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Appunti completi del corso di Letteratura medievale e umanistica, Appunti di Letteratura

Corso dedicato a tutti gli attori principali della letteratura medievale: il poeta, il mercante, il chierico e predicatore. Particolare enfasi viene data alle figure di Dante e di Boccaccio.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 19/07/2022

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Scarica Appunti completi del corso di Letteratura medievale e umanistica e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! Appunti completi del corso Letteratura medievale e umanistica Prof.ssa Mocan Lezione I – Introduzione (Partiamo male se si cita già Bologna). La declinazione del tema della voce rispetto alla letteratura medievale ed umanistica prevede alcune estensioni di significato. La voce indicherà un termine unico per indicare dei termini culturali significativi e determinanti per lo sviluppo culturale europeo, che vanno a coincidere con la presa di parola e con la costruzione dell’identità di alcuni soggetti storici che acquistano una particolare importanza per la letteratura e la cultura medievali. Si estende il significato metaforico di espressioni come «avere voce in capitolo». Un’altra implicazione di questo modo di intendere il termine voce è quello della polifonia: si considera la voce non solo come entità isolata e solistica, ma la si vede come assunzione di parola e identità in quanto strumento di coinvolgimento in un dialogo. La cultura medievale è una società altamente polifonica, non perché prendano la parola molti soggetti, ma perché questi sono caratterizzati da una serie di tratti e di modalità e linguaggi, che li determinano e li definiscono anche nel dialogo. Il termine medievale, ai fini del corso, si riferisce all’emergere delle letterature delle lingue volgari europee e del volgare italiano: ci si occupa, quindi, dell’ultimo periodo storico medievale (parte dal XII-XIII secolo). Le prime letterature sono romanze, in ambito provenzale, che vanno poi ad espandersi ad altri luoghi europei, che non escludono le lingue non- romanze. Questo quadro trova un’ideale conclusione nel XIV secolo, nel periodo di transizione verso l’età umanistica, attraverso le figure di Petrarca e Boccaccio. Queste radici, però, non si estinguono mai e rimangono delle basi a. Il poeta → ci si occupa di questa categoria sia perché in senso cronologico è la prima ad emergere, ma anche perché è quella più trasversale: sotto poesia si può intendere anche l’espressività in senso lato e permette di vedere da vicino il crearsi dell’identità in lingua volgare. Questa figura può accompagnarsi ad altre determinanti per comprendere eventi del periodo, come quella del cavaliere, che assume una grande importanza nell’immaginario poetico e letterario; lo stesso vale per l’amante, siccome la letteratura nasce come amorosa e per narrare l’incontro con una figura femminile idealizzata. È anche un tipo particolare di intellettuale, che non usa la lingua latina per esprimersi. I poeti in alcuni casi sposano una cultura aristocratica, determinandosi anche in senso socio-culturale, se non anche economico. b. Il predicatore → è tipicamente una figura che si pone sul momento di passaggio tra oralità e scrittura. Raccoglie dai testi una serie di concetti e contenuti che vengono esposti oralmente, per coinvolgere e diffondere quelle idee. Il predicatore è anche un operatore culturale importantissimo, forse più del poeta e di altre figure più nobili, in quanto raggiunge una fascia di pubblico più ampia. Può appartenere a diversi ambiti e ambienti: può essere un chierico (erudito e intellettuale religioso), un monaco o un eremita, oppure un profeta (colui che con la voce genera una conoscenza e una comprensione di diversa qualità). c. Il mercante → A volte in contrapposizione, ma più in dialogo con il poeta. La categoria storico sociale del mercante è quella che determina il finire dell’arco temporale medievale. È fondamentale per la configurazione economica dell’Italia di quei tempi, ma è anche portatore di una serie di valori intellettuali e culturali rilevanti per la transizione da una letteratura aristocratica a una più ampia e democratica. È qualcuno che, come veicola le merci, così veicola i contenuti culturali, mettendoli a disposizione di un pubblico più ampio. Non c’è una definizione univoca per la figura del poeta. La parola poeta deriva da un verbo greco, che indica la creazione, un gesto che ha a che fare con la novità. La poesia è una creazione nella lingua e nella letteratura, che può essere applicato a diversi contenuti e che può dare una nuova voce ad una certa realtà, sia esterna sia interiore. Questo è uno degli aspetti interessanti e stimolanti a cui si può guardare per la nozione di poeta nel medioevo; è una componente nuova e dibattuta dai primi autori in lingua volgare. Ci si chiede in quale misura il poeta crei qualcosa di nuovo e dal nulla o se si collochi più sulla rielaborazione e riproposizione di una serie di contenuti. La specifica definizione di questo termine e di questo personaggio non è qualcosa di scontato e noto, che non necessiti di ulteriori discussioni o approfondimenti. Questa dimensione è tanto più attuale se ci si riferisce al periodo medievale. Oltre alla difficoltà di definire cosa sia di fatto la poesia e di che cosa si occupi un poeta, si pone il problema di definire gli strumenti leciti per la poesia e il primo grande problema primordiale di questa stagione, ovvero in quale lingua si debba esprimere il poeta. In questa polifonia e in questa compresenza di livelli dello strumento lingua dove si collochi il poeta non è qualcosa di determinato, soprattutto per quanto riguarda il poeta in lingua volgare. Per riassumere in maniera semplificante il problema ma per mettere a fuoco la questione, coloro che scrivono in volgare faticano molto a conquistarsi il rango di autori e poeti a tutti gli effetti, in quanto attori legittimati sul piano culturale. La presenza ingombrante del latino e la consuetudine si accompagnano ad una particolare idea di tradizione letteraria, quindi con un orizzonte di valori che è fortemente ancorato all’idealizzazione e all’esaltazione dell’eredità classica latina. Si dice che sarebbe stato l’Umanesimo e il Rinascimento a riscoprire il valore dell’antichità classica: ciò è vero, ma è anche semplificato nella realtà europea. La realtà classica latina non è mai stata messa da parte, ma per certi aspetti è il medioevo ad averla esaltata in maniera assoluta, se intesa come valore assimilato e rielaborato che non può essere messo in discussione. I grandi autori antichi sono modelli assoluti. Virgilio, Ovidio, Stazio, che ancora oggi sono autori di riferimento della classicità, erano gli auctores, coloro che creavano testi culturali e letterari autorevoli, tanto da essere modelli ed autorità per il futuro. In questo contesto diventa forse ancora più evidente quanto sia poco scontata l’idea di presentarsi come un autore, un poeta in lingua volgare. È un gesto che può sembrare scontato, ma per i medievali non lo era affatto, proprio perché su tanti punti dell’esperienza quotidiana di rapporto con la cultura era molto diverso. Scrivere e acquisire le regole e le norme di un’espressione linguisticamente corretta coincideva con l’apprendimento della grammatica latina; quindi, il gesto di esprimersi per iscritto non in latino non era scontato, ma presupponeva un passaggio da una abitudine alla traduzione. Il poter conferire a quanto scritto in volgare un valore poetico e letterario non era banale. Bisogna partire da Dante, che in un momento della sua produzione letteraria, si confronta con la domanda circa chi sia un poeta. È una domanda che attraversa tutta la produzione dantesca, uno dei punti fondamentali, che trova poi una risposta nel suo percorso autoriale e umano. È implicita nella Vita nuova e viene teorizzata del De vulgari eloquentia e nel Convivio, trovando poi un’apoteosi nella creazione della Commedia. Nel brano della Vita Nova ci si confronta proprio con il problema terminologico, della definizione del termine poeta e del suo campo di applicazione. Si tratta di un brano della Vita Nova in cui Dante fa un’importantissima parentesi proprio di tipo meta-poetico; si parte da una questione tecnica e specifica circa la retorica e ciò che è consentito o no ai poeti. Dante ha più volte parlato del suo amore per Beatrice e lo ha presentato come una persona vera e propria con cui dialogare. A questo punto dell’opera fa una parentesi soffermandosi sulla liceità a chi fa poesia volgare di usare la figura retorica della prosopopea, presentare nozioni e concetti astratti come se fossero persone. Sembra una questione minuta e di poco conto, ma non lo è e i motivi sono profondi a causa del confronto costante e continuo con il latino. Dante non fa emergere l’argomento dal nulla, ma lo fa in un dialogo con altri poeti come Cavalcanti1 e Orlandi2, che avevano già introdotto questo problema. Un problema capitale era se l’amore fosse una sostanza, con una realtà propria ed esterna all’individuo, o se fosse un accidente, una casualità e un’esperienza transitoria che accompagna altri eventi della vita, ma senza un valore proprio. È una domanda filosofica molto impegnativa che riguarda la natura dell’amore. Il problema retorico che pone Dante e riprende dai precedenti si collega a questo aspetto. Alcuni avevano argomentato che se si personifica l’amore allora vuol dire che è una sostanza, altrimenti non potrebbe incarnarsi in un’entità autonoma; sarebbe una conseguenza retorica di un presupposto metafisico. Per giustificare la sua operazione di personificazione non utilizza metodologie filosofiche, ma introduce un discorso più di tradizione letteraria, che implica un’affermazione quasi passata inosservata. Dimostra come i poeti in lingua volgare siano equiparabili nella loro funzione e valore ai poeti classici latini. Come ha dimostrato Mirko Tavoni, questo luogo e brano della Vita Nuova è il primo momento nella cultura delle origini italiane in cui il termine poeta viene applicato e usato per riferirsi ad autori in lingua volgare. In questo contesto Dante fa anche una storicizzazione della letteratura in lingua volgare ed è una novità. Sembra voler far riferimento ad una tradizione di cui si può parlare e non a manifestazioni episodiche di una 1 Guido Cavalcanti (1258 – 1300) è stato un poeta e filosofo italiano del Duecento. Esponente di spicco della corrente poetica del dolce stil novo, partecipò attivamente, tra le file dei guelfi bianchi, alla vita politica fiorentina della fine del XIII secolo. Fu amico personale di Dante che lo menzionerà nelle sue opere. 2 Guido Orlandi (1265 circa – 1333/1338) è stato un poeta e politico italiano. Tra il 1290 e il 1296 ricoprì vari incarichi pubblici. Fu pressappoco coetaneo di Dante e di Cavalcanti. Con quest'ultimo, infatti, Guido Orlandi fu in corrispondenza e scambiò una serie di sonetti. Scambiò lettere anche con Dante da Maiano e con Dino Compagni. Questo rimatore fiorentino è anche citato in un atto notarile del 17 agosto 1312 e qualche dato biografico si può desumere dal suo Canzoniere e da liriche di suoi contemporanei. luogo del Purgatorio porta il personaggio a cantare una canzone di Dante. La normalità del gesto di cantare una poesia va sottolineata. «Amor che nella mente mi ragiona» è una canzone che Dante commenta nel Convivio ed è una delle quattro canzoni è presente in quella parte di produzione. È una canzone che Dante stesso ritiene molto importante. È interessante che la presenti come eseguita in forma cantata, con una grande naturalezza. Sembra che nell’incontro amichevole con Casella si crei una modalità spontanea di ripresentare una canzone dantesca. Si vede testimoniato qui in maniera viva e convincente quanto l’aspetto vocale accompagnato da musica facesse parte di una certa concezione della creazione poetica in volgare, contestando un’idea che nella critica degli scorsi decenni si era imposta in maniera quasi troppo radicale, ovvero che dopo i siciliani la poesia sia solo scritta. Questa affermazione ha una formulazione a cui sfugge qualcosa, vista l’autorevole testimonianza di Dante. Lo stesso Dante ne dà un’altra attestazione nel De vulgari eloquentia, in cui si sofferma sulla canzone come forma metrica e sulla distinzione tra testo e melodia. Rimane presente una di quelle caratteristiche che sono ineliminabili dalla prima poesia in lingua volgare. Si vede un coinvolgimento materiale della voce nella nascita del poeta medievale e che prevede il divorzio tra testo e musica, anche se in epoca più tarda. A partire dai siciliani c’è una concezione della poetica diversa, ma metterla in termini assolutistici è contestabile. La prima produzione poetica e letteraria in una lingua volgare con un registro colto si riferisce ad una letteratura scritta, che nasce per iscritto anche se poi viene iscritta, che ha dietro una consapevolezza culturale e un’intenzionalità poetica, quindi, si propone come un testo aulico. Anche la letteratura popolare ha un valore letterario, ma in questo caso non si può parlare di intenzionalità di chi la produce, ma è il risultato che arriva a questo punto. Per i poeti delle origini la consapevolezza sta a monte ed è ciò che giustifica la definizione di autore. È una poesia in volgare di tenore alto, una poesia d’arte che ha un’elaborazione madrigale di Lemmo da Pistoia, secondo quanto riporta una nota riportata sul Codice Vaticano 3214: Casella dedit sonum (lo musicò Casella); di Casella si fa inoltre menzione in un sonetto di Niccolò de' Rossi. Dalla citazione nella Divina Commedia si può dedurre che fu amico di Dante, morì poco dopo il 1300, e mise in musica alcune poesie di Dante stesso, o almeno la canzone, tratta dal Convivio, Amor che ne la mente mi ragiona. Dal v.107 del poema dantesco al luogo su citato, si può forse desumere inoltre che l'"amoroso canto" attribuito da Dante a Casella ne indicasse specificamente il canto monodico che accompagnava la lirica provenzale o provenzaleggiante. stilistica e retorica importante, e che propone per la prima volta in volgare un’identità autoriale, ovvero che un testo sia il risultato di una creazione letteraria consapevole. La figura autoriale è slegata però dalla soggettività storica dell’eventuale autore. È la funzione d’autore ad essere particolarmente importante, proprio per la consapevolezza produttiva che porta con sé. La poesia dei trovatori nasce all’inizio del XII secolo e di cui si ha traccia dall’inizio di quel secolo, in un contesto ben determinato. È un fenomeno letterario fortemente ancorato ad una realtà storica, geografica e culturale, che quasi miracolosamente poi si estende a tutta la letteratura in lingua volgare successiva. Nella parte meridionale della Francia, in lingua provenzale, si trova un ambiente socio-culturale molto ben determinato e definito, quello delle corti feudali, che conoscono una massima fioritura. Si parla in questo caso di un’espressione letteraria dai contenuti quasi totalmente soggettivi e amorosi, ma che di fatto esprimono in maniera anche ideologicamente connotata i presupposti e le regole di un certo ambiente culturale. Consistono in un’espressione culturale storica di una determinata condizione. È una produzione indipendente nei contenuti, nei protagonisti e nei temi rispetto alla produzione latina ed ecclesiastica. A questo aspetto si collega anche la caratteristica dell’essere destinata ad una condivisione pubblica; tutti questi testi sono da essere eseguiti per il pubblico di corte con l’accompagnamento di una melodia. Si può distinguere tra il poeta autore del testo e di colui che ne favorisce la fruizione, perché poteva accadere e forse era la maggioranza dei casi che fosse un giullare ad eseguirla, ma che egli non ne fosse il vero autore. La produzione di questa poesia era varia: c’erano grandi poeti cortesi, con un grande radicamento nella corte, che erano grandi signori aristocratici e che facevano questa attività in virtù del suo valore sociale in ambito cortese. Nelle generazioni più tarde, invece, nasce il poeta di professione, quelli che erano anche giullari (un esecutore, un attore, che può anche avere un repertorio molto vario di testi). I poeti giullari di cui si sta parlando sono anche esecutori, ma solo della propria opera sono autori, per questo sono poeti professionisti. Questa poesia introduce l’idea del poetare in maniera elevata in volgare oltre ad introdurre la rima nel panorama letterario europeo. La letteratura popolare in lingua romanza, precedente ai trovatori, non si esprime in rima, ma in una forma primitiva che è l’assonanza. Questo artificio retorico