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APPUNTI COMPLETI SCIENZA POLITICA DI PALANO + DOMANDE, Dispense di Scienza Politica

Appunti completi (primo e secondo semestre) delle lezioni di scienza politica del prof. Palano. Con esempi di domande d'esame. Voto all'esame: 30L.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 18/07/2023

Sofia0103
Sofia0103 🇮🇹

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Scarica APPUNTI COMPLETI SCIENZA POLITICA DI PALANO + DOMANDE e più Dispense in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! La SCIENZA POLITICA non è una disciplina che si pone obiettivi politici, ma è una scienza che studia i fenomeni politici attraverso dati empirici. Ad esempio, che cosa determina il comportamento di voto? L’obiettivo della scienza politica è quindi di tipo esplicativo, cioè essa vuole spiegare in modo scientifico i fenomeni, anche se sicuramente le acquisizioni della scienza politica possono divenire strumenti utilizzati da partiti, leader politici ecc., ma questo rappresenta una possibilità ed un’implicazione pratica che va oltre l’obiettivo che la disciplina si pone. La scienza politica è una scienza sociale con una storia molto lunga rispetto ad altre scienze sociali, come ad esempio la sociologia, che nasce nell’Ottocento. Una prima riflessione sistematica sui fenomeni politici infatti risale già alla Grecia antica, in cui ad esempio Aristotele si interroga sulla guerra del Peloponneso, narrata da Tucidide. Per non confondere però queste riflessioni con l’attuale disciplina, possiamo distinguere due diverse accezioni di scienza politica: • Accezione ampia e generica: La scienza politica è uno studio sistematico dei fenomeni politici poggiato sull’esame dei fatti ed esposto con argomenti razionali. Questa accezione è quella che trova le sue origini già nel mondo greco. Il suo oggetto è la realtà concreta della politica, un esame dei fatti che esclude il come dovrebbe essere la politica, a cui invece possiamo ricondurre Platone (pensatore politico) che in La Repubblica descrive come dovrebbe essere uno stato ideale, e per questo possiamo ricondurlo all’ambito della filosofia politica normativa. Sono invece scienziati politici Niccolò Machiavelli, che scrive Il Principe, e Thomas Hobbes. • Accezione ristretta: la scienza politica è lo studio dei fenomeni politici condotto con la metodologia delle scienze empiriche. Questa rappresenta l’ambizione della scienza empirica contemporanea, che nasce nell’età del positivismo, qualche decennio più tardi rispetto alla sociologia, cioè nella seconda parte dell’Ottocento, per poi consolidarsi negli Stati Uniti intorno alla metà del Novecento. I progenitori della scienza politica contemporanea sono: - Tucidide (460-404 a.C.): storico ateniese che tratta la storia della guerra del Peloponneso. Egli parte da questo per cercare di ricostruire le cause del conflitto e agire di conseguenza, cioè egli cerca una spiegazione al fine di trovare una soluzione concreta. Per questo è considerato uno dei primi politologi in senso lato. - Aristotele (384-322 a.C.): filosofo greco che si distacca dalla prospettiva del suo maestro, Platone, per cercare di comprendere i motivi di fortuna o di sfortuna delle polis greche. Ego studia sistematicamente 150 costituzioni di altrettante città greche e non per raggiungere tale obiettivo. Scrive il testo La politica, in cui il termine significa ‘ciò che riguarda la polis’. - Machiavelli (1469-1527 d.C.) - Hobbes (1588-1679 d.C.) Gli ultimi due sono i più moderni tra i quattro, essi si concentrano sull’osservazione della realtà concreta. La scienza politica in senso stretto nasce quindi nel caso dell’Ottocento, nell’era del positivismo, una fase di spiccato ottimismo, caratterizzata da eccessi di determinismo. A partire da questo periodo possiamo identificare due diverse correnti in cui possiamo suddividere i vari scienziati della politica e i loro pensieri. • SCIENZA POLITICA POSITIVISTA: ha come epicentro l’Europa e caratterizza il periodo che va dalla metà dell’Ottocento allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. All’interno di questa corrente prevale la dottrina dell’evoluzionismo, nata dall’opera L’evoluzione della specie di Charles Darwin nell’ambito delle scienze naturali, e successivamente applicata all’ambito sociale e politico attraverso una ricerca di antonomasia. Fanno parte di questo filone gli italiani Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. In particolare, Gaetano Mosca (1858-1941) nato a Palermo, scrive Elementi di scienza politica nel 1896, mentre Vilfredo Pareto (1848-1923) scrive Trattato di sociologia generale nel 1916, in cui introduce il concetto di élite sociale e politica • SCIENZA POLITICA NEOPOSITIVISTA o COMPORTAMENTISTA: nasce a Chicago negli anni ’40 del Novecento e perviene ad un’idea di scienza politica priva di vere e proprie leggi, ma comunque empirica. Fanno parte di questo filone gli statunitensi Harold Lasswell (1902-1978) e Robert Alan Dahl (1915-2014). L’oggetto particolare della scienza politica abbiamo detto essere il fenomeno politico, tuttavia da questa definizione perviene un problema, ovvero, qual’è il limite che separa il politico dal non politico ? L’obiettivo della scienza politica è di conseguenza quello di spiegare i fenomeni politici, costruendo delle ipotesi di carattere generale, cioè a tendenza universalizzante, da sottoporre ad un controllo empirico. Quindi il fine è quello di individuare delle risposte valide non solo per un determinato fenomeno, ma per più casi simili tra loro, ad esempio alla domanda ‘perché in Italia i governi della Repubblica durano così poco?’ Per capire meglio la definizione di scienza politica possiamo confrontare questa scienza con altre discipline. Ad esempio qual’è la differenza tra un politologo ed uno storico? Lo storico studia il perché, cioè le cause di alcuni fenomeni, come potrebbe essere la prima guerra mondiale. Egli inoltre ha un fine prettamente di tipo descrittivo, cioè ha ambizioni di accuratezza descrittiva, in modo da far emergere le specificità e le peculiarità del caso, per poi dare una spiegazione individualizzante. Il politologo invece, pur non potendo fare a meno della descrizione dei fatti, deve isolare gli elementi più rilevanti per evidenziare le variabili significative, egli quindi compie una descrizione riduzionista per fornire una spiegazione generalizzante, ovvero una spiegazione che possa essere applicata a eventi differenti ma con elementi comuni. La sua ambizione è poi quella di avvicinarsi alle scienze empiriche. Qual’è invece la differenza tra scienza politica e filosofia politica? La scienza politica non si pone obiettivi prescrittivi, ma esplicativi. La filosofia politica invece ha l’obiettivo di costruzione di un ideale normativo da seguire, cioè ha un fine prescrittivo. Questo elemento lo ritroviamo ad esempio in Platone, il quale crea un’immagine ideale della repubblica senza reali legami con le vere polis. Il metodo della scienza politica ha l’ambizione di divenire pari a quello delle scienze empiriche, tuttavia questo è impossibile in quanto essa, essendo una scienza sociale, si trova di fronte alle interazioni tra persone, le quali sono troppo complesse. Infatti la caratteristica degli individui è quella di essere autonomi e questo causa un margine di imprevedibilità alle azioni umane che può portare non ad una spiegazione deterministica, ma al più probabilistica. Abbiamo visto che la scienza politica è caratterizzata da due grandi visioni: quella positivista e quella neopositivista o comportamentista. Secondo la corrente positivista, le scienze sociali sottostanno come le scienze empiriche a leggi deterministiche. Tuttavia questo non è possibile, in quanto esistono nel comportamento umano delle variabili troppo numerose e imprevedibili, che dipendono dalla loro essenza di autonomia e indipendenza. Per questo quelle della scienza politica possono essere piuttosto definite come tendenze costanti, hanno quindi un carattere probabilistico. Ma allora in cosa sta l’empiricità della scienza politica? Le ipotesi della disciplina devono sorgere in seguito ad osservazioni e devono poi essere sottoposte al controllo empirico, solo in questo caso esse possono essere definite scientifiche. Le ipotesi sono affermazioni che stabiliscono un rapporto, una connessone di tipo causale tra due fenomeni, esse si compongono di due parti: - Variabile indipendente - causa di un fenomeno - Variabile dipendente - conseguenza, ciò che scaturisce dalla prima variabile Es. qual’è la causa di instabilità dei governi in Italia? Variabile dipendente: durata media degli esecutivi in mesi(y) Variabile indipendente: numero di partiti presenti in parlamento(x) Solo se può essere sottoposta ad un controllo empirico, attraverso lo studio di casi concreti, l’ipotesi è di tipo scientifico. - Confronto con altri paesi, ad esempio il Regno Unito -> ipotesi troppo semplicistica, smentita dal controllo empirico, serve una variabile interveniente. Gli strumenti del controllo empirico di cui si avvale la scienza politica sono quattro, non tutti utilizzati allo stesso modo e con la stessa frequenza: • Metodo sperimentale - riproduzione artificiale e ripetuta di un fenomeno per verificare l’ipotesi tramite un esperimento. È il metodo privilegiato delle scienze naturali e tendenzialmente non è utilizzato dalla scienza politica, se non per fenomeni di micropolitica (spesso studiati da altre discipline, come la psicologia politica), a causa della complessità dei casi. • Metodo statistico - utilizzato dalla scienza politica per un numero limitato di fenomeni. Questo metodo necessità di un elevato numero di casi simili, di solito superiore a 50. Viene ad esempio usato per quanto riguarda il comportamento elettorale, ma non per fenomeni di instabilità politica, poiché scarsamente affidabile con un numero ridotto di casi. • Metodo comparato - metodo privilegiato della scienza politica, in quanto qua ricadono tutti quei fenomeni che non possono essere studiati attraversi metodo statistico. Infatti questo metodo richiede un numero limitato di casi simili, solitamente inferiore a 20. Esso prevede la formulazione di un’ipotesi, seguita da con controllo empirico costituito dalla comparazione con un numero ridotto di casi analoghi. comunità, il che rappresenta la manifestazione più alta dell’umanità, per cui chi non ne prende parte è considerato un uomo o una divinità. La polis rappresenta la sfera artificiale, quella in cui i cittadini si trovano in una condizione di parità, seppure sia un’eguaglianza fortemente limitata. Al contrario, l’oikos indica la dimensione interna della casa, regolata dalle leggi di natura, per cui si basa su un rapporto gerarchico in cui il superiore domina l’inferiore, cioè figli, moglie e schiavi. Questi due termini di tà poliitkà e politeìa iniziano perdere una reale pregnanza, con la perdita del soggetto, attorno al III secolo, quando le polis cambiano aspetto. Queste erano infatti città politicamente autonome, di conseguenza in grado di darsi autonomamente delle leggi, e limitate territorialmente, quindi non particolarmente estese seppur grandi, come Atene. A partire dal III secolo queste perdono invece la loro indipendenza dopo essere state conquistate dall’Impero macedone e soprattutto dopo esser state inglobate nell’Impero Romano. A questo punto quindi l’autentica esperienza della polis non esiste più, insieme ai concetti di tà politikà e politeìa. I pensatori greci iniziano a disinteressarsi di politica, mentre i romani sono poco inclini a riconoscere questi termini, non perché essi non abbiano un pensiero politico, ma perché la loro idea non è originale, come quella di Platone o Aristotele, in generale infatti la filosofia romana è una filosofia eclettica (es. Cicerone). La loro grande invenzione sono invece le istituzioni, quindi il diritto, tanto che ancora oggi il diritto romano costituisce la base delle discipline giuridiche. Nel mondo romano poi non esiste una pluralità di città-stato politicamente autonome, in quanto l’unica città importante per l’impero è Roma. I due termini precedenti vengono tradotti in latino ma non hanno un utilizzo frequente, in particolare la parola politeìa viene tradotta in policia o politia, e verrà utilizzata soprattutto nel Medioevo. Ai romani non serve in realtà questa espressione, perché hanno già un termine che indica la comunità politica, cioè Res Publica. Questo indica inizialmente tutte le cose che sono del popolo romano e in seguito l’insieme delle istituzioni di Roma, quindi tutti ciò che riguarda la comunità politica di Roma. L’aggettivo ‘politico’ esiste in latino, ma non viene particolarmente utilizzato. Dopo il I sec d.C., con il consolidamento del principato e il venir meno della struttura repubblicana la riflessione politica si inaridisce e quei termini cadono disuso per circa 1000 anni. Dai secoli che vanno dal 476 d.C. fino all’anno mille circa, si perde anche la memoria della filosofia greca. La rifioritura culturale del X secolo poi comporta la riscoperta dei classici e possiamo collocare intorno al 1200 la ricomparsa, la rinascita, di quei due termini, parallela alla comparsa nei monasteri del greco antico. Guglielmo di Moerbecke traduce nel 1250 La politica di Aristotele, cioè recupera il testo originale greco e lo traduce in latino. Dopo questo evento, una serie di pensatori iniziano a commentarne l’opera, spiegando il significato dell’espressione ‘l’uomo è un animale politico’ e come questa deve essere intesa. Uno dei principali pensatori e filosofi che si impegna a tale scopo è Tommaso d’Aquino (San Tommaso), egli afferma che ‘animale politico’ significa animale sociale o civile, poiché egli non ha altri aggettivi a disposizione che si avvicinino all’espressione greca, distorcendone quindi il significato originario. Aristotele infatti non voleva solo dire che gli animali vivono in società, la polis è infatti per lui un tipo speciale di comunità in cui gli individui sono posti in una posizione di parità ed uguaglianza, quindi in una posizione orizzontale. Nonostante questa deformazione, a partire da questo momento ricominciano a circolare i termini politicus, politia e policia, entrando anche nelle lingue volgari che si stanno estendendo in Europa, in italiano è polizia ma possiamo trovare qualcosa di simile anche in pollicey, polizey, police. Fino al 1600 il termine politia è quello usato in modo prevalente, a discapito dell’aggettivo politicus. Un’inversione di tendenza ci sarà solo a partire dal XVII secolo quando il termine polizia subisce progressivamente una depoliticizzazione, e inizia ad essere usato per indicare degli aspetti che hanno una sempre minore attinenza con la politica, in quattro tappe: - Polizia come buon ordine di una comunità, di una città; - Polizia come le cose che devono essere fatte affinché una comunità sia bene ordinata, cioè un insieme di misure che devono essere adottate per mantenere l’ordine; - Polizia come strumenti che servono per garantire il buon ordine di una comunità; - Polizia come apparato dello stato che si occupa di mantenere l’ordine pubblico, cioè una piccola parte dell’amministrazione dello stato, perdendo definitivamente la propria pregnanza politica (1800). Nel 1700 il polizeistaat in Germania non indica uno stato di polizia, ma il fatto che lo stato si occupi della felicità dei sudditi e, in generale, del benessere e dell’ordine della società. I termini politica e politico iniziano a diventare rilevanti all’inizio del XVII secolo, quando diversi autori iniziano ad includerlo nei titoli delle proprie opere, ad esempio Jhoannes Altusius intitola la sua opera del 1603 Politica metodica digesta, cioè la politica metodicamente raccolta. Alla fine del XVIII secolo, con la Rivoluzione francese c’è una totale involuzione delle parti, perché la politica inizia a diventare prevalente, al punto da identificare non una singola cosa, ma entrambi quei due aspetti che in precedenza erano ripartiti tra polizia e politica, cioè l’insieme delle istituzioni e le azioni politiche, quindi lo stato, le leggi, la forma istituzionale, le rivolte, la lotta per il potere. Con la svolta dell’età moderna, però, l’idea di politica subisce una trasformazione radicale, in quanto per i greci indicava un elemento, una caratteristica orizzontale, mentre per i moderni ha un’accezione verticale, plasmata dalla centralità che assume lo stato moderno. ‘Quando nasce lo Stato?’ È una domanda molto impegnata, ma possiamo più o meno collocarlo all’inizio dell’età moderna, quindi verso il 1500. In questa prima fase si tende a vedere nella politica nient’altro che l’azione dello stato, un'azione concepita come qualcosa che si esercita dall’alto verso il basso. Anche quando lo stato si democratizza, l’obiettivo dell’azione politica rimane quello di influenzare le sedi del potere. Dal 1800 il termine politica si diffonde talmente tanto da generare un’inflazione nell’utilizzo. Uno dei problemi che scaturisce dall’inflazione del termine politica, ma anche dal mutamento della concezione politica che si realizza a partire dalla transizione alla modernità, cioè a partire dal XVI secolo è quello della ridefinizione del rapporto tra esseri umani e politica come per gli antichi. Possiamo collocare l’inizio dell’età moderna nel 1492 anche se questa è ovviamente una data convenzionale che scandisce un prima ed un dopo. Mentre quella degli antichi era una concezione politica tendenzialmente e prevalentemente orizzontale, quella dei moderni è marcatamente verticale, perché costruita sul calco dello stato moderno, cioè sull’idea che ci sia un apparato di governo che dall’alto controlla la società ed esercita una coercizione. Abbiamo visto che questo rapporto problematico tra essere umano e politica non era in realtà dubbioso per gli antichi, infatti Aristotele aveva definito l’uomo come un animale politico, cioè in grado di costruire delle polis, perciò l’aspetto politico era implicito nel concetto di uomo. Questo rapporto è però evoluto nel tempo ed ha iniziato ad essere messo in discussione nella modernità, per cui si è cominciato a pensare che la politica fosse non un elemento innato, ma il frutto di un processo di civilizzazione. L’espressione natura umana, quindi, smette di avere un significato perché non c’è nulla di naturale nell’uomo, di conseguenza tutto diventa artificiale, culturale, in quanto l’uomo è ritenuto in grado di costruire sé stesso. Tornando al mondo greco, invece, possiamo identificare due diversi modi di guardare alla politica: • Ottimismo antropologico, secondo cui l’essere umano mostra tendenze cooperative, ed è quindi un animale capace di vivere pacificamente e con concordia in società. Il governo in questo caso serve a perseguire, tutelare e mantenere il bene comune. Un esponente di questo filone è sicuramente Aristotele. • Pessimismo antropologico o realismo politico, secondo cui l’essere umano è caratterizzato inevitabilmente dalla tendenza al conflitto. In questo caso l’ordine della società non può che essere il frutto della coercizione e della forza. L’esponente principale di questa corrente è sicuramente Tucidide, seguito nella modernità da Hobbes, suo continuatore per certi versi. L’etichetta di realismo è puramente artificiale e polemica, adottata solo per mettere in difficoltà gli avversari. Infatti queste due differenti visioni non caratterizzano solo l’antichità , ma permangono anche nella modernità, fino ad oggi, anche se in declinazione differenti. Una prima esplicitazione di questa contrapposizione e complementarietà, può essere sicuramente trovata nel contrasto tra Aristotele e Tucidide. Il modello aristotelico è quello che permane per circa 2000 anni a partire dalla nascita del suo pensiero e i suoi caratteri sono: • Non esiste uno stato di natura originario presociale in cui gli esseri umani sono vissuti nel passato, cioè gli esseri umani hanno vissuto sempre all’interno di formazioni sociali, a partire dalla famiglia, e non isolati; • Le comunità si sono create per rispondere alle necessità degli