815, due anni dopo la pubblicazione di Conquista e usurpazione (manifesto del pacifismo liberale pensato come critica all’Imperatore), Napoleone lo invita ad essere uno dei consulenti per la stesura della nuova Costituzione, l’Atto addizionale, ed egli accetta nella speranza di una durevole monarchia costituzionale, che però ha breve durata. Nel 1819 tiene una conferenza sulla libertà degli antichi e quella dei moderni. Nel 1830, pur gravemente malato, partecipa ai moti rivoluzionari che portano all’instaurarsi della monarchia orleanista. Considerazioni sulla rivoluzione francese, Madame de Staël L’obiettivo di de Staël era vendicare l’originario progetto del 1789, ovvero la trasformazione della monarchia francese in un efficace governo rappresentativo. Riprende la lezione di Montesquieu e ragiona sulle istituzioni come habitat della libertà individuale, sa infatti che solo il libero consenso dei popoli può dare alle istituzioni politiche una naturale armonia che garantisce la loro durata. Constant distingue due momenti cruciali della storia rivoluzionaria: il 1789 e il 1793. Sono due distinte rivoluzioni, la prima volta a instaurare un regime costituzionale, la seconda debordante nel Terrore, che finisce per riproporre sotto mentite spoglie i principi dell'ancien regime. Per lui nessun potere può estendersi oltre i propri limiti senza perdere ogni traccia di legittimità; il problema della legittimità non è risolvibile in ragione di una maggiore o minore partecipazione al governo: la volontà di un popolo non può rendere giusti ciò che è ingiusto. Immagina istituzioni che consentano una sorta di "sovranità limitata”, arginata affinché non possa risolversi nell’arbitrio dei governanti. Ritiene che la riflessione sul migliore governo possibile sia una ricerca attorno al costituzionalismo. Contribuisce a ciò con la teoria dei poteri neutri: ritiene che nella monarchia ci siano 5 poteri e non 3, quello regale, quello esecutivo, quello dell’assemblea ereditaria, quello dell’opinione pubblica (l’assemblea elettiva) e quello giudiziario. Il sovrano incarna il “potere neutro”, quello capace di risolvere eventuali conflitti, facendo sì che i vari poteri possano muoversi in modo armonioso. La teoria del potere neutro è uno dei tentativi di rendere più solida la dottrina del liberalismo classico, per cui ogni potere deve trovare il suo limite. Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (1819) Attacca coloro che sperano in un ritorno della libertà “originaria”, alla quale gli esseri umani sarebbero stati sottratti dal procedere della civiltà e dalla crescente complessità sociale delle relazioni sociali, tipica di un libero mercato. Rifiuta l’idea che il progresso corrisponda a qualche forma di corruzione morale. La libro degli antichi si basava sulla partecipazione alla vita collettiva, era la libertà della conquista straniera, in un contesto in cui la guerra era l’attività primaria della società; la libertà dei moderni ha una dimensione individuale e risiede nel tranquillo godimento dell’indipendenza individuale, inoltre trae la sua forza dal commercio, perché laddove c’è libero scambio, l’esistenza individuale è meno inglobata nell’esistenza politica. Riprende quindi Montesquieu e la sua tesi, secondo cui lo scambio internazionale porta rapporti più pacifici tra i Paesi, perché li rende interdipendenti culturalmente ed economicamente. I diritti civili sono al cuore del pensiero di Constant, che concepisce lo spazio, intangibile da parte del potere politico, quale fondamento ultimo della libertà. Per lui la Costituzione gioca un ruolo fondamentale nella tutela delle libertà individuali. Riconoscendo pieni diritti politici solo ai proprietari si può trasmettere sacralità al diritto di proprietà. Tocqueville: tirannia della maggioranza e conformismo democratico La Rivoluzione del 1930, che porta sul trono Luigi Filippo d’Orléans, rovesciando i Borboni, saliti al trono nel 1814, scatena in Alexis de Toqueville una profonda crisi spirituale e politica: si sente combattuto tra la fedeltà al re precedente e quella al nuovo sovrano, più vicino alle sue idee liberali. Nel 1849 viene eletto deputato e 10 anni dopo muore. La democrazia in America È il suo lavoro più noto e viene pubblicato in due parti, nel 1835 e nel 1840; ha origine da un soggiorno di nove mesi negli USA come inviati francesi per studiare il sistema carcerario americano. Descrive la società americana, ma senza perdere di vista la storia e il futuro della Francia. Da questo viaggio Tocqueville capisce che il liberalismo deve necessariamente accettare la prospettiva democratica, ma soprattutto capisce che il decentralismo è una componente essenziale della società libera. Inoltre si rende conto dell’importanza della libertà d’associazione, cosa che i governanti temono; negli USA, invece, le associazioni civili e a carattere politico vanno le une insieme alle altre. Teme però, negli USA, non l’estrema libertà, ma la scarsa garanzia che c’è contro la tirannide, il timore è quello del “dispotismo della maggioranza”. Infatti, per Tocqueville, il fatto che la legittimità della legislazione si fondi sulla regola della maggioranza rappresenta un problema per la tutela della libertà, che secondo lui è essenzialmente