della rima, per quanto se ne sa, è un’innovazione della poesia colta e che ne fa un prodotto articolatissimo. I poeti sono attentissimi nell’orchestramento delle rime, che diventano strumenti di dialogo con altri poeti. A partire dalla metà del XIII secolo ci sono anche dei manuali di versificazione in lingua provenzale. Ciò significa che la tradizione poetica ha un livello di normalizzazione elevato e questi hanno anche delle introduzioni di grammatica provenzale. Si condannano le rime imperfette che impedivano ai poeti di considerarsi poeti elevati. Non si possono usare rime identiche. C’è una consapevolezza e una tematizzazione particolarmente elevata. Si impone e dà una forma alla modalità con cui si esprime la poesia nelle lingue volgari successive. C’è anche un aspetto di contenuto già impostato nella poesia cortese dei trovatori e che ha un grande riflesso in futuro, ovvero il contenuto amoroso in quanto tale e la forma con cui viene presentato. Si tratta di un’esperienza amorosa quella dei trovatori che non è assolutamente assimilabile ad un’idea di sentimento spontaneo; è un amore determinato rispetto ai suoi protagonisti (il primo attore principale è il poeta amante, mentre dall’altra parte c’è un’interlocutrice della poesia, una donna oggetto della passione amorosa, che deve corrispondere a certe caratteristiche, ovvero deve essere una signora feudale, una aristocratica, e anche sposata. [furboni sti adulteri]. La poesia era un omaggio feudale, trasposto sul piano culturale. Il rapporto amoroso che viene rappresentato riproduce quello tra il signore e i suoi sottoposti. C’è anche un altro motivo per cui la donna deve essere sposata, ovvero che in quella società solo le donne sposate avevano un’identità sociale; la domina poteva essere omaggiata in quanto tale solo perché moglie di un signore. Una donna non sposata era una fanciulla priva di posizione nel meccanismo cortese che rendeva impossibile l’omaggio nei suoi confronti). L’amore cortese rappresentato dai trovatori assume una cornice di idealizzazione che nel contesto specifico rimane come eredità e retaggio nella poesia successiva, nella forma della donna idealizzata ed astratta a cui quasi non corrisponde più una realtà di fatto. Questa poesia è tutto meno che democratica, nonostante a volte si interpreti in questa maniera la scelta della lingua volgare, come lingua dell’espressione poetica. Questa interpretazione non corrisponde alla realtà di questa letteratura, che ha un carattere assolutamente aristocratico e molto esclusivo. È una poesia in volgare accessibile anche alle Lezione II – Le forme del medioevo Il sostantivo canso (in italiano canzone) è formato sulla base del verbo cantare. La canso è un genere inaugurato dalla poesia cortese: si tratta di un componimento formato da un numero variabile di strofe, composte da un numero variabile di versi, con uno schema rimico scelto dal poeta, ma che si ripete identico in tutte le strofe (chiamate anche stanze), garantendo così la coesione complessiva della poesia. La canso è chiusa da una strofa, chiamata congedo o invio, dal numero di versi uguale o inferiore a quello delle altre stanze, in cui il poeta si rivolge al destinatario della poesia o al componimento stesso. Le canso dei trovatori erano destinate all’esecuzione orale ed erano provviste di una melodia. Durante il XII secolo, nell’ambito della «rinascita del XII secolo», prende vita, attraverso la letteratura cortese (in particolare grazie alla poesia dei trovatori), la figura autoriale del poeta lirico, quale voce di un soggetto che dà espressione alla propria interiorità. Un elemento culturale dominante nello stesso periodo, che si estende dalla letteratura religiosa alla cultura profana, interagendo con questa molto profondamente, è la cosiddetta «invenzione dell’interiorità» (C. Bologna), o «decouverte du sujet» (M.-D. Chenu), la quale si concretizza in un’attenzione costante al dato dell’esperienza soggettiva quale centro della vita umana e intellettuale. Non che nelle altre epoche non ci fosse stato spazio per l’interiorità, però nel XII secolo si può notare che ci sia qualcosa di innovativo, un focus particolare che prima non c’era. Si tratta di un elemento riconducibile ad Agostino, in particolare alla struttura delle sue Confessioni5. La particolarità delle Confessioni sta nell’essere un primum per quanto riguarda l’autobiografia, e nell’importanza della memoria nel raccontare gli eventi. Agostino6 è uno degli autori più ripresi e riproposti in quest’epoca, in particolare nell’ambito di quella linea di pensiero che viene definita agostinismo, con autori religiosi che indagano sull’esperienza spirituale e sulla mistica (Bernardo di Chiaravalle7, Guglielmo di Saint-Thierry8, Ugo9 e Riccardo di San Vittore10, ecc.). Questo interesse comune per l’interiorità spiega il nesso tra letteratura profana e letteratura religiosa che riscontriamo in questo periodo storico. 5 Le Confessioni sono un'opera autobiografica in XIII libri di Agostino d'Ippona, padre della Chiesa, scritta nel 398. È unanimemente ritenuta tra i massimi capolavori della letteratura cristiana. In essa, sant'Agostino, rivolgendosi a Dio, narra la sua vita e in particolare la storia della sua conversione al Cristianesimo. 6 Aurelio Agostino d'Ippona (354 – 430) è stato un filosofo, vescovo e teologo romano di origine nordafricana e lingua latina. Conosciuto anche come sant'Agostino, è Padre, dottore e santo della Chiesa cattolica, detto anche Doctor Gratiae ("Dottore della Grazia"). È forse il maggiore rappresentante della Patristica. Se le Confessioni sono la sua opera più celebre, si segnala per importanza, nella vastissima produzione agostiniana, il trattato La città di Dio. 7 Bernard de Fontaine (1090 – 1153), è stato un monaco cristiano, abate e teologo francese dell'ordine cistercense, fondatore della celebre abbazia di Clairvaux, di cui fu abate, e di altri monasteri. Viene venerato come santo da Chiesa cattolica, Chiesa anglicana e Chiesa luterana. Canonizzato nel 1174 da papa Alessandro III nella cattedrale di Anagni, fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Pio VIII nel 1830. Nel 1953 papa Pio XII gli dedicò l'enciclica Doctor Mellifluus. 8 Guglielmo di Saint Thierry (1075 circa – 1148) è stato un monaco cristiano, teologo e filosofo belga. 9 Ugo di San Vittore (1096 circa – 1141), è stato un teologo, filosofo, cardinale e vescovo cattolico francese, tra i principali teorici della scolastica, venerato come beato dalla Chiesa cattolica. 10 Riccardo di San Vittore (1110 circa – 1173) è stato un teologo e filosofo francese di origine scozzese. Fu uno dei più importanti teologi mistici del XII secolo nonché priore dell’abbazia benedettina di San Vittore a Parigi, dal 1162 alla morte. Nei nostri contesti specifici, questa si esprime nella intensa riflessione metapoetica portata avanti dagli autori in volgare della stagione trobadorica e da una concentrazione sull’origine interiore del canto, e si riflette nella centralità dell’argomento amoroso per tutta la letteratura e la cultura europea del tardo Medioevo: il XII secolo è visto come «secolo ovidiano». Sono cioè numerosi i poeti che dedicano molte parole a teorizzare che qualunque poesia che abbia un valore intrinseco debba trarre ispirazione non da eventi esterni, oggettivi, ma da un’esperienza soggettiva, interiore. La descrizione delle forme dell’amore e dei suoi effetti diventa lo strumento per osservare l’animo umano e il mondo. Curiosamente, sono gli autori religiosi i primi a concentrarsi su questo tipo di tematizzazione, dedicando amplissimi trattati alla teoria dei modi in cui l’amore influisce sulla persona umana. Da notare che Ovidio11 era sempre stato un autore letto nel Medioevo, ma era l’Ovidio delle Metamorfosi, “addomesticato”, mentre l’Ovidio dell’Ars amatoria12 torna solo nel XII secolo. Ci troviamo, dunque, in una grande cornice storico-ideologica che prevede come novità l’invenzione del soggetto, che si manifesta nella centralità conferita al tema amoroso. Si tratta di un’opera molto ben curata, scritta su pergamena di qualità e caratterizzata dall’uso di inchiostri di colori diversi (costosi) e miniature (costose anch’esse, in particolare 11 Publio Ovidio Nasone, noto semplicemente come Ovidio (43 a.C. – 17 o 18 d.C.), è stato un poeta romano, tra i principali esponenti della letteratura latina e della poesia elegiaca. Fu autore di molte opere, il cui corpus è tradizionalmente suddiviso in tre sezioni. La prima sezione, che si colloca tra il 23 a.C. e il 2 d.C., è rappresentata dalle opere elegiache di argomento amoroso e comprende gli Amores, le Heroides (Epistulae heroidum) e il ciclo delle elegie a carattere erotico-didascalico. La seconda sezione, tra il 2 d.C. e l'8 d.C., è caratterizzata dalle Metamorfosi e dai Fasti[, di intonazione religiosa, mitologica e politica. La terza e ultima sezione, compresa tra l'8 d.C. e la morte (17 o 18 d.C.), include le elegie dell'invettiva e del rimpianto: Tristia, Epistulae ex Ponto, Ibis. Fu autore anche di altre opere, andate oggi perdute, tra cui una Gigantomachia e una tragedia, la Medea. Di grande importanza sono le Odi, di cui oggi ci restano solo piccoli frammenti. 12 L'opera, che si divide in tre libri, offre agli uomini strategie di conquista delle donne e alle donne consigli su come attrarre il proprio amante. Ovidio compone quest'opera durante la sua maturità e più precisamente si ritiene che i primi due libri risalgano all'1 a.C. o all'1 d.C., quando il poeta doveva avere circa quarant'anni. Il terzo ed ultimo libro, comparso subito dopo, doveva forse appartenere ad un progetto che comprendeva anche i Remedia amoris. Il canto di chi parla in questa poesia è migliore di quello degli altri perché tutta la persona dell’autore è concentrata nella dimensione dell’amore. Nella tradizione cristiana una idea della verità, del valore, della parola del cuore esisteva già da molto tempo; quindi, la poesia di Bernart de Ventadorn e degli altri trovatori cresce su un terreno fertile. Lezione III – Lo scriba dell’amore Nella poesia europea c’è un tema problematico centrale, ovvero l’ispirazione poetica. Può sembrare un tema tipicamente interdiscorsivo o trasversale, cioè uno di quei topoi per cui è possibile trovarli in qualsiasi epoca e stagione della cultura e letteratura europei. Potrebbe sembrare che in questo caso si stia affrontando una variante di una questione sempre aperta. Si tratta di capire come questa domanda diventi di particolare urgenza ed importanza per questi poeti e scrittori che sono consapevoli di compiere un gesto inaugurale, che non ha precedenti nel momento in cui scelgono il volgare come lingua per esprimersi. Devono rispondere alla domanda da un punto di vista soggettivo, ma anche dare un senso più profondo al loro intervento e costituire una legittimità nel costituirsi autori di una letteratura valida. In effetti questa impostazione spiega l’insistenza su alcuni elementi collaterali, che si accompagna a questa domanda. Il tema del valore è uno di quelli su cui questi autori insistono; si chiedono che cosa conferisca un valore alla poesia volgare. I provenzali lo definivano prezzo della produzione poetica. Nella poesia di Bernart de Ventadorn è un elemento ben visibile. Così farà anche Dante nel De vulgari eloquentia, in cui inserisce il tema dell’eccellenza e cerca di stabilire una scala di valori per stabilire il pregio della produzione poetica volgare. Una delle vie per arrivare a stabilire nel contesto topico più ampio il suo particolare valore passa per le affermazioni per cui ci sarebbe una sorgente della poesia di valore, di questa voce poetica nobile, che deve essere interiore e associata al sentimento dell’amore. È data una definizione di luogo, dello spazio da cui sorgerebbe la poesia, e di quello che è il suo oggetto e il suo terreno di nascita, ovvero l’esperienza del sentimento amoroso. Queste esperienze diventano condivise nella cultura di quei secoli e sono quelle che determinano poi una linea prevalente di questi temi nei secoli successivi, per quanto non manchino variazioni sul tema e anche qualche possibilità di parlare dell’origine della poesia, collegandoli in maniera meno esclusiva alla dimensione interiore. Si tratta di una visione che è rilevantissima e che viene espressa non solo dai poeti in volgare. Si tratta di uno di quei punti che si definisce intorno alla condivisione e riflessione tematica che costituisce un elemento portante per la polifonia medievale, soprattutto per quanto riguarda l’importanza dell’ispirazione religiosa. In quei secoli si intrecciano e risuonano tante voci e tante lingue. Sia Bernart sia Riccardo di San Vittore si pongono in un universo di autori molto ampio, ma sono quelli che rendono in maniera particolarmente incisiva e chiara il rapporto intertestuale. I loro sono testi che con un ragionevole margine di dubbio presentano temi comuni, ma che hanno anche un intento di dialogo con l’altro. L’ipotesi più verosimile è che Bernart de Ventadorn abbia conosciuto questo brano e abbia voluto rispondergli. Il testo di Riccardo è l’inizio di un trattato più lungo ed è un momento incipitario che contiene una riflessione di tipo metatestuale, come Bernart nella prima strofa della canzone aveva una riflessione metapoetica. È un incipit che propone una domanda retorica riferita alla forza persuasiva e di qualità del testo. Si chiede da che cosa possa trarre la sua forza persuasiva un discorso umano sull’amore e in che modo si possa parlare autenticamente di questo argomento. Si può apprezzare la cura particolare al ritmo e allo stile, che fa capire come si tratti di un autore colto e attento alla dimensione stilistica del suo testo. La domanda retorica si apre intorno all’interrogativo e alla contrapposizione tra chi ritiene possibile rendere a parola qualcosa per sentito dire e chi afferma la necessità di aver sperimentato ciò di cui si parla, in particolare se si tratta del sentimento amoroso. Bernard diceva che l’amore fino deve essere provato prima di parlarne. Non c’è qualcosa che viene interiorizzato; l’esperienza della dolcezza è interiore e può essere esteriorizzata solo dopo averla provata. Se ne può parlare in maniera veritiera solo se lo si ha provato. Si tratta di un testo legato al nome di Riccardo di San Vittore, che oggi dice molto poco, ma che è invece un autore molto importante per L’esperienza diventa condivisibile proprio grazie al testo, che diventa anche valutabile. Entrano in gioco delle dinamiche tra alcune polarità, sempre presentate secondo una dialettica, come i due estremi di un movimento. La prima contrapposizione è quella tra interno ed esterno. Sulla stessa linea c’è la dinamica tra immagine, parola e scrittura. È una dinamica con l’implicito della prima; l’immagine è mentale ed essa trova accesso alla parola e alla scrittura del testo poetico. Si pone poi un altro tema, che cosa sia veramente un autore e un creatore del testo poetico. È un interrogativo che torna a più riprese, anche nel Novecento. Dante è costantemente impegnato intorno a temi metaletterari e metapoetici per tutta la sua carriera. A livello della Commedia assume una raffinatezza straordinaria, siccome dai momenti concreti di racconto del viaggio passa anche attraverso l’autore che parla della propria scrittura. Questo veniva sperimentato anche prima con la sua solita capacità di rinnovare dati tradizionali. È una cosa che succede nel De vulgari eloquentia, in cui si ragiona sulla poesia e su come vada realizzata. È un testo ricco di obbligazioni in questo senso. Ma è presente anche nel Convivio, in cui c’è l’impresa di un poeta che si mette a commentare le proprie poesie e a spiegare il loro significato con un grado di riflessione poetica vicino all’assoluto. È un’operazione già presente anche nella vita nova che è il libro fondativo del personaggio di Dante poeta. È un’operazione metaletteraria per cui non si limita a scrivere ma costituisce un ritratto autoriale, in cui racconta le circostanze e le motivazioni che lo hanno portato a scrivere. Ci sono modelli e fonti a cui si ispira, ma un’opera veramente simile non esiste. Questa costruzione prevede un grado elevatissimo di riflessione e di scrittura. È un aspetto annunciato nell’incipit della Vita Nova. Dante fa una premessa in cui comunica al lettore che sta facendo un’operazione autobiografica e che sta ripercorrendo dei momenti della sua memoria. La strategia che Dante utilizza per rappresentare questo ruolo autoriale particolare che assume è notevole. Per ammettere quest’operazione fa ricorso alla grande metafora topica della sua epoca, quella del libro. È una grande metafora di cui parla magistralmente Curtius e che è