uomini, per cui a partire dalla famiglia, costituita per perseguire il fine della procreazione, avremo poi una comunità di villaggio, con l’obiettivo di garantire un'autosufficienza minima alle famiglie, e infine la comunità politica, costituita per garantire l’autosufficienza vera e propria dal punto di vista alimentare e della sicurezza. Tra queste comunità c’è, per Aristotele, una continuità di sviluppo, la comunità infatti si crea autonomamente per aggregazione, per rispondere a delle necessità comuni che le danno inoltre legittimità in modo naturale, senza che la legittimazione venga dal basso; • Secondo Aristotele, ma in generale anche per tutti gli antichi, inoltre non esistono gli individui come soggetti politici, poiché i soggetti politici sono la famiglia, la comunità del villaggio e la comunità politica. Gli individui quindi diventano soggetti politici, e di conseguenza acquistano valore, solo in quanto membri di un gruppo. La prospettiva realista parte da Tucidide e arriva fino a noi con determinate caratteristiche: • Esiste una natura umana che ha delle caratteristiche costanti ed immutabili, ci sono quindi determinati aspetti dell’essere umano che non possono essere modificati nemmeno tramite l’educazione, le leggi, le istituzioni; • Questa natura umana è contraddistinta da una tendenza alla violenza e al conflitto, che va a minare la cooperazione di cui invece parlava Aristotele. Quindi se il conflitto fa parte dell’uomo, l’uso della forza non sarà proprio solo degli individui ma inevitabilmente anche delle comunità; • Onnipresenza del conflitto come elemento ineliminabile; • L’ordine della società può essere conseguito solo tramite l’uso ella forza e della coercizione da parte dei pochi o dei molti. Le leggi, di conseguenza, non scaturiscono da un principio di eticità o di giustizia, ma sono fondate proprio sulla coercizione, anzi i principi etici hanno la sola funzione giustificazionista; • Esistono nella storia delle regolarità che si ripetono costantemente e ciclicamente, di conseguenza noi possiamo riconoscerle e studiarle scientificamente per prevedere il loro manifestarsi. Questo spiega perché molti realisti sono anche storici, come Tucidide. Egli quindi, essendo uno storico, a differenza di Platone ed Aristotele, non vuole decifrare i moventi della psicologia umana, ma crede che gli obiettivi che gli esseri umani perseguono sono: I. Ricchezza II. Sicurezza III. Onore Sono proprio questi i moventi delle conflittualità, ma che tuttavia non potranno mai essere raggiunti in maniera definitiva visto che tutti e tre acquistano valore in termini relativi. Cioè il fatto di essere considerati ricchi non dipende dalla quantità di ricchezze che si detiene, e lo stesso vale per la sicurezza, visto che l’essere umano e l’unico animale che non percepisce solo i pericoli reali ma anche i rischi potenziali, e l’onore, cioè la reputazione, il riconoscimento di cui si gode, dipende dagli altri. In conclusione per Tucidide l’uomo non è un animale politico, ma un animale desiderante, che anche quando raggiunge i suoi obiettivi ha la capacità di crearsi costantemente nuovi bisogni, che non sono semplicemente materiali, ma sono soprattutto simbolici, perché hanno a che fare con ciò che si è. Il modello aristotelico è quello prevalente fino alle soglie della modernità, quando inizia invece a prendere forma un modello differente, che possiamo denominare giusnaturalista moderno, distinguendolo in questo modo dal giusnaturalismo antico, che era un altro modo di guardare soprattutto alla forma delle leggi. Il GIUSNATURALISMO moderno afferma che tutti gli individui sono dotati di razionalità e tramite questa essi sono in grado di giungere a definire dei principi giuridici con cui regolare la loro convivenza. Esso quindi non si riferisce all’idea che ci sia una legge naturale che scaturisce da principi divini, perciò non ha alcuna connessione con un piano divino o trascendentale, ma al contrario si riferisce all’idea che l’essere umano è dotato di strumenti per creare delle istituzioni comuni ed interpretarle. A questo filone molto eterogeneo possiamo ricondurre alcuni operatori della modernità, come Hobbes, Locke, Rousseau e Kant, quattro pensatori tra loro molto differenti e lontani ma accomunati dall’idea che esista o sia esistito nel passato uno stato di natura , nel quale gli individui vivevano al di fuori di qualsiasi organizzazione sociale. Per alcuni addirittura si viveva fuori dalla famiglia, per altri invece la famiglia esisteva anche nello stato di natura. Ad ogni modo, lo stato originario pre sociale è uno stato individualistico, in cui il soggetto principale è l’individuo disancorato da qualsiasi appartenenza comunitaria, in cui egli deve sopravvivere. Lo stato di natura può essere caratterizzato in modo pessimistico, come in Hobbes, o in modo ottimistico, come in Rousseau, il quale dichiara che gli individui in questa condizione vivano in una condizione di felicità, anche se non proprio di pace. Secondo questo pensiero, la società in quanto tale e la società politica sono ‘esito di un contratto volto a costituire delle istituzioni comuni'. Questo chiarisce il fatto che la politica in quanto istituzione, leggi e governo sia percepita come artificio degli esseri umani, quindi creata razionalmente con l’obiettivo di mantenere la pace interna, ovvero la sicurezza. Si ha perciò un fine utilitaristico. Hobbes chiama questa entità artificiale leviatano, un termine biblico che indica un mostro capace di mantenere l’ordine. Egli ci dice quindi che gli individui allo stato di natura per ottenere la sicurezza decidono di creare artificialmente delle entità, delle istituzioni, uno stato, un sovrano con il compito di mantenere la pace, e in cambio di questa essi sono disposti a cedere gran parte della loro libertà. La progettazione e di costruzione di un mondo artificiale vengono anche plasmate delle regole con cui disciplinare se stessi e il mondo circostante, che siano socialmente compatibili. Tra queste regole ci sono anche quelle che riconduciamo alla sfera politica, quindi Gehlen afferma che la politica è legata alla natura umana limitatamente alla sua caratteristica di essere un animale progettuale. ERNST CASSIRER è anch’egli un filosofo tedesco, più o meno contemporaneo a Gehlen. Egli, nella ricerca della specificità dell’essere umano, si sofferma non tanto sul suo aspetto progettuale, quanto sul sistema simbolico Tutti gli animali, e quindi anche l’uomo, sono dotati di • un sistema ricettivo, l’insieme delle facoltà con cui si percepiscono le sollecitazioni provenienti dall’ambiente, quindi dato dai sensi • un sistema reattivo, quello che ogni volta che viene ricevuto un messaggio reagisce a questi stimoli provenienti dall’esterno. • Gli esseri umani però hanno un ulteriore sistema collocato tra questi due che è il sistema simbolico, ovvero quel sistema costruito culturalmente con cui essi interpretano, leggono culturalmente con codici appresi dall’ambiente in cui si trovano, le sollecitazioni. Questo sistema ci fa ovviamente interpretare in un certo modo la realtà e ci induce a dare una determinata risposta ad essa (es. religione, modo di vestirsi, appartenenza ad una nazione). Anche questo sistema simbolico, secondo Cassirer, è uno strumento attraverso cui gli esseri umani cercano di rispondere alle domande poste dalla necessità della sopravvivenza, ma attraverso di questi prende vita una seconda natura, che diventa più vera rispetto a quella originaria, ovvero la condizione puramente naturale in cui essi vivono. In questa seconda natura egli si trova inoltre costretto a cercare di trovare il senso della propria vita. L’essere umano è quindi definito come un animale simbolico. Questi due studiosi possono essere collocati alla fine del percorso in quanto essi ci dicono che l’essere umano ha sicuramente delle determinazioni naturali, tuttavia la componente simbolica non può essere trascurata. Ad esempio di fronte alla spiegazione di fenomeni brutali come le guerre e i conflitti, ci troviamo a ricorrere al sistema simbolico e progettuale che orienta l’azione dei singoli. A questo punto, avendo preso atto che l’uomo non è un animale politico ma piuttosto è un animale simbolico e progettuale, come possiamo definire la politica? Il FENOMENO POLITICO lo considereremo come un fenomeno che può articolarsi in diverse facce, cioè l’elemento della comunità, del potere, della classe politica, del nemico e la proiezione temporale. Ognuno di questi si lega strettamente a tutti gli altri, in modo che ognuno sia complementare rispetto agli altri e quindi non indipendente. Per definire il primo tassello, quello della COMUNITÀ, si dovrebbe tornare in realtà indietro nel tempo, in quanto nella concezione greca della politica la dimensione comunitaria era sicuramente prevalente, la polis era infatti una comunità di cittadini prima che un’istituzione di governo, aspetto sicuramente meno prevalente nella nostra concezione della politica, in quanto essa si traduce soprattutto in relazione i verticali di governo. In realtà anche la dimensione orizzontale della politica è una faccia importante del fenomeno, tanto che se questa non ci fosse non potremmo parlare di organizzazioni o dimensione politica. CARL J. FRIEDRICH è uno dei pochi politologi novecenteschi che si concentra su questa dimensione orizzontale. Egli un politologo tedesco che conduce gran parte della sua carriera accademica negli Stati Uniti e può essere considerato come un collegamento, un ponte, tra la vecchia tradizione europea e la scienza politica americana degli anni ’50 e ’60. Egli cerca di dare una definizione di politica senza fare riferimento al potere, come faranno invece molti altri, come Max Weber. La politica è per lui una dimensione specifica della vita umana, la dimensione comunitaria della vita umana, questa quindi si trova dove c’è una comunità. Egli ci dice solo che l’essere umano è un animale comunitario, perché esso ha delle specificità che lo differenziano da tutte le altre specie viventi, queste specificità sono: I. La vita in comunità dell’essere umano, infatti non ci sono testimonianze storiche di umani che hanno vissuto isolati, al di fuori di gruppi o comunità; II. L’essere umano è per le sue caratteristiche naturali duttile ed adattabile, quindi è in grado di adattarsi tendenzialmente a qualsiasi ambiente modificando sia l’ambiente che se stesso. L’essere umano è al tempo stesso produttore dell’ambiente in cui vive e prodotto dell’ambiente in cui si trova a vivere, cioè viene plasmato da esso; III. L’essere umano è un animale intenzionale, cioè si prefigge costantemente degli scopi, senza i quali non può vivere, dai più piccoli obiettivi della vita quotidiana a quelli più grandi. Questi scopi sono variabili perché individuali, personali, ma anche collettivi; IV. Gli esseri umani sono contrassegnati dall’esperienza del sé, cioè ognuno di essi è caratterizzato dall’idea che ci sia un elemento costante nella propria personalità nel corso di tutta la sua vita, cioè un identità, che è distinta rispetto a quella di tutti gli altri. Questa è una dimensione antropologica, ma anche psicologica, perché si riferisce proprio alla percezione che gli individui hanno di sé stessi. L’essere umano proietta questa convinzione anche su tutti gli altri, cioè ritiene che ogni essere umano abbia una sua identità personale e unica. Questo elemento è per Friedrich così rilevante perché l’uomo pretende, ha bisogno, che gli altri riconoscano la sua individualità, esso è perciò l’aspetto che caratterizza in modo specifico le comunità umane. Quindi queste sono caratterizzate dal riconoscimento di una individualità a ciascuno dei suoi componenti nonostante i ruoli che quell’individuo può occupare nel corso della sua vita. Una testimonianza di questo è ad esempio il fatto che gli individui si chiamino per nome. In sostanza per egli le società umane si differenziano perché riconoscono la diversità di ciascun individuo; V. L’essere umano è dotato di linguaggio, che è cosi importante non solo perché consente di comunicare e condividere le conoscenze, ma perché è quello strumento che consente di stabilire una connessione tra il passato e il presente, quindi di andare al di là del visibile, cioè al di là di ciò che i nostri sensi possono percepire. Esso consente di astrarsi dallo spazio fisico e di distanziarsi temporalmente dal qui ed ora. Questo elemento dilata le dimensioni della comunità e contribuisce alla formazione del mondo artificiale all’interno del quale l’uomo vive. In conclusione, secondo Friedrich dobbiamo ancora concepire la politica nella sua dimensione comunitaria, altrimenti perdiamo il tassello fondamentale della politica, perché se non esiste la convinzione che ci sia qualcosa di comune che lega insieme gli individui, non esiste la comunità e non può essere compresa effettivamente la politica. Inoltre l’uomo è un animale politico in senso lato perché ha necessità che la sua identità distinta sia effettivamente riconosciuta. Questo ci consente di formulare una primissima definizione di politica, ovvero, la politica è una specifica forma delle relazioni sociali, e cioè una forma sociale di tipo comunitario. Tuttavia questa è solo una premessa, perché dobbiamo ancora dare un significato preciso alla parola comunità. Possiamo fare questo ricorrendo alla risposta a cui hanno contribuito grandi esponenti della teoria sociale novecentesca, cioè Ferdinand Tonnies e Max Weber. FERDINAND TOENNIS è uno dei fondatori della sociologia tedesca che vive a cavallo tra i due secoli e introduce la distinzione cruciale tra comunità e società, da cui prende il nome anche la sua opera più importante, del 1887. Egli ritiene che tutti i legami sociali, cioè tutti quei tipi di reazioni in cui ci possiamo trovare nel corso della nostra vita, possano essere ricondotti a questi due tipi. • Comunità (Gemeinshaft) è un tipo di legame sociale naturale e organico, in cui non si decide di entrare ma di cui si è parte involontariamente per nascita o perché si vive in un determinato contesto. Ad esempio la famiglia, il villaggio e la comunità etnica, nazionale. Il legame con la comunità nazionale è un legame di consanguineità e di suolo. Prevalgono le ragioni del cuore, la dimensione dell’emotività. • Società (Gesellshaft) identifica tutte quelle relazioni sociali in cui sia entra volontariamente per raggiungere degli scopi. Prevalgono le ragioni dell'intelletto, cioè prevale una razionalità di tipo strumentale. Toennis afferma però che l’elemento comunitario e quello sociale si trovano in ogni momento e assetto sociale, anche in compresenza, in egli esiste però una concezione evoluzionista del concetto, per cui ci sarebbe una tendenza storica che conduce al passaggio dalla prevalenza della comunità, cioè di un legame di tipo tradizionale e familiare, ad una prevalenza della società, ovvero una comunità organica. Ci sarebbe quindi un processo di modernizzazione che conduce ad una prevalenza di rapporti in cui si entra per scelta volontaria individuale. Questo approccio evoluzionistico, che porta con sé l’idea che ad un certo punto la comunità scomparirà totalmente a favore della società, è proprio quello da evitare nella nostra concezione moderna di scienza politica. Ma anzi dobbiamo considerare il legame comunitario e quello sociale come elementi compresenti all’interno della maggior parte dei gruppi sociali senza porli in una scala gerarchica. Il limite principale della dottrina di Toennis è poi la sua considerazione di comunità come determinata da elementi e legami naturali in senso stretto, quindi tendenzialmente di sangue. Max Weber introduce invece in questa definizione il concetto di legame determinato culturalmente. MAX WEBER nel corso della sua carriera cerca di compiere uno studio sistematico dei vari tipi di comunità, e uno dei suoi obiettivi è quello di individuare i grandi idealtipi delle aggregazioni sociali, individuando le caratteristiche principali di ogni gruppo sociale. Egli riprende in qualche modo quel dualismo di Toennis, modificandone però i termini in lingua tedesca, lingua che rispetto alla nostra è molto più ricca di vocaboli in grado di indicare e distinguere i rapporti sociali. Quindi in italiano traduciamo queste espressioni da lui adottate in comunità e associazione. La comunità e l’associazione sono definite evitando di considerarle come tappe differenti di un processo evolutivo, ma semplicemente come tipi ideali che esistono in ogni tipo di società. • La comunità (Vergemeinshaftung) identifica quelle forme di aggregazione in cui gli individui agiscono sulla base di una comune appartenenza soggettivamente sentita, che può essere affettiva, emotiva o di tipo tradizionale, cioè quella in cui c’è un sentimento di fedeltà. Sono esempi di comunità le confraternite religiose, le relazioni sentimentali, la comunità nazionale. L’appartenenza ad una comunità non prevede l’intervento dell’elemento razionale e cioè si appartiene ad una comunità non per ragioni di tipo utilitaristico. Max Weber è consapevole che non esistono degli elementi naturali in grado di determinare l’appartenenza ad una comunità, ed anche quando esistono devono comunque essere percepiti come elementi culturali, ad esempio non è sufficiente vivere in un determinato luogo per sentirsi appartenenti alla comunità di quel posto. • L’associazione (Vergesellshaftung), invece, è un tipo di legame sociale a cui gli individui prendono parte sulla base di considerazioni di interesse razionalmente motivato oppure in conformità ad ordinamenti che sono razionalmente e finalisticamente stabiliti. Quindi non c’è un’appartenenza di tipo emotivo, ma un mero interesse di tipo individuale, perché in vista del perseguimento di questo interesse si rispettano le regole stabilite per raggiungere tale obiettivo. Ci sono tre grandi sottotipi di associazione: I. Relazione di scambio - legame tra due individui, ciascuno dei quali è motivato da un interesse di tipo individuale, per il perseguimento di un fine utilitaristico. Es. contratto. II. Unione di scopi - associazione più strutturata rispetto a quella di scambio, vede alcuni individui entrare in un legame associativo finalizzato ad un obiettivo che viene ritenuto comune. Es. tre individui mettono insieme parte del proprio patrimonio per costruire una società commerciale, per ciascuno ovviamente l’obiettivo sarà accrescere il proprio patrimonio e eseguire quindi uno scopo personale. III. Unione di intenzioni - in questo caso il movente dell’unione è il perseguimento di un valore, di un interesse di tipo valoriale. Esso rappresenta il caso limite che si può individuare tra associazione e comunità. La differenza tra queste due è sottile e sta nel fatto che essa è un’associazione che sosteniamo senza sviluppare un sentimento di appartenenza, nella comunità invece gli iscritti sentono di appartenere ad un gruppo che ha degli interessi comuni, che possono anche entrare in conflitto con gli interessi individuali (es. entrare in una associazione allo scopo di sconfiggere la fame nel mondo). Si può identificare un’ulteriore distinzione tra comunità e associazione in relazione al loro grado di apertura nei confronti dell’esterno. Weber afferma che tanto le comunità quanto le associazioni possono essere aperte o chiuse, relativamente all’esistenza di limiti all’ingresso per coloro che siano intenzionati a far parte di quel gruppo. Ad esempio una società commerciale non è così aperta, mentre una comunità può ammettere dei membri liberamente o a seguito di un esame, un test. Weber distingue un ulteriore sottotipo che può essere ritrovato sia nella comunità che nell’associazione, ed è quello del Verband, tradotto come gruppo sociale, aggregazione o gruppo di potere, tra queste espressioni la più corretta è l’ultima, infatti essa indica un gruppo sociale avente regole interne al funzionamento, il rispetto delle quali è garantito da un individuo o da un gruppo di individui, cioè un ristretto apparato amministrativo che controlla il rispetto delle regole. Questo aspetto è in qualche modo marginale nella