fragile. L’antico regime e la Rivoluzione Qui Tocqueville riprende il tema della fragilità della società libera e dei pericoli insiti, per la libertà, nella ricerca dell’uguaglianza, aspetti che riaffiorano nell’esame delle cause che portarono alla Rivoluzione francese. La Rivoluzione voleva abbattere tutte le istituzioni dell’antico regime, ma finì per consolidarne una, l’accentramento, strumento privilegiato del dispotismo. Essa si impose con una forza di carattere spirituale, perché considerò l’uomo in modo astratto, indipendentemente dal Paese e dal tempo, in nome dell’ideale di un’uguaglianza di “diritti politici” e di risorse materiali. In una prospettiva liberale, le istituzioni libere non possono servire allo scopo di avvicinare l’uguaglianza materiale; la libertà, per Tocqueville, ha una dimensione culturale che fa sì che essa sia destinata a rimanere sempre fragile. La lotta ai privilegi e l’abolizione delle Corn Laws In Inghilterra tramonta definitivamente, nell’’800, l’istituzione della schiavitù, i cittadini inglesi non potevano più possedere schiavi in patria, ma tale divieto non si estendeva ai possedimenti coloniali. Grazie all’attivismo di William Wilberforce, la tratta degli schiavi venne resa illegale all’interno dell’Impero britannico, e dal 1833 in tutto l’Impero. Inoltre pian piano caddero i limiti all’esercizio dei diritti politici per coloro che non aderivano alla Chiesa d’Inghilterra, allargando il suffragio, partendo dal Reform Act del 1834. Un evento molto importante è quello dell’abolizione delle Corn Laws, ovvero dei dazi sul grano. L’abolizione dei dazi è una proposta cara ai liberali di ispirazione radicale, che traggono da Adam Smith l’insegnamento del mercantilismo, un insieme di politiche commerciali che vengono perseguite dai sovrani per rafforzarsi: al contrario, la teoria economica indica la strada della libertà, perché gli individui, lasciati liberi di perseguire i propri interessi, riusciranno a sviluppare soluzioni vantaggiose per tutti. In quegli anni c’è una vera e propria rivoluzione nelle regole non scritte del prestigio e dell’apprezzamento sociale: professioni fino ad allora disprezzate acquisiscono importanza agli occhi del pubblico; ciò coincide con un’ansia di rappresentazione e riconoscimento per i nuovi ceti produttivi. L’agitazione contro le Corn Laws inizia nel 1838, con la nascita dell’Anti-Corn Law League, che si crea nel cuore dell’Inghilterra industriale, a Manchester, per iniziativa di un eterogeneo gruppo di “produttori”, rinominati “la scuola di Manchester”: si parla del primo gruppo di pressione moderno. Per la loro battaglia utilizzano petizioni, pamphlet e opuscoli. Con l’entrata in parlamento di Richard Cobden, il loro maggior esponente, che prestava sempre molta attenzione alla politica internazionale, rigettava il mercantilismo, il colonialismo e la politica estera aggressiva, auspicando in dei legami pacifici tra gli individui e i popoli, la Lega ebbe un grande successo e nel 1846 si arrivò alla rimozione dei dazi sul grano. John Stuart Mill e la dottrina dell’utilitarismo Negli stessi anni, sempre in Inghilterra, Jeremy Bentham fonda la dottrina dell’utilitarismo, considerata una “dottrina scientifica”, poiché basata su un’algebra morale. L’utilitarismo si basa su un calcolo che consenta di distinguere fra decisioni politiche buone e cattive, quantificando la felicità che queste producono. Le decisioni buone aumentano il piacere e minimizzano il dolore, per tutti gli individui coinvolti. I pensatori utilitaristi erano favorevoli alla libertà degli scambi, ma in virtù di un calcolo sociale, per accrescere il benessere sociale nel suo complesso. Inoltre l’utilitarismo è riformista per natura: il governo deve essere migliorato e sintonizzato con la società di cui fa parte; c’è la speranza di una legislazione “oggettiva” e “scientifica”. Mill aggiorna la teoria benthamiana, infatti non accetta che tutti i piaceri siano ritenuti uguali e mette al centro lo sviluppo pieno delle capacità umane, a cominciare da quelle intellettuali: i piaceri più elevati sono quelli che soddisfano le capacità intellettive delle persone. Mill, rispetto agli economisti che l’avevano preceduto, divide nettamente la questione della produzione della ricchezza e quella della distribuzione: le leggi per produrre la ricchezza Per Marx l’economia è il fondamento della politica e la storia delle società dove esiste la proprietà privata è fatta di lotta tra le classi (nella società capitalistica la lotta è fra borghesia e proletariato): si arriverà alla società senza classi, il socialismo. La società ha: - Una struttura data dell’economia, cioè dai rapporti di produzione generati dalle forze produttive materiali (una società è la risultante del suo modo di produzione della vita materiale, non delle idee); - Una sovrastruttura data da tutto ciò che non è economico (religione, cultura, scienza, arte, ecc.) e che dall’economia è determinato in modo diretto. Il mutamento reale non può che partire dalla struttura. La dinamica sociale è un prodotto della tensione tra il mutamento delle forze produttive materiali e il mancato adeguamento dei rapporti di proprietà, che esprimono giuridicamente i rapporti di produzione. La sovrastruttura è data