particolarmente funzionale alla visione del mondo medievale, perché suggerisce molto bene l’aspirazione enciclopedica e la visione di un mondo armonico e coeso. Dante però non si limita al topos, ma lo rielabora e lo rioggettiva, perché non c’è solo il libro della memoria, ma c’è anche il libello, che è quello che il lettore aveva tra le mani. Dante autore in questo passaggio che si configura come una trascrizione ha una funzione di assemblatore. Assemblare è un termine tecnico che indicava l’operazione del copista, siccome indicava il copiare da un modello. La metafora del libro è insistita e usa un linguaggio tipico dell’epoca, in quanto specifico del modo di confezionare i libri. C’è una visualizzazione molto precisa per il lettore medievale. (è un inception di Dante in Dante insomma). Anche libello è un termine tecnico, in quanto forma antica sul calco antico di libellus che indicavano i formati piccoli di libri, contrapposti a quelli da banco. I libri piccoli erano dei libri per uso personale e in genere contenevano opere meno impegnative e di natura diversa rispetto a quelli scolastici e da banco, impossibili da trasportare. La sentenza è un termine specifico per la lettura e commento dei termini antichi: la sententia era il significato, il senso, la morale di un altro testo, la conclusione che si poteva trarre da un testo precedente o da una quaestio filosofica. Dante è qualcuno, quindi, che trascrive e rielabora parzialmente un testo già dato, un grande libro della memoria, che forse era in latino. Fa anche un’operazione di selezione, che era già presente nelle Confessioni di Sant’Agostino, in quanto già il ricordare è un selezionare. Dante si crea un ritratto autoriale e attraverso il percorso memoriale si propone come poeta e autore. Usa una raffigurazione di sé intento a copiare in maniera critica o selettiva alcune parti di un libro preesistente. È un gioco retorico per definire una figura di narratore al lettore con un’operazione estremamente raffinata di riflessione metatestuale. Non solo perché annuncia di parlare del testo, ma perché nel farlo utilizza un’immagine del libro. Il titolo della Vita nova costituisce uno dei più interessanti problemi della critica dantesca di qualche decennio fa, quando uscì l’edizione curata da Gorni, un’edizione critica nuova che ripensava e correggeva quella storica precedente di Barbi. Fra le varie operazioni di Gorni c’era stato un cambiamento del titolo da Vita Nuova a Vita Nova; questa operazione era legata all’immagine iniziale, al fatto che si parlasse incipitariamente proprio di una vita nova e ne recupera la dizione. Da un punto di vista filologico è un’operazione legittima in quanto i testi medievali non hanno dei veri e propri titoli. Gorni, inoltre, sostiene che quel vita nova sia latino dal libro della memoria. Anche la divisione in capitoli di Barbi derivava dalla tradizione a stampa più tarda, proprio come il titolo. Uno dei momenti più famosi e più letti della Vita nova avviene nel Capitolo X, in occasione della narrazione di un momento di creazione di una poesia che si accompagna ad un momento di riflessione su come vada composta una poesia d’amore e sul valore della poesia. È un punto testuale di grande importanza. È un punto del testo e pretesto per proporre un nuovo tipo di poesia volgare, secondo cui non sia più poesia d’amore ma anche celebrazione della donna senza secondi fini. Questo momento è determinante per la storia della letteratura successiva. Si aggancia ad un suo cambiamento fondamentale nel fare poesia. Quello che veniva prima non aveva lo stesso valore. La poesia non deve avere un secondo fine, deve essere un atto gratuito nella quale si parla solo bene della donna, a prescindere dalle vicissitudini con essa, che possono essere più o meno positive. Il vero amore e la poesia che lo esprime non si dedica a descrivere le sofferenze o a lamentarsi della donna, ma deve celebrarla ed essere del tutto gratuita. Per un altro aspetto questo vuol dire che la poesia deve essere del tutto autonoma. Sembra la formulazione assoluta di un principio per cui la letteratura e la poesia lirica sia completamente sganciata dal dato di realtà che può stimolare l’occasione, ma deve essere un atto di parola totalmente puro. Da un certo punto di vista è la versione estrema di quello che diceva Bernart de Ventadorn. La poesia della lode presuppone che tutto riguardi solo il vissuto di chi la scrive e il modo in cui lo scrive, senza alcuna ingerenza da parte del dato esterno. Si potrebbe fare riferimento a tanti aspetti della cultura precedente. un punto interessante è il confronto con la poesia provenzale, perché secondo quel codice cortese c’era una dinamica molto rigida, che replica quella del codice feudale, per cui se c’è un servitium amoris questo deve essere come minimo riconosciuto ed accettato per essere valido. Secondo questa dinamica, il problema della posizione della donna, anche se si trattava di una costruzione letteraria, presupponeva che la donna stesse al gioco, anche solo ascoltando la poesia. Quando questo non accade il sistema entra in crisi e anche i trovatori dibattono in alcune tenzoni, basate Lezione IV – Beatrice Fin dal Medioevo i testi idealistici dei poeti hanno evocato domande molto concrete, per contrapposizione. Anche vedere la distanza tra quello che succede concretamente tra la vita di un autore e la sua produzione letteraria è interessante. Lo stesso atteggiamento di uno scrittore verso questi aspetti può costituire una cifra della sua opera. Bisogna anche analizzare la mimesi che si può presentare nella trasposizione dei dati biografici. Dante rappresenta un caso esemplare e rilevante, non solo perché un autore capitale per la cultura europea, ma anche perché in rapporto alla figura di Beatrice e alle altre donne che lo circondano, nella sua carriera poetica si è creato il mito unico di Beatrice. Anche chi vi si è ispirato in seguito, mai si è replicata una figura simile a quella. Emerge un problema metodologico nella critica letteraria filologica, relativo al modo di trattare le fonti. Le fonti per quest’epoca sono esclusivamente testuali, testi relativi alle vite degli autori. Sono testi di tipo letterario, con un problema ulteriore per il trattamento dei dati, oppure di tipo storico-letterario, come i documenti di archivio, che appartengono alla storia di quel tempo e si ricollegano alla figura degli autori in analisi. Sono testi che vanno letti ed interpretati; i dati non possono essere acquisiti in quanto tali. Le fonti sulla biografia di Dante partono da Dante stesso, per quanto vada preso con le pinze. È un autore che parla molto di sé nei suoi testi. È un autore medievale di cui si sa molto, rispetto ad altri autori coevi; non solo per la sua importanza, ma anche perché essendosi conservate opere non solo liriche, ma anche testi ragionati e lettere, in tutti i testi è possibile trovare molti dati personali. Attraverso il Convivio e la Vita Nova si trovano i dati personali maggiori, ma anche attraverso il De vulgari eloquentia si trovano, oltre che nella Commedia, per quanto siano mediati. Tuttavia, i dati post-esilio non sono altrettanto certi come quelli precedenti. Ci sono anche altre fonti importanti, ovvero le vite di Dante, che a partire da Boccaccio, iniziatore di questo genere, raccontano la vita di Dante. Boccaccio scrisse il Trattatello in Laude di Dante18, che doveva esaltarne la grandezza. Il 18 Opera giuntaci in tre redazioni, tutte di mano del Boccaccio: una prima redazione, nota grazie al manoscritto autografo Toledo, più ampia delle altre due, che sono probabilmente compendi, noti come II redazione A e B. La data di composizione è comunemente collocata tra il 1351 e il 1365. L'editio princeps, col titolo Vita di Dante, apparve nel 1477 davanti alla Divina Commedia stampata da Vindelino da Spira. Il titolo "vulgato" aderisce perfettamente al tono di alto e quasi religioso elogio dell'opera, e, sebbene le prime pagine, dove si tocca dell'amore di Dante per Beatrice, abbiano un sapore leziosamente romanzesco, la moderna critica dantesca ha riconosciuto nel Trattatello non poche notizie autentiche attinte alla tradizione orale e apprese dalla viva voce di persone che avevano conosciuto l'Alighieri. Ma la rifusione del materiale biografico non è stata certo cauta e positiva, e intorno alla figura del divino poeta vibra come un alone di leggenda conforme al tipo ideale che, nell'Alighieri, Boccaccio delinea e onora come primo, augusto ed eroico cultore della poesia e della scienza. Così il Trattatello è non meno una laude di Dante che una laude della poesia. Ligio all'estetica medievale è il criterio per cui Boccaccio pone la grandezza e la bellezza della poesia nell'intimo legame di questa con la filosofia. Più nuovo e significativo è invece l'elogio della sapienza e dell'erudizione, aderente allo spirito intimamente laico del Convivio dantesco, ed espressione di freschi entusiasmi per l'erudizione classica. Caratteristica, perché ripresa più tardi dagli umanisti, è la discussione del motivo dell'utilizzo, nella Commedia, del volgare invece del latino: discussione che Boccaccio chiude ricorrendo, in sostanza, alla giustificazione di Dante, già posta innanzi per il suo Convivio, sulla decadenza degli studi liberali, la conoscenza del latino limitata ai soli letterati, la scarsa utilità di un poema scritto in latino, e la conseguente necessità, per Dante, di scrivere il suo poema "in stile atto a' moderni sensi". Trattatello ha almeno due redazioni tra il 1350-55 e una più breve intorno agli anni Sessanta. Ci sono anche altri personaggi, come Leonardo Bruni19, che scrivono queste vite, ripercorrendo le tappe salienti della vita dantesca. Anche Filippo Villani20 si cimenta in questo genere. Tutto quello che viene dopo Boccaccio è basato in buona parte sul suo trattatello. Bisogna, quindi, scindere quello che può risalire ai dati biografici certi e quello che risale alla tradizione letteraria idealizzante del personaggio che ha uno statuto quasi leggendario. Prima di Boccaccio ci sono anche dei commenti che propongono delle indicazioni biografiche. I commenti alla Commedia sono legati al testo della stessa e sono finalizzati a spiegarne dei passi e non a parlare della vita di Dante. Si vuole illuminare il testo dantesco. Ci sono anche i commenti dei figli di Dante. Precedente al Trattatello è solo un commento di Andrea Lancia21, uno dei notai e giudici di Firenze. Il suo commento è stato pubblicato in edizione critica meno di una decade fa. È importante che un autore come Dante definisca la propria voce poetica attraverso il loro modo di cantare la figura femminile. Beatrice è interessante proprio perché è da lei che si forma la voce del poeta lirico. La prima identificazione di Dante, che non sappiamo come si intrecci con Boccaccio (lo anticipa di alcuni anni), è di Andrea Lancia. Egli dà solo un cognome e cita il di lei marito, ma non aggiunge altri dettagli su come si sono conosciuti o quale fosse la loro vicenda. La fonte seguente a cui si riconduce l’identificazione biografica di Beatrice è quella di Boccaccio. La testimonianza in questo caso è molto più lunga ed elaborata e si trova nella prima edizione del Trattatello. 19 Leonardo Bruni, detto Leonardo Aretino (1370 – 1444), è stato un politico, scrittore e umanista italiano originario della Toscana, attivo soprattutto a Firenze, nella cui Repubblica ricoprì la più alta carica di governo (Cancelliere) nella prima metà del Quattrocento. Spesso riconosciuto come il più importante storico umanista del primo Rinascimento, è stato anche indicato come il primo storico moderno. Fu il primo ad utilizzare la divisione della storia in tre periodi: antichità, medioevo, età moderna. Sebbene le date utilizzate da Bruni per definire i periodi non siano esattamente le stesse utilizzate dagli storici contemporanei, egli pose le basi concettuali per la divisione tripartita della storia. 20 Filippo Villani (Firenze, 1325 – 1407) è stato uno scrittore e storico italiano. Era nipote di Giovanni Villani, e figlio di Matteo Villani, di quali continuò la Nuova Cronica. 21 Andrea Lancia (1296 – post 1357) fu un notaio, letterato e copista. [33] Costei adunque, tale quale io la disegno, o forse assai più bella, apparve in questa festa, SENNO; cc co Dci quale, ancora che fanciul fosse con tanta affezione la bella imagine di Ici ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse, non se ne diparti. [34] Quale, ora, questa si fosse niuno il sa; ma, o conformità di complessioni 0 di costumi o speziale influenzia del cielo che in ciò operasse, 0, si come noi per esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de suoni, per la generale allegrezza, per la dilicatezza de’ cibi e de’ vini, gli animi eziandio degli uomini maturi, non che de’ giovinetti, ampliarsi e divenire atti a potere essere leggiermente presi da qualunque cosa che piace, è certo questo esserne divenuto, cioè Dante nella sua pargoletta età fatto damore ferventisimo servidore. [35] Ma, lasciando stare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con la età multiplicarono l’amorose fiamme, intanto che niuna altra cosa gli era piacere 0 riposo 0 conforto, se non il vedere costei. Per la qual cosa, ogni altro affîre lasciandone, sollecitissimo andava là dovunque credeva potere vederla, quasi del viso 0 degli occhi di Ici dovesse attignere ogni suo bene e intera consolazione. Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, prima redazione (1351-55) [44] Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti stare attenti a’ suoi conforti; li quali, come alquanto videro le lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciarono e sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchi chiuse, alquanto le cominciò non solimente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. [45] La qual cosa veggendo ; acciò che, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E, trovata , con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E, acciò che io particularmente non tocchi ciascuna così, dopo lunga tencione, senza mettere guari di tempo in mezzo, - ma: al 9 febbraio del 1277 o 78 risale l'instrumentum dotis di Gemma Donati (come testimonia l'atto del 1329 con il quale Gemma richiese al comune di Firenze la parte dotale dei beni confiscati al marito [46] Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti mortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a’ vostri avvisi, e non sanza ragion le più volte! Chi sarebbe colui che del dolce aere d’Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno ne le cocenti arene di Libia a rinfrescarsi, o dell’isola di Cipri, per riscaldarsi, nelle etterne ombre de’ monti Rodopei? qual medico s'ingegnerà di cacciare l’aguta febre col fuoco, 0 il freddo delle medolla dell’ossa col ghiaccio o con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che con nuova moglie crederà l’amorose tribulazion mitigare. [47] Non conoscono quegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra passione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli alle sue forze, se egli ha ferma radice presa nel cuore di colui che ha lungamente amato. Così come ne’ principii ogni picciola resistenza è giovevole, così nel processo le grandi sogliono essere spesse volte dannose. Ma da ritornare è al proposito, e da concedere al presente che cose sieno, le quali per sé possano l’amorose fatiche fare obliare. 