considerazione orizzontale della società, mentre diventa cruciale nella concezione verticale della politica, cioè quella in cui emergono uno o più individui che iniziano ad esercitare il potere dall’alto. Le comunità possono essere considerate il primo tassello della politica, ma come si arriva a considerarla come tale? Cioè, come riescono gli individui di un gruppo a considerarlo come un soggetto? Per chiarire il concetto di comunità, cioè di un gruppo in cui esiste un legame affettivo rivolto ai suoi membri, ci serviamo del pensiero di due sociologi del Novecento, PETER BERGER e THOMAS LUCKMANN, due sociologi costruttivisti, che contribuiscono in prima persona a dare vita a questo filone intorno agli anni ’60 e ’70. In particolare essi chiariscono il concetto di ‘comune appartenenza soggettivamente sentita’, dicendoci come può formarsi e sostenendo che deve essere considerata dalle scienze sociali una costrizione sociale. Essi individuano tre tappe nella nostra vita quotidiana attraverso le quali arriviamo a percepire l’esistenza di un aggregato comunitario a cui attribuiamo una soggettività. Questa soggettività viene attribuita ad Il ‘monopolio della coercizione fisica’ non è una definizione prescrittiva, ma una descrizione, e in generale indica il relativo monopolio degli strumenti con cui si esercita la coercizione fisica, ad esempio le armi. Il monopolio non deve essere assoluto, altrimenti sarebbe praticamente impossibile, ma è di solito un monopolio tendenziale, che implichi un’asimmetria di risorse consistente, tanto da scoraggiare chi subisce la coercizione. L’obiettivo è quello di riuscire a mantenere l’ordine interno, quindi il rispetto delle regole e delle punizioni in caso di mancato rispetto. Se questo non avviene, allora non ci si trova di fronte ad un Verband, come ad esempio non lo è lo stato fallito, all’interno del quale non c’è una fazione prevalente che riesca a controllare stabilmente un territorio. La ‘legittimità’ di cui parla Weber, va distinta dalla legalità, infatti la legalità indica la coincidenza di un determinato comportamento con una norma, e questo non sempre coincide con la legittimità, che indica ciò che è ritenuto giusto sulla base di un principio, che potrebbe ad esempio essere religioso, ideologico, morale. Dunque qualcosa può essere legittimo senza essere legale e viceversa, ad esempio le leggi razziali sono legali ma non legittime, o almeno possono essere considerate da alcuni legittime secondo i propri valori, ma non da altri, in quanto violano i diritti fondamentali di una minoranza. Il mezzo di cui il Verband dispone non è solo il monopolio della coercizione, ma è il monopolio legittimo, considerato quindi giusto. Ma a questo punto potrebbe sorgere una domanda, che non troviamo in Weber, ovvero, è il monopolio della coercizione a rendere legittimo o è la legittimità del monopolio a permettere la coercizione? Secondo Weber c’è una molteplicità di motivi per cui gli uomini decidono di rispettare degli ordini imposti da altri, per esempio potrebbe essere per motivi economici, per un legame familiare con il detentore del potere, per convenienza sociale. Tuttavia, tutti questi motivi sono troppo deboli per spiegare in modo generico il fenomeno, per cui egli esegue una tripartizione di principi di legittimazione, che sono idealtipi, cioè forme pure: I. Legittimazione carismatica - dipende dal carisma del capo. Il termine carisma è stato secolarizzato e introdotto nel linguaggio comune proprio da Weber, che lo riprende dagli studiosi di storia dei movimenti religiosi. Infatti questo termine viene usato nelle lettere di San Paolo per indicare i discepoli ed i profeti, cioè i capi dei movimenti religiosi. La parola ha origine latina e significa dono di grazia. Weber con questo termine indica quindi il fenomeno per cui i seguaci di un leader ritengono che egli sia dotato di capacità eccezionali. In realtà ovviamente queste particolari facoltà non esistono, per cui si tratta solitamente di persone mediocri, ma ciò che è importante è la percezione che ne hanno gli altri. Perciò la fonte della legittimazione è la credenza e la fiducia nelle capacità del leader, il quale può anche sovvertire le leggi essendo un soggetto speciale. La legittimazione carismatica è quella che ha un’intensità maggiore, tuttavia, come Weber stesso evidenzia, il carisma è una risorsa tanto travolgente quanto temporanea, difficilmente conservabile nel tempo, a meno che non ci si sottoponga continuamente a delle prove. Il carisma dunque non si stabilizza, ma ha bisogno di essere alimentato, per cui, dopo l’iniziale picco di intensità, può andare incontro a due situazioni: può disperdersi o modificarsi e confluire in un’altra forma di legittimazione. II. Legittimazione tradizionale - secondo questo idealtipo si obbedisce a degli ordini perché chi li impone è legittimato a farlo dalla tradizione, cioè dall’’autorità dell’eterno ieri’. La tradizione ha spesso una connotazione di tipo sacrale e identifica dei principi e delle regole ereditati dal passato, che si ritiene debbano essere rispettati per non commettere un sacrilegio. Ad esempio nel mondo romano, particolarmente conservatore, sono rimaste le stesse istituzioni dalla genesi al tramonto, tuttalpiù esse sono state ampliate, ma mai soppresse, poiché questo permetteva di conservare l’equilibrio dell’impero che altrimenti, essendo violato, avrebbe potuto determinare conseguenze negative. Questo tipo di legittimazione può essere trovato in tutte le società tradizionali. III. Legittimazione razionale-legale - secondo quest’ultimo idealtipo, si aderisce ad un ordine perché esso si ritiene legittimo, in quanto chi lo impone è legittimato da una norma di carattere impersonale, istituita da esseri umani, per perseguire determinati obiettivi. Una norma di tipo impersonale è una norma che stabilisce delle regole senza però riferirsi a persone concrete. Queste norme non sono quindi per forza leggi, ma possono essere delle regole qualsiasi, che siano però istituite razionalmente. L’elemento che sottolinea che esse debbano essere create da esseri umani è di fondamentale importanza in quanto esso distingue questo tipo di legittimazione dalle altre due. Infatti, nella legittimazione di tipo carismatico, si ritiene che chi istituisce delle regole sia un essere eccezionale, non umano, allo stesso modo, nel caso della legittimazione tradizionale chi impone gli ordini è un elemento religioso, divino, nonostante questo ordine possa avere il carattere di impersonalità. Ad esempio, i 10 comandamenti sono regole di tipo impersonale, poiché non si riferiscono a qualcuno in particolare, ma hanno un carattere generale, tuttavia il rispetto di queste norme non è di tipo razionale, ma meramente dettato dal fatto che si ritenga che esse siano state istituite da un ente di carattere divino. Sono norme rispettate secondo questo tipo di legittimazione quelle che ordinano i sistemi liberal-democratici contemporanei o le aziende o la burocrazia o le forze armate. All’interno della burocrazia militare il soldato semplice obbedisce infatti a chi gli è superiore in grado, perché il regolamento stabilisce questo. In realtà questi idealtipi puramente teorici, nella pratica si presentano spesso intrecciati tra loro, per cui ci sarà un a molteplicità di motivi per cui delle norme sono ritenute legittime. Il criterio di legittimazione inoltre influenza il criterio di selezione dell’apparato amministrativo, un apparato di individui che detiene il monopolio del potere. Questo apparato ha evidentemente caratteristiche diverse in base al tipo di legittimazione. Ad esempio per quanto riguarda la legittimazione carismatica, si avrà un apparato amministrativo scelto in prima persona dl leader, sulla base di un rapporto di fedeltà, cioè verrà adottato un criterio di fedeltà personale e non di meritocrazia. Per quattro riguarda la legittimazione tradizionale invece il criterio adottato è quello della fedeltà alla tradizione, e quindi ai principi tradizionali. Viene quindi provata una reverenza accertata da specifici processi formativi, come l’iniziazione. L’apparato amministrativo sarà dunque composto da individui detentori di una conoscenza iniziatica. Per quanto concerne la legittimazione razionale, infine, il criterio adottato per la selezione dell’apparato amministrativo è quello dell’accertamento di competenze specifiche tramite delle determinate prove di tipo impersonale. Un esempio può essere quello delle selezioni pubbliche per militari, insegnanti, porta lettere, dipendenti della burocrazia statale. Max Weber formula la definizione di comunità politica circa un secolo fa, questa viene parzialmente ripresa dalla scienza politica contemporanea, con modifiche relative al concetto di centralità dello stato. Infatti in Weber lo stato rappresenta il paradigma della politica, e questo lo vediamo in particolare nella centralità che egli assegna al territorio. Invece i politologi statunitensi della metà del secolo scorso vogliono identificare il fenomeno politico oltre i confini occidentali, anche in civiltà che non conoscono l’elemento statale. Questo problema viene inizialmente introdotto dagli antropologi britannici e poi appunto ripreso dalla scienza politica. Lo stato viene in questo modo percepito come una delle molteplici possibili forme di organizzazione del potere. Gli antropologi, che iniziano a viaggiare nel mondo, presentano quindi uno strumento concettuale da usare in sostituzione a quello di stato e di Verband politico, cioè il sistema politico. Questo concetto, divenuto di fondamentale importanza intorno agli anni ’50, ha perso oggi parte della sua rilevanza, pur rimanendo indispensabile per il linguaggio politologico. L’idea del sistema viene ripeso da discipline più vicine alle scienze naturali. Un sistema può essere riconosciuto ogni volta che individuiamo un insieme di elementi stabilmente in relazione tra loro. Queste relazioni devono ovviamente essere costanti e non estemporanee. - La teoria del sistema ritiene che essi possono essere riconosciuti non solo in relazione agli individui, ma anche come insiemi di oggetti o gruppi. - Questo sistema però deve necessariamente avere un confine materiale o immateriale che lo tenga separato dall’ambiente esterno. - Il sistema tende sempre a mantenersi in equilibrio, infatti anche quando viene sollecitato da elementi interni o esterni esso tende a riprodurre le condizioni di equilibrio iniziale. Un sistema è quindi costantemente in rapporto non solo con l’interno ma anche con l’esterno. - Qualsiasi modificazione interna al sistema provoca un mutamento che coinvolge tutte le parti. Ad esempio possiamo pensare al corpo umano, un insieme di elementi stabilmente in relazione, in cui il mutamento delle condizioni anche di un singolo elemento provoca un cambiamento nelle condizioni generali. Esso inoltre reagisce ai fattori esterni, come il sudore in caso di ambiente caldo o brividi in presenza di un ambiente freddo. Queste idee vengono riprese dai politologi per considerare il sistema politico, di cui la più celebre rappresentazione è quella di DAVID EASTON, un famoso politologo canadese, passato alla storia proprio per questa proposta che schematizza il concetto di sistema politico. Il sistema politico è collocato in un ambiente, che è intra-societario, quello su cui il sistema esercita il proprio controllo, e extra-societario, che si trova oltre il confine. Il confine tra sistema politico e ambiente è legato alla specificità del sistema politico. Per descrivere questa specificità si ricorre alla proposta di GIOVANNI SARTORI, un rilevante politologo italiano del Novecento. Egli dichiara che il sistema è la sede delle decisioni collettivizzate, sovrane, coercitivamente sanzionabili e senza uscita. In sostanza, di sistemi e sottosistemi ce ne sono molti, ma solo quello politico è in grado di produrre decisioni che siano contemporaneamente collettivizzate, sovrane, coercitivamente sanzionabili e senza uscita. • Collettivizzate - le decisioni si rivolgono non a piccoli gruppi di individui ma a tutti gli individui che si trovano nell’ambiente societario, sono quindi valide erga omnes, cioè valide nei confronti di tutti i membri di una società, di una popolazione a cui si applica il potere. Ad esempio le leggi degli stati. • Sovrane - le decisioni del sistema politico non incontrano limitazioni di un’autorità superiore, quindi di un altro sistema che sia superiore. Sartori riprende questa idea da una definizione che dichiara che il sovrano non riconosce superiori. Ad esempio, le decisioni di un’organizzazione criminale sono coercitivamente sanzionabili, ma in genere non sovrane, perché incontrano li limite di un’autorità superiore, che è quella del sistema politico. In realtà ci sono situazioni estreme in cui un’organizzazione criminale rimpiazza completamente lo stato all’interno di un determinato territorio, questo succede ad esempio in alcuni stati dell’America latina in cui queste organizzazioni hanno ottenuto addirittura un ruolo politico, sottraendosi al controllo dello stato. Qualche anno fa invece il cosiddetto stato islamico aveva conquistato un certo territorio e si era posto l’obiettivo di divenire un sistema politico a tutti gli effetti. Questa situazione è durata in realtà pochi mesi per poi tramontare, ma comunque costituisce un esempio di tale situazione. Il sistema politico è quindi sovrano perché non esistono autorità sovraordinate ad esso. Una classica prerogativa dei sistemi politici è stata la soppressione fisica dell’opposizione, ad esempio attraverso la pena di morte, che oggi non è più lecita nel nostro paese, ma nel caso in cui il sistema decidesse di reintrodurla, esso potrebbe farlo perché non si scontrerebbe con norme o autorità di carattere superiore. Infatti, il diritto internazionale non potrebbe vietare questo in alcun modo, in quanto esso è un diritto di carattere pattizio, privo di autorità superiori che abbiano il potere di far rispettare le proprie norme. Ad esempio con lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, benché il diritto internazionale condanni la guerra, non c’è stato un intervento di una polizia internazionale per sanzionare o limitare il comportamento. Perciò il sistema internazionale è un sistema anarchico, privo di un’autorità sovrana, che sia al di sopra dei singoli sistemi politici. • Coercitivamente sanzionabili - sono decisioni che qualora non vengano rispettate possono essere rafforzate dalla sanzione della coercizione fisica. Ad esempio le norme della Chiesa Cattolica non prevedono una sanzione coercitiva in caso di mancato rispetto, infatti oggi la Chiesa Cattolica non è più un sistema politico. • Senza uscita - Sartori in questo elemento della definizione si riferisce ad una tripartizione individuata da un economista di origine austriaca, Otto Hirschman, il quale afferma che all’interno di un’organizzazione, gli individui hanno tre opzioni di fronte alle decisioni prese dai vertici: obbedienza alle decisioni, per cui si parla di • lealtà o fedeltà, • protesta in caso di disaccordo, indicata con l’espressione voice, • oppure uscita. In questo ultimo caso, quando qualcuno si trova fortemente in disaccordo con una decisione presa dai vertici dell’organizzazione, egli può uscire, cioè sottrarsi ad essa. Ad esempio un membro di un circolo sportivo può non rinnovare la tessera e quindi uscire dal circolo stesso nel caso in cui i vertici decidessero di raddoppiare la tassa d’iscrizione annuale. Anche nei partiti politici è prevista questa opzione, a differenza delle decisioni del sistema politico, che sono senza uscita, cioè non ammettono la possibilità ad individui o gruppi di individui di derogare le regole che hanno stabilito. Ad esempio se lo stato italiano decide di alzare le tasse per alcune categorie di persone al 50%, quelle categorie di persone non hanno la possibilità di uscire e creare uno stato autonomo e indipendente. Il sistema politico non ammette questa possibilità perché se la ammettesse tutte le sue decisioni rischierebbero di non essere accettate. Questo ovviamente non significa che nessun sistema politico abbia mai subito l’uscita da parte di alcuni individui, perché nella storia ci sono state delle secessioni e delle guerre civili, ma quando questo succede il sistema perde un pezzo o cessa di esistere, in quanto non è più in grado di produrre decisioni collettivizzanti, sovrane, coercitivamente sanzionabili e senza uscita per un determinato territorio. Tuttavia, oggi, ad esempio all’interno dell’Unione Europea potremmo avere la sensazione che i confini non esistano e che ciascuno possa oltrepassare i limiti, tuttavia questa è un’eccezione. Infatti gli stati appartenenti all’UE si sono accordati per abolire i confini interni. Non ci si può però dimenticare che uscire dai confini è una concessione che lo stato ci fa e infatti l’invenzione del passaporto è legata proprio alla limitazione della mobilità. Se il sistema politico non è in grado di limitare la possibilità di uscita da parte dei propri cittadini, allora significa che esso sta perdendo le proprie caratteristiche, altrimenti infatti non avrebbe più risorse, non potrebbe più imporre delle tasse né potrebbe imporre la leva militare in caso di guerra. Questa definizione di Sartori non è prescrittiva, ma descrittiva, cioè non impone le regole ideali per la creazione di un sistema politico, ma elenca le caratteristiche che devono essere identificate laddove c’è Le domande possono venire sia dal singolo individuo che da raggruppamenti più ampi, da categorie sociali, ma anche dall’esterno della società. Ad esempio uno stato straniero può chiedere qualcosa al sistema politico italiano, oppure può porre una sollecitazione ad esso. Tuttavia, non tutte le domande provenienti dall’ambiente arrivano poi al sistema, infatti ci sono dei filtri, dei regolatori d’accesso che possono esse strutturali o culturali. I regolatori strutturali, fanno riferimento a degli insiemi stabilizzati di ruoli sociali, quindi più concretamente organizzazioni più o meno formali, che si occupano di trasferire le domande al sistema politico. Ne sono esempi i partiti politici, i sindacati, le organizzazioni di categoria, in generale tutte le organizzazioni che cercano di premere sul sistema politico e che aggregano delle domande presenti nella società per trasferirle nel sistema. Solitamente una domanda individuale ha maggiore difficoltà ad entrare nel sistema politico e ad essere considerata da esso, mentre se a farsi portatore di quella richiesta è un regolatore d’accesso, essa arriverà probabilmente prima. I regolatori di tipo culturale sono invece i valori condivisi dalle principali forze politiche e sociali e operanti dentro il regime politico. Per cui questo filtro esclude tutte quelle richieste che entrano in qualche modo in contrasto con i valori di fondo del regime politico esistente. Alcune domande verranno quindi escluse a priori e non considerate, perché appunto non riusciranno a superare la barriera che separa l’ambiente dal sistema. I regolatori di tipo culturale sono ovviamente dinamici, quindi mutano nel corso del tempo anche a seconda delle questioni eticamente sensibili, ma in generale anche i regolatori di tipo strutturale non possono essere ritenuti stabili, perché soggetti al mutamento culturale e politico. I flussi di sostegno sono in generale quei flussi attraverso i quali una società legittima il regime politico esistente, cioè le regole formali e informali vigenti in un determinato momento. I flussi di sostegno possono essere specifici o diffusi. Essi sono specifici quando si va a legittimare una particolare carica politica, un leader, una forza politica, mentre sono diffusi quando investono e vanno a beneficiare l’intero sistema, l’intero regime. Inoltre questo flusso va distinto tra sostegno manifesto e sostegno latente. Il sostegno manifesto lo troviamo quando riconosciamo nella società delle manifestazioni evidenti di sostegno, di legittimazione. Quando invece non possono essere identificate manifestazioni di assenso, ma nemmeno di protesta