dalle cosiddette forme ideologiche e queste seguono inevitabilmente i mutamenti delle forze produttive materiali. La struttura determina la sovrastruttura: questo è un determinismo materialistico, in cui l’economia racchiude ogni possibile causa di mutazione della società. L’antagonismo sociale è il cuore di tutta la storia. Nella società capitalista i borghesi sono i proprietari dei mezzi di produzione, i possessori del capitale, mentre i proletari sono i lavoratori liberi, che non possiedono altro che la loro capacità lavorativa. Il lavoro è una merce come le altre, che viene venduta sul mercato. I borghesi lo comprano, i proletari lo vendono. Il modo di produzione capitalistico: storicità e originalità del capitalismo L’economia marxiana è la spiegazione del modo di funzionamento del capitalismo, ossia di come avviene lo sfruttamento capitalistico per mezzo della formazione del plusvalore. Il capitalismo è un sistema sociale in cui il denaro può comprare il lavoro come una merce. I lavoratori sono privi di qualunque mezzo di lavoro ma sono liberi. Per Marx i sistemi economici che precedono il capitalismo seguono la formula M-D-M (merce-denaro-merce). Nel capitalismo la formula invece è D-M-D+ (denaro-merce-denaro accresciuto): lo scopo di tutto il processo produttivo è l’accumulazione di denaro. La sostanza che valorizza il denaro è il lavoro umano, quindi il capitale accresce il suo valore solo perché si appropria del lavoro umano non retribuito. Lo sfruttamento, essendo il lavoratore “libero”, è occulto. E come viene occultato questo sfruttamento? Si scambiano per relazioni tra cose o merci i rapporti fra gruppi umani, un fenomeno chiamato feticismo delle merci. La teoria del valore del lavoro Il valore di una merce è determinato dal lavoro umano, la cosiddetta sostanza valorificante: la quantità di lavoro socialmente necessario. Il lavoro è oggettivato, si concretizza nelle merci, la sua grande è oggettivamente misurabile in ore di lavoro. Il lavoro necessario per la produzione di una merce dipende dalle condizioni sociali medie di produzione e di abilità media del lavoratore. I progressi tecnici aumentano sì la produttività del lavoro, ma causano una diminuzione del valore delle merci, perché per produrle è necessaria una minor quantità di lavoro. Bisogna distinguere fra lavoro e forza-lavoro: solo quest'ultima è una merce al pari delle altre e il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione. Il plusvalore: il cuore del modo capitalistico di produzione L’iniquità dello scambio fra capitale e lavoro mostra che il capitalista guadagna esattamente ciò che sottrae all’operaio. L’attività lavorativa produce sempre più valore di quanto non costi, il cosiddetto plusvalore, grazie al quale il capitalista genera profitto, non retribuendo una parte della giornata lavorativa. La produzione capitalistica è fondata sul lavoro, che può essere morto o vivo. Il lavoro a monte del processo produttivo, incorporato nelle materie prime, nei macchinari è morto, quello che il capitalista acquista per produrre è vivo. Il capitale è composto da capitale costante (materie prime e macchinari) e capitale variabile (denaro speso per i salari). In generale il capitale è dato da C = c + v + s (somma di capitale costante + capitale variabile + plusvalore). Il plusvalore può essere assoluto (se può essere aumentato per allungamento della giornata di lavoro) o relativo (se può essere aumentato per intensificazione del ritmo di lavoro). Gli unici meriti del capitalismo sono: preparare l’avvento del socialismo ed emancipare l’uomo dalla vita di campagna. Il progresso tecnologico porterebbe l’uomo a vincere sulla natura, ma in un’ottica capitalista soggioga l’uomo. Le contraddizioni interne del capitalismo: come avverrà il crollo Il capitalismo è sottoposto a una legge ferrea, la caduta tendenziale del saggio di profitto: nel tempo il plusvalore, il profitto dei capitalisti, è destinato ad assottigliarsi sempre di più. Questo perché la composizione organica del capitale è destinata a crescere: i capitalisti, rincorrendo la tecnologia per aumentare la produttività, provocano un abbassamento del valore delle merci. A tasso di sfruttamento invariato il profitto decresce. Questo perché, secondo Marx, la tecnologia crea una spirale dalla quale non si esce, se non con l’avvento del socialismo. L’unico modo per arginare la caduta del profitto è, per i capitalisti, comprimere i salari degli operai, andando ad accrescere lo sfruttamento. Per lui il soddisfacimento dei bisogni umani sarà il compito del socialismo, di un’umanità libera dalle catene del lavoro salariato. Teoria del valore lavoro, secondo cui la ricchezza è oggettivamente misurabile in termini di quantità di lavoro e non di beni e servizi che soddisfano i bisogni degli individui. Ciò che accade dopo la compressione dei salari è la proletarizzazione dei ceti intermedi: la ricchezza e la miseria si polarizzano, il potere economico si concentra in gruppi sempre più ristretti, perché la concorrenza porta al fallimento molti capitalisti che diventano proletari. C’è una polarizzazione sociale inarrestabile. I capitalisti rispondono alla caduta del profitto contraendo ulteriormente i salari, e ciò è possibile perché l’aumento della