148] Che avrà fatto però chi, per trarmi d’uno pensiero noioso, mi metterà in mille molto maggiori e di più noia? Certo niuna altra cosa, se non che per giunta del male che m’avrà fatto, mi farà disiderare di tornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamo addivenire a’ più, li quali o per uscire o per essere tratti d’alcune fatiche, ciecamente o sammogliano o sono da altrui ammogliati; né prima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, che la pruova, sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n’ha data esperienza. [49] Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché le lagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, come che le lagrime passassero, anzi forse eran passate, sì passò l’amorosa fiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove cose e assai poterono più faticose sopravenire. donna deve segnalare di accettare lo scambio poetico. La poesia si presenta quale equivalente testuale di una forma di omaggio, di servizio, secondo lo schema della società feudale. In questo contesto, il saluto di Beatrice può essere anche considerato come una forma di risposta, una legittimazione a Dante poeta, che le offre i suoi testi amorosi e riceve da lei in cambio il saluto. Il saluto si carica di una valenza simbolica di questa natura. anche la questione della donna schermo è una pratica cortese: secondo una convenzione sociale, si deve nascondere l’identità reale della donna con uno pseudonimo o spostando l’identità della donna su un’altra persona. Dante così si comporta secondo dei dettami da galateo poetico cortese. Non è un caso che Dante parli dei trovatori e dei poeti cortesi come dei primi poeti che hanno dato il via a questo tipo di tradizione e rimangono il suo punto di riferimento. In questa chiave l’atteggiamento di Beatrice è ancorato a questi schemi. Beatrice nega il saluto a Dante, perché in maniera poco consona e discreta, ha manifestato il suo amore per la donna schermo e per questo non lo ritiene più degno della sua benevolenza. Quindi, si stanno comportando secondo lo schema cortese entrambi. Dante rompe lo schema però. Nel momento in cui dice che fino a quel momento il saluto conteneva tutta la sua beatitudine e che ora non c’è più, introduce una svolta rispetto alla tradizione. Formula l’idea di un omaggio poetico sempre rivolto ad una donna, ma che non si pone più in un rapporto di attesa e di dipendenza dalla risposta della donna stessa. Le donne sottopongono Dante ad una prova, chiedendogli come mai continui a scrivere e pensare a Beatrice anche se il sentimento gli provoca angoscia e dolore. Intorno alla parola fine crea un gioco di significazioni diverse rispetto al concetto che cerca di delineare: nel primo caso indica un obiettivo concreto e va a coincidere con il saluto; più avanti va a indicare il termine e il compimento. È significativo che Dante utilizzi anche il termine mercede, di cui sicuramente conosceva i risvolti in ambito cortese. Vi è una formulazione sintetica di quella che dopo verrà definita poesia della lode. Al saluto si sostituisce un qualcosa di attivo, è il poeta che attivamente con le parole loda la donna. La poesia lirica amorosa nella sua forma più elevata non è identificata genericamente come un’esaltazione della donna, ma specificamente come una forma particolare del discorso, in cui è la parola poetica stessa a racchiudere autonomamente quello che prima dipendeva dalla risposta della donna, ovvero la beatitudine. Si ha una concezione della poesia amorosa nella quale si costituisce un momento importantissimo di svolta e passaggio anche per i poeti delle generazioni successive. In questa chiave propone di rileggere la storia della poesia lirica che lo precede, almeno quella in lingua toscana, perché questo valore della svolta poetica è certificato da egli stesso. Non si hanno altre testimonianze della sua stessa epoca che attestano la rivoluzione poetica. Il valore importantissimo di ciò viene ripreso nella Commedia con un richiamo esplicito, con una citazione alla canzone Donne voi c’avete (Purg. XXIV). Questi versi istituiscono una separazione tra un prima e un dopo nella poesia toscana, di cui fa parte anche Dante. Inoltre, presentano una specie di programma poetico, racchiuso nella terzina precisa. La parola amorosa ha ora una relazione con l’interiorità del soggetto. C’è una dialettica molto interessante fra vari momenti che in nemmeno tre versi viene espressa. Questa origine della poetica non è un evento unico, ma è un processo che avviene con la collaborazione di più istanze. Amore assume un ruolo centrale. Ci si trova nella cornice dei golosi. Dante incontra un poeta, Bonagiunta degli Orbicciani, il più importante degli esponenti della poesia siculo-toscana, vissuto e morto a Lucca. È di una generazione precedente a Dante. Faceva il giudice e aveva una professione intellettuale laica, che prevede una certa erudizione e attenzione ai fenomeni letterari del tempo. Era un poeta importante per la sua epoca e dialoga molto con Guido Guinizelli24 e con cui intrattiene delle tenzoni sugli stili della poesia in lingua volgare. È un grande rappresentante del prima, di quella poesia che Dante stesso ha ormai superato. Questo dialogo così prettamente poetico ha una radice nel canto precedente. I Canti dal XXIII al XXVI sono infatti definiti come la Galleria dei poeti volgari, dal momento che Dante parla con personaggi spiritici che erano poeti in lingua volgare. Con loro Dante affronta anche questioni di poesia. Nel XXIII c’è Forese Donati25, poi Bonagiunta nel XXIV, con la citazione di Jacopo da Lentini26 e Guittone d’Arezzo27, nel XXV si occupa tutto con una spiegazione di Virgilio sulla nascita dell’anima nel corpo, idea legata con Cavalcanti, che non era mai stato citato esplicitamente; infine nel XXVI c’è il dialogo con Guinizelli, al quale Dante si è ispirato per molti espressioni della sua poetica, tra cui per la poesia della lode. Il XXVI si chiude con una voce particolare, quella di Arnault Daniel28, celebrato come il miglior fabbro del parlar materno. È l’unico personaggio della Commedia che parla in una lingua diversa dal volgare italiano, ovvero il provenzale occitano. In questi canti Dante si confronta in maniera chiara con la poesia volgare che lo precede. Rappresenta in forma narrativa una sorta di storia della poesia precedente e contemporanea, che prevede anche delle valutazioni e dei giudizi di valore, una sorta di micro-storia letteraria che viene fuori dalle prese di parola dei personaggi. Questo ha un punto forte nei momenti in cui espone il proprio credo. Nel discorso con Bonagiunta è come se Dante si ridoppiasse. Dal Dante personaggio emerge il Dante autore. Qui si trova, inoltre, l’unica attestazione del termine stilnovo in epoca medievale, che deriva di nuovo da Dante. Su questo però c’è un dibattito. La risposta di Dante a Bonagiunta è riferita ad una domanda implicita, che passa attraverso l’aggettivo nove. Giustifica la novità delle sue rime. Dante dice che dopo essersi separato dalle donne che lo avevano interrogato era rimasto molto turbato. Pensando a quella vicenda e a come potesse realizzare la poesia della lode, la lingua parlò da sé. Sta descrivendo una cosa rarissima della poesia antica, siccome sta rappresentando un momento specifico di nascita del testo. È un tema molto moderno, che impegnerà gli scrittori di molti secoli innanzi. C’è una sorta di folgorazione istantanea che riguarda il primo verso della canzone, che è rappresentata anche dal modo in cui la rievoca nel Purgatorio. Il verbo 24 Guido Guinizelli (1235 – 1276), è stato un poeta e giudice italiano. Poeta di grande novità rispetto alla precedente Scuola siciliana e a quella toscana, è considerato l'iniziatore e l'inventore del Dolce stil novo, la corrente letteraria italiana del XIII secolo di cui la sua canzone Al cor gentil rempaira sempre amore è considerata il manifesto ufficiale. Anche se la sua biografia mantiene zone d'ombra, Guinizelli occupa un posto di rilievo nella storia della letteratura italiana; la sua produzione lirica fu molto apprezzata dai contemporanei e dallo stesso Dante Alighieri, che non esitò a dichiararlo, con ammirazione e commozione, padre suo e quindi maestro, nel canto XXVI del Purgatorio. È anche noto come giullare, che faceva divertire gli ammalati donando loro un po' di sorriso e affetto. 25 Forese Donati (1250 circa – 1296) è stato un poeta italiano. Amico di Dante Alighieri, è con costui protagonista della celebre tenzone e dei canti XXIII e XXIV del Purgatorio. 26 Giacomo da Lentini, conosciuto come Iacopo da Lentini o "Il Notaro" (1210 circa – 1260 circa), è stato un poeta e notaio italiano. Tra i principali esponenti della Scuola siciliana, è considerato l'ideatore del sonetto. 27 Guittone d'Arezzo (1230/1235 – 1294) è stato un poeta e religioso italiano dell'Ordine dei Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria (Gaudenti). 28 Arnaut Daniel (1150 circa – 1210 circa), è stato un poeta e trovatore francese di lingua occitana. spira è legato a diversi termini, tra cui spirito, che può indicare sia gli elementi della fisiologia umana sia lo Spirito Santo, che ispira i legami d’amore delle creature. Descrive la sua idea sull’origine della poesia come un processo. Quando amore lo ispira “nota” e poi trascrive. I due passaggi sono tra l’ispirazione e la dettatura interna, mentre poi l’io lirico nota e trascrive. L’autore della poesia così non sarebbe Dante, ma Amore. Le nuove rime sono un risultato della sua fedeltà di copista a quello che dice Amore. Per quanto riguarda il verbo noto indica non solo l’annotare, ma anche un riferimento alla nota musicale. Introduce poi il verbo dettare per la specifica poesia. Durante il XII-XIII secolo era rarissimo che un autore scrivesse da sé la propria opera, ma di solito dettava ad uno o più scribi quello che diceva (es. Il Milione di Marco Polo). Questo avviene anche per Dante e Amore, rendendo l’immagine molto concreta. Purgatorio XXIV, vv. 49-69 E io a lui: «I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando». spirare + dittare notare + significare Purgatorio XXIV, vv. 49-69 E io a lui: «I' mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch'e' ditta dentro vo significando». lat. modus: valenza musicale, durata e altezza del suono «Saepe dicitur de mensura sonorum et vocum, unde musica ratio, et carminum metra constant» («spesso si dice della misura dei suoni e delle voci, da cui la ‘musica trae la sua essenza, il suo senso, e che in poesia è costituito dalla scansione metrica»: A. Forecellini, Lexicon totius latinitatis) lat. e it. noto: può valere sia come “annoto”, sia come “trascrivo le note” Dante, Vita nuova XX (segue Donne ch'avete intelletto d'amore) Amore e 'l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dictare pone, e così esser l'un senza l'altro osa, com'alma rational sanza ragione. Falli Natura quand'è amorosa, Amor per sire e 'l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Biltate appare in saggia donna poi, che piace agli occhi sì, che dentro al core nasce un disio della cosa piacente; e tanto dura talora in costui, che fa svegliar lo spirito d'Amore. E simil face in donna omo valente. Nel testo dantesco ci sono delle fonti più o meno dichiarate, che sono inserite per l’espressione del proprio credo poetico. Le sovrapposizioni e gli intrecci del testo sono particolarmente fitti e complessi dato che questo tipo di discorso va messo in relazione sia con il testo religioso sia con il credo poetico di Bernart de Ventadorn, che eredita lo stesso tipo di pensiero, ricorrendo sempre alla fonte latina dello Pseudo-Riccardo. Ci sono una serie di rime di influenza, tanto sul piano religioso e latino quanto su quello profano, che trovano questa sintesi quasi perfetta. A un primo sguardo può sembrare che Dante non proponga qualcosa di coì nuovo. Questo passo insiste molto sulla nozione di novità; si può pensare che si tratti di una novità se si pensa che l’unica origine della poesia è il sentimento amoroso e si esclude qualsiasi altro tipo di ingerenza del mondo reale. Una strada che può essere usata per interpretarlo attraversa l’immagine espressa dai versi e il modo con cui rappresenta l’ispirazione e la presenza totalizzante dell’amore nel cuore. Dante si rappresenta nei panni di qualcuno che scrive sotto dettatura e che secondo la logica di questa azione, il vero autore del testo poetico è l’Amore personificato. La personificazione di Amore di per sé non è una novità dantesca, siccome è una modalità già classica e antica, ma su questa scia viene riproposta come un grande topos. Questo modo di parlare dell’amore è logico ritrovarlo in produzioni letterarie così fortemente segnate dal codice cortese feudale. Questo modo di raffigurare l’amore è così presente e frequente da dare origine a un vero dibattito poetico che passa attraverso varie generazioni di poeti provenzali e no. Ci si chiede se l’amore sia sostanza o accidente e rimane una questione che rimane fino ai poeti toscani, tanto che anche i giovani Dante e Cavalcanti partecipano a delle tenzioni sul fatto se sia lecito o meno utilizzare la personificazione d’amore nella poesia profana. C’è di mezzo la questione sulla prosopopea d’amore per rendere lecita la grandezza della questione in cui si inserisce. Dante nella Vita Nova non tratta il tema solo teoricamente, ma lo utilizza anche come giustificazione. Nel Canto XXIV del Purgatorio si trova una nuova personificazione dell’amore per cui non è più solo colui che ispira la passione amorosa, ma come colui che concepisce e detta la poesia a Dante. È un amore autore dell’opera poetica. Bisogna aprire una parentesi su cosa si intenda per autore all’epoca. Un primo punto si ricollega all’auctoritas, ovvero all’appartenenza di una tradizione antica e quindi può diventare modello per i successivi. Tuttavia, c’è anche una questione più complessa sul perché gli auctores siano autorevoli. La domanda porta su un piano profondo dell’alterità del medioevo, anche se vicina a problemi di epoche più recenti. C’è una radice di definizione dell’autore che ha a che fare con la tendenza medievale del basarsi sulla tradizione per legittimare il presente. Questo non significa che gli scrittori e gli intellettuali si ponga in maniera acritica rispetto a questo problema, anzi per Dante e per la sua generazione, che introducono una letteratura nuova, questo è un aspetto che si presenta con particolare urgenza. È impellente per Dante legittimare lo statuto dei rimatori volgari come poeti e, quindi, assimilabili agli auctores classici. Per considerare questo aspetto bisogna vedere anche un altro approccio che definisce nel periodo dantesco ciò che si definisce come autore, ovvero di artefice di un testo, che può essere letterario o no. Con artefice si indica qualcuno che produce il testo con un significato per cui la dimensione astratta e mentale di creazione del testo non è scissa da quella materiale della trascrizione. In questa dimensione è interessante ricordare come Dante stesso definisce un auctor: nel Convivio c’è un testo in cui Dante sostiene l’etimologia di autore, in maniera piuttosto forzata, sostenendo che abbia a che fare con il legare insieme, armoniosamente e compiutamente, una serie di pensieri. In epoca medievale esiste una definizione vera e propria del termine autore, la quale risale a San Bonaventura, che commentando il testo di Pietro Lombardo in un’opera di esegesi, propone una nuova distinzione fra varie figure legate alla produzione di un testo. C’è una sorta di gradualità di produzione del testo. San Bonaventura dice che esistono quattro modi di fare un libro: lo scriba prende le cose di un altro e le trascrive senza aggiungere niente di suo; il compilatore è colui che prende le cose di un altro per la maggior parte e le unisce alle cose di altri; c’è il commentatore che è colui che aggiunge molto di suo, ma non quanto quello di cui prende; l’autore prende le cose di altri, ma quelle di suo pugno sono molte di più, producendo un’opera nuova. La parte rilevante di questa classificazione è il fatto che l’idea moderna di autorialità non è proprio prevista, come se non si desse la possibilità di scrivere qualcosa di completamente nuovo: c’è sempre un’auctoritas e una tradizione gli altri. Da lì parte una serie di metafore simili per ragionare sulla materia poetica. L’immagine delle penne, con l’immagine dinamica del movimento dei poeti che seguono l’amore, induce anche a pensare al volo. Anche questo aspetto si presta ad essere integrato con alcune considerazioni di ordine testuale. Questa assimilazione del poeta con l’uccello passa attraverso l’immagine della voce, ma anche quella del volo era già presente, introdotta nel discorso da un sonetto facente parte di una tenzone tra Bonagiunta e Guinizelli. I due poeti si scontrano in merito a questioni di poesia e dello stile che è opportuno tenere nelle poesie in lingua volgare. Lo stesso Buonagiunta con atteggiamento antitetico non solo non fa autocritica, ma rimprovera Guinizelli, perché secondo lui avrebbe introdotto delle novità nella poesia del suo tempo che non sono accettabili, in quanto avrebbe adottato uno stile di scrittura troppo difficile, sottile e pieno di riferimenti colti ad argomenti di natura filosofica o di natura biblica. Parla della poesia di Guinizelli come di una nuova maniera poetica. Guinizelli si difende da questa accusa, con un atteggiamento che autori del Cinquecento avrebbero definito come sprezzatura, ovvero quell’atteggiamento nobile che sorvola e non si fa toccare da certi comportamenti. Bonagiunta è un poeta che gode di uno statuto particolare con Dante, che gli consente di usare delle parole in lucchese. Un contemporaneo di Dante che conoscesse queste polemiche, poteva ricondurre tutto quello che era successo alle parole di Dante nel Purgatorio. Quindi, sono immagini dalla grande pertinenza inter e intratestuale. Un’altra linea di contestualizzazione interessante da evocare è quella relativa alla