al regime, allora si avrà un sostegno latente, cioè meno esplicito, meno visibile. I flussi di sostegno, più di quelli di domanda, sono indispensabili per mantenere in vita il sistema, quindi se questi vengono meno il regime entrerà in crisi. Il modello di Easton viene poi ripreso e raffinato dagli struttural-funzionalisti, in particolare da GABRIEL ALMOND e BINGHAM POWELL. Lo struttural-funzionalismo è una macro teoria che ha una grande fortuna dagli anni ’40 agli anni ’70 del Novecento e riguarda diverse discipline, come la sociologia e l’antropologia, oltre alla scienza politica. Gabriel Almond è tra i due sicuramente il più famoso, egli è stato un grande politologo, uno dei più influenti della seconda metà del Novecento. L’idea di fondo dello struttural-funzionalismo in ambito politologico è che tutti i sistemi politici possono essere comparati tra loro, per le maggiori o minori capacità che hanno di assolvere e di svolgere alcune funzioni fondamentali. Questa teoria, che ha avuto una grande fortuna, è stata in realtà oggi abbandonata, ma nonostante questo ne riprendiamo il lessico perché esso è rimasto in uso in ambito politologico. Gabriel Almond ritiene che per sopravvivere i sistemi politici debbano svolgere alcune funzioni vitali, uguali per tutti, sia che ci si trovi di fronte ad un piccolo sistema, come una tribù, sia che ci si trovi di fronte ad un sistema politico strutturato, come quello di uno stato. Secondo gli struttural-funzionalisti la differenza sta nelle strutture che svolgono le funzioni essenziali, che possono essere più o meno specializzate. Queste strutture sono degli insiemi di ruoli relativamente stabilizzati, quindi in sostanza delle organizzazioni o istituzioni, che stabiliscono cosa devono fare gli individui in maniera relativamente stabile. Secondo Almond le funzioni che ogni sistema politico deve svolgere sono otto: I. Articolazione degli interessi - trasferimento delle domande dalla società al sistema; II. Aggregazione degli interessi - identifica l’aggregazione delle domande, sia individuali che collettive, in vere e proprie proposte; III. Formulazione delle norme - corrisponde alla funzione legislativa; IV. Esecuzione delle norme - corrisponde alla funzione esecutiva; V. Applicazione giudiziaria delle norme - corrisponde alla funzione giudiziaria; VI. Socializzazione politica - funzione che consente ad un determinato regime politico, di trasmettere i propri valori alle nuove generazioni, per cui di produrre nuova legittimazione; VII. Reclutamento politico - funzione con cui si recluta dalla società quegli individui che andranno ad occupare le posizioni di potere, le cariche politiche, all’interno del sistema; VIII.Comunicazione politica - funzione che tiene in connessione tutti gli elementi del sistema politico, ma soprattutto sistema e società, essa è quindi rivolta dal sistema all’ambiente. In realtà queste funzioni vengono nel corso degli anni ’50 e ’60 modificate dallo stesso Almond per cui in alcuni testi potrebbero essere citate in numero inferiore, tuttavia al compimento del modello le funzioni risultano effettivamente otto. Tutte queste funzioni sono vitali, per cui se una di esse entra in crisi probabilmente entreranno in crisi anche le altre con il rischio che il sistema si dissolva. Il potere può essere definito non come un mezzo, ma come una relazione. Spesso l’espressione potere viene utilizzata infatti per riferirci a qualcosa che gli individui posseggono, ad esempio si dice che un soggetto prende il potere, o ha un grande potere. Queste espressioni sembrano evidentemente suggerire l’idea che il potere sia qualcosa che si possegga, e in effetti alcuni pensatori hanno definito il potere proprio come un mezzo. Ne è un esempio Thomas Hobbes, il quale afferma che il potere è il mezzo attraverso cui gli individui possono assicurarsi un futuro tranquillo, quindi la sicurezza. Si deve invece oggi distinguere tra il potere e i mezzi che possono essere utilizzati per esercitarlo, in particolare, seguendo il pensiero del politologo italiano della seconda metà del Novecento MARIO STOPPINO, definiamo il potere come una relazione sociale, cioè come una relazione tra esseri umani. Quest’ultimo aspetto potrebbe apparire scontato, ma specificandolo possiamo restringere il nostro campo di azione alle relazioni umane. Più precisamente, Stoppino afferma che questa relazione è un rapporto di causazione sociale, intenzionale e/o interessata. Causazione sociale significa che il comportamento di un soggetto a, emettendo un ordine o compiendo una determinata azione è la causa del comportamento di un soggetto b, quindi il soggetto a è colui che esercita il potere ed il soggetto b è colui che lo subisce. Stoppino in realtà fa una precisazione a questo proposito, e dice che quando si tratta di esseri umani non si ha mai a che fare con delle relazioni causali in senso deterministico, ma si è di fronte a relazioni causali in senso probabilistico, infatti non si può mai essere certi che le cose siano effettivamente determinate dagli ordini di un altro individuo. Questo però non è sufficiente a definire esaustivamente il concetto, per cui Stoppino si chiede se il comportamento di a deve essere per forza intenzionale per essere definito potere, o se può essere anche interessato. Ad esempio, se un individuo armato incontra un soggetto per strada e gli ordina di seguirlo o di consegnargli il portafogli e quell’individuo segue effettivamente i suoi ordini, ci si trova evidentemente di fronte ad una relazione di potere intenzionale. Il comportamento del primo soggetto infatti, influenza volontariamente, intenzionalmente quello del secondo soggetto. Se invece di fronte ad una resistenza del soggetto il rapinatore gli sparasse per prendergli il portafogli, non ci si troverebbe più di fronte ad una relazione di potere perché nel momento in cui uno dei due contendenti viene meno, la possibilità che ci sia effettivamente una relazione viene soppressa. Allo stesso modo la relazione di potere scompare nel momento in cui il soggetto riesce a scappare. Se invece il rapporto di causazione non è intenzionale, ci si trova ancora di fronte al una relazione di potere? Noi ogni giorno siamo inseriti in una serie di rapporti sociali che implicano il fatto che il nostro comportamento si modifichi. Ad esempio, quando si entra in aula, si scelgono i posti anche influenzati dal fatto che la nostra scelta è stata modificata da chi è arrivato prima di noi. Oppure, quando si è in strada si è influenzati dal comportamento di tutti gli altri automobilisti, ad esempio se chi sta davanti a noi frena improvvisamente, noi saremo inevitabilmente costretti ad assumere un comportamento in conseguenza a questo. Possiamo considerare queste relazioni come rapporti di potere? La risposta principale a questa domanda chiama in causa l’interesse, infatti, anche se in questo caso il soggetto a non vuole modificare il comportamento del soggettoB, il soggetto B modificherà ugualmente il suo comportamento in una direzione che è conforme agli interessi del soggetto A. Secondo alcuni politologi, tra cui Stoppino, anche in questo caso si tratta di una relazione di potere, in quanto B modifica il suo comportamento per avvantaggiare a. Un esempio potrebbe essere costituito da un capoufficio ed un sottoposto. In particolare, una mattina il sottoposto, vedendo arrivare il capoufficio imbronciato, decide di evitare qualsiasi situazione di attrito con egli. Anche in questo caso ci si trova di fronte ad una relazione di potere, in quanto il soggetto B, senza ricevere alcun ordine specifico, modifica il suo comportamento a vantaggio dell’individuo A. Oppure potrebbe costituire un esempio il caso di un capo di un’organizzazione malavitosa che vive nello stesso quartiere dei suoi vicini. I vicini saranno ovviamente particolarmente ossequiosi nei suoi confronti, e gli consentiranno particolari vantaggi, perché temono che questo potrebbe rivolgersi a loro con violenza. Anche in questo caso c’è tra i soggetti un rapporto di potere non intenzionale, ma interessato, in quanto il soggetto non emette concretamente nessun ordine. Questo situazione è ovviamente applicabile anche ai rapporti fra i vari stati, in cui uno stato con rilevanza marginale può essere particolarmente ossequioso nei confronti di una grande potenza. In realtà non tutti i politologi sono d’accordo con questa definizione, infatti, l’interesse può essere considerato qualcosa di soggettivo, che dipende dalle percezioni, dai contesti, dalle rappresentazioni. Un’altra obiezione che potrebbe essere sollevata è che se c’è un rapporto di causazione interessata, probabilmente è perché nel passato c’è in realtà stata una relazione di causazione intenzionale. Ad esempio, per quanto riguarda la situazione del capoufficio e del sottoposto, probabilmente egli assume questo comportamento in quanto in precedenza potrebbero essere stati licenziati dei soggetti nelle medesime circostanze. Oppure nel caso del malavitoso ci potrebbero essere stati dei fenomeni di violenza nei confronti di vicini che si sono apposti al suo comportamento. Quindi l’idea di rapporto di causazione sociale esclusivamente interessato, o non intenzionale, va considerato con una certa cautela, sia perché l’interesse non è mai qualcosa di estraneo alle relazioni di potere, sia perché spesso i rapporti di causazione interessata hanno alle spalle rapporti di causazione intenzionale. Per quanto riguarda invece le modalità attraverso le quali il potere può essere esercitato, va innanzitutto costruita una tassonomia sulle forme di esercizio del potere. Si deve prima di tutto distinguere tra le forme di esercizio del potere aperto e le forme di esercizio del potere occulto, che chiamiamo manipolazioni. La differenza tra queste due forme sta nella consapevolezza del soggetto che subisce il rapporto di potere, infatti, nel caso in cui il soggetto b non sia consapevole del fatto che qualcuno stia cercando di modificare il suo comportamento si è di fronte ad una manipolazione. Se invece il soggetto b è consapevole, allora ci sarà una forma aperta, palese, di esercizio del potere. I tipi di manipolazione secondo stoppino sono tre, in particolare si parla di: • Manipolazione dell’informazione, in questo caso il soggetto a fa leva sulle informazioni di cui dispone il soggetto b per alterne il comportamento. In particolare, il soggetto A andrà a modificare le il quadro di informazioni sulla base del quale il soggetto B prende le sue decisioni. L’esempio più scontato di questa tipologia e sicuramente la censura. Infatti in alcuni contesti, non democratici, si decide di impedire all’opinione pubblica di venire a conoscenza di determinati fatti, sopprimendo la possibilità che essi possano reagire. Ovviamente una vera e propria censura viene riconosciuta solo nei contesti in cui non c’è un pluralismo informativo, mentre nei contesti democratici si parla spesso non tanto di censura, quanto di modificazione delle informazioni, o di diffusione di informazioni differenti, allo scopo di disorientare il pubblico. Ad esempio un’industria che produce tabacco potrebbe non voler diffondere le notizie relative alle ricerche condotte, che dimostrano la dannosità dei propri prodotti. • Manipolazione psicologica, agisce sui meccanismi psicologici inconsci, cioè di cui i soggetti non sono consapevoli, e che non possono di conseguenza controllare. Ne sono un esempio le tecniche pubblicitarie, che vanno a sollecitare determinate reazioni psicologiche attraverso vari tipi di immagini. Una tecnica che veniva usata in passato, ma che oggi è tendenzialmente proibita in quasi tutti paesi, è quella della pubblicità subliminale, ovvero, quella che tramite determinate immagini suscita certe reazioni. Ad esempio una pubblicità di una bevanda potrebbe attivare lo stimolo della sete, e quindi quel prodotto verrebbe legato a quel determinato stimolo. Un altro esempio potrebbe essere quello dell’utilizzo dell’immagine femminile nelle pubblicità rivolte prevalentemente ad un pubblico maschile, come moto o automobili. Altri esempi di questo tipo sono l’utilizzo della musica o di essenze profumate all’interno dei centri commerciali per incentivare i consumatori a rimanere per più tempo. • Manipolazione situazionale, in questo caso si opera non sul singolo soggetto, ma sul contesto, sull’ambiente, in modo da indurre poi gli individui a compiere determinate scelte. Per la difficoltà ad agire sull’ambiente, questa tipologia è in genere quella che viene applicata più di rado, ma può essere identificata ad esempio nei regimi totalitari, in cui effettivamente si dispone del monopolio delle risorse. Per fare un esempio ci si può riferire alle architetture di alcuni negozi, pensate per modificare il comportamento dei consumatori. Anche per quanto riguarda l’esercizio del potere aperto possono essere individuate diverse forme attraverso cui questo si manifesta. Esse si dividono in: • Remunerazione, è la forma di esercizio in cui un soggetto A riesce a modificare il comportamento del soggetto B promettendo una ricompensa, cioè una remunerazione. Rientrano in questa forma tutte le prestazioni in cui si ottiene una retribuzione per un compito che si è svolto, ne è un esempio il rapporto di lavoro. • Costrizione, è una forma di esercizio del potere in cui il soggetto A modifica il comportamento di B minacciando il ricorso alla violenza e dunque minacciando una costrizione, minacciando l’utilizzo di strumenti coercitivi che costringono il soggetto a fare determinate cose. Un esempio di questa tipologia è il nostro sistema legale, che in gran parte si basa su questo meccanismo per cui, qualora un individuo non rispetti le leggi, viene minacciato il ricorso alla costrizione che può comportare una detenzione per diversi anni o la sottrazione dei beni di cui dispone. • Reazioni previste, identificano una modalità di esercizio del potere in cui un soggetto A modifica non intenzionalmente il comportamento del soggetto B, ma in modo tale che il comportamento di questo andrà comunque a convergere verso i suoi interessi. Queste riguardano quindi tutti quei Ad esempio ricorrendo all’idea del far west, in cui non c’è un ordine politico stabilito dall’alto, possiamo immaginare un gruppo di pionieri privi di armi che possono essere sottoposti al dominio di un gruppo di armati che dispone di armi salienti di cui ha il monopolio, in quanto in quello stesso territorio non ci sono altri gruppi armati che possano difendere quegli strumenti coercitivi. Quindi se B non possiede delle risorse analoghe, in grado di controbilanciare il potere di A, allora si crea una situazione di dominio. A questo punto però potremmo chiederci se delle risorse di tipo economico potrebbero risolvere questo squilibrio, ma in questo caso ciò non è possibile, quindi se il soggetto B non dispone di armi esso si trova comunque sottoposto al potere esercitato da A, perché chi dispone delle risorse coercitive si approprierà facilmente delle risorse economiche del soggetto che le presenta ed è disarmato. Possiamo allora chiederci se l’assenza di monopolio potrebbe modificare questa situazione. Tornando all’esempio, se il gruppo di armati avesse le armi ma non il loro monopolio, allora il gruppo di pionieri potrebbe cercare protezione presso un altro gruppo C detentore di armi. Tuttavia questo non cambierebbe la condizione di inferiorità di B, che passerebbe semplicemente dall’essere sottoposta ad A ad essere sottoposta a C. Di conseguenza le risorse economiche non possono controbilanciare quelle coercitive, nemmeno nel caso in cui di queste non ci sia il monopolio. Il potere simbolico, relativo alle credenze, alle convinzioni riposte in alcuni valori, produce identità etico- sociale e l’identificazione con una comunità, valorizzata in criteri eticamente positivi. Queste risorse sono quindi connesse all’identità di ciascun individuo, che esso ha in quanto appartenente ad un gruppo, ad una categoria sociale. Sono risorse simboliche quelle legate a tutti i generi di onorificenza, ma più in generale a tutte quelle cose che fanno sì che ad un individuo venga attribuito un riconoscimento positivo o negativo da parte della società. Ad esempio un cattolico che viene scomunicato dal papa perde la propria identità in quanto cattolico e di conseguenza diventa estraneo all comunità cattolica. Sono legati a questo anche tutti i meccanismi con cui si riconosce che un individuo appartiene ad una comunità e detiene un valore positivo proprio in quanto appartenente a questa comunità. Ad esempio il titolo di laurea è un titolo simbolico, che tutti si impegnano a riconoscere, oppure le banconote a cui tutti convenzionalmente attribuiamo un valore simbolico condiviso. Tutto questo dimostra che le risorse simboliche non hanno valore per tutti, ma solo per coloro che credono in quesi determinati simboli, questo aspetto ha delle conseguenze anche su come si può giungere ad una situazione di squilibrio. Le condizioni con cui si giunge al dominio ideologico simbolico sono la detenzione da parte di un soggetto A di risorse salienti per il soggetto B. Ad esempio il sistema educativo universitario europeo si basa sull’idea che le risorse simboliche che attestano le conoscenze di un individuo siano assegnate da determinate istituzioni, in questo caso quindi le risorse simboliche sono detenute da un’istituzione, ma potrebbero in altri casi essere detenute anche da un singolo individuo, come nel caso del capo di una setta. Le risorse ovviamente non sono salienti per tutti, ma solo chi fa parte di quella determinata comunità. Il loro peso diventa ovviamente maggiore nel caso in cui si ha il monopolio delle risorse simboliche, in cui il possessore del potere cioè è in grado di dare valore simbolico e riconoscimento ai membri oppure negarlo loro, punendoli con il proprio disprezzo. Questo meccanismo può essere trovato anche in campo politico, se ad esempio pensiamo ad andare a vedere il funzionamento dei partiti ideologici di massa, in cui la segreteria e i vertici del partito detenevano il potere. Poiché ci sia una condizione di dominio ovviamente deve esserci un disequilibrio di risorse, per cui il soggetto B non avrà risorse simboliche analoghe. Anche in questo caso la violenza non può funzionare come riequilibratrice delle situazioni di asimmetria, in quanto in generale la violenza non è uno strumento che consente di appropriarsi di potere simbolico. Abbiamo fin qui analizzato il potere, ragionando in termini macro politici, cioè andando a considerare la reazione tra due soggetti, ma possiamo a questo punto chiederci quando una reazione di potere diventa effettivamente una relazione di potere politico, cioè quando da una relazione binaria si arriva ad una condizione in cui un gruppo di individui detiene il monopolio della forza legittima. Per ricostruire questo passaggio usiamo il contributo del pensiero di POPITZ GERMAN, uno studioso tedesco. Egli si chiede, sulle orme di Max Weber, quando si passa ad un vero e proprio potere politico e per rispondere a questa domanda distingue innanzitutto tra tre processi che sono connessi tra loro e portano alla stabilizzazione e istituzionalizzazione del potere. • La prima di queste dinamiche è la spersonalizzazione, cioè il potere non si esercita tra individui, ma viene ricondotto a delle regole di carattere impersonale. • Il secondo processo riguarda la formalizzazione del potere, che è strettamente connesso al primo punto, e consiste nell’elaborazione di regole formali che regolano l’esercizio del potere formale. • Il terzo processo consiste invece nell’integrazione dei rapporti di potere in un ordinamento complessivo, infatti secondo egli tutti le regole impersonali che si vengono a creare si combinano tra loro in un grande apparato complessivo, per cui tutte le istituzioni che nascono vengono ad integrarsi e coordinarsi l’una con l’altra. Popitz inoltre individua cinque tappe attraverso le quali si giunge alla stabilizzazione del potere, sulla quale egli si concentra. I. Potere sporadico, una relazione di potere che si presenta occasionalmente. Ad