tecnologia fa aumentare anche i disoccupati, il cosiddetto esercito industriale di riserva, pronto a sostituire gli occupati nell’industria. I proletari, impoveriti, non posso più essere consumatori. Il proletariato redentore Marx sviluppa una teologia senza Dio, secondo cui la salvezza terrena viene veicolata per mezzo del proletariato, la classe che porrà fine a tutte le classi e dovrà salvare l’umanità intera. Per lui il peccato originale laico è la nascita della proprietà privata, che conduce alla divisione in classi della società e all’antagonismo sociale. Il proletariato redentore renderà possibile la ricomposizione organica dell’umanità. Il socialismo e l’estinzione dello Stato Il socialismo è semplicemente l’opposto del capitalismo. Mantiene però da quest’ultimo i lati positivi: l’aumento della produttività del lavoro tramite la meccanizzazione sarà in grado di risolvere il problema della penuria. Nella società socialista lo Stato si estinguerà: è la teoria del deperimento dello Stato; Marx ritiene che la politica sia semplicemente una sovrastruttura, di conseguenza lo Stato è l’organizzazione del potere politico tipica della società capitalista. Lo Stato, con la scomparsa della divisione in classi e con l’avvento della libera associazione dei produttori, necessariamente svanisce. Anche perché lo Stato è necessariamente in mano ai capitalisti, che lo utilizzano come strumento coercitivo. Lo Stato è un sottoprodotto della lotta fra classi: è lo strumento che la classe dominante utilizza per dominare la classe oppressa. Il passaggio al socialismo non sarà ovviamente immediato: il proletariato dovrà gestire una fase in cui le classi sopravvivono e dovrà usare il potere dello Stato per riorganizzare i rapporti produttivi, è la cosiddetta dittatura del proletariato. (Per Gramsci: la costruzione del comunismo è un’impresa nazionale e, di conseguenza, non è uguale in tutti i Paesi, che naturalmente si trovano in situazioni diverse e devono agire in modi diversi.) Realismo politico La scuola del realismo politico, composta da autori come Mosca, Pareto e Michels, che scrivono tra la fine dell’’800 e l’inizio del ‘900, parla della cosiddetta “teoria dell’élite”. La teoria dell’élite è un po’ una confutazione della teoria rousseauiana della democrazia: esiste sempre una minoranza che detiene il potere. È importante perché ha l’aspirazione ad essere una teoria scientifica dello studio della politica, cioè basata sull’osservazione. Allora la politica veniva studiata soprattutto per gli aspetti giuridici, invece questa teoria vuole superare l’aspetto puramente giuridico, e il potere diviene il termine chiave dello studio della politica. Ovunque ci sia “potere” esiste una differenza fondamentale, quella fra governanti e governati. I primi possono essere tali per diversi motivi: colpo di Stato, successione dinastica o elezione; l’unica caratteristica costante è, appunto, il loro essere elitario. La disuguaglianza fra governanti e governati che esiste in ogni sistema politico viene studiata dal realismo politico. - Mosca: palermitano, oppositore del fascismo, muore nel 1941 e scrive diverse opere, tra cui spicca la Teorica dei governi (1884), dove mette a punto la teoria della classe politica o delle minoranze organizzate, secondo cui c’è una minoranza governante che esercita il potere in un regime di monopolio nei confronti della maggioranza del popolo, vista come inerte e passiva. C’è dunque una maggioranza disgregata e una minoranza, un gruppo solidale e omogeneo, tenuto insieme dall’interesse. La democrazia è uno strumento che può servire come ricambio delle classi dirigenti, per quanto poi, nonostante ci sia questo cambio, il potere rimane nelle mani di una democrazia liberale: tutti devono essere in grado di porre la propria candidatura al potere, e questo implica la libertà di espressione, di stampa, di informazione… se una leadership democraticamente eletta si propone di far venire meno queste condizioni, inventando un attore di monopolio, allora non vi è più democrazia. Egli tenta di descrivere la democrazia come una procedura, però poi essa per poter esistere deve promuovere le libertà politiche. Fissa poi tre condizioni, storicamente esistite che hanno fatto in modo che la democrazia funzionasse bene: qualità della leadership (il personale della macchina politica deve essere di qualità elevata; è importante che ci sia uno strato sociale che si dedica alla politica e che sia capace di attrarre e di assimilare nuovi elementi); raggio effettivo della decisione politica che non sia eccessivamente esteso (ci sono molti temi che, pur riguardando le funzioni dello Stato, come l’amministrazione alla giustizia, non devono rientrare nel processo di decisione politica, perché sono difficilmente accessibili alla comprensione degli elettori e dei parlamentari; quindi ci deve essere un’élite non eletta che fa funzionare lo Stato, che sia di appoggio alla politica e che non sia suscettibile al cambiare delle maggioranze politiche); alto controllo democratico (accettazione da parte di tutti i cittadini delle decisioni politiche prese dalle élite se seguono forme prescritte dalla legge; bisogna sì accettare le decisioni prese, ma queste non devono essere prese senza tenere conto delle