collocazione del personaggio di Bonagiunta nel Purgatorio. La coerenza non va guardata solo relativamente alla realtà storica o letteraria, ma anche in altri luoghi. Nel De vulgari eloquentia si propone un altro problema, sempre ricollegabile al tema metapoetico, in cui Dante si confronta con la rappresentazione degli autori precedenti. Le affermazioni critiche verso la poesia di Bonagiunta o di Guittone non sono lasciate implicite, ma sono espresse chiaramente e vengono legate all’uso della lingua poetica. Bonagiunta e Guittone sono colpevoli di essere stati troppo municipali e non si sono purificati da quelle variazioni linguistiche locali, che sono solo un bene di pochi, e non sono volti ad una lingua unificante. Dante usa anche toni ironici nel presentarlo e nell’ammendare. È interessante segnalare un fatto linguistico, legato al termine infruniti, che si riferisce al non riuscire a mantenere una moderazione sul cibo. Il nodo sarebbe un punto di passaggio tra il vecchio e il nuovo, quel passaggio che distinguerebbe la poesia di Dante da quella dei precedenti. Anche il verbo udire è importante in quanto ricorda il tema della voce e del canto, che porta ad un suono udibile. Bisogna considerare quale sia stata l’accezione con cui la serie lirica sia stata utilizzata da Dante nel canto precedente, nel Canto XXIII del Purgatorio. Il contesto della Commedia è strutturato in maniera precisa non solo nei contenuti, ma anche a un livello più generale, attraverso i ritorni di parole, le riprese e le ripetizioni di catene lessicali. In sede rimica, quando si parla di serie di tre rimandi, la ripetizione si carica di valori ulteriori, perché delimitano uno spazio semantico più circoscritto e la loro rievocazione in vari luoghi del testo inserisce delle riprese strutturali. È come se Dante volesse fare appello in maniera implicita alla memoria del lettore, ricorrendo ad uno strumento ermeneutico ulteriore, suggerendo dei collegamenti non espliciti, ma segnalati dalle serie rimiche. I luoghi non sono tali perché detti dal poeta, ma che attivano nel lettore la visione retrospettiva (C. Singleton). Si suggerisce un’architettura basata sulla memoria e sulla rievocazione di parole e con una dimensione particolarmente drammatico-teatrale con la partecipazione di personaggi in spazi delimitati. La serie rimica nodo, modo e odo, era già comparsa. Si lega sempre alla percezione dei sensi, come nel canto dei superbi. Degli studiosi hanno notato che la parola nodo sembra quasi disseminata sonoramente nei versi del Canto XXIV del Purgatorio. Nel Libro X della Vita Nova c’è un’importantissima riflessione circa la scrittura poetica in lingua volgare. Nell’idea della vischiosità della storia si cela un’implicazione secondo cui non è necessario che un autore abbia presente, quando scrive, tutta la serie di riferimenti intertestuali che un lettore ci può trovare. Secondo Segre, si possono notare citazioni palesi della Commedia nel Furioso, ma in quella stessa zona testuale si possono cogliere altri riferimenti meno visibili e/o pertinenti, ricollegati a processi memoriali e cognitivi dell’autore. Questo avviene anche nel passo della Vita Nova, dove Dante riprende il termine noto, o meglio lo anticipa rispetto alla Commedia. Il dolce stil novo è una categoria poetica non è del medioevo. Si parla dello Stilnovo come si parla dell’Ermetismo e del Manierismo, come se fosse una corrente poetica di vari autori che condividevano punti programmatici. Questo però non avviene per lo Stilnovo. Solo nel Canto XXIV del Purgatorio c’è la dizione di Stil Novo. Nella versione del 2001 curata da Sanguineti della Commedia vi è una leggera modifica alla dicitura dantesca. Anche in altri manoscritti e momenti della tradizione della Commedia ci sono alcune alternative sulla nomenclatura di Stil Novo, rispetto a quella del Petrocchi. Non si arriva ad un’adozione definitiva basandosi sui manoscritti. [Saggio Bologna 1] Questo è un saggio di riflessione sulle varie voci del Medioevo. È importante il tema della dimensione interiore del soggetto. Questo saggio è introdotto da una citazione di Sant’Agostino che ha un significato preciso. impostazione sarebbero più vicini ad una comprensione della verità rispetto ai sensi esterni, che sono troppo esposti al rischio di un coinvolgimento troppo intenso con la dimensione terrena e materiale. Questi uomini del medioevo si concentrano anche su quello che succede dentro l’uomo, soffermandosi sulla descrizione di una serie di tratti psicologici e dinamiche legate ad affetti ed emozioni, anche come via verso la perfezione della vita religiosa che va a coincidere con uno stato di benessere generale dell’individuo. Lo stesso sentimento amoroso non è estraneo ad un’idea della spazializzazione e al linguaggio metaforico- allegorico. Ciò lo si vede attraverso una costatazione generale e fondamentale per questi autori. L’amore si configura come non esperienza statica, come già data che influisce sul soggetto, ma come dinamismo, che si basa su una forma di movimento. Nelle Confessioni Agostino narra le proprie esperienze in prima persona e con una successione cronologica ordinata, per creare un percorso. Racconta in prima persona l’importanza della riflessione sull’interiorità. L’io dialoga con un tu ipotetico, un soggetto esterno, che dà senso al percorso creato. Sono composte da tredici parti e nelle prime nove si trova la vera narrazione autobiografica, che comincia dalla nascita e termina con la conversione al cristianesimo. Gli altri libri sono dedicati a delle riflessioni su alcune realtà importanti e determinanti per l’essere umano e il suo rapporto con il divino. Il X è dedicato alla memoria, in quanto luogo in cui avviene il processo di ritrovamento di un’identità e di una storia personale, per passare poi alla riflessione sul tempo, dimensione molto collegata alla memoria. Il passato è il presente della memoria, mentre il futuro è la speranza del presente. Il presente è l’unico tempo veramente esistente, ma non definibile e afferrabile. Agostino ragiona sulla realtà trinitaria e finisce poi con il XIII libro sullo spirito santo. È importante questa conclusione per la riflessione dogmatica. Si intrecciano così bene gli elementi della rappresentazione spaziale, in cui l’amore è un dinamismo. Usa anche delle nozioni di fisica aristotelica. La filosofia antica, sulla base della metafisica aristotelica, asseriva che ogni elemento avesse il suo luogo e che il movimento dei corpi sia animato dal desiderio di tornare al luogo che gli è proprio. Giustifica esplicitamente l’utilizzo metaforico della spazialità per spiegare le interiorità e spiritualità. Nel X Libro la memoria diventa un paesaggio descritto con varie declinazioni e aspetti. Ugo di San Vittore scrisse l’Arca di Noè. Scrisse trattati su come leggere e interpretare la Bibbia nel medioevo, ma anche sulle arti liberali che venivano studiate ed insegnate nei secoli dal XII in poi, fino alla fine della scolastica, basti pensare al Didascalicon. Il passo si riferisce all’episodio della costruzione dell’arca di Noè. Tutto il trattato si concentra su questo luogo della Bibbia, o meglio, sulla descrizione di come debba essere costruita l’arca presente nella Genesi. Serve anche per parlare dell’edificazione interiore e per proporre un’idea dell’interiorità umana che si pone in parallelo con l’arca, oggetto della storia umana. L’idea alla base è l’idea di edificare la propria interiorità, come Noè ha edificato l’arca per salvarsi dall’instabilità del peccato. Accosta la situazione attuale a quella del diluvio universale: chi non ha un’arca viene spazzato via dalla tempesta delle emozioni e dell’instabilità del cuore. C’è anche chi ha l’arca ma non ci sale sopra. Ci sono poi quelli che usano l’arca per salvarsi. Il seguito dell’analogia prevede che il primo gruppo siano gli infedeli, i secondi siano i peccatori, mentre gli ultimi sono coloro che seguono i precetti della fede. Questa idea può essere applicata anche più generalmente all’idea di evoluzione interiore e dell’edificazione. Con una modalità esortativa, anche molto emotiva che spesso è presente nei testi, che si discosta dal ragionamento discorsivo e che serve per avvicinarsi al lettore, Ugo chiede al lettore di creare un rifugio per Dio, non solo un’arca. In Riccardo di San Vittore, discepolo di Ugo, si trasmette l’idea di dentro e fuori. Questa componente della cultura medievale è più proiettata sull’idea dell’interiorità come spazio chiuso e come soggetto protagonista dell’esperienza. Non è un caso che siano rielaborazioni di ambito monastico, quindi che vive anche realmente in spazi di quel tipo. Questa è una canzone fondativa, anche dato il valore che Dante le attribuisce, per una serie di elementi di innovazione che presenta. Rappresenta in maniera particolare la natura e gli effetti del sentimento amoroso. La canzone si apre in maniera topica con un’allocuzione alle donne, chiamate in causa come interlocutrici ideali per un discorso poetico di questo genere. La canzone si pone in continuità con delle modalità topiche di esordio ormai presenti e ben radicate, soprattutto nella cultura lirica volgare, basti pensare L’amore descritto da Dante ha delle implicazioni trascendenti, ma non nasce come amore divino, bensì come amore terreno. Molto spesso nel testo ci si ferma alla dimensione filosofica, anche attraverso la ripresa di Cavalcanti, pensando ad una rielaborazione dantesca nel contesto della filosofia medievale. Colpisce il fatto che l’unico altro testo noto, in cui esiste un’occorrenza testuale del sintagma intelletto d’amore non deriva dalla filosofia, ma da quel panorama di cultura religiosa, da quei riflessioni e trattati del XII secolo dedicati al tema amoroso. Nella cultura volgare non si conoscono altre occorrenze del sintagma intelletto d’amore, ma compare in un brano in latino di Guglielmo di Saint- Thierry. È un brano esegetico del canto dei cantici, il libro biblico dalle connotazioni poetiche che è al centro dei dibattiti medievali su amor sacro e amor profano nel medioevo. Questo autore è contemporaneo di San Bernardo e le sue opere sono confuse per quelle del Santo. Parla di intelletto d’amore quando la dimensione conoscitiva e razionale dell’uomo si sintonizza con quella affettiva, collaborando tra loro e mettendo a parte i contrasti, avvicinandosi così all’amore spirituale. È interessante anche l’intreccio con il termine illuminare, che agisce nel dinamismo. In un passo successivo continua ad affrontare il tema, con un modo simile a quello di Riccardo di San Vittore e del suo maestro. Bisogna anche affrontare il problema metatestuale e come si possa parlare dell’amore e quando. Dante parla di questo tema per tre canzoni, che poi vengono riprese anche nella Commedia. Voi che intendete il terzo… si riferisce agli angeli e succede Donne che avete intelletto e Amore che nella mente. Sono presenti anche nel Convivio e nella Vita Nova. Casella è una delle voci importanti della cultura medievale. Probabilmente era un giullare e quindi dava voce ai componimenti di altri. Casella personaggio riconosce Dante personaggio e inizia a cantarne la canzone. Dante autore non esplicita la paternità della canzone. Il canto genera dolcezza, molto pronunciata, e rimarcata anche dal testo. Genera anche una sorta di estasi, un’astrazione rispetto al testo circostante. Nel seguito del canto arriva Catone che li rimprovera. Nell’altra canzone non si parla più dell’intelletto, ma della mente, l’altro luogo che contiene l’amore. Lezione VII – I giullari e l’oralità Finora ci si è occupati della voce del poeta, inteso come funzione autoriale, non in senso biografico. Si è considerato il tema della voce in una dimensione metaforica, dove voce significa prendere la parola e costruire un’identità autoriale che ha certe sue caratteristiche, risponde a un certo codice (retorico, stilistico, linguistico). È una delle prospettive più complesse dalle quali si può analizzare la polifonia del medioevo. Questa dimensione si accompagna a una presenza della voce intesa nel suo senso concreto, di una parola pronunciata e parlata (non solo scritta). Vi è una distinzione fra voce e parola, un aspetto in cui si riflette nel volume Flatus vocis di Corrado Bologna, un volume molto articolato e molto ricco. Nel libro si pone una distinzione tra voce come pura sonorità, che non è già articolata e determinata in una parola, un segno sonoro con un significato convenzionale. Voce e parola da un punto di vista concettuale non si sovrappongono come nozioni nella misura in cui la parola parlata ricorre alla voce. Non necessariamente la voce corrisponde a una parola. Tenendo presente la distinzione, che può sembrare teorica, che nell’età medievale la voce, intesa come parola poetica, è contraddistinta da una continuità molto intensa e molto più elevata di quanto si è abituati a vedere con la parola attraverso la voce. Questo è un aspetto determinante, che può sembrare molto semplice, perché porta a considerare non l’interpretazione del testo (per il quale si può fare riferimento a dei dati concreti), ma definire che cosa significa l’oralità nel medioevo non è cosa semplice. Vi è un primo motivo di ordine concreto: non si ha nessuna traccia di quello di cui si sta parlando. Questo è vero in parte anche per i testi, poiché non si hanno gli autografi degli autori medievali, ma in questo caso la misura dello scarto è inferiore. Il concetto di oralità è definito, perciò, sulla base di fonti scritte e iconografiche (quello che sarebbe l’altro polo della complementarità parola-scrittura). Vi è un’inevitabile trasformazione di quanto possiamo dire attraverso questo filtro di indagine. Si tratta di una premessa importante. Il filtro della ricostruzione storica priva di un contatto reale con la voce di quel periodo. Questo avviene anche in altri campi: come la linguistica storica, dove si ricostruisce la realtà linguistica sulla base di ipotesi. Non si ha una certezza che quello che si ricostruisce sia veramente simile al vero. Bisogna considerare che il medioevo è un’età complessa e gerarchizzata, basata su distinzioni fra ruoli e caratteristiche, anche la dimensione dell’oralità (si ricordi Contini che dice che se conosciamo una parte del corpus letterario di quei tempi, non si dimentichi che esisteva un’oralità ricchissima) era affidata a delle figure intermedie che incarnavano il testo pronunciato a parole. La figura più rappresentativa di questo gruppo è il giullare: un personaggio che può assumere varie identità e vari ruoli, anche diversi fra loro, a cui è affidato il compito di eseguire davanti a un pubblico contenuti di ordine letterario ma non solo. Se ne ha avuto un esempio indiretto attraverso la figura di Casella, nel Canto II del Purgatorio. Nella rappresentazione della scena, Dante, con disinvoltura, indifferenti, il protagonista è appunto il giullare. Definire che cosa sia il giullare non è cosa affatto semplice. Vi è un ampio ventaglio di situazioni possibili che possiamo accompagnare questo personaggio. È interessante ricordare che l’origine del termine, nelle lingue volgare, è la parola latina iocularis, un termine derivato da iocum, inteso nel senso esteso del termine, come intrattenimento, divertimento. La parola italiana giullare, più che collegarsi al termine latino, sembra piuttosto venire dal provenzale e dalla cultura cortese. Ioculator è attestato prima del tardo medioevo: la figura del mediatore è ovviamente più antica ed è legata alla professione del divertimento, che dedica la propria professionalità a un pubblico ampio. Questa figura può trascendere anche ad una dimensione più elevata della fruizione: dal gioco alla danza, all’esecuzione di testi e opere letterarie molto complesse. Questa figura nasce dal mondo popolare, nell’intrattenimento e nella cultura, assumerà poi forme di manifestazione della letteratura colta. Una spia è ricavabile da un dato documentario: le prime trascrizioni che noi conosciamo di natura letteraria in lingua volgare si collegano alla dimensione giullaresca. Il ruolo del giullare si presta anche all’esecuzione e alla diffusione di opere letterarie più complesse. Questo per non parlare della poesia nella sua dimensione religiosa, arrivando alla lirica, la manifestazione più elevata e aulica. Il giullare assume la figura tipica del mediatore. Si tratta di una figura trasversale, legata al mondo clericale, ma che si dedica anche a contenuti poco edificanti, sono presenti nel mondo comunale, possono avere varie competenze, legate anche all’utilizzo della scrittura e a una conoscenza tecnica della musica. Non sorprenderà che il giullare sia una figura considerata con una certa ambivalenza nel periodo medievale, spesso