esempio un individuo dotato di arma si imbatta in un individuo che ne è privo e lo minaccia, questa è una relazione di tipo sporadico perché non si produce abitualmente, in quanto probabilmente il viandante non ripercorrerà più quella strada e magari avrà anche esaurito le sue ricchezze, quindi il brigante non potrà più esercitare il suo potere su di lui. II. Potere standardizzante, un potere che riproduce costantemente le condizioni della relazione di potere, quindi stabilisce delle regole che si ripetono ciclicamente e che quindi consentono che la relazione di potere diventi minimamente stabile, regolare. Tornando all’esempio del brigante possiamo immaginare che questo brigante none eserciti il proprio potere su un viandante ma su una comunità ed ogni settimana egli utilizzando le armi richiede loro costantemente il pagamento di un tributo. Il potere standardizzante perciò in questo caso non si esplica in un’unica occasione ma si regolarizza. Le condizioni per cui si passa dalla prima alla seconda tappa devono innanzitutto consistere nel fatto che le risorse di potere non si esauriscano e non si consumino troppo in fretta. Deve ad esempio avere a disposizione armi che non si esauriscano. La seconda condizione afferma che l’esercizio del potere deve connettersi a delle situazioni replicabili, e non a situazioni occasionali. Dunque chi esercita il potere deve essere in grado di imporre prestazioni ripetibili, e questa è la terza condizione necessaria. Se ad esempio un individuo nasconde una grande quantità di ricchezze nella sua abitazione egli può essere soggetto a situazioni di dominio in seguito alle quali le ricchezze si esauriscono e quindi non ci sarà un ulteriore incentivo ad esibire questo potere. Situazioni replicabili, che consentono di imporre prestazioni ripetibili sono ad esempio le prestazioni connesse ad attività produttive, come la coltivazione dei campi ma in generale a tutte le attività lavorative. Gli studiosi affermano che tendenzialmente le organizzazioni proto-statali iniziano a comparire nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione neolitica, quando aumenta quantitativamente il numero di individui coinvolti e quando si inizia a dedicarcisi in modo regolare all’attività agricola. Questo crea le condizioni perché ci sia un potere standardizzante e quindi una stabilizzazione del potere. L’ultima condizione prevede che chi esercita il potere debba essere in grado di trattenere il più debole. Intercalandoci in una situazione in cui non esistono né istituzioni politiche né una forma di governo, ad esempio in un villaggio di contadini, in cui si presenta ad un certo punto un gruppo armato che impone un tributo settimanale in termini di forza lavoro e prodotti alimentari. Quale potrebbe essere la reazione del gruppo non armato di fronte alle minacce? Possiamo immaginare che i contadini ad un certo punto decidano ad esempio di scappare, allontanarsi per sfuggire alla presa degli oppressori, cioè mettono in atto quella strategia che è istintiva di fronte al pericolo. Secondo Popitz tuttavia questa possibilità non deve esserci affinché ci sia il passaggio al potere standardizzante, cioè non devono esserci possibilità di fuga per chi è soggetto al potere. Questa limitazione potrebbe anche sfociare in una limitazione concreta delle libertà se ad esempio pensiamo ai detenuti negli istituti penitenziari. Non si deve necessariamente pensare a queste forme di costrizione, perché esse possono essere anche limitate alla possibilità di accesso alle risorse, ad esempio nelle società capitalistiche. Qui gli individui sono costretti a vendere la propria forza lavoro anche senza che ci sia una coercizione nei loro confronti, questo era il discoro che faceva Marx quando parlava della cosiddetta accumulazione originaria. Quindi il passaggio a questa tappa non prevede per forza che ci sia una costrizione fisica, tuttavia se pensiamo agli stati contemporanei un certo livello di costruzione fisica c’è sempre ed è ad esempio rappresentata dai confini territoriali. III. Posizionalizzazione del potere, cioè la stabilizzazione, la cristallizzazione, il consolidamento di posizioni di potere standardizzate che creano una posizione di potere sovrapersonale, è quindi qualcosa di connesso al processo di personalizzazione nel caso della comunità. Si crea in questo caso un ruolo sovrapersonale da cui viene esercitato un potere. Ad esempio all’interno di un gruppo può emergere un leader, un capo, che inizia a prendere le decisioni e quindi conta più degli altri, ma in questo caso non ci sono regole formalizzate o ruoli specifici. Si passa invece ad una posizionalizzazione del potere solo quando si dà un’organizzazione più strutturata, si crea un determinato ruolo assegnato tramite specifiche regole. Il gruppo dovrebbe darsi quindi un’organizzazione più formalizzata e stabile per divenire tale. La persona che esercita il potere viene intesa come rappresentante formale dell’intera collettività, quindi un rappresentante sovrapersonale. IV. Nascita di strutture posizionali di dominio questa tappa è strettamente connessa alla precedente. Le strutture posizionali di dominio sono gli apparati di cui chi è a capo di un gruppo si serve per esercitare continuamente il potere in maniera più efficace. Questa può essere un’organizzazione più o meno efficiente e strutturata che continuativamente esercita il potere. Ad esempio se in un gruppo emerge una figura dominante, considerata rappresentante della collettività, questa per poter esercitare continuativamente il potere creerà intorno a sé un apparato di individui che materialmente esercitano il potere, come il gruppo di armati e di schiavi che circonda il signore. A questo punto essenzialmente si ha già una stabilizzazione del potere. V. Dominio statale, inteso in senso ampio, non riferito solo allo stato moderno ma a forme organizzate e stabili del sistema politico. In questa ulteriore tappa c’è la trasformazione del dominio centralizzato in una pratica quotidiana, cioè la sua estensione a tutti gli ambiti della vita quotidiana. Popitz afferma che tramite queste tappe si passa da un esercizio potere sporadico, analogo a quello visto con Stoppino, quindi un rapporto di causazione sociale intenzionale o interessato, ad un vero e proprio dominio statale, ovvero un sistema politico in grado di esprimere decisioni collettivizzanti, sovrane e coercitivamente sanzionabili. Alcune di queste tappe possono essere riconosciute anche in organizzazioni che non sono strettamente politiche, ad esempio nei gruppi criminali che diventano appunto vere e proprie organizzazioni criminali piuttosto formalizzate, come ci dicono i sociologi della mafia. A questo punto va collegata questa indagine alla esplorazione teorica che compie STEFANO BARTOLINI nel suo volume Il politico. Egli cerca di definire una concezione della politica che si concentra proprio sulla dimensione verticale della politica, prendendo spunto dalle definizioni di Stoppino e di Laswell, pur declinandole diversamente. L’obiettivo di Bartolini è quello di individuare la specificità del comportamento politico, che identifica, non nelle motivazioni classiche come l’interesse, la morale e l’onore, ma nella richiesta di conformità comportamentale. Egli non usa l’espressione potere perché ritiene che possa essere fraintesa, possiamo infatti usare il termine potere riferendoci a qualcosa di strutturale, non legato alle intenzioni degli individui, ma utilizza appunto quella di comportamento politico. Secondo Bartolini l’azione politica è quella che ricerca una conformità comportamentale, infatti egli esclude dalla sua definizione il termine potere in quanto ritiene che questo possa riferirsi non solo ai rapporti di causazione sociale, ma anche alle forme di potere strutturale, cioè alle regole sociali che la società impone sugli individui. Le convenzioni sociali, come stringere la mano ad una persona quando la si incontra, sono un esempio di forma di potere esercitata dalle regole sociali. La conformità comportamentale è qualcosa di empiricamente osservabile e chiaramente riconoscibile, quindi quando c’è una richiesta di questo tipo, cioè quando si chiede ad un individuo di uniformarsi al comportamento adeguato, che non adotterebbe spontaneamente, ci si trova di fronte ad un’azione specificamente politica. La conformità comportamentale di cui egli parla è sempre intenzionale, cioè l’azione specificamente politica richiede sempre un’intenzione. Rispetto a Stoppino perciò egli non esclude che ci possano essere dei rapporti di causazione interessati, ma ritiene che questi seppure esistano non rientrino nell’azione politica. Egli si chiede poi se ci sia qualche motivazione specifica che sia alla base dell’azione politica, in particolare individua tre grandi motivazioni, l’interesse, la morale e l’onore. La gran parte delle azioni degli esseri umani possono essere infatti ricondotte a queste ragioni. L’interesse è in particolare l’interesse utilitaristico o il tentativo di accaparrarsi qualcosa di vantaggioso. Un’azione con motivazioni morali invece è quella in cui ci si attiene a delle regole appunto morali, etiche, che ci suggeriscono cosa è giusto. Le azioni motivate dall’onore sono quelle con cui cerchiamo di difendere la nostra reputazione, la nostra rispettabilità, ad esempio nell’abbigliamento o nel dire qualcosa che sia conforme all’opinione comune. L’azione politica può nutrirsi di queste motivazioni, ma ciò che rende veramente politica un’azione è pur sempre la richiesta di conformità comportamentale, per motivi di interesse economico, per difendere l’onore o per ragioni di carattere morale. Questa ricerca di conformità non è legata ai mezzi che vengono utilizzati, è quindi indipendente rispetto ad essi. I mezzi tuttavia esistono e sono vari, nonostante non qualifichino la politicità dell’azione. Questi strumenti vengono esaminati abbastanza approfonditamente e sono sono la manipolazione, la persuasione e in generale tutte le modalità di esercizio del potere presentate da Stoppino. Inoltre, Marx crede che la divisone in classi possa un giorno essere superata, in seguito alla rivoluzione socialista, mentre Mosca dice che la divisione tra governanti e governati è ineliminabile, in quanto inizia ad emergere con la strutturazione della società stessa, e dunque è insita al suo interno e continuerò ad esserci anche nel futuro. Questa sua visione lo conduce a criticare apertamente la tradizionale tripartizione delle forme di governo, che fin dai tempi del mondo greco affermava che le forme di governo possibili fossero la monarchia, l’oligarchia e la democrazia. Egli invece ritiene che essa sia distorta e che non ci aiuti a comprendere il funzionamento dei sistemi politici. Secondo egli, infatti, tutte le forme di governo sono oligarchiche, in quanto chi detiene il potere è sempre una minoranza. Per Mosca il potere non può essere esercitato individualmente, perché c’è sempre necessità di un gruppo che aiuti il soggetto. Nemmeno le masse possono detenere il potere perché esse sono sempre dirette da un piccolo gruppo. Tuttavia, egli è consapevole del fatto che nel corso della storia ci siano state trasformazioni, per questo sostituisce la trasformazione classica con un’altra tripartizione, affermando che ciò che muta nelle diverse oligarchie è il modo in cui vengono selezionati i membri di tale oligarchia, cioè coloro che detengono il potere. Possiamo individuare quindi: • Società militari, in cui prevale il criterio del valore militare. Significa che si entra a far parte del gruppo dei governanti perché si dimostra valore militare, esempio emblematico di queste società è la società medievale. • Società teocratiche, in cui il criterio di accesso alla classe politica è un criterio che considera prioritaria la deferenza religiosa, si tratta quindi di conoscenza di precetti religiosi. Società teocratiche sono molte società antiche, come l’antico Egitto. • Società plutocratiche, in cui il criterio è quello della ricchezza, prevalente nelle società che secondo Mosca sono a lui contemporanee. Oltre a questo va considerato il fatto che tutte le classi politiche tendano sempre a trasformarsi in caste ereditarie, cioè tendono a trasformare in titolo ereditario l’appartenenza alla classe politica, il cui esempio è di nuovo quello della società medievale. Mosca afferma che il fattore che consente alla classe politica di conquistare il potere è semplicemente l’organizzazione, cioè essa è una minoranza organizzata, una minoranza che grazie all’organizzazione riesce ad imporsi sulla maggioranza disorganizzata, ed eventualmente a scalzare dal potere un’altra minoranza organizzata. Secondo egli, inoltre, i membri della classe politica non hanno delle qualità specifiche, non sono i migliori, non sono i più intelligenti né i più sapienti, ma hanno le caratteristiche che in un determinato momento consentono l’ingresso a tale classe. Quindi non dobbiamo scambiare la classe politica di Mosca per una classe eletta, un gruppo di individui dotati di abilità migliori del resto della popolazione. La teoria elitista di mosca va distinta dalle teorie aristocratiche e inoltre da ciò che un altro elitista suo contemporaneo, cioè Vilfredo Pareto, dice, cioè che le élite che stanno al vertice del potere sono composte dagli individui che eccellono nei diversi campi dell’attività umana. La teoria elaborata da Mosca ha evidentemente una componente fortemente antidemocratica in sé stessa perché ritiene che un regime effettivamente democratico, cioè che assicuri l’uguaglianza di tutti gli individui, sia impossibile. Ovviamente per egli la democrazia è intesa prevalentemente nel senso classico di democrazia diretta. Mosca sicuramente non ha a disposizione numerosi esempi di suffragio universale, ma ha a disposizione casi in cui l’allargamento del suffragio era avvenuto, in particolare ha l’esempio della Rivoluzione Francese, in cui alcune minoranze organizzate si contendono tra loro il potere e guidano le masse. Allo stesso modo egli vede la Rivoluzione Russa, avvenuta nel 1917 e guidata da Lenin. Egli dunque ritiene che ci siano evidentemente dei cambiamenti nel corso della storia, ma che tali cambiamenti non possano mai andare ad eliminare la divisione tra minoranza organizzata che detiene il potere e maggioranza che lo subisce. Egli afferma anche che ogni classe politica non si limita ad esercitare la bruta forza sulla maggioranza disorganizzata, ma cerca di coltivare la fede nella propria legittimità cioè costruisce una tattica legittimante, che cerca di presentare come giusto il proprio dominio. Mosca indica questo fenomeno come formula politica, che sostanzialmente è la dottrina con cui una classe politica cerca di presentare come legittimo il proprio potere. Ogni classe ha bisogno di questa tattica in quanto gli esseri umani non si rassegnano ad essere dominati, ma devono ritenere che il potere che subiscono scaturisca da principi di carattere superiore. Questa teoria viene naturalmente ampiamente discussa dai politologi successivi e viene considerata criticamente soprattutto dai politologi americani che, a partire dagli anni ’20 e ’30, si trovano a vivere in un contesto democratico e che sono sostenitori di questo. Essi criticheranno questa teoria principalmente in due modi. La teoria democratica che viene utilizzata oggi dai politologi non contrasta esplicitamente con questa, ma la ingloba e la addomestica seguendo una strategia che lo stesso Mosca aveva individuato. A partire dal 1922 egli inizia infatti a modificare, almeno in parte, le proprie tesi iniziali e nella seconda edizione di Elementi di scienza politica aggiunge un elemento, affermando che la teoria è sempre vigente, ma che si possono distinguere due metodi con cui i la classe politica si alterna al potere, cioè con cui avviene il ricambio della classe politica. Il primo metodo è quello violento, che vige nei regimi autocratici. Un inconveniente di questo metodo è che spesso queste rivoluzioni provocano una perdita di vite umane e grandi difficoltà e sconvolgimenti che hanno ripercussioni enormi su tutta la società. L’altro metodo è quello liberale, il cui esempio principale è offerto dalla Gran Bretagna, cioè è il metodo basato sull’elezione in Parlamento di rappresentanti e dunque sulla alternanza elettorale di classi politiche contrapposte. In sostanza, questo metodo consente che ci sia una pacifica alternanza al potere di gruppi contrapposti di classe politica, esso è quindi sicuramente preferibile. Questo aspetto è rilevante perché i politologi americani, nella definizione realistica della democrazia, diranno di doverla intendere non come l’auto-governo del popolo o la piena uguaglianza politica di tutti i cittadini, ma come metodo con cui si assegna il potere di governare per un periodo limitato di tempo mediante elezioni competitive (Schumpeter). Un altro esponente della stagione politica positivista, nonostante si collochi dal punto di vista temporale più tardi, è ROBERT MICHELS, uno dei più importanti studiosi del novecento. Egli, insieme a Mosca e Pareto compone la triade degli elitisti italiani, chiamati così perché hanno la convinzione che la politica sia una questione di minoranze che detengono il potere e che esista quindi un’élite. Essi operano principalmente in campo italiano, anche se l’unico che veramente nasce e svolge la propria carriera accademica proprio nel nostro paese è Mosca, mentre Pareto nasce a Parigi, vive parte della sua vita in Italia ma svolge la propria carriera accademica principalmente al di fuori del paese. Invece Michels ha origini tedesche ma dopo la Prima Guerra Mondiale si stabilisce in Italia, fino ad acquisire la cittadinanza. Michels è relativamente più giovane rispetto agli altri due e la sua opera più importante, quella per cui è ricordato come precursore della scienza politica e degli studi dei partiti politici è La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, del 1911. Mentre Mosca è un conservatore, Michels è negli anni giovanili e poi fino alla guerra un militante, un attivista del partito socialdemocratico tedesco, dà quindi militanza nell’estrema sinistra e ne appoggia il versante più radicale, il quale ritiene che la rivoluzione possa essere realizzata dai sindacati attraverso lo sciopero di massa. Questo elemento è la premessa al tipo di lavoro che egli svolge, in quanto si pone il problema del cambiamento dei partiti politici, e in particolare dei partiti di massa. La tipologia dai quali essi prendono ispirazione è proprio il partito socialista tedesco. In Germania il suffragio maschile viene concesso abbastanza precocemente, ma in realtà nella Germania unificata post 1876 il parlamento viene eletto dai cittadini, tuttavia esso non vota la fiducia del governo. Quest’ultimo quindi risponde soltanto all’imperatore, che elegge il cancelliere, di conseguenza non c’è fiducia tra parlamento e governo, almeno fino alla fine della Prima Guerra Mondiale. Questo consente al partito socialdemocratico di darsi però una forte organizzazione, la cui unità di base è la sezione. Michels ha dunque modo di osservare direttamente come si svolge la vita del partito a ogni livello e si chiede perché all’interno del suo partito le posizioni originarie siano man mano abbandonate in favore di posizioni più compromissorie. Tali posizioni considerano necessaria non la rivoluzione teorizzata da Marx , ma una serie di riforme parziali che consentano la progressiva conquista del potere. A questa transizione alcuni danno una spiegazione di tipo moralistico, invece egli elabora una risposta differente. Questa è la genesi della sua ricerca sui partiti e, in particolare, sui partiti socialisti, che conosce approfonditamente essendo un viaggiatore poliglotta. All’interno della sua opera egli enuncia quella che a suo avviso è una legge che caratterizza in particolar modo tutti i partiti di massa, la legge ferrea dell’oligarchia, una legge che secondo egli è inflessibile e si ripete costantemente. Egli in questa tesi afferma che tutti i partiti politici tendono a produrre un’oligarchia di