esigenze fondamentali di altre categorie o della situazione nazionale; se ciò viene violato, non ci sarà più l’alto controllo democratico, che invece, se c’è la maggioranza, manterrà il proprio potere. Questo avviene quando c’è un alto grado di tolleranza nei confronti delle minoranze, il rispetto delle opinioni altrui. Quello che lui da è una descrizione di una democrazia liberale, che è tale se esiste il rispetto delle minoranze e se non si attribuisce un ruolo eccessivamente ampio alla politica, cosa che andrebbe a ledere la sfera singola degli individui; l’idea che la democrazia non può funzionare senza l’autocontrollo democratico, che però si ha appunto quando il ruolo della politica non è troppo ampio: lo Stato deve circoscrivere le sue azioni nei limiti fissati dal rispetto della sfera individuale. Se si tolgono queste circostanze la democrazia liberale scompare, non esiste più e rimane solo una procedura completamente vuota, compatibile con tutti i regimi politici, ma non più con la democrazia. Abbiamo visto come la liberal democrazia sia il risultato di un processo storico e come le teorie politiche siano diverse: una parla della limitazione (liberalismo) e una della legittimazione (democrazia) del governo. Se guardiamo alla teoria pura della democrazia le questioni sono controverse: esiste una democrazia non mediata, come quella degli antichi greci. Mentre il liberalismo prevede un’uguaglianza dei diritti individuali, l’uguaglianza politica democratica è l'uguale partecipazione di tutti alle decisioni politiche, l’idea che le decisioni sono vincolanti per tutti se tutti hanno avuto la possibilità di partecipare. Rousseau ci ricorda che partecipare alle decisioni politiche che sono vincolanti per tutti è il requisito per mantenere la propria libertà (solo se ho partecipato al processo di formazione della legge esiste un diritto di obbedienza). Le liberal democrazie non sono dirette e sono basate sulla rappresentanza, che è un compromesso necessario (nella democrazie diretta i greci riuscirono a riunirsi solo in quanto comunità limitata: oggi sarebbe molto più difficile), anche perché la divisione del lavoro, che porta alcuni a gestire in maniera professionale delle decisioni, porta altri ad avere una libertà individuale. Ci si ricollega a Constant e alla sua divisione tra libertà degli antichi e dei moderni. In questo senso vediamo come essa diventi una necessità e un’opportunità, perché quando le decisioni politiche sono complesse, è necessario avere qualcuno che vi si dedichi a tempo pieno. C’è anche il tema della democrazia come metodo (Schumpeter), secondo cui esiste una democrazia e delle regole che devono essere rispettate ed esiste una democrazia se i cittadini possono scegliere tra alternative reali. La democrazia è importante perché è il modo per creare un ordine sociale, con il quale persone con valori diversi possono risolvere conflitti valoriali (importanza della Costituzione e del sistema maggioritario, che minimizza il numero di persone che devono accettare la decisione; un altro elemento è il sistema elettorale proporzionale, che favorisce il compromesso e, quindi, il parlamento è luogo di discussione dei conflitti ed è importante quanto il governo, se non di più). In questa visione esiste comunque la volontà dei cittadini, che, nonostante le molte mediazioni, partecipano alle decisioni politiche: la definizione di democrazia può essere quella di un regime politico che si basa su procedure che assicurano una corrispondenza ragionevole tra le misure del governo e le preferenze dei cittadini. Visto da un’altra prospettiva, quella di Dahl, la democrazia è la capacità dei governi di soddisfare in maniera continuativa le preferenze dei cittadini in un quadro dell’uguaglianza politica, e per fare questo esistono delle garanzie minime che emergono inevitabilmente, diritti che cittadini come singoli o gruppi devono avere, come il pluralismo dell’informazione, la libertà di pensiero e di parola... e il diritto di voto, che non è solo questo, ma anche un’uguale elettività per tutti; le elezioni debbano essere libere e reali. Weber: capitalismo, cultura e religione Weber studia legge ed economia; nel 1918 è membro della delegazione tedesca al trattato di pace di Versailles e collabora alla redazione della Costituzione della Repubblica di Weimar. Weber incentra la sua ricerca sul perché l’Occidente è stato la culla di una serie di eventi spirituali e materiali poi destinati a diffondersi a livello planetario. Da un punto di vista metodologico rifiuta il monismo (tipico di Marx, che spiegava ogni avvenimento ricorrendo a cause economiche): non esiste una spiegazione monocausale per nessun fenomeno sociale. Ricorre piuttosto a spiegazioni culturali, come quella che dà alla nascita dell'economia capitalista: le sue radici vanno ricercate nell’etica economica di una particolare religione, il calvinismo. Secondo Calvino, Dio fa nascere gli uomini predestinati, ma non dà loro la certezza della loro sorte ultraterrena, né la possibilità di influire su di essa per il tramite delle opere; questa angoscia spingerebbe l’uomo a cercare di capire il proprio destino. L’uomo ha il dovere di ritenersi eletto e di comportarsi di conseguenza, anche e soprattutto tramite