oggetto di disprezzo e di riprovazione. Nel vocabolario medievale non esiste una distinzione semantica nell’indicazione dei compiti del giullare e questo farebbe sembrare che si trattasse di una figura sola. Gli studiosi si sono chiesti se la letteratura epica avesse un’origine puramente orale oppure opere colte eseguite dai giullari e poi messe per iscritto o se vi sia stata una collaborazione tra giullari e chierici, per fissare le opere attraverso la scrittura. A questi problemi non vi è una risposta classica: quella data da Bédier, il quale osservava che la maggior parte dei manoscritti erano stati realizzati in prossimità di monasteri o di vie di pellegrinaggio, e sosteneva che queste opere sarebbero state raccolte dai chierici. In realtà il patrimonio culturale epico non viene mai fissato una volta per tutte, ma vi è una variabilità estrema, dove l’autore o lo scrittore interviene e modifica. Una risposta più chiara è possibile da dare nel caso dei giullari di corte. Vi è una distinzione molto importante tra la figura del giullare e del predicatore: le performance giullaresche prevedono nella maggior parte dei casi la musica. L’epica, le rappresentazioni religiose prevedevano se non altro un’intonazione musicale, cosa che nella predica non c’è. Mentre il giullare rimane salvo pochissimi casi una figura individualmente anonima (si conoscono pochi individui che sono stati giullari), per i predicatori vi è invece un aspetto dell’individualità molto più forte. I predicatori spesso si costruiscono un personaggio, Bernardino aveva un suo personaggio fisico, esibiva degli elementi sempre costanti e simbolici, che passavano attraverso la dimensione del corpo. Da un certo momento in poi, in coincidenza con la nascita della letteratura volgare colta, inizia a essere riconoscibile una differenziazione più forte fra varie figure di giullari. La permeabilità di questi mondi rimane comunque aperta. La distinzione riguarda i giullari di piazza, quelli che comunicano con le grandi masse, e i giullari di corte, figure legate a un determinato ambiente. È la contrapposizione che contraddistingue un periodo medievale della cultura delle corti e quella comunale e borghese della piazza. I giullari di corte hanno un repertorio costituito esclusivamente dalla lirica cortese, il modello della poesia colta in volgare italiano, e da materiale narrativo (romanzi cavallereschi). Essi hanno un repertorio molto più definito che richiede competenze specifiche di lettura e di scrittura. La lirica cortese viene, infatti, creata come testo scritto, anche se viene eseguita oralmente. Potremmo chiederci quale sia la vera raffinato di applicazione della logica della razò è la Vita Nova di Dante (in cui, però, è lo stesso poeta a scrivere i commenti, mentre le razos sono componimenti successivi). L’aneddoto è esemplificativo della continuità e della differenza fra le due figure. Il racconto è interessante se si vuole riflettere in maniera più ampia sulla funzione dell’autore. È possibile interrogarsi e chiedersi che cosa veramente faccia il giullare. Ad Arnaut viene addirittura attribuita una composizione non sua. Vi è un gioco di prospettive rilevante, perché ciò dimostra la fluidità delle attività legate alla letteratura. Questa fluidità si collega alla dimensione dell’oralità e della mediazione con il pubblico, lo spazio dove trovatore e giullare si incontrano. La storia non funzionerebbe se ci fosse un testo scritto, perché non funzionerebbe la dimensione comica e burlesca. Si passa ora al modo in cui tutto il discorso, che caratterizza la nascita della poesia alta in lingua volgare, si trasferisca poi nella poesia e nella letteratura italiana. Vi è un momento nel passaggio dalla poesia cortese cavalleresca verso quella italiana che ci è noto: quello più dimostrato e ricostruibile che coinvolge la scuola siciliana. I poeti della scuola siciliana, nell’introdurre una tradizione colta nuova, traducono delle poesie dei trovatori. Vi è un passaggio ricostruibile in modo molto ampio e interdiscorsivo che è dimostrabile. È celebre l’esempio di Madonna dir vo’ voglio, traduzione di una poesia di Folchetto di Marsiglia35, una poesia che apre il codice Vat.Lat. 379336 e che inaugura il canone della letteratura italiana delle origini. L’esempio racchiude nella pagina un’istantanea di questi passaggi: la prima canzone nel canone della poesia italiana è un rifacimento di una poesia dei provenzali. Il ragionamento può essere esteso a tutti i siciliani, che hanno un rapporto stretto con la scuola 35 Folchetto da Marsiglia, anche noto come Folco di Tolosa (1155 circa – 1231), è stato un vescovo cattolico e trovatore occitano ed è venerato come beato dai Cistercensi. 36 Il codice siglato Vaticano latino 3793 è il più ampio manoscritto della lirica italiana delle origini: contiene circa mille componimenti, mentre tutti gli altri manoscritti di poesia "pre-stilnovista" oltrepassano appena, nell'insieme, il numero di cinquecento. La raccolta è divisa in due parti: la prima comprende solo canzoni (137), la seconda sonetti (670). Nell'ordinamento del progetto, nella struttura e nell'ordine degli autori, presumibilmente dovuti allo scriba che copiò la maggior parte dei testi, è stato da più critici ravvisato un preciso disegno storiografico che traccia l'evoluzione della lirica volgare italiana dalla cosiddetta Scuola siciliana, attraverso i poeti Siculo-toscani, fino a Dante e al cosiddetto Amico di Dante. trobadorica. Si può documentare un legame anche su moltissimi altri poeti della scuola siciliana: numerose poesie sono delle analoghe traduzioni e rifacimenti di poesie provenzali (queste sono quelle che si è in grado di ricostruire, se si pensa che la poesia tradotta di Folchetto sia conservata in un unico esemplare). Questo tipo di rapporto ha sollevato questioni intorno alla figura del poeta e al ruolo che questi personaggi assumono all’interno della corte. Non vi è dubbio che i poeti siciliani incarnino una tipologia di autore diverso. Prima di arrivare alla questione dei rapporti fra questi due ambienti, si analizza una testimonianza iconografica, che qualcuno ha proposto di collegare a un momento di passaggio di consegne e contatto tra la cultura trobadorica e la scuola siciliana. L’affresco si trova a Bassano del Grappa, nei pressi di Padova e Treviso, in una zona dell’Italia settentrionale che faceva parte dei possedimenti di Ezelino da Romano, legata all’imperatore Federico II da un patto di fedeltà. In questa corte si sarebbe anche rifugiato Uc de Saint Circ, autore della maggior parte delle vidas trobadoriche e che diede vita in questo territorio a un’officina di trascrizione e di diffusione della poesia trobadorica, nella forma dei canzonieri provenzali. A Uc si collega la prima raccolta organizzata in forma di libro del corpus dei trovatori, in forma di canone letterario autorevole, rispetto all’epoca precedente dove si riteneva che la poesia circolasse in modo più occasionale, su supporti di scrittura legati a finalità pratiche (fogli sparsi, quaderni). Una modalità che non prevedeva la trasmissione del testo. Lo spostamento della presenza dei trovatori in nord Italia avrebbe costituito il momento di trasformazione di questa cultura letteraria in un modello, raccolto e tramandato nella forma libro dei libri raccolti. Nel medioevo parte delle modalità con cui si costruivano i codici prevedeva l’assemblaggio di testi diversi in uno stesso libro. Il fatto che si dedicasse un unico libro a un insieme coeso dava valore alla tradizione. Nel contesto dell’Italia tradizionale frequentata da Uc sembrerebbe nascere l’idea di una cultura provenzale degna di diventare modello culturale forte. La forma del canzoniere nasce proprio con i poeti provenzali. In questo contesto si ipotizza la circolazione di un determinato libro che avrebbe fatto da tramite tra i trovatori e i siciliani. Posto che i siciliani dovessero conoscere questi testi, in che maniera li conoscevano e dove li leggevano. L’ipotesi parte da un elemento della traduzione di Giacomo da Lentini della canzone di Folchetto: il fatto che un solo manoscritto conservi la canzone di Folchetto, a differenza di altri poeti provenzali. Giacomo da Lentini conosceva quella canzone e doveva averla letta da un manoscritto collegato al codice T (perché negli altri manoscritti la canzone non è presente). Altre testimonianze collegano il codice T all’attività scrittoria di Uc, a un gruppo di componimenti che in alcune testimonianze di eruditi del Cinquecento viene indicato come il Libro di Alberico. Aurelio Roncaglia ipotizza che Giacomo da Lentini e altri poeti siciliani avessero a disposizione un codice tramite il quale sarebbe nato il codice T. Questo codice sarebbe entrato in possesso anche di Federico II37. Da un punto di vista storico si è visto che questa ipotesi può essere 37 Federico Ruggero di Hohenstaufen (1194 – 1250), è stato re di Sicilia, duca di Svevia, Re dei Romani e poi Imperatore del Sacro Romano Impero e re di Gerusalemme. Federico apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen. Discendeva per parte di madre dai normanni di Altavilla (Hauteville in francese), conquistatori di Sicilia e fondatori del regno di Sicilia. Conosciuto con l'appellativo stupor mundi, Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l'attenzione degli tratta di ragionare sulle forme della poesia, il De Vulgari Eloquentia contiene una serie di riflessioni molto interessanti, che si prestano a una messa in discussione del connubio fra questi due aspetti. Quando definisce la canzone, Dante fa sempre riferimento alla musica, definendo la poesia come fictio retorica musicaque poita. La canzone consiste in verba modulationi aromizata, ovvero parole armonizzate insieme in vista di una melodia. Le stanze della canzone sono inoltre modulate per poter contenere un canto musicale. Questi aspetti ci fanno pensare che al tempo del De vulgari eloquentia quando Dante riflette sul significato della poesia il binomio testo-musica non fosse affatto superato. Dante intende definire il significato del termine e come un filosofo scolastico informa che canzone altro non è che l’azione del cantare, intesa come attività o passività. Dante sottolinea il collegamento immediato tra la canzone e il canto, proponendo una distinzione interessante fra un’accezione passiva del cantare e un’accezione attiva. Con la distinzione Dante intende, appunto, due cose: La divaricazione è interessante, perché è come se Dante stesse cercando di sistemare qualcosa nella terminologia. Cantare è il creare nella poesia, ma può anche essere la recitazione della poesia, con o senza musica (dove la presenza della melodia non è esclusa). Con il verbo profertur Dante non si riferisce alla lettura, ma al fatto che la poesia venga pronunciata. La formulazione di Dante parrebbe contraddire l’idea che la poesia siciliana e volgare nasca in modo separato dalla musica. Dante sottolinea come bisogni chiamare canzone il testo: una melodia senza parole, infatti, non la chiamiamo canzone. Le parole devono essere disposte in modo armonizzato nella canzone, che è un testo fatto da parole disposte armonicamente in vista di una modulazione melodica. Nel testo vi è una forte suggestione della creazione poetica come un dettare. Con riferimento alla terzina famosa di Dante risulta significativa la distinzione posta da Dante. Nella terzina si parlava di due tempi della creazione poetica (I’mi sono un…), dove alcuni avevano suggerito di intendere il noto come una preparazione a un adattamento musicale. L’armonizzazione della parola è prevista in vista della melodia. Più avanti Dante specifica: Dante seleziona una canzone che definisce super eccellente: la canzone composta da soli endecasillabi, mettendola in relazione con Donne, ch’avete intelletto d’amore, una concatenazione in stile tragico di stanze uguali senza ripresa. Vi è una riflessione dantesca attorno al rapporto tra poesia, ritmo e musica, in rapporto anche a una definizione della propria poesia. La canzone di Dante emerge come punto di riferimento e viene inserita in uno snodo fondamentale dell’argomentazione, legata a un’idea di valore superiore della poesia. Nella Vita Nova Dante aveva citato la canzone perché rappresentava una svolta e un momento di passaggio. In un contesto tecnico come il De vulgari eloquentia la canzone è ancora una volta presentata come esemplare. Vi sono tre momenti di riflessione metapoetica intensa nell’opera di Dante: prima nella Vita Nova a proposito della materia della poesia; poi nel De vulgari eloquentia sul modo in cui deve essere strutturata la poesia dal punto di vista metrico, e infine nel Canto XXIV del Purgatorio in cui emergono i due momenti messi insieme: descrivendo il momento genetico nel quale la poesia viene prodotta e quello in cui viene messa per iscritto. Riconosciamo in questo percorso dantesco una sorta di vertice della riflessione sulla poesia, dove è contemplato il binomio fondamentale fra testo poetico, voce e melodia. Nel caso della poesia lirica il tema della voce e della musica non possono essere scissi, trattandosi di testi cantati. l’epoca antica e medievale, fino al Duecento inoltrato, per distinguere un testo letterario da un testo di natura didascalica o pragmatica. Qualunque tipo di letteratura prevede una struttura versificata. Questo però non implica una struttura rimata, quanto piuttosto una prosodia, una ritmicità del discorso, che imponga un ritmo diverso dai testi normali. È una dimensione del linguaggio nel suo ambito letterario davvero fondativo. La natura versificata deriva non solo dalla tradizione latina, ma anche dall’attenzione alla ritmicità implicita della lingua orale. Sant’Agostino scrisse un trattato, il De Musica, che analizza l’armonia intrinseca della lingua e sulla poesia. La dimensione del ritmo e del verso, se non anche della melodia, è sempre presente. Il racconto epico ne è un esempio importante. L’armonia era garantita dalla forma dell’epica, ovvero dalla lassa di decasillabi assonanzata. Se ci fosse un altro metro, si tratta di ibridazione con un altro genere, come può accadere con l’ottosillabo in rima baciata, tipico del romanzo medievale. La forma metrica che si sceglie è un indicatore importantissimo nel medioevo rispetto anche alla collocazione del testo e al suo contenuto. Con opere difficilmente inquadrabili come l’epica medievale è indispensabile guardare a questi aspetti. I racconti sono suddivisi in unità di testo chiamate lasse. Si differenziano dalle strofe che hanno una dimensione omogenea, sono un’unità fissa del testo, mentre la lassa è disomogenea, non hanno una lunghezza fissa. Nella Chanson de Roland, ad esempio, ci sono delle lasse di 5 versi come di 150. Ciò che tiene insieme le diverse lasse è l’assonanza. La consonanza nelle lingue romanze era piuttosto rara, siccome prediligevano piuttosto l’identità vocalica. Si creano così delle unità testuali che di solito corrispondono ad una partizione logica della narrazione ad episodi. I cambi di lassa possono essere dettati da un cambio di episodio o di prospettiva. La lassa ha una lunghezza funzionale al racconto da fare e al fatto che nelle origini della rappresentazione orale dei testi, il cantore creava ed innovava. La lassa permetteva di allungare, accorciare od integrare la narrazione. Così si consentiva l’esecuzione orale da parte di chi conosceva il repertorio a memoria. La forma del romanzo cavalleresco è anche un racconto, ma è diverso nelle sue premesse fondamentali dall’epica, soprattutto per alcuni elementi strutturali. Il romanzo non è composto di lasse né di strofe, ma è una narrazione continua versificata in coppie di ottosillabi in rima baciata. È una struttura che imprime un altro ritmo e un’altra modalità alla narrazione, non consentendo più l’intervento libero di chi recita sul testo. Dai critici la possibilità di variare i testi viene detta mouvance, un modo per indicare una caratteristica del testo epico. Quello che si ha oggi non è la Chanson de Roland opera, ma sono registrazioni per iscritto di una particolare forma che il materiale narrativo ha preso in un dato contesto. La mouvance non riguarda un singolo testo, ma le vicende della storia nel suo insieme, nel passare da un contesto o da un secolo all’altro. Un altro esempio di questo è la storia di Tristano e Isotta42, che fa parte di un immaginario collettivo e che si adatta a diversi momenti di rimaneggiamento. Il romanzo poteva essere anche di stampo storico, ma il patto con l’ascoltatore era la finzione delle vicende narrate. La dimensione epica medievale si sovrappone a quella religiosa agiografica; l’elemento religioso non è fondamentale nei testi come la Chanson de Roland, ma come genere