dirigenti, ma articola questa affermazione anche in maniera più raffinata, che, riassumendo, ci dice che tutti i movimenti che vogliono raggiungere obiettivi politici, e specialmente i movimenti che sono espressione delle classi subalterne, devono darsi un’organizzazione efficiente, senza la quale gli obiettivi non possono essere raggiunti. La conclusione a questa premessa è che secondo egli chi dice organizzazione dice anche inevitabilmente oligarchia, cioè l’organizzazione tende più o meno rapidamente a produrre un’oligarchia, cioè una minoranza di dirigenti nettamente distinta, separata, non solo dagli iscritti, ma anche da militanti e funzionari. Questa non si limita a riprodurre se stessa, ma con il tempo sostituisce l’obietto della propria riproduzione come gruppo dirigente agli obiettivi originari del partito, cioè punta principalmente a preservare se stessa. Egli dimostra con il metodo che ritiene più adeguato questa tesi, attingendo a ciò che conosce di più, cioè alla storia dei partiti socialisti. Secondo egli questa vicenda è importante in quanto gli unici partiti propriamente di massa in tale periodo sono questi, mentre gli altri sono fondamentalmente di notabili. Il secondo motivo è che i partiti socialisti vogliono realizzare l’ideale di una democrazia sostanziale, ovvero vogliono realizzare l’obiettivo di dare il potere al popolo. Quindi proprio i partiti che dichiarano di essere democratici sono destinati a contraddire tale principio e a produrre al proprio interno una oligarchia di dirigenti. Per dimostrare questo egli elenca una serie di motivazioni tecniche, psicologiche e culturali. Le motivazioni tecniche sono legate alle stesse modalità organizzative che necessariamente deve darsi un movimento politico che ad esempio nasce dal basso, spontaneamente, con l’obiettivo di realizzare una piena uguaglianza politica. Per realizzare tale obiettivo è necessario andare oltre la modalità meramente assembleare e darsi un’organizzazione più stabile, delegando precise mansioni e funzioni. Si tratta quindi di un esigenza tecnica di divisione del lavoro. Quando si è compiuto questo piccolo passo si è compiuto già il primo passo verso la costruzione dell’oligarchia, che deriva dalla progressiva specializzazione delle funzioni. Inoltre ci sono una serie di difficoltà tecniche che rendono impossibile la semplice associazione assembleare, ad esempio all’interno dell’assemblea, soprattutto se molto numerosi, non tutti saliranno sul palco o parleranno e dopo un po’ si strutturerà una netta divisione dei ruoli. Egli però si sofferma soprattutto sulle motivazioni psicologiche, elencandone di molto consistenti. La prima di queste è la tendenza degli iscritti e dei militanti a delegare un ruolo attivo a una minoranza di individui, in quanto la maggior parte di essi non è disponibile a dedicare una parte consistente del proprio tempo e delle proprie energie all’attività politica, e dunque sarà ben contento che qualcuno sia disponibile a farlo. Questa tesi di Michels inverte il discorso che spesso viene fatto, cioè quello che ritiene che ci sia una casta che sottrae il potere al popolo. A questo punto egli rappresenta anche graficamente la strutturazione del partito al proprio interno, che è una struttura piramidale, la cui base è formata dagli iscritti, dai simpatizzanti e dagli elettori del partito. Salendo invece troviamo gruppi sempre più ristretti. L’attività politica degli iscritti consiste principalmente nel rinnovamento della tessera del partito, nella sottoscrizione delle quote di iscrizione, nella partecipazione a determinati eventi ricreativi. Questo avviene perché essi sono per la maggior parte disinteressati ad un’attività politica continuativa. A livello superiore troviamo poi i frequentatori della vita di sezione e delle assemblee politiche. La percentuale di questi è molto esigua rispetto al totale degli iscritti e naturalmente questa si riduce ulteriormente salendo nella gerarchia, dove troviamo i funzionari ed infine, nel vero e proprio vertice, il comitato direttivo, composto da poco più di una dozzina di individui, che occupa lo stesso ruolo per decenni e diventa in qualche modo inamovibile. Un’altra tendenza di cui egli parla è quella alla venerazione dei capi da parte delle masse, che li considera quasi come delle divinità, basta pensare ai leader del primo Novecento, con spessore intellettuale notevole, una differenza culturale che contribuisce ad alimentare la distanza tra le due parti. Per quanto riguarda le motivazioni culturali, poi, generalmente esiste un grande divario culturale e intellettuale tra leader e iscritti, che naturalmente contribuisce a creare un divario che tende a porre i leader anche al di sopra di qualsiasi critica. Questo ovviamente valeva a quel tempo, ma evidentemente non vale oggi. Alla fine di questo discorso egli afferma che la legge ferrea dell’oligarchia costituisce l’ostacolo per un’organizzazione che sia effettivamente democratica, sia nei partiti che nel resto della società. Egli sicuramente non è compiaciuto di questa conclusione, ma rimane comunque un convinto democratico. Secondo egli dunque, nonostante la legge, è comunque necessario perseguire l’ideale democratico per limitarne gli effetti negativi e per tentare di scalzare le oligarchie dalle proprie posizioni e ostacolarne l’organizzazione cristallizzata. In questo modo egli quantifica il potere e, alla fine dell’indagine, arriva ad una conclusione nettamente in contrasto con le affermazioni di Mills e Hunter, dichiarando che non esiste un’élite unita e compatta che domina la vita cittadina, ci sono infatti gruppi completamente differenti per ogni area analizzata. Un unico individuo è presente in tutte le tre aree ed egli è il sindaco, cioè un soggetto che occupa una carica istituzionale. Anche la sua ricerca, che influenza moltissimo la scienza politica successiva, ha dei punti critici che vengono messi in evidenza. Il primo è che tale ricerca non sia replicabile e dunque i risultati rimangono interlocutori. La seconda critica riguarda l’unità dei punti assegnata, senza considerare il peso e la rilevanza delle questioni in discussione, in questo modo il risultato a cui perviene può risultare falsato, pertanto si dice che un integrazione al suo metodo dovrebbe tenere conto di tali aspetti. Un’ultima critica riguarda il fatto che egli tiene in considerazione il processo decisionale visibile e non quel potere che è ancora più subdolo, ma che è velato, ed è quello che impedisce che alcune discussioni raggiungano il tavolo decisionale. Su questo punto si soffermeranno i critici e i politologi successivi, in particolare gli anti-elitisti e i radicali, le cui critiche possiamo più o meno accomunare, nonostante la seconda sia un po’ più ampia rispetto all’altra. Tra gli anti-elitisti troviamo BACHRACH e BARATZ, due politologi americani che negli anni ’60 e ’70 portano avanti una critica ai pluralisti, e in particolare a Robert Dahl, il cui metodo non considera il peso specifico delle decisioni, tuttavia, la critica principale che essi sviluppano dichiara che non è importante solo il potere decisionale, ma anche quello delle non decisioni. Questo potere impedisce che determinate questioni arrivino al tavolo della discussione pubblica, consiste quindi in una sorta di filtro che impedisce che nella discussione emergano determinate proposte e vengano sollevate determinate questioni, avviene cioè la soppressione di alcune questioni dall’ambito della discussione. Nell’ambito della discussione possono infatti esserci sostenitori di una proposta o gruppi contrari, in ogni caso, però, una discussione su tale questione c’è e alla fine emergerà qualcuno che riuscirà ad influenzarla ed altri che la subiranno. Secondo essi invece esiste un potere invisibile ma altrettanto rilevante e viene detto l’altra faccia del potere, la faccia oscura del potere, cioè la faccia non visibile, che non viene alla luce. Questa visione viene enunciata, ma anche sviluppata dal punto di vista empirico, con una ricerca sulla città di Baltimora incentrata sulle politiche a sostegno delle classi più povere e disagiate. La domanda che Bachrach e Baratz si pongono prende in considerazione il fatto che in tale città una grande percentuale della popolazione è afroamericana e la totalità delle famiglie povere rientra in questa categoria, tuttavia nei comitati che si occupano di gestire le politiche di sostegno alle famiglie disagiate non viene trovato nessun esponente della comunità afroamericana. Nel momento in cui si decide chi siede nei comitati che si occupano della povertà entra infatti in gioco un meccanismo per cui non vengono presi in considerazione individui della comunità afroamericana. Essi affermano che coloro che hanno posizioni di potere non creano stereotipi, ma mobilitano un pregiudizio esistente, per escludere che alcune proposte vengano avanzate e prese in considerazione. Possiamo applicare questo discorso al campo delle formulazione delle candidature all’interno dei partiti politici e nella formulazione delle cariche pubbliche rispetto alle candidature femminili per le cariche più alte. Potremmo quindi dire che chi prende le decisioni e si trova in posizioni di potere, non crea un pregiudizio ma mobilita un pregiudizio esistente senza esplicitarlo. Tale meccanismo può essere trovato oggi nel fenomeno per cui molto difficilmente vengono avanzate candidature femminili per le cariche istituzionali più alte. Ovviamente le spiegazioni a tale fenomeno sono molte, ma seguendo questo approccio possiamo dire che esiste un pregiudizio che viene mobilitato e che esclude determinate possibilità, ad esempio veicolando l’idea che una donna non possa essere vista come una figura di riferimento o che essa non sia abbastanza preparata. Nel caso della minoranza afroamericana il pregiudizio è quello secondo cui gli esponenti di tale comunità non avrebbero un profilo istituzionale adeguato, non sarebbero in grado di gestire certe questioni, non avrebbero competenza sufficiente. Queste limitazioni non sono esplicitate e pertanto non diventano visibili, sono quindi forme di potere invisibile, ma comunque rilevanti. Nel corso della loro ricerca, che va dalla fine degli anni ’50 agli anni ’70, essi dimostrano che tali pregiudizi possono comunque essere superati, infatti affermano che delle mobilitazioni da parte della società civile possono ridurre le barriere, rappresentando il presupposto per cui il potere venga superato. Le barriere che devono essere superate non riguardano solo le opinioni della popolazione, ma anche gli atteggiamenti della pubblica amministrazione, che deve poi implementare determinate decisioni. La critica indirizzata a Bachrach e Baratz è quella che si interroga su come fare ad individuare la non decisione e distinguerla da una generica inazione, cioè se essa nasce da una volontà esplicita di chi detiene il potere o nasce semplicemente dal fatto che una classe politica non è in grado di agire o è inadempiente. Nel caso in cui si discute di alcune infrastrutture cittadine, ad esempio, ci sono interessi che fanno sì che la questione non venga mai discussa, in questo caso dipende dalle cariche pubbliche che decidono di tutelare gli interessi di coloro che detengono posizioni di potere, oppure essa non viene portata avanti perché la classe politica è disinteressata, si occupa di altro o non è in grado. Le due opzione naturalmente possono essere sempre chiamate in causa. I due non danno esplicitamente risposta a questa critica, ma ne danno una implicita, dicendo che esiste una non decisione quando esiste un conflitto, cioè una minoranza esclusa dal potere che avanza una richiesta, la quale viene esclusa e non riesce quindi ad entrare nel sistema politico e dunque al tavolo della decisione. Secondo essi, quindi, a Baltimora c’è una non decisione perché esiste una classe che chiede di portare rappresentanti e porta avanti la richiesta che i propri interessi vengano salvaguardati, ma tale richiesta non riesce a superare il filtro. Tornando all’esempio delle candidature femminili, possiamo chiederci come mai determinati fenomeni non siano avvenuti e dobbiamo porci il problema di non decisione, cioè per cui l’establishment maschile avrebbe mobilitato il pregiudizio contro le donne, o inadempimento. All’interno dei comitati per strutturare le liste ci sono sicuramente meccanismi di non decisione. La teoria di Bachrach e Baratz viene ripresa e sviluppata da STEVEN LUKES, che può essere considerato il principale esponente dei radicali. Egli è autore di un importante volume pubblicato alla metà degli anni ‘70, dal titolo Il potere, una visone radicale, dal quale il nome della tendenza. Egli afferma che sia i pluralisti che gli anti-elitisti hanno individuato dimensioni importanti del potere, cioè quella decisionale i pluralisti e quella delle non decisioni gli anti-elitisti. Tuttavia, secondo egli esiste una terza dimensione del potere che è ancora più invasiva ed è il potere di manipolare gli individui in modo tale che questi non siano consapevoli di essere soggetti ad una relazione di potere. Questa dimensione è in parte analoga alla definizione di manipolazione di Stoppino. Tornando a Bachrach e Baratz, essi ritengono che debba esserci un conflitto, in questo caso c’è la possibilità di riconoscere la mobilitazione del pregiudizio. Lukes allora si domanda, nel caso in cui non ci sia il conflitto, significa che non c’è decisione o che c’è un potere che impedisce che le critiche vengano formulate? La risposta di Luke è che va riconosciuta l’esistenza di questa terza dimensione del potere che fa sì che le critiche non possano essere nemmeno formulate. In questo caso la cultura, i valori degli individui vengono manipolati in modo tale da impedire che questi avanzino critiche e richieste. Possiamo di nuovo far riferimento alla questione femminile rispetto al potere e chiederci se, tra fine Ottocento e inizio Novecento, la non richiesta di voto da parte delle donne fosse il frutto di un disinteresse o di una manipolazione. Usando lo schema di Lukes si potrebbe dire che si era in presenza di un cultura maschilista che riusciva a svolgere funzioni pubbliche, non solo, ma si trattava anche di un potere tale da trasmettere l’idea che le donne non fossero adatte a tali stesse funzioni. Di conseguenza esse ritenevano di essere incaci di fronte alle funzioni pubbliche e in generale anche di fronte alla possibilità di esprimersi attraverso il voto. Tanto che molte scrittrici dichiaravano che la politica non fosse una cosa fatta per le donne e che bisognasse riconoscere l’inferiorità dell’evoluzione intellettiva delle donne rispetto a quella degli uomini, e che dunque non fosse appropriato forzare la natura. Possiamo quindi affermare che si trattasse di manipolazione. Questo tipo di potere viene di solito indicato con il termine egemonia, anche in campo politologico, termine che ha una storia molto lunga, infatti nasce nel mondo greco. Qui sta ad indicare il ruolo di guida militare e il ruolo di guida di un’alleanza politica militare, per cui si dice che Atene fosse egemone nel mondo greco. Nel campo di politica internazionale tale termine indica una forma di potere che si definisce come potere legittimato dai subordinati, cioè legittimato dal loro consenso, in quanto essi ritengono giustificato il ruolo di leadership che una grande potenza svolge. Questo è il significato utilizzato ancora oggi. Lukes utilizza il termine in un significato ancora più preciso, riprendendolo dal pensiero di Antonio Gramsci, segretario del partito comunista, che, nel corso della sua prigionia, si interroga sulla realizzazione di una rivoluzione socialista in Europa. Egli afferma che in Europa sarebbe necessario conquistare prima l’egemonia politico culturale, cioè un dominio nella sfera culturale, attraverso la diffusione dei propri valori nel mondo. Lukes intende quindi l’egemonia come una visione del mondo trasmessa anche ai subordinati da chi detiene il potere. Questa forma di potere è in gran parte invisibile e alquanto invasiva, tanto che i subordinati non riescono nemmeno ad elaborare critiche e formulare proteste. Il fatto che non ci siano critiche, tuttavia, non significa che non ci sia potere. Egli cerca di applicare infatti il concetto ad un caso empirico che considera come emblematico di tale scenario, cioè quello di una cittadina americana che ospita dalla fondazione una grande acciaieria. Egli nota che mentre nelle altre città americane, di fronte a impianti siderurgici, vengono avanzate richieste di risanamento, in questa cittadina nessuno avanza richieste di questo genere, pur essendo in presenza di un enorme inquinamento. Questo perché la grande impresa, che ha dato vita alla città, ha plasmato i valori di tutti i gruppi sociali, che si identificano quindi con questi. Si è perciò costruita un’egemonia politica e culturale. La critica ad egli indirizzata veicola l’idea che l’intuizione della terza dimensione del potere sia sicuramente molto suggestiva, ma, allo stesso tempo, difficilmente riconoscibile dal punto di vista empirico, essendo essa invisibile. La DIMENSIONE ESCLUDENTE DELLA POLITICA è l’altra faccia rispetto alla dimensione includente, cioè quella che si riferisce alla comunità. Dove esiste una comunità esistono confini materiali o immateriali che stabiliscono chi fa parte e chi no della comunità stessa. Quando diciamo che il primo pilastro è quello della comunità diciamo quindi che ci sono membri anche esclusi dalla comunità. Utilizziamo il contributo di uno dei teorici più famosi e importanti, ma allo stesso tempo controversi, della scienza politica, cioè CARL SCHMITT, un politologo tedesco. La controversia consiste nel fatto che le sue tesi mettono in luce un aspetto sinistro e spiacevole della politica, ma e forse soprattutto i suoi trascorsi politici contribuiscono a tale aspetto. Schmitt nasce nel 1888 e muore nel 1985, egli è stato un pensatore tedesco, la cui opera principale è Il concetto di politico, termine che indica un aggettivo sostantivato, per cui spesso viene messo tra virgolette, identifica quindi l’essenza della politica. Questo breve saggio, pubblicato tra gli anni '20 e ’30, è un testo che in realtà l’autore non riteneva il principale della sua letteratura, ma che comunque costituisce un punto di riferimento inevitabile. Egli è un giurista costituzionalista, che negli anni di pubblicazione del saggio si occupa principalmente di opere di diritto pubblico, tra cui l’interpretazione della costituzione di Weimar. Successivamente inizia ad occuparsi di geopolitica, la cui opera principale è Il Nomos della terra. Egli è un giurista cattolico, conservatore e nazionalista, ostile al partito nazionalsocialista, tuttavia, all’indomani della presa del potere da parte di tale partito, ritiene che si debba prendere atto della rivoluzione che è avvenuta e in questo sta il suo ruolo controverso. Tale macchia viene ritenuta da alcuni indelebile all’interno della sua carriera, l’elemento, affiancato alle sue ipotesi, fa circondare il suo nome da un alone di sospetto. Schmitt introduce la nozione di politico, dandone una specifica definizione. Il significato del termine a cui egli si riferisce non è quello di uomo politico, ma si riferisce ad un politico che è sostanzialmente l’essenza, il cuore della politica, del fenomeno politico. Possiamo distinguere la politica che identifica tutte le manifestazioni storiche del fenomeno politico dal politico, che identifica invece il cuore ontologico della politica, cuore ineliminabile che caratterizza tutti i fenomeni politici. Nella sua opera principale egli propone un problema di definizione della politica, affermando che non possiamo definire la politica a partire dagli obiettivi che le istituzioni si sono poste nel corso del tempo perché questi sono storicamente mutevoli, tendenzialmente onnicomprensivi e quindi escludono la specificità della politica. Egli vuole invece andare alla ricerca di ciò che caratterizza l’essenza del fenomeno politico e per fare questo dice che, invece di identificare l’oggetto specifico, dobbiamo