il “beruf”, ovvero il lavoro, inteso come vocazione religiosa, mezzo per la sicurezza di sé. Il virtuoso può assicurarsi lo stato di grazia tramite l’agire ascetico. Il beruf è un prodotto della Riforma e, vedendo il lavoro come strumento per realizzare il disegno di Dio, Weber ritiene che da esso derivi la concezione del profitto come conferma della salvezza o grazia divina. Stato e potere in Weber In Weber potere e Stato sono legati. Lo Stato è una sorta di gruppo politico, che a sua volta è una sorta di gruppo di potere. Il potere definisce un gruppo sociale, il gruppo di potere, di cui lo Stato è una sottospecie. Quando parla di potere utilizza due termini-concetti: - Potere-potenza: possibilità di far valere la propria volontà anche di fronte a un’opposizione; - Potere-dominio: possibilità di trovare obbedienza in corrispondenza di un comando. Stato: gruppo sociale caratterizzato da continuità, razionalità, obbligatorietà e territorialità. Lo Stato è quell’entità che avanza con successo la pretesa al monopolio della coercizione fisica legittima. - Monopolio: lo Stato, nel suo territorio, è l’unico che pretende di esercitare la forza e per impedire l’uso della forza ad altri eventuali soggetti, ricorre alla forza (si fa eccezione al principio del monopolio se si parla di legittima difesa); - Coercizione fisica: la forza, quindi la sua minaccia e il suo uso, è il mezzo specifico dei gruppi politici (non significa che non usino altri mezzi o che solo loro usino la forza); - Legittimità: c’è il rischio di una circolarità, perché se per lo Stato la forza legittima è quella che esso detiene (legittima è la forza monopolizzata dallo Stato), allora è la monopolizzazione dello Stato che la qualifica come legittima e non è la legittimità a qualificare il monopolio statale. La legittimità qualifica positivamente il potere, perché gli dà una giustificazione. Quindi se la coercizione fisica è legittima vuol dire che la società in cui essa viene esercitata ritiene che l’esercizio medesimo sia giusto. Gli uomini sono generalmente convinti che chi impiega la forza abbia diritto a farlo. Lo Stato però non può basarsi solo sulla forza, necessita anche del consenso della popolazione, della sua obbedienza. Per Weber questa obbedienza altro non è che il lato passivo della relazione di potere: quello attivo è dato dal comandare. Ogni disposizione all’obbedienza si basa sulla fede e la credenza nel prestigio di colui o coloro che detengono il potere, il quale è, ovviamente, una relazione asimmetrica. Inserisce quindi anche il potere-autorità, una dimensione qualificata del potere, dove la qualificazione è data proprio da chi obbedisce. Perché alcuni uomini obbediscono ad altri? O per conseguenze fisiche, oppure spontaneamente. Weber indica 3 modalità: - Legittimità di carattere carismatico: dedizione al carattere sacro o alla forza eroica di una persona e/o dei suoi ordinamenti. Si obbedisce al capo; - Legittimità di carattere tradizionale: credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni e nella legittimità di chi riveste le autorità. Si obbedisce alla persona designata dalla tradizione; - Legittimità di carattere razionale: fonda il potere legale; credenza nella legalità degli ordinamenti istituiti e del diritto di comando di coloro che sono chiamati a esercitare il potere in base a essi. Si obbedisce all’ordinamento impersonale. Lo Stato moderno corrisponde a quest’ultimo tipo di legittimazione. Schimtt: “teologia politica”, sovranità e concetto del “politico” Schmitt, allievi di Weber, studiò legge e fu uno dei più importanti intellettuali del regime nazista. Aderì al nazismo solo quando questo diventò regime. Avendo incentrato la sua esso. Non dice che non esistono istituzioni nate dalla volontà umana, ma il problema è vederne l'atto di origine e infatti fa una distinzione tra istituzioni pragmatiche (prodotto della volontà umana) e istituzioni organiche (risultate di un processo naturale); l'uomo non deve mai rinunciare a mettere alla prova le istituzioni nate per via organica, ma non può spiegarne alcune rifacendosi ad una scelta razionale e deliberata di alcuni uomini; quindi il modo in cui si strutturano le istituzioni è quello dell'evoluzione, ossia ognuno contribuisce a crearle perseguendo i propri fini. Questo appare evidente nel caso del linguaggio, che non è mai stato creato a tavolino da qualcuno; nelle cose che scrive è anche un critico forte di Adam Smith e la cosa è per certi aspetti sorprendente, perché secondo lui egli non aveva visto che le istituzioni potevano nascere per via organica, aveva una concezione pragmatica anche dell'economia e arriva a sostenere che la sua teoria portasse al socialismo se applicata realmente. Menger, che era anche un economista, è uno dei fondatori della teoria soggettiva del valore (il valore di una merce dipende dalla valutazione che ciascuno attribuisce ad essa in base ai propri bisogni), chiamato anche marginalismo, che nasce alla fine dell’’800, dato che diversi pensatori in maniera indipendente iniziano a ragionare su questo. La vecchia teoria economica si basa sul lavoro, per cui ad attribuire un valore al bene ci si basava sul lavoro che serviva per produrlo; il marginalismo fa una rivoluzione rispetto a