letterario le vite dei santi e dei martiri vengono raccontate con modalità simili a quelli dell’epica. La chiesa spesso si appropria di generi e modalità profane più popolari per diffondere le proprie storie. Di questo è un esempio la 42 La storia di Tristano e Isotta è probabilmente uno dei più famosi e struggenti Miti Arturiani nati durante il Medioevo. Benché espressione dei temi più scottanti dell'amor fol, esso fu popolarissimo e continua tuttora a ispirare le opere più disparate: la sua origine è celtica, ma le prime redazioni sono state realizzate da poeti normanni. Tristano, figlio di Rivalen e Blancheflor perde entrambi i genitori in età giovanile. È stato cresciuto dallo zio, re Marco di Cornovaglia, presso la corte Tintagel in Cornovaglia. Diventato un giovane guerriero, Tristano parte per l'Irlanda per cercare di sconfiggere il mostro Morholt, fratello del re d'Irlanda e zio di Isotta, che ogni anno chiede come tributo il sacrificio umano di 300 ragazzi e ragazze. Nonostante riesca ad uccidere il gigante, Tristano resta ferito a causa della spada avvelenata utilizzata da Morholt. Torna nuovamente in Cornovaglia dallo zio Marco, ma non riuscendo a guarire in seguito alle complicazioni della ferita chiede di essere posto su una piccola barca solo con la sua arpa. Sbarca sulle coste dell'Irlanda dove viene accolto e curato da Isotta la Bionda che, pur non conoscendo il suo vero nome dal momento che Tristano si presenta col nome Tantris, si prende cura di lui. Tristano, una volta guarito, torna a Tintagel. Pressato a sposarsi per garantire al trono una successione, re Marco decide di prendere in moglie colei a cui appartiene un capello d'oro portato da un uccello sulla sua finestra. Tristano, consapevole del fatto che quel capello biondo appartiene ad Isotta, parte per l'Irlanda. Il padre di Isotta, nel frattempo, decide di dare in sposa sua figlia a colui che avesse sconfitto e ucciso un terribile drago. Tristano riesce nell'impresa e Isotta riconosce in lui l'assassino dello zio dal momento che alla spada di Tristano manca una parte della lama trovata interamente nel cranio di Morholt. Rinuncia a vendicarsi e accoglie la richiesta di sposare re Marco per sanare le rivalità tra i due regni e s'imbarca con Tristano verso la Britannia. Intanto la regina d'Irlanda affida all'ancella Brangania il compito di preparare un filtro magico, da far bere ai due sposi la notte delle nozze. Durante la navigazione, però, Brangania dà per errore il filtro magico a Tristano per placare la sua sete e quest'ultimo, successivamente, lo offre a Isotta. Isotta sposa comunque Marco, facendosi sostituire da Brangania per la consumazione del matrimonio. Seguono mesi di amori clandestini, di trucchi e menzogne, durante i quali i due innamorati rischiano costantemente di essere scoperti dai baroni invidiosi. Un nano malvagio, buffone del re, tenta di farli cogliere sul fatto durante un loro appuntamento notturno nel verziere, ma Tristano si accorge della presenza del re nascosto tra le fronde di un pino e riesce ad avvertire Isotta, che inscena un dialogo del tutto innocente. Scoperti e condannati a morte, i due riescono a fuggire e si rifugiano nella foresta del Morrois. Scoperti dal re Marco, Tristano viene esiliato e decide di tornare nella sua terra natale, dove resta un anno. Non sopportando di vivere lontano dalla sua amata, torna nuovamente in Cornovaglia e si rifugia nella foresta. Durante il suo soggiono, gli giunge voce che tutti i cavalieri sono stati convocati presso la corte, così Tristano pensa che la regina Isotta dovrà necessariamente percorrere quella strada per recarsi alla corte e decide di lasciarle un indizio incidendo il suo nome su un ramo di un albero di nocciolo. Isotta, molto scaltra e abituata a simili sotterfugi, nota la presenza del bastone e, dopo essersi allontanata dal corteo, si ricongiunge con il suo amato. Dopo questo episodio, Tristano si reca nuovamente nel Galles dove sposa Isotta dalle Bianche Mani, con la quale non consuma il matrimonio dal momento che l'amore provato per Isotta la Bionda gli impedisce di unirsi fisicamente con la rispettiva moglie. Nel frattempo, l'innocenza della regina è continuamente messa in dubbio dai baroni malvagi, inducendola a reclamare un'ordalia. Tristano si reca alla cerimonia travestito e aiuta la regina. Più volte ancora Tristano si reca segretamente in Cornovaglia travestito. Una volta l'accompagna il cognato Caerdino, che offeso per l'ingiuria fatta da Tristano alla sorella vuole vedere con i suoi occhi la bellezza di Isotta la Bionda e l'intensità del suo amore. I due così fanno pace e Caerdino si proclama amante dell'ancella della regina Isotta la Bionda. Ferito gravemente durante una spedizione, Tristano capisce che solo Isotta la Bionda può guarirlo e la manda a chiamare, chiedendo che vengano messe vele bianche alla nave con cui verrà, se lei accetta di venire, e vele nere se si rifiuta. Ella accetta, ma la sposa di Tristano, avendo scoperto il loro amore, gli riferisce che le vele sono nere. Credendosi abbandonato da Isotta, Tristano si lascia morire. La donna, arrivata troppo tardi presso di lui, muore di dolore a sua volta. Pentita per le conseguenze tragiche della sua menzogna, Isotta dalle Bianche Mani rimanda i corpi in Cornovaglia, facendoli seppellire insieme. Sequenza di Sant’Eulalia43 o il Ritmo di Sant’Alessio44. Si propongono prossimità alla tradizione epica, parlando però di una materia narrativa diversa da quella propriamente storica delle chanson de geste. Nelle testimonianze su questi testi e contenuti è presente una sovrapposizione tra la dimensione epica e quella religiosa. Thomas of Choblam è uno dei primi a far notare la convergenza dei due ambiti. Ancora più significativa, però, è la testimonianza di ambito francese nell’Ars Musicae di Jean de Grouchy. 43 La Sequenza o Cantilena di sant’Eulalia è il primo testo di carattere letterario scritto in una lingua romanza, e si suole indicare come primo documento della letteratura francese, in quanto scritto in un dialetto dell'area d'oil (più precisamente, piccardo-vallone). Si tratta di un breve componimento di 29 versi anisosillabici che racconta il martirio di Sant'Eulalia di Mérida terminando con una preghiera. Si ispira ad un inno del poeta latino Prudenzio che può essere letto nel Peristephanon. Viene datata tra l'878 e l'882, ed è scritta in antico francese. 44 Il Ritmo di Sant'Alessio o Ritmo marchigiano su Sant'Alessio è una vita agiografica in metrica del leggendario Sant'Alessio di Roma composta nel tardo XII secolo per la rappresentazione pubblica da un giullare anonimo. Costituisce una delle prime testimonianze della letteratura italiana. Il culto del santo fu principalmente promosso dai benedettini, a cominciare dall'Italia. Nel decimo secolo una vita greca fu adattata alla prosa latina. Nell'undicesimo secolo la sua leggenda, basata sulla versione latina, fu tradotta in francese antico come la Vie de Saint Alexis. Più tardi, nel XIII secolo, una seconda versione italiana, De vita Beati Alexii, questa volta in dialetto lombardo, fu composta da Bonvesin de la Riva. Il componimento, formato da 257 versi, ha uno schema metrico formato da lasse monorime composte da una serie di ottonari o novenari seguiti da una coppia di endecasillabi. Le discrepanze e le irregolarità nella prosodia possono essere attribuite al copista, ma anche ai numerosi latinismi e gallicismi. Così com'è, il Ritmo è incompleto, fermandosi bruscamente nella narrazione, poco prima dell'arrivo dei servi di Euphemian a Edessa. Comprende la nascita, il matrimonio, le esortazioni di sua moglie, la fuga a Laodicea e gli inizi della sua vita da mendicante. Bédier propone una premessa diversa. Il suo ragionamento, che applica anche ad altri ambiti della letteratura romanza, si fonda sui testi attestati. Ciò ha un effetto importante e porta a considerare le testimonianze scritte nel loro contesto di produzione. Non vanno considerati solo come prodotto astratto, ma vanno inseriti in un quadro più ampio. Da ciò nasce la constatazione che le Chanson de geste si collochino sulle grandi vie dei pellegrinaggi, come quella di Santiago. Su ciò si basa una ricostruzione più articolata della nascita dell’epica che tiene in considerazione un’ideale collaborazione tra le figure mediatrici della letteratura e della conoscenza. Da una parte ci sono i giullari che eseguono i testi e dall’altra i monaci che li trascrivono. Ciò che viene tratteggiato è la volontà degli ambienti ecclesiastici di comunicare con i pellegrini per creare una traccia delle imprese di Carlo Magno e delle chanson de geste. Bédier sostiene che si tratta di un materiale di leggende di stampo popolare e che quella che oggi viene chiamata Chanson de Roland è da attribuire a chi la trascrive. Questa teoria individualista pone l’accento sulla funzione del trascrittore. In questo caso, Turoldo sarebbe il fautore della Chanson de Roland così come si presenta nel suo manoscritto. Questa teoria ha avuto un impatto fondamentale su come è stata affrontata la questione anche da chi non la accettava completamente. Un altro intervento importante è quello di Pidal, che accetta parte delle premesse di Bédier, ma dice comunque che quello che si ha è frutto di una stratificazione di versioni di cui non esiste un unico responsabile. Il poema si sarebbe elaborato ed accresciuto per via orale e che le versioni scritte sono il frutto di un accumulo progressivo nel tempo del materiale. Si parla di un tradizionalismo moderno. Rychner diventa la base per gli studi attuali sulla Chanson de geste e ritiene che ci sia una genesi orali di ciò che poi viene scritto. Ha un’ottica strutturalista: la ripetizione di certe formule ed elementi sono un motivo di analisi per lui e si intreccia con gli studi antropologici. Ricorda che in alcune tradizioni orali non romanze europee esistevano dei cantori epici che costruivano in questo modo i loro testi. Questo darebbe vita ad un’opera popolare, che si presta ad una continua ricreazione che poi viene messa per iscritto. Questo genere di ragionamento di solito si presta ad altre messe in discussione. La presenza di una formularità indica un tipo di tradizione già data, che limita molto la creatività ex novo. Un altro ambito di manifestazione della voce medievale è la predicazione, che in alcuni punti si incrocia con alcuni aspetti della tradizione epica. Il linguaggio deve modellarsi sulla lingua quotidiana, così da realizzare una comunicazione di natura persuasiva. A questo si uniscono altre strategie. Si ha un richiamo forte ai valori della persona umana e degli affetti, che si struttura in una vera e propria arte del predicare, che trova un suo culmine nel senso della pratica e della teoria durante il XV secolo. Per avere una prima idea della potenza di questo tipo di dialogo attraverso la voce con il pubblico è bene ricordare una formulazione di Bernardino da Siena, universalmente riconosciuto come il protagonista della predicazione. Con una mossa metatestuale si riferisce alla sua stessa attività di predicatore e alla finalità del suo intervento. Nella sua predica sembra voler fare riferimento ad una cattura delle anime dell’uditorio attraverso la voce, come un pescatore che cattura i pesci all’amo. Si parla anche di rete, perché si pesca con la rete e perché con la voce si crea una rete persuasiva. contesto in cui la liturgia si tiene ancora in latino e il rito rimane in latino per molti secoli ancora. Al contrario, la predica deve essere tradotta in volgare perché venga capita a pieno. È la prima indicazione per un uso pubblico istituzionale del volgare. Bernardino esprime questo principio con una certa forza. Bisogna mettere in moto una dimensione propriamente percettiva. Bernardino è particolarmente abile nella sua spiegazione: nella nomenclatura medievale dei sensi, il tatto è quello più concreto e non può fare a meno del contatto con quello che viene percepito; così crea una grande escursione tra ciò che è altamente astratto, che va reso palpabile. Questo si lega alla teologia apofatica dello Pseudo-Dionigi l’Aeropagita46; è una teologia di ciò che non può essere espresso a parole e giustifica parte della gestualità. Con il nome dello Pseudo-Dionigi si fa riferimento ad un corpus di testi fondativi dell’epoca tardo-antica e medievale. Dionigi, invece, era uno dei compagni di San Paolo e questo faceva sì che quei testi godessero di grande fortuna. Per predicare in maniera soddisfacente serve utilizzare anche alcuni paradossi, che creano un cortocircuito logico che avvicinano di più a Dio. L’idea di raccontare le cose celesti con cose palpabili non è solo un orpello di Bernardino, neolatine, le lingue volgari, e ricorsero alla prima attestazione del termine romana per riferirsi alla lingua comunemente parlata all'epoca in Gallia, in opposizione alla lingua germanica parlata dai Franchi invasori. In definitiva, il Concilio stabilì che, mentre la liturgia rimaneva in latino, l'omelia doveva avvenire in rusticam romanam linguam (i volgari romanzi) aut thiotiscam (le lingue germaniche). Questa norma formula un dettame che dà legittimità alle lingue volgari, e quindi ne modifica non la diffusione ma lo status. 46 Dionigi Areopagita (V o VI secolo) è uno pseudonimo usato da un anonimo teologo e filosofo siro, autore di un corpus di scritti mistici affini al neoplatonismo. Nel complesso, gli scritti dello pseudo-Dionigi disegnano una visione gerarchica della realtà, specificamente neoplatonica, in cui la realtà e la conoscenza discendono dal principio sommo della creazione, Dio, tramite le intelligenze angeliche, sino ai gradi infimi della materia. Tale gerarchia si riflette nell'ordinamento piramidale della Chiesa e nella sua liturgia. L'uomo può conoscere il principio divino, e ascendervi, tramite due vie. La prima è quella della teologia affermativa (o catafatica), per cui a Dio, essendo questi causa di tutte le cose, può essere riferito ogni attributo di ogni singolo ente. La seconda via, superiore alla prima, è la teologia negativa (o apofatica), per cui Dio, trascendendo ogni cosa del mondo, può essere compreso solo per sottrazione, negando via via tutti i possibili attributi, siano anche quelli di "divinità", "essere" o "bene". La teologia negativa culmina nel silenzio. La vera conoscenza di Dio, tuttavia, si pone oltre sia la teologia affermativa che quella negativa, trascendendole entrambe in un mistico slancio in cui la mente supera ogni distinzione tra oggetto e soggetto, tra pensiero e pensato. Nella triade di trattati "Sulla teologia mistica", "Sulla gerarchia celeste" e "Sulla gerarchia ecclesiastica", e in modo particolarmente "abbondante" in quest'ultimo, ricorre l'espressione greca tá mystiká theámata, con la quale lo Pseudo-Dionigi si riferisce alle gerarchie angeliche, alle proprie visioni e al profondo significato simbolico dei riti liturgici, che risultano incomprensibili e inaccessibili ai non-iniziati o a coloro che hanno appena intrapreso il percorso di iniziazione. ma può rifarsi ad una concezione più profonda. C’è un richiamo coerente con tanta letteratura cristiana circa la comunicazione accessibile al pubblico. Uno dei momenti di esordio di questo più suggestivi si trova nella figura di San Francesco. È una prima combinazione e compresenza dell’aspetto linguistico semplificato con una contestualizzazione più ampia e con la comunicazione non verbale. San Francesco esaltava la dimensione umile nel rapporto tra il sapere e la fede. Inoltre, inseriva nel suo messaggio delle modalità, che in un testimone come Tommaso di Spalato prende la forma di analogia con l’arte retorica. San Francesco ricorre volentieri anche a riferimenti di natura letteraria profana. Evidentemente capisce il potere di identificazione che può generare il ricorso a contenuti noti e condivisi dal pubblico e che quindi possono anche essere di natura non religiosa. È una delle spie del diverso atteggiamento del francescanesimo rispetto alla predicazione cristiana precedente. Ci sono diverse citazioni con riferimenti più o meno espliciti alla cultura cortese, che pare San Francesco conoscesse e utilizzasse. L’immagine di una milizia cristiana non è un’invenzione francescana, ma è interessante la loro trasformazione in cavalieri arturiani. Tutto ciò creava un coinvolgimento immaginativo molto importante per l’uditorio. Quando si parla di San Francesco è importante ricordare la sua unione con madonna Povertà. Si tratta di un testo in cui il messaggio francescano è raccontato in una cornice esplicitamente cortese-cavalleresca. Lo schema che tratteggia questo racconto allegorico è quello della cultura e della narrativa cortese. Questa presenza di un’attenzione di una cultura