cercare un criterio di distinzione specificamente politico, quindi diverso dai criteri individuabili negli altri campi della vita sociale. Schmitt per definire tale criterio parte dal confronto con altri campi della vita, come l’etica, l’estetica o l’economia, facendoci capire cosa intende per criterio di distinzione. In riferimento all’estetica, cioè la ricerca dell’ideale di bellezza all’interno di ogni società, la difficoltà incontrata è l’enorme cambiamento di tale ideale nel corso del tempo. Egli afferma che questo ostacolo ci impedisce di definire in astratto l’idea di bellezza, questo stesso ostacolo si ha nella ricerca di definizione di giustizia e di utilità. Nonostante questo, però, in tali campi esistono criteri specifici, adottati in ogni società. Sono criteri di distinzione che operano sempre e che definiscono la differenza tra bello e brutto, tra giusto e ingiusto, tra utile e inutile. Schmitt afferma che deve essere fatto qualcosa di analogo, cioè trovare un criterio di distinzione anche in assenza di una precisa definizione, anche per quanto concerne il campo specificamente politico. Questa distinzione specificamente politica secondo egli è quella tra amico e nemico, o meglio tra amicus e hostis. Romani e latini avevano vari modi per indicare l’inimicizia, cioè inumicus e hostis, il primo stava ad indicare il nemico privato, cioè quello che opera nelle relazioni esclusivamente private, come un vicino di casa con cui si ha una controversi in tribunale. Questo non ha rilevanza politica. Il secondo termine invece, quello a cui si riferisce Schmitt, viene utilizzato con due significati, di straniero, con cui si possono potenze europee, in particolare spagnole. Dei casi possono essere trovati anche nelle guerre civili, cioè in conflitti che coinvolgono individui che, nonostante siano parte di una stessa società e condividano la stessa cultura, si sentono divisi da qualche motivazione di carattere ideologico o religioso, la quale spinge a superare il limite del conflitto regolato. Ne sono esempi le guerre civili tra polis greche e tutti i conflitti ideologici della modernità, come la Rivoluzione francese o bolscevica. • Inimicizia in un conflitto regolato, si ha quando nell’inimicizia ci si contrappone al nemico secondo un codice di norme e regole prestabilite. Ciascuno dei contendenti in questo caso riconosce la propria controparte come legittimamente impegnata nel conflitto e proprio per questo si ritiene che debbano essere rispettate regole comuni. Ad esempio quando c’è un duello si è di fronte ad una procedura regolamentata da una serie di norme accettate e che stabilisce chi possa legittimamente ricorrere a tale pratica, solitamente solo i nobili. Si seguono quindi delle regole, nonostante venga utilizzata la violenza. Le guerre combattute tra Stati dal 1648 e il 1919 sono riconducibili ad un conflitto di questo genere, perché erano rispettate regole stabilite dal diritto internazionale e vigeva una tutela nei confronti dei civili. La prima guerra mondiale conduce già ad un tipo di conflitto differente, in cui entra in campo l’inimicizia assoluta, connotandosi in maniera ideologica. Fino al 1914 ricorrere alla guerra è un diritto fondamentale degli stati, ovvero uno Stato può aggredirne un altro per difendere i propri interessi, mentre dopo la fine della Prima Guerra Mondiale inizia una graduale espulsione dal diritto internazionale del diritto alla guerra di aggressione. • Inimicizia in una competizione agonistica, in questo tipo di contrapposizione è bandito l’utilizzo della forza fisica. Questo conflitto è il meno cruento in quanto i contendenti non solo si riconoscono reciprocamente, ma si accordano anche sulle regole da seguire. In questo caso si passa dalla categoria del nemico a quella dell’avversario. Un esempio di questa tipologia sono le campagne elettorali. L’ultima dimensione del fenomeno politico è la PROIEZIONE TEMPORALE della politica. Tutte e quattro le dimensioni precedenti si prestavano alla rappresentazione grafica bidimensionale, sia la dimensione comunitaria, che quella di esclusione tra interno ed esterno e infine quella di relazioni verticali, mentre questo appare più difficile per la dimensione temporale. La proiezione temporale è l’orizzonte temporale che caratterizza specificamente la politica, anche se qualche volta questa è una dimensione meno visibile delle altre. Spesso la politica cerca di controllare il tempo, la scansione temporale. Storicamente infatti questo è visibile, ad esempio nella rivoluzione francese con la quale si modificano i nomi dei mesi e la scansione degli anni, come in altre rivoluzioni moderne. Per esplicitare lo specifico orizzonte temporale della politica utilizziamo una dicotomia introdotta da GIANFRANCO MIGLIO che in parte ingloba e riassume anche le dimensioni precedenti. Egli è un politologo, teorico della politica e storico delle dottrine politiche italiane, che è vissuto nel corso del Novecento ed è morto nel 2001. Egli elabora la dicotomia tra le due categorie di obbligazione politica e contratto-scambio. Queste sono due idealtipi che rappresentano due tipi di relazione sociale tra loro radicalmente differenti, grazie ai quali possiamo ricondurre tutte le forme di relazione sociale ad una delle due categorie pure, o collocarle all’interno del continuum così determinato, in quanto la maggior parte dei rapporti avrà verosimilmente elementi sia dell’una che dell’altra categoria estrema. Le relazioni sociali sono tutte quelle che coinvolgono due o più individui, come una società sportiva, un gruppo di amici, una famiglia, un contratto d’affitto. Miglio afferma che per cogliere specificamente cosa è caratteristico della politica va riconosciuto che l’obbligazione politica è il vincolo specificamente politico, distinto nettamente da tutte quelle forme di relazione sociale prevalentemente economica che sono invece riconducibili al contratto-scambio. Egli individua e caratterizza entrambe le categorie prendendone in considerazione le caratteristiche strutturali, mettendo quindi in luce gli elementi costitutivi. Miglio si sofferma innanzitutto su alcuni aspetti dai quali emergono le differenze: • Soggetti coinvolti • Oggetto della relazione • Struttura dei due vincoli • Proiezione temporale, la quale aggiunge qualcosa di più rispetto a quello che è stato già visto. Esso è l’elemento che qualifica tutto il resto, in quanto l’oggetto dell’obbligazione politica implica il riferimento alla proiezione temporale, che richiede un determinato soggetto. Il numero di soggetti coinvolti nel contratto-scambio è molto limitato, parte da un minimo due, ma in generale minore è il numero di persone e maggiore è l’efficienza. Nell’obbligazione politica, invece, i soggetti coinvolti devono essere una moltitudine, inoltre essa appare tanto più efficace quanto maggiore è il numero dei suoi contraenti. Un esempio classico di contratto-scambio che è la compravendita o il contratto di affitto, che prevedono almeno due contraenti. Nel caso in cui ci siano due contraenti abbiamo l’affittuario e colui che affitta l’abitazione. L’implicazione in caso di controversie, in tale situazione, è che si ha la certezza sul responsabile chiamato a rispondere di eventuali mancanze, ad esempio in caso di danno o in caso di mancato pagamento. Se invece il contratto è rappresentato da proprietario, costituito da 5 fratelli, e gruppo di 10 studenti che prendono in affitto l’abitazione, qualsiasi decisione e passaggio prevede l’approvazione di tutti i contraenti e, inoltre, qualora ci sia da rifondere un danno o provvedere a una riparazione è molto probabile che ci siano controversie su chi sia effettivamente responsabile e tenuto a pagare. Si ha quindi nel secondo caso una maggiore complessità di gestione e criteri e logiche lontani dal primo caso. Nel rapporto di obbligazione è molto più difficile accertare le responsabilità individuali, ad esempio se un politico promette di risolvere un particolare problema, ma poi non lo fa, può imputare la responsabilità di altri attori. L’oggetto specifico del contratto-scambio deve essere il più possibile definito e temporalmente circoscritto e delimitato. Cioè esso deve essere chiaramente precisato ad entrambi i contraenti e, inoltre, la contrattazione stessa deve esaurirsi e risolversi in un periodo di tempo molto limitato o addirittura immediatamente, altrimenti risulta non appetibile per almeno una delle due parti. Ne sono esempi l’acquisto di un’automobile o il contratto di affitto o l’assicurazione, caratterizzata dalla chiara delimitazione dell’oggetto e del rischio preso in considerazione. L’oggetto dell’obbligazione politica è invece indeterminato e globale, ciò significa che essa si incarica, almeno teoricamente, di proteggere da alcune necessità presenti e, soprattutto, da tutte le necessità ancora indeterminate che si potranno manifestare nel futuro. Ovviamente non è detto che l’obbligazione riuscirà a proteggere effettivamente da tutti i rischi futuri, ma essa si qualifica proprio perché punta a proteggere contro i bisogni futuri. L’obbligazione politica dunque promette di proteggere dai rischi di invasioni, attacchi militari stranieri, pandemie, cataclismi naturali ecc. Questo però non significa che tutti i rapporti siano in grado di rispettare tale promessa, ma essi coprono tutti gli ambiti non comprensibili nella relazione di contratto-scambio. Per quanto riguarda la struttura del contratto-scambio essa è tendenzialmente orizzontale, nel senso che i partecipanti sono più o meno sullo stesso livello, cioè non c’è qualcuno con un potere stabilizzato sugli altri, ovvero un rapporto di subordinazione, nonostante ci possano essere temporanei rapporti di squilibrio. Nell’obbligazione politica invece ci sono rapporti di subordinazione, quindi viene ripresa l’idea sia di Max Weber che degli elitisti, che divide tra governanti e governati, dal punto di vista strutturale c’è quindi in questo caso una relazione verticale. Inoltre il contratto-scambio è reversibile, al contrario dell’obbligazione politica che non lo è. Quest’ultima infatti pretende che i propri membri non possano uscire dal rapporto di obbligazione, altrimenti il tipo di promessa fatta sul futuro non sarebbe credibile. Ad esempio, se pensiamo alla difesa in caso di attacco militare se il rapporto fosse reversibile, nel momento in cui l‘esercito nemico varca le frontiere, tutti i cittadini escono dall’obbligazione politica dello Stato per rifugiarsi in un altro. Un altro caso è quello delle pensioni. L’ultimo elemento riguardante la struttura è l’esclusività, almeno pretesa, dell’obbligazione politica, al contrario del contratto-scambio, che non è esclusivo. Questo non è esclusivo perché si può essere contemporaneamente parte di più contratti-scambio, senza che questo provochi una controversia. L’obbligazione politica invece pretende l’esclusività, cioè pretende che i propri membri non siano parte di rapporti di obbligazione politica che siano tendenzialmente in contesto con l’obbligazione stessa. Essa può essere esclusiva persino rispetto ai rapporti di contratto-scambio, affermando che questi possono avvenire solo all’interno dell’obbligazione politica stessa. Ad esempio all’interno di uno stato possiamo trovare una pluralità di obbligazioni politiche, ce ne è una principale che è quella che lega tutti i cittadini italiani, ma ce ne sono anche altre che possono essere di intensità maggiore o minore a seconda dei casi. Le formazioni politiche sono obbligazioni che potrebbero essere considerate in antitesi rispetto all’obbligazione politica principale, cioè fuorilegge e di conseguenza contrastanti, ne è un esempio un partito rivoluzionario che decide di utilizzare le armi per portare avanti le proprie posizioni. L’esclusività nei confronti del contratto-scambio si ha nel momento in cui il commercio è consentito solo all’interno dello stato italiano e degli stati parte dell’alleanza atlantica, oppure con tutti tranne che con cittadini e imprese russe. La specifica proiezione temporale è già stata vista in riferimento all’oggetto verso cui l’obbligazione politica si rivolge, infatti essa guarda verso il futuro. Il contratto-scambio ha un orizzonte temporale limitato e ben definito, esso è tanto più efficace quanto l’orizzonte temporale è ridotto al minimo, cioè è prossimo al presente, in cui il rapporto si esaurisce nell’immediato. L’obbligazione politica ha un orizzonte che per sua stessa natura deve proiettarsi in un futuro lontano e indeterminato, cioè l’obbligazione deve presentarsi, per essere credibile, come eterna, ovvero come priva di qualsiasi limitazione temporale, perché altrimenti le sue promesse non sarebbero credibili. Ad esempio se nella Costituzione fosse stabilita una sua data di scadenza, il suo orizzonte temporale sarebbe limitato, i cittadini italiani quindi non pagherebbero le tasse ad uno stato che si estinguerà prossimamente, ma nemmeno rispetterebbero le leggi, invece ricercherebbero la protezione in un’altra entità. Questo ragionamento serve a mettere in luce che ogni obbligazione politica si presenta come immortale e eterna altrimenti la sua pretesa di protezione futura non risulterebbe credibile e, di conseguenza, i cittadini non sarebbero disposti a sacrificare energie, introiti e qualche volte anche la loro vita per alimentarla. Ovviamente però nessuna obbligazione politica è eterna, tutte esse sono finite, perfino l’impero romano, quindi non si può pensare che gli stati saranno effettivamente eterni, ma tutto un giorno avrà una conclusione, tuttavia, l’aspettativa nei confronti dello stato è fondata finché crediamo che esso ci accompagnerà almeno nel corso della nostra vita. Con Miglio possiamo affermare che, oltre a basarsi su una relazione di tipo comunitario, relazioni di potere stabilizzato che danno vita ad una classe politica e ad essere caratterizzata da un limite tra interno e esterno, la relazione sociale specificamente politica non può fare a meno di proiettarsi verso un futuro indeterminato e globale. A questo punto è necessario occuparsi delle forme di organizzazione del potere evocate nel parlare di sistema politico e regime politico. Il sistema politico è un insieme di elementi definibili politici in quanto in grado di prendere decisioni collettivizzate, sovrane, coercitivamente sanzionabili e senza uscita. Il regime politico è l’insieme di regole che in quel sistema stabiliscono la distribuzione del potere, cioè quali sono le regole per accedere alle diverse cariche pubbliche e quali sono le gerarchie tra le diverse istituzioni, inoltre, chi prende le decisioni politiche più rilevanti. Il regime politico è quindi parte del sistema politico ed è costituito da regole formali e informali. Le regole formali sono esplicitamente fissate in una norma o in un insieme di norme, ma studiare solo queste, dal punto di vista politico, non è sufficiente perché spesso il funzionamento dello Stato è regolato da norme di natura diversa, cioè quelle informali, che sono essenziali per la comprensione del funzionamento reale di un sistema. Le FORME DI REGIME PREMODERNE sono tutte quelle forme di organizzazione del potere che hanno preceduto lo Stato moderno e le forme di regime democratico contemporaneo. Esse possono essere distinte in due grande famiglie: • Sistemi non centralizzati, sono propri delle società più semplici, in cui non si trovano forme significative di centralizzazione del potere, cioè il sistema politico non viene stabilmente concentrato nelle mani di un individuo o di un gruppo di individui. Tra questi sistemi troviamo innanzitutto la banda e la tribù. • Sistemi centralizzati, in cui il potere politico inizia ad essere concentrato in alcune figure specifiche. Tra questi troviamo il Regime dei capi, anche detto Chefferie o Chiefdom, il termine francese è quello più evocativo in quanto sono proprio i membri della scuola antropologica francese a studiare approfonditamente queste forme di organizzazione tra l’Ottocento e il Novecento. Troviamo inoltre in questa categoria l’Early State o proto-Stato o Stato originario. Sistemi non centralizzati La banda è la forma di organizzazione più semplice che il genere umano abbia conosciuto, essa è considerabile una forma di sistema politico estremamente elementare, perché è in grado di assumere delle decisioni sovrane, collettivizzate, coercitivamente sanzionabili e senza uscita, anche in assenza di una centralizzazione del potere. Al suo interno c’è un numero di membri limitato, cioè tra 20/30 e 150 individui, con una media di 80 membri. Storicamente si iniziano a trovare le prime bande tra 200.000 e 300.000 anni fa, infatti possiamo ipotizzare che esse siano la forma di organizzazione originaria del genere umano, e cioè che fin dall’origine i gruppi umani si siano organizzati in questo modo. Possiamo • Nella Cina del 2000 a.C. • Nell’America centrale, relativamente più recentemente, cioè nel 500 a.C • Infine nelle Ande, nel primo millennio a.C.. Questi proto-Stati sono tutti Stati originari, cioè presero forma senza imitarsi l’uno con l’altro, fatta eccezione per Egitto e Mesopotamia per cui possiamo ipotizzare l’esistenza di qualche contatto. Probabilmente quindi questa struttura si riproduce in presenza di alcune condizioni senza che ci siano dei precedenti modelli a cui ispirarsi, tuttavia dopo essere riusciti ad avere successo essi diventano poi un modello anche per altri proto-Stati, che replicano alcune delle modalità organizzative. In questa forma di organizzazione troviamo una concentrazione del potere politico nelle mani di un individuo o di un piccolo gruppo, con possibili configurazioni diverse. Una differenza importante riguarda l’estensione territoriale, infatti possiamo distinguere fra città-stato e paesi-stato. Le città-Stato hanno un’estensione territoriale abbastanza limitata, anche se variabile, con un raggio che non supera i 10/20 km. Tuttavia la città-stato di Atene aveva un’estensione più ampia. Invece i paesi- Stato hanno un’estensione più ampia perché comprendono un’intera regione e dunque più città che fanno capo alla capitale, ma fanno comunque parte dello stesso sistema. Ne sono esempi l’Egitto, la Mesopotamia e la Persia, ma anche l’Impero romano. Le città-Stato, storicamente, hanno proliferato soprattutto quando hanno stabilito dei sistemi commerciali, di scambio economico consolidato, tra loro. Da questo punto di vista, esse sono sopravvissute e rimaste indipendenti proprio grazie ai sistemi di relazione commerciale con altre città-Stato, cioè grazie ad un sistema, una cultura di città-Stato. Nei sistemi di città-Stato troviamo una pluralità di centri politici autonomi ed indipendenti, ciascuno dei quali prende autonomamente le proprie decisioni. Ciascuna delle città tuttavia ha delle stabili relazioni commerciali con le altre, con cui spesso condivide una cultura. I sistemi di città-Stato più noti sono sicuramente le polis greche, ma anche il sistema degli stati cittadini e regionali italiani dal 1300 fino al Rinascimento, ma in realtà gli storici ne individuato in tutto 36 esempi sparsi in tutto il mondo, fatta eccezione per l’Oceania. Nei paesi-Stato, che possono essere definiti anche imperi, si ha invece un’unica unità politica e un unico centro politico, che controlla politicamente un territorio molto ampio, essi prendono solitamente il nome dalla regione e non da una città. Le motivazioni per cui il proto-Stato nasce, fornite dagli studiosi, sono innanzitutto la diffusione e il ricorso stabile all’agricoltura e la diffusione delle tecniche della coltivazione agricola. Un altro elemento rilevante è quello della competizione tra gruppi, che innesca la competizione per la gestione del territorio, ma anche l’aumento demografico e la presenza della compressione ambientale. Per quanto riguarda l’agricoltura, essa consente di accumulare risorse, di immagazzinarle e quindi di sfamare una quota superiore di individui, inoltre innesca due cose che sono probabilmente all’origine del porto-Stato, cioè la crescita demografica e la protezione del territorio dall’incursione di altri gruppi