questo, sostiene infatti che il valore di un bene è fondato sulla relazione tra quel bene e la necessità degli individui; i bisogni sono qualcosa che può mutare costantemente, quindi muta anche il valore degli stessi beni. Il valore è un giudizio che gli uomini pronunciano sull'importanza dei beni, indipendentemente dal lavoro, quindi non è mai qualcosa di oggettivo, anche perché i singoli hanno preferenze diverse tra loro e che cambiano nel tempo. Lo scambio è il modo per soddisfare nella misura migliore i nostri interessi, è sempre qualcosa che è reciprocamente vantaggioso. La teoria dei valori dice che: i valori dei beni sono fondati sulla relazione ben-bisogni. Il valore non è dato dalla quantità di lavoro che serve per produrre il bene, ma dalla soddisfazione e lo scambio è in questo processo, un tentativo di soddisfare questi bisogni. Hayek In lui non c'è l'idea che lo Stato non serve. Però un buon ordine spontaneo è una possibilità che non sempre avviene e comunque, riprendendo la frase di Menger sul non rinunciare a mettere la prova le istituzioni, c'è sempre bisogno di interventi sulle norme. Quello che fa Hayek è individuare l'esistenza di istituzioni che nascono non intenzionalmente, in modo non programmato, e questo ha ovviamente effetti importanti nel definire quale sia il giusto ruolo dello Stato nella creazione di un ordine politico e, quindi, quali sono i limiti dello Stato stesso. È una riflessione sui limiti della ragione e della conoscenza umana, quindi in questo senso sviluppa la teoria dell'illuminismo scozzese; ci ricorda l'importanza delle istituzioni che esistono, ma che non sono il frutto della deliberazione umana e, anzi, pensare che tutte le soluzioni e istituzioni siano il frutto della ragione umana (costruttivismo) è uno dei più grandi errori delle scienze sociali. La sua teoria, su cui fonda le sue riflessioni politiche, è una teoria della conoscenza, che lui vede dispersa all'interno della società, tra attori diversi, in cui nessuno possiede la conoscenza nella sua totalità, quindi il problema è: come si coordinano queste conoscenze disperse?, come assicurare l'uso migliore delle risorse della società? La domanda di Hayek è: come avere i maggiori vantaggi dalla naturale e inevitabile limitatezza della conoscenza umana? Allora il migliore regime politico sarà quello che saprà offrire un migliore coordinamento delle conoscenze disperse, mentre il compito delle scienze sociali sarà capire come dalla naturale limitatezza della conoscenza si arriva ad un ordine. Fondamentale in questa riflessione è l'analogia con il caso del mercato, la divisione del lavoro; dice che il processo di mercato (eco di Menger) è il sistema che consente di usare al meglio le informazioni disperse nella società, perché solo se partiamo dalle conoscenze individuali è possibile avere un uso ottimale della conoscenza della società. Il mercato diventa il meccanismo che ci permette di usare al meglio le conoscenze particolari e l'insieme di quelle disperse: è sì il mercato dove fisicamente si scambiano i beni, ma soprattutto è un mezzo di scambio di informazioni. Con il meccanismo dei prezzi si trasmettono informazioni sul valore che gli individui attribuiscono ai singoli beni. I prezzi sono indicatori sintetici e immediati di quanto valore è attribuito ad un certo bene, se un certo bene che prima si trovava a buon mercato improvvisamente scompare o diventa costosissimo il prezzo cambia subito; forse non si sa il perché, e il fatto che in maniera immediata si abbia un'informazione sul valore del bene e la variazione del prezzo, dice come sono cambiati gli interessi. Il sistema dei prezzi, quando funziona in un sistema di libero mercato, consente di coordinare le azioni di persone diverse che non si conoscono tra loro; i prezzi fanno sapere in poco tempo come agire nel modo giusto rispetto alle variazioni di interesse, servono per indurre le persone a fare le cose desiderate senza un'imposizione dall'alto e un controllo consapevole: si produrrà un certo bene a seconda di quelli che sono i prezzi che possono essere fissati per il suo acquisto. Tutto questo diventa un fenomeno di coordinamento, e alla variazione dei prezzi ognuno può scegliere come meglio coordinarsi rispetto agli interessi altrui; questo fenomeno in ambito economico avviene in tutti i fenomeni sociali, nel linguaggio ad esempio: è una delle istituzioni che serve il benessere umano senza un controllo centralizzato. Il sistema dei prezzi indica agli uomini che cosa vale la pena scoprire, induce a riempire un vuoto andando a soddisfare le aspettative dei propri simili, e infatti poi, nel descrivere il processo di mercato, predilige il termine “catallassi”, che significa “scambiare e ammettere in comunità, trasformare il nemico in amico”, quindi la concorrenza è un processo di scoperta. Questo vale per i beni materiali, ma anche per la sfera intellettuale, e si ripercuote in un argomento a favore della libertà individuale, in cui il presupposto di partenza è quello dell'ignoranza degli uomini (in un sistema di libertà quello che si ha, il meccanismo di concorrenza come scoperta, è la possibilità di superare i limiti dell'ignoranza). Hayek fa l'esempio dei sentieri di montagna, come si formano? Non sono qualcosa che si forma con un progettista, ma si creano perché i vari viandanti, ognuno interessato al suo viaggio, inizia a percorrere un certo sentiero, poi le altre persone che hanno lo stesso obiettivo si troveranno davanti a dei percorsi più battuti di altri e, quindi, lo faranno anche loro e miglioreranno progressivamente, perché ogni persona si accorgerà di quale sentiero funziona meglio o saprà identificare passaggi nuovi per un miglioramento: allora anche solo per sua utilità, lascerà dei segnali, facendolo diventare più evidente di altri. Questo dimostra come le istituzioni non sono necessariamente l'esito di un progetto nazionale. Infatti Hayek dice che la civiltà inizia quando l'uomo, nel perseguire fini che suono suoi propri, usa conoscenze maggiori di quelle che ha acquisito: ognuno di noi quando vive insieme agli altri può usare le conoscenze degli altri senza averle acquisite. La civiltà non è data tanto da un aumento delle conoscenze individuali e soggettive, perché il progresso è dato dallo sfruttamento delle conoscenze altrui; esiste un problema della divisione della conoscenza nella società, che poi è analogo al problema della divisione del lavoro in Smith, e in questo senso si parla di “ordine spontaneo”, perché non è stato costruito grazie ad una pianificazione, dato che le conoscenze che la mente usa sono maggiori rispetto a quelle che effettivamente ha e che effettivamente riesce ad esprimere. Nel mercato è quello che avviene con il sistema dei prezzi che dà informazioni sul valore dei beni, e quindi i prezzi sono indicatori immediati di conoscenza. Di conseguenza l'economia di mercato è utile perché semplifica la realtà, la mette a disposizione della cooperazione umana. Si giustifica anche la critica della pianificazione economica alla base del socialismo: l'idea della centralizzazione, infatti non è con essa che si risolve il problema della conoscenza dispersa, ma è solo affidandola alle scelte dei singoli, i singoli operatori di mercato, che possono vedere attraverso il sistema dei prezzi come cambia il valore di un bene e che hanno anche conoscenze specifiche che altri non hanno. Ci sono conoscenze specifiche legate a circostanze particolari che solo chi opera in un certo contesto ha e non sono superabili con una pianificazione; a partire da qui si capisce che cosa si intende per “diritto”: deve essere costituito da norme di condotta e non da norme di organizzazione (norme che organizzano la società): le norme di condotta dicono solo quali sono le regole da rispettare nel momento in cui ognuno la propria vita come operatore. Sono norme che fissano il rispetto reciproco, ma che non indicano una direzione per la società. Con il tempo si interessa al tema della common law: se all'inizio credeva che bastassero leggi universali e astratte, poi si rende conto che è importante anche il contenuto. Ci sono altri due aspetti importanti del pensiero di Hayek: 1) Critica al costruttivismo: il punto di partenza è l'individualismo metodologico, secondo cui “solo l'individuo pensa, agisce ed esiste", quindi se si vuole capire come nascono e funzionano le istituzioni si deve guardare ai singoli, che hanno creato concetti che servono per comprendere la realtà, ma non esistono nella realtà come esistono gli individui. Il costruttivismo fa l'errore di pensare che le astrazioni delle quali ci serviamo per capire la realtà esistano autonomamente, a prescindere dagli individui; questa pretesa si basa sull’idea che l'uomo costruisce deliberatamente la civiltà nella quale vive, che esiste una ragione umana al di fuori delle circostanze e che l'uomo ha una capacità intellettiva che sia anche indipendente rispetto a questa civiltà stessa. Per Hayek la mente e il suo sviluppo è parte di quello della civiltà; pensare che tutte le scelte siano frutto di una volontà e, quindi, pensare che la mente umana possa prevedere integralmente il proprio progresso è l'errore del costruttivismo. Invece le scelte hanno sempre conseguenze impreviste; talvolta esse sono positive, come nel caso dei sentieri di montagna, mentre altre volte sono indesiderate e quindi negative. Il costruttivismo ritiene che tutto ciò che l’uomo ha di buono sia frutto di una scelta razionale e che, quindi, poi lo si possa cambiare a proprio piacimento (è il ritorno ad Hobbes); se si guarda a questi aspetti si capiscono anche le sue perplessità rispetto al concetto di giustizia sociale, concetto cardine del ‘900: la sua tesi sostiene che in un sistema basato sull'ordine sociale e, quindi, sulla logica di mercato, non ha senso parlare di giustizia sociale o distributiva, perché le distribuzioni di ricchezza che esistono nella nostra società non sono il prodotto della volontà umana e, di conseguenza, non si possono definire giuste o ingiuste; il valore di un servizio o di un bene offerto non ha una relazione con i meriti o il bisogno di chi lo ha prodotto, esso dipende dalla capacità di soddisfare i bisogni altrui. 2) I termini giusto o ingiusto, secondo Hayek, hanno senso solo in un ordine inteso come organizzazione, ma non in quello di ordine spontaneo e, quindi, se davvero si volesse realizzare la giustizia sociale, si dovrebbe cambiare il proprio ordine sociale:
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