profana e volgare costituisce un aspetto del francescanesimo importante anche nella dimensione del mito della figura di Francesco, come dimostra il testo dantesco. risolvere il problema del relativismo, deve trovare un punto a partire dal quale poter mettere ordine. Egli risolverà l problema compiendo uno sforzo di astrazione, abbandonando il versante empirico e approdando a quello logico: il piano delle regole. A livello dalla langue emerge il concetto di “scatto differenziale”: quanto conferisce valore al sistema formale appena individuato. Il valore di una parola è determinato non dalla parola in sé, ma da quanto le sta intorno. Lungo questa linea possiamo affermare che la lingua è pura forma, non sostanza, è un sistema di differenze. Intravvediamo una struttura che non ha referenti empirici: siamo a un livello di pura astrazione, molto diverso da quello in cui si colloca la nozione comune di cultura. Questa prospettiva promette di rispondere a una domanda: possiamo scoprire i tratti universali e particolari di una lingua pur non conoscendo tutte le lingue? Lungo questa linea, agli estremi, troviamo contributi di Hjemselv, che non pone limiti alla capacità euristica di questo approccio, sostenendo che un paradigma di questo tipo permetterebbe di comprendere un qualsiasi testo possibile composto in una lingua specifica, ma anche un testo composto in qualsiasi altra lingua. Il movimento si fa verso l’universalità. Qui troviamo un punto critico importante nel paradigma strutturalista, perché questo implica un rischio epistemologico abbastanza forte. La nostra certezza è l’unicità degli atti di parole. Non esistono due sensi uguali e tuttavia nel momento in cui decidiamo di andare oltre dobbiamo muoverci su un terreno astratto e rischiare di dare una sorta di concretezza che è astratta, ma agisce nella mente dei parlanti, facendoli convergere verso una lingua condivisa. Questo è l’unico modo che permette di muoversi nel relativismo. Chomsky porterà agli estremi questo paradigma, superando il limite oltre il quale il rischio sopra citato diventa intollerabile. Nella linguistica di Chomsky è stato superato un limite: nei termini di un impoverimento dell’interesse linguistico, scompare il senso, le strutture, la creatività. Questo trova riscontro se pensiamo al fatto che sia Saussure che Hjemselv si bloccarono una volta superata la soglia, una volta compiuto il passaggio dall’empirico all’astratto, e non scrissero più. Essi subirono una paralisi produttiva. Questo non è successo a Strauss, che ha prodotto tantissimo, libri molto voluminosi. La sua produzione è estremamente densa e affascinante. Ci possiamo domandare come mai. Perché Strauss non si paralizza? Perché egli non rinuncia ai contenuti. La sua opera si articola attraverso un intreccio tra approccio formale ed etnografia. Egli non rinuncia allo studio delle culture. Dati empirici e conoscenze scientifiche entrano nell’analisi, pur trovando numerosi ostacoli. Qual è il segreto di Strauss? Perché egli è riuscito a fare tutto questo a differenza dei due linguisti? Egli riesce a cogliere la nozione di “gruppo di trasformazione”: ogni sistema locale, ogni cultura locale, raccolta e documentata attraverso l’etnografia, viene inquadrata comparativamente perché ogni sistema locale non ha una struttura, ma appartiene a una struttura, è una possibile realizzazione. Questa nozione permette a Strauss di spiegarci un sistema di produzione culturale locale come una trasformazione di un altro gruppo. Come comprendiamo una produzione locale? Attraverso una catena di produttività. Il sistema diventa trasparente se lo consideriamo all’interno di una catena di produttività. Che cosa allora la trasformazione? Non è il mutamento del singolo sistema: essa è quella generata dalla matrice, dalla struttura, dalla logica combinatoria. Il passaggio da un sistema all’altro sistema permette allo strutturalismo di costruire i suoi discorsi. Questo paradigma per un certo periodo è parso come il paradigma per eccellenza dell’antropologia, perché sembra garantire la possibilità di raggiungere il piano dell’universalità. Questa non ci porta all’individualità, ma all’insieme di differenze e di trasformazioni. È questa la verità dell’uomo, ciò a cui Strauss vuole arrivare. Lezione X – La predicazione Il Canto XXIV del Purgatorio va incontro alle precedenti opere di Dante e ad una serie rimica di Bonagiunta, in dialogo con Guinizzelli. Quindi, si può dire che sia un testo che partecipa ad un sistema più ampio di testi. La sestina è una canzone particolare e un poco paradossale: se il genere metrico della canzone è solitamente libero, purché la misura delle strofe sia uguale, nella sestina è tutto regolato. È una canzone composta da sei strofe, ognuna con sei versi più un congedo. Queste strofe non hanno una rima interna alle strofe, tuttavia le parole in fine verso vengono ripetute nelle stanze successive. Questa ripetizione non è casuale, ma segue uno schema combinatorio che porta la sesta strofa ad esaurire tutte le possibilità combinatorie. Nel pensiero medievale il numero sei è legato alla circolarità, per una serie di motivi aritmetici. Anche Arnault Daniel si era impegnato con questo genere, come Dante e Petrarca. Petrarca, nello specifico, ne scrive nove nel suo Canzoniere e l’ultima è una sestina doppia, rompendo lo schema e raddoppiando il numero di strofe. Il discorso pubblico era un genere che prevedeva un uso importante della voce, soprattutto nell’arte predicatoria. Un momento peculiare è tra il XIII e il XIV secolo, in cui gli ordini mendicanti, soprattutto francescano, cercavano un coinvolgimento del pubblico nel loro messaggio e si erano specializzati in un genere retorico, che prevedeva la lingua volgare. I metodi di predicazione passano da una serie di strumenti di ordine retorico-testuale a strategie di coinvolgimento con strumenti non linguistici, ma che riguardavano in maniera più estesa la presenza e la gestualità corporea del predicatore, in quanto catalizzatore dello sguardo dello spettatore. Ampliando ancora lo sguardo, si può fare attenzione ad un uso teatrale dello spazio: la piazza diventava dei veri e propri teatri, che vengono inclusi nella strategia comunicativa. Si tratta di una modalità di comunicazione religiosa molto sviluppata soprattutto in Italia, anche se era presente anche in altre regioni europee. In Francia, ad esempio, ci sono testimonianze di chierici che predicano secondo il mos italicus, quindi secondo il metodo italiano. In questi casi compare il sermo humilis o rusticus, così chiamato dai dotti e che coincide nei secoli medievali al registro orale della lingua volgare. È una modalità molto espressiva, che cerca di creare una persuasione nel pubblico, che non è solo logico-razionale, ma è qualcosa che deve coinvolgere anche gli altri sensi. I francescani facevano spesso uso di allusioni alla cultura letteraria del pubblico. Ciò crea una sensazione di coesione e di condivisione con chi ascolta. Si usano anche argomenti della letteratura profana, creando anche un momento di sorpresa dato che sembrano ambiti incongrui. Si ha così una prospettiva di appropriazione abile di contenuti letterari profani che vengono poi sfruttati nella dimensione religiosa. Le testimonianze relative alla predicazione dei francescani mettono spesso in evidenza il ricorso e la presenza in discorsi di riferimenti alla cultura cortese e cavalleresca. Ci sono anche riferimenti inequivocabili ai cavalieri della Tavola Rotonda o ai grandi paladini dell’epica Carolingia. La reportatio permette di conservare una testimonianza di quello che avveniva durante i momenti di salute pubblica, anche per le prediche e non solo. Si tratta di una pratica di per sé molto semplice ed intuitiva: vi erano persone incaricate di trascrivere e tenere traccia di quello che veniva detto, spesso riguardo a prediche di grandi predicatori, come Bernardino da Siena47. Da un certo punto, diventa consuetudine la presenza del reportator, anche più di uno, che trascrive in appunti veloci quanto detto e poi lo riscriveva per esteso, per lasciarne una testimonianza. Diventa un genere molto particolare, nella misura in cui cerca di catturare l’intreccio e la zona 47 Bernardino da Siena, al secolo Bernardino degli Albizzeschi (1380 – 1444), è stato un francescano e teologo italiano, appartenente all'Ordine dei frati minori. Fu proclamato santo nel 1450 da papa Niccolò V, appena sei anni dopo la morte. Bernardino non mancò di attenzione agli aspetti pratici della vita dei fedeli, con un'analisi innovativa e decisamente moderna. Il suo pensiero è ricordato nella storia del pensiero economico poiché fu il primo teologo, dopo Pietro di Giovanni Olivi, a scrivere un'intera opera sull'economia intitolata Sui contratti e l'usura. Nel libro egli, come già Sant'Antonio di Padova, condanna aspramente l'usura e affronta i temi della giustificazione della proprietà privata, dell'etica del commercio e della determinazione del valore e del prezzo. Analizza, inoltre, con grande profondità la figura dell'imprenditore e ne difende il lavoro onesto. Fa notare, infatti, che il commercio può venire praticato in modo lecito o illecito come tutte le altre occupazioni e non è necessariamente fonte di dannazione. Se onesto, un mercante fornisce servizi utilissimi a tutta la società: riappiana la scarsità di beni in una zona trasportandone da zone in cui sono abbondanti, custodisce beni limitando i danni di eventuali carestie, trasforma in prodotti lavorati le materie altrimenti grezze e inutili. Per essere onesto, sostiene Bernardino, l'imprenditore dev'essere dotato di quattro grandi virtù: efficienza, responsabilità, laboriosità, assunzione del rischio. I guadagni che derivano ai pochi che hanno saputo attenersi a queste virtù sono la giusta ricompensa per il duro lavoro svolto e i rischi corsi. Per contro, condanna senza mezzi termini i nuovi ricchi, che invece di investire la ricchezza in nuove attività, preferiscono prestare a usura e strangolano la società anziché farla crescere. Bernardino riteneva, infatti, che la proprietà non "appartenesse all'uomo", quanto piuttosto "fosse per l'uomo" come uno strumento per ottenere un miglioramento nell'insieme della società. Uno strumento che veniva da Dio e che l'uomo doveva meritare, applicare e far fruttare come saggio amministratore. di transizione tra il dominio dell’oralità e la testualità scritta. Ciò pone una serie di problemi. Per quanto riguarda le prediche, è una pratica che inizia ad essere diffusa verso la fine del Trecento e poi per tutto il Quattrocento contraddistingue la predica di piazza. Quando ci si riferisce però alla pratica generica medievale, si parla della registrazione in appunti di qualcosa che viene pronunciato oralmente e qualunque cosa può diventarne oggetto. Questa pratica si rivela utile anche durante le lectio. La lectio avviene con un magister e indica un momento di trasmissione del sapere che originariamente erano letture commentate, solitamente di passi biblici. La lectio era uno dei modi in cui avveniva l’insegnamento e in essa si è instaurata la pratica di trascrivere e poi mettere a disposizione dei compendi delle lezioni. Ci sono però anche altri metodi di insegnamento e dibattito scolastico48. La lectio era la lettura commentata, mentre la quaestio era un tipo di insegnamento e di riflessione teologica, che parte dal testo di riferimento, ma che si propone anche un interrogativo. Alla quaestio poi ci si aggancia per instaurare un discorso. La disputatio, invece, prevedeva un momento dialogico di confronto e si parte da una quaestio; tuttavia, non ci si limita ad illustrare una spiegazione, ma si mettono a confronto diverse risposte possibili alla stessa. Si dibatte una molteplicità eventuale di risposte, ma sempre entro una cornice retorica. Una disputatio non è un vero dibattito per arrivare ad una soluzione definitiva, ma era una forma di argomentazione di una tesi, che passa attraverso la citazione e la confutazione di possibili risposte. Questa è la tipica formula del dibattito e del trattato di età scolastica. 48 La prima e più importante opera in cui viene descritta la struttura di un’orazione è la Retorica di Aristotele, che influenzò tutti i retori delle epoche successive, fino al XIX secolo. In epoca romana il sistema aristotelico fu ripreso da Cicerone e Quintiliano, i quali lo svilupparono ulteriormente senza però modificarlo. La preparazione dell'orazione avviene in cinque fasi: 1. inventio, (in greco èuresis, ricerca) ricercare le idee per svolgere la tesi prefissata, rifacendosi a tòpoi codificati; 2. dispositio, (in greco taxis, disposizione) organizzare argomenti ed ornamenti nel discorso; 3. elocutio, (in greco lexis, linguaggio) l'espressione stilistica delle idee, con la scelta di un lessico appropriato e di artifici retorici (In questo punto divergono asiani e atticisti); 4. memoria, come memorizzare il discorso e ricordare le posizioni avversarie per controbatterle; 5. actio: declamazione del discorso modulando la voce e ricorrendo alla gestualità. L'oratore doveva essere in grado di: 1. docere et probare, ovvero informare e convincere; 2. delectare, catturare l'attenzione con un discorso vivace e non noioso; 3. movere, commuovere il pubblico per far sì che aderisca alla tesi dell’oratore. La struttura del discorso presenta uno schema, che può essere seguito rigorosamente nell'ordine proposto o meno. L’orazione prevede quattro fasi: 1. exordium, esordio, tentativo di accattivarsi l'uditorio delectando e movendo con ornamenti; 2. narratio, esposizione, esposizione dei fatti, per docere l'uditorio, in ordine cronologico o con una introduzione ad effetto in medias res; 3. argumentatio', argomentazione, dimostrazione delle prove a sostegno della tesi (confirmatio) e confutazione degli argomenti avversari (refutatio); 4. peroratio, epilogo, la conclusione del discorso, muovendo al massimo gli affetti dell'uditorio e sviluppando pathos. Nella Summa Theologica49 di Tommaso d’Aquino si vede proprio questo tipo di struttura: c’è un articolo affermativo, una serie di risposte possibili che vengono elencate, con anche i contro argomenti e le fonti, vi è poi una discussione su tutte le posizioni, che infine convergono ad una responsio dello stesso autore. Si passa attraverso una complessità sempre maggiore nelle modalità di confronto con la scrittura e le questioni teologiche. Il nucleo delle forme di confronto ed insegnamento è in realtà orale. Si percepisce ciò già dalla struttura stessa delle lezioni. Vi è una natura orale del dibattito e della natura del sapere che lentamente vira verso la trasmissione scritta. Si hanno ancora alcune documentazioni del modo in cui emergeva la reportatio. Molti testi della tradizione medievale possono essere il frutto di reportationes, ma non se ne ha la certezza assoluta. Questo crea dei problemi filologici e di auctoritas tra la valenza di un testo autoriale e una reportatio. Nella maggior parte dei casi esisteva un controllo della reportatio. L’episodio narrato richiama un evento banale, quotidiano, l’insegnamento di Ugo di San Vittore ai suoi discepoli. Si tratta di un momento di genesi relativa alle sue lezioni. Quella del passo è una situazione ideale, ma non era sempre così, siccome non sempre si aveva una revisione da parte del maestro di quanto veniva scritto dai reportator. 49 La Somma teologica, frequentemente chiamata anche col titolo originale Summa Theologiae, è la più famosa delle opere di Tommaso d'Aquino. Fu scritta negli ultimi anni di vita dell'autore 1265–1274; la terza e ultima parte rimase incompiuta. È il trattato più famoso della teologia medioevale e la sua influenza sulla filosofia e sulla teologia posteriore, soprattutto nel cattolicesimo, è incalcolabile. Concepita come un manuale per lo studio della teologia più che come opera apologetica di polemica contro i non cattolici, nella struttura dei suoi articoli è un'esemplificazione tipica dello stile intellettuale della scolastica. Deriva da un'opera anteriore, la Summa contra Gentiles, più marcatamente apologetica. Tommaso la scrive tenendo presenti le fonti propriamente religiose, cioè la Bibbia e i dogmi della Chiesa cattolica, ma anche le opere di alcuni autori dell'antichità: Aristotele è l'autorità massima in campo filosofico, e Sant'Agostino d'Ippona in campo teologico. Sono citati frequentemente anche Pietro Lombardo, teologo e autore del manuale usato all'epoca, gli scritti del V secolo di Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Avicenna e Mosè Maimonide, studioso giudeo non molto anteriore a Tommaso, del quale egli ammirava l'applicazione del metodo investigativo.
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