tramite il controllo stabile di questo da parte della comunità. Alcuni studiosi sostengono che l’origine del proto-Stato si ha solo se a queste condizioni si aggiunge l’intervento dell’elemento della compressione ambientale, cioè l’esistenza di limiti, prevalentemente geografici, che impediscono che un gruppo sconfitto scappi da questo territorio. In questo caso, infatti, la comunità vincente ha la necessità di creare una struttura più stabile che controlli la popolazione sconfitta e le imponga il pagamento in natura di tributi o addirittura l’esercizio gratuito della propria attività lavorativa. La parola impero può essere spesso considerata coincidente con la nozione di paese-stato, ma per noi essa ha una sfumatura ulteriore, infatti è utilizzata per identificare anche forme di organizzazione politica più recenti che arrivano anche fino al Novecento, come l’impero tedesco, austro-ungarico, russo, turco, tutte realtà che pur definendosi in questo modo presentano la fisionomia dello Stato moderno. Lo STATO MODERNO è un regime politico che compare nella prima età moderna in Europa e giunge fino a noi. Esso rappresenta una realtà storica ben precisa che ha sicuramente elementi in comune con i proto-Stati, tuttavia la differenza dal punto di vista qualitativo nel processo di statalizzazione è tale per cui va considerato una realtà a sé stante. Ci sono due visioni differenti nelle scienze sociali a questo proposito, cioè due modi di vedere la relazione tra lo Stato moderno e il proto-Stato: • Visione continuista, diffusa prevalentemente tra gli antropologi, afferma che lo Stato moderno è solo una variante del proto-Stato, cioè l’occidente ha solo reinventato una forma di organizzazione del potere che esisteva già in precedenza. Dunque esiste una continuità sostanziale tra le due forme. Il proto-Stato presenta la centralizzazione del potere, una burocrazia civile e militare, una tendenza alla codificazione delle leggi, e tutte queste cose possono essere trovate anche nello Stato moderno. • Tesi modernista, condivisa in gran parte dai politologi e soprattutto dagli storici delle istituzioni politiche, sostiene che lo Stato moderno è qualcosa di completamente originale, che quindi non si è mai presentato in precedenza. Esso dunque è qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto al proto-Stato dell’antichità. Ovviamente entrambe le visioni dicono cose corrette, dunque l’approccio adottato dipende da come si vuole affrontare la questione. Lo Stato moderno, a differenza di tutti gli Stati dell’antichità, non solo ha la peculiarità di durare di più, ma si estende a tutto il globo, cioè non rimane in un piccolo ambito circoscritto avendo la capacità di coinvolgere tutti i territori del mondo. Storicamente, ci sono delle prime tracce di statalizzazione che ci indicano che lo Stato moderno inizia a prendere forma, tuttavia il processo di costruzione di questo è molto lento, impiega infatti diversi secoli e può dirsi compiuto solo all’inizio del XVII secolo. Questo prime tracce possono essere identificate attorno al XIII secolo in tre aree diverse, in Francia, in Inghilterra e nella Sicilia di Federico II. In questi contesti il potere inizia ad essere concentrato nelle mani del sovrano e soprattutto egli inizia a circondarsi di una burocrazia civile e in parte di una burocrazia militare, cioè inizia a costruire attorno a lui un piccolo apparato di funzionari dello stato, di servitori dipendenti esclusivamente da egli e non nobili. Questo è rilevante principalmente perché il fenomeno si scontra con la logica di fondo del feudalesimo, in cui il sovrano non possiede una propria burocrazia, ma deve affidarsi al sostegno degli altri signori feudali, quindi privilegia i rapporti personali. Il nucleo di fondo dello Stato è in questo momento molto ristretto, in quanto composto da burocrazia civile e militare, cioè da armati che rispondono al sovrano. La prima ha soprattutto il compito di iniziare a riscuotere delle forme di tributi, inizialmente molto esigui e che poi diventeranno più rilevanti nel tempo. Non tutti questi tre casi portano avanti il processo di statalizzazione, infatti in Inghilterra e in Sicilia il processo si arresta, per vari motivi, molto precocemente. Questo comporta che il potere del sovrano si scontra con il potere dei nobili, i quali impediscono la centralizzazione del potere. Solo in Francia il processo continua, non senza ostacoli, costantemente in tutti i secoli successivi. Possiamo quindi considerare la Francia come il paese in cui lo Stato moderno ha origine e dunque diventa il modello e il paradigma a cui ispirarsi per gli altri paesi. La seconda tappa ci conduce in Italia tra XIV e XV secolo, quando compare qualcosa che inciderà sul futuro dello Stato. Anche nei principati e nelle repubbliche italiane iniziano a formarsi i primi germi dello Stato moderno, di una burocrazia civile. Essi tuttavia non riescono ad assumere una consistenza territoriale abbastanza ampia, ad eccezione di Venezia. L’innovazione introdotta dagli Stati italiani consiste nella creazione di un sistema interstatale, di stabili relazioni diplomatiche, in cui si affermano principi e dottrine che guidano l’azione delle Repubbliche. In particolare modo prende vita il principio dell’equilibrio di potenza, la bilancia del potere, che sostiene che quando uno Stato diventa troppo potente, il compito degli altri è quello di costruire alleanze che lo bilancino. Questo principio prende forma e viene elaborato nel corso del tempo ed ha la funzione di impedire che uno Stato annulli e annetta tutti gli altri, esso diventa poi una regola d’azione di tutti gli stati europei in quanto è una logica che impedisce che un singolo Stato si trasformi in impero inglobando l’intero continente. Nella storia europea ci sono stati vari tentativi di trasformare l’Europa in un impero, come la Francia napoleonica, la Spagna del 1500 e la Germania hitleriana, tuttavia tutti questi tentativi naufragano proprio grazie a tale principio. A partire dal Cinquecento la forma Stato inizia a diffondersi in tutta Europa e questo processo di diffusione, di conquista di una supremazia da parte della forma Stato, raggiunge il culmine alla metà del Seicento. La data convenzionalmente ritenuta emblematica è il 1648, cioè il momento in cui con la Pace di Vestfalia finiscono le guerre di religione. Essa stabilisce il momento in cui tutto il territorio europeo viene organizzato in forma di Stato sovrano, cioè non c’è regione europea non sottoposta a tale forma di sovranità. Dal punto di vista concreto, questo significa che tutti i soggetti che nel Medioevo avevano avuto un ruolo dal punto di vista internazionale non ce l’hanno più, ad esempio gli ordini cavallereschi, ma anche le autorità religiose. Questo fenomeno riguarda esclusivamente l’Europa, la diffusione al di fuori di essa avviene infatti solo un secolo e mezzo dopo, alla fine del Settecento, quando iniziano a prendere tale forma anche le ex-colonie britanniche, tra cui gli Stati Uniti d’America. All’inizio dell’Ottocento diventano Stati sovrani anche le ex- colonie spagnole dell’America latina. Successivamente iniziano ad entrare nel sistema intestatale europeo anche Turchia e Giappone, estremamente lontano ma che si ricostruisce come Stato, prendendo come modello lo Stato prussiano. Nel corso del Novecento, la forma organizzativa dello Stato continua a diffondersi e arriva oggi a contare circa 200 unità, più precisamente, gli Stati riconosciuti nel mondo sono 193. Ci sono tuttavia territori non sottoposti ad alcuna sovranità statale, perché oggetti di controversie e quindi non riconosciuti come Stati, ne sono esempi la Crimea, parte dell’Ucraina oggi, i territori palestinesi, un parte del deserto del Sahara. Per identificarle le caratteristiche dello Stato moderno utilizziamo un idealtipo, cioè uno schema teorico costruito estremizzando delle caratteristiche che ci sono nella realtà per capire la specificità del fenomeno. Sulla scorta di Max Weber, il sociologo storico GIANFRANCO POGGI ha costruito un idealtipo fondato su cinque elementi: il monopolio della forza fisica legittima, la territorialità, la sovranità, la pluralità e la comunità politica. • Il monopolio della forza fisica legittima è un elemento che caratterizza in generale i sistemi politici. Nello Stato moderno, un centro politico monopolizza gli strumenti della coercizione e dunque rende illegale l’utilizzo delle armi da parte di qualsiasi altro soggetto all’interno dei propri confini. In realtà qui troviamo in aggiunta un fattore, un tratto, che allontana molto lo Stato moderno dalle forme di organizzazione politica precedenti perché esso ha la pretesa di monopolizzare tutti gli strumenti della coercizione e dunque di rendere illegittimo l’utilizzo della forza da parte di qualsiasi altro soggetto. Esso non si occupa solo di conservare genericamente l’ordine pubblico e di fare la guerra ma ha anche l’ambizione di impedire che ci sia qualsiasi esercizio di violenza all’interno dei propri confini. Questo elemento non lo si trova nei proto-Stati perché nel mondo antico e medievale gli Stati consentivano che i soggetti privati o collettivi avessero un diritto di esercizio della coercizione, ad esempio, all’interno dell’unità familiare, il padrone poteva usare violenza nei confronti degli schiavi, oppure esisteva la pratica del duello fino a verso la fine dell’Ottocento. • Lo Stato moderno non può fare a meno del territorio, cioè il territorio rappresenta un elemento fondamentale, senza il quale lo Stato non può esistere. Quindi se non esiste un controllo del territorio e quindi un territorio stabilmente definito, lo Stato non può esistere e non può essere riconosciuto. Questo elemento è sicuramente condiviso con i proto-Stati del mondo antico, che però vivevano in contesti in cui i confini non erano chiaramente definiti, ma meramente delineati da barriere naturali. Le frontiere come oggi le conosciamo si definiscono principalmente a partire dal Settecento. • Il terzo elemento è quello della sovranità, che nello Stato moderno presenta due volti differenti, uno è condiviso con il proto-Stato, mentre l’altro è specificamente moderno. La prima faccia è quella interna, essa ci dice che lo Stato è sovrano perché all’interno dei propri confini non esiste alcuna autorità superiore, cioè l’autorità dello Stato all’interno del territorio non riconosce nessuna autorità superiore né politica né spirituale né di qualsiasi altro tipo. Infatti, anche se oggi esistono organismi sovranazionali, la loro efficacia è garantita solo dagli Stati stessi, che ne consentono l’attività. Questo elemento è in gran parte in comune con l’idea del potere sovrano dei proto-Stati precedenti. Per quanto riguarda invece la faccia esterna, essa ci indica che uno Stato è sovrano se viene riconosciuto come tale dagli altri Stati, cioè da una parte rilevante dei membri della comunità internazionale. Uno Stato viene riconosciuto come sovrano quando riesce effettivamente controllare un territorio e a governare su di esso, tuttavia, per motivi spesso ideologici, questo può non bastare. Ma in ogni caso questo elemento è legato soprattutto alla personalità internazionale dello Stato, infatti uno Stato sovrano può ricorrere legittimamente alla guerra in determinate circostanze. Questo non è sufficiente ma in ogni caso è un elemento ulteriore, legato alla personalità internazionale dello stato stesso. Dal 1948 al 1918 gli Stati hanno il diritto di fare la guerra in qualsiasi situazione, mentre dopo il 1918 la guerra di aggressione inizia ad essere considerata illegittima dal sistema internazionale, in particolare con la nascita dell’ONU essa viene condannata e tutti gli Stati ritengono illegittimo il diritto di aggressione. • La pluralità è un elemento implicito che indica che lo Stato moderno non è un entità autonoma, ma vive e si colloca all’interno di un sistema di Stati. Questa è una differenza sostanziale rispetto ai proto- stati del mondo antico che non avevano relazioni diplomatiche stabili né norme che regolavano i rapporti con le altre unità circostanti, mentre per lo Stato moderno questo elemento è cruciale. • Lo Stato moderno, a differenza dei proto-Stati, coltiva l’ambizione di trasformare la popolazione dei sudditi in una comunità politica, cioè in una popolazione che abbia valori comuni e si identifichi come parte di una comunità, come membro di una comunità. Questo comporta la volontà di unificare culturalmente e linguisticamente i territori conquistati e implica la trasformazione della popolazione in una nazione, qualcosa di non originario, in quanto prodotto di un’unificazione compiuta dagli Stati con obiettivi politici e militari. Questa operazione ideologica che giustifica il potere del principe conduce comunque alla costruzione compiuta del concetto di Stato, che inizia ad essere concepito in tutta Europa come un soggetto collettivo e come un oggetto materiale identificato dal governo, dal territorio su cui tale governo si esercita e sulla popolazione che vi risiede. Per esaminare il percorso della centralizzazione del potere è necessario chiarire la distribuzione del potere coercitivo, ideologico e economico nell’Europa medievale, cioè prima che lo Stato moderno prendesse forma. La costruzione dello Stato può generalmente essere concepita come una progressiva concentrazione del potere inizialmente coercitivo e poi ideologico in una serie molto limitata di centri politici, mentre nel mondo medievale feudale esso è disperso in una pluralità di centri. Lo Stato moderno nasce della dissoluzione e dalla distruzione dell’assetto feudale, cioè contro di esso. Un altro dettaglio è quello che lo Stato moderno abbatte l’ordine feudale e trova un fratello nell’economia mercantile di tipo capitalistico, i due nascono contemporaneamente e nessuno dei due potrebbe sopravvivere senza l’altro. Entrambe le realtà sono infatti figlie dello stesso processo e mettono in atto un mutuo sostegno. I tasselli cruciali dell’ordine feudale, che nasce dalla combinazione dell’economia schiavista romana e dell’economia tribale delle popolazioni nomadi germaniche, sono: • Ogni signore feudale gode di un territorio che gli è concesso in cambio di un’obbedienza e di un supporto militare, egli in origine non lo possiede come una proprietà definitiva, ovvero i territori vengono periodicamente concessi, mentre successivamente esso diventa ereditario. • Controllo del signore sulla popolazione che risiede sul territorio, questa popolazione gli fornisce i beni in natura che sono necessari al sostentamento della corte. • Ogni signore feudale porta le armi in origine, cioè nasce come bellatores, poi con il tempo diventa un aristocratico raffinato che porta le armi solo in maniera simbolica. Il secondo punto è strettamente legato al terzo perché inizialmente il fatto che i contadini siano tenuti a versare un tributo è una conseguenza della funzione militare. Infatti egli non può amministrare il territorio e partecipare alle guerre se nessuno gli paga l’equipaggiamento militare. • Il signore feudale è poi costantemente in lotta con i propri vicini per assicurarsi un onore maggiore e per acquisire territori più ampi, attraverso le armi e attraverso le unioni matrimoniali. • Ogni signore feudale dalla fine dell’800 d.C. cerca di affrancarsi dalla catena feudale, cioè cerca di rendersi, insieme al suo regno, autonomo dalle autorità superiori, autorità che è principalmente quella dell’imperatore. Europa dell’814 Carlo Magno non solo unifica il territorio del Sacro Romano Impero, ma riorganizza anche la catena di fedeltà personali che aveva in precedenza preso forma, costituendo un’unica catena gerarchica che va dal signore al più umile dei vassalli. Nella sua logica quindi tutte le autorità politiche rispondono direttamente o indirettamente all’imperatore. L’ordine feudale si disgrega quasi subito dopo la morte di Carlo Magno, quando il Sacro Romano Impero inizia a sfaldarsi perdendo qualsiasi efficacia politica, nonostante sopravviva come entità giuridica per circa 1000 anni. Alla fine del IX secolo d.C., la catena gerarchica che teneva insieme l’impero inizia a sfaldarsi e ogni signore feudale cerca di costruire un principato indipendente, che non debba rispondere all’imperatore. Nei cinque secoli successivi, fino al XIV, c’è una costante situazione di contrapposizione tra signori feudali che produce una semplificazione del quadro politico perché iniziano ad emergere signori più potenti che riescono ad annettere territori sempre più ampi. La mappa in questo momento è costellata da piccolissimi centri politici che iniziano una guerra costante e alla fine avviene una selezione per cui emergono i più forti, che riescono ad annettere gli altri andando di conseguenza a semplificare il quadro politico, attraverso la riduzione del numero di centri politici. L’interesse economico non è la molla, il movente principale risulta invece da onore e prestigio, per cui l’obiettivo non era accaparrare ricchezze, ma esibire la propria superiorità rispetto agli altri dissipando le ricchezze stesse. Non c’è in questa fase un’economia monetaria, non ci sono infatti scambi mercantili, se non per pochissimi beni di lusso, e conseguentemente ogni signore dispone di territori che sono, dal punto di vista economico, quasi autarchici. Questa situazione inizia a cambiare solo verso il XIV secolo. Europa della metà del 1300 I confini del Sacro Romano Impero si riducono e questo si trasforma nell’impero germanico. Si separa il regno di Francia, prototipo dello Stato moderno, che riesce prima di tutti gli altri a sganciarsi dall’autorità imperiale. Iniziano ad essere presenti dei regni nati dal successo di determinati signori. In Francia, insieme al regno di Francia vero e proprio, troviamo la Provenza, il ducato di Aquitania e il regno di Aragona. All’interno dell’impero iniziano a conquistare una loro autonomia i comuni dell’Italia settentrionale e alcune città della Germania del nord, cioè entità che reclamano un'autonomia dall’interno dell’impero stesso. All’interno di questa mappa possono essere identificate zone policefale e zone monocefale. Una zona monocefala è una zona in cui un centro, prevalentemente una città, inizia ad essere precocemente prevalente su tutte le altre e a diventare un centro economico, politico e culturale rilevante. Territori di questo tipo possono essere trovati in Francia, dove Parigi inizia a diventare preponderante e superiore da tutti i punti di vista su tutta la Francia, ad eccezione di quella meridionale, in Inghilterra e nell’est europeo. Non c’è invece un centro preponderante in Germania, Italia e Spagna, che sono zone policefale, con una pluralità di centri tra loro in competizione, nessuno dei quali riesce a concentrare in modo preponderante le risorse politiche, economiche e culturali contemporaneamente. In queste zone può succedere che una città diventi rilevante dal punto di vista economico, ma non dal punto di vista politico e culturale, oppure che diventi fondamentale rispetto a cultura ed economia ma non rispetto alla politica, e così via. Se pensiamo all’Italia settentrionale o meridionale ad esempio dal punto di vista economico fioriscono cultura e commerci come in nessun altra zona europea, tuttavia dal punto di vista politico c’è estrema frammentazione. Un fenomeno più o meno analogo si ha nella Germania occidentale. STEIN ROKKAN contribuisce all’analisi con una spiegazione importante sulla formazione dello Stato. Egli è stato un politologo scandinavo che ha fornito chiavi di lettura che hanno influenzato il lavoro di moltissimi politologi successivi. Rokkan conduce le sue ricerche tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento, quando muore prematuramente, motivo per cui tali ricerche vengono poi riprese dai suoi collaboratori che ne portano avanti alcune ipotesi. Stein Rokkan inizia studiando i sistemi partitici europei, in particolare egli si chiede come mai in Italia ci siano così tanti partiti e in Inghilterra no e per quale motivo in Francia ci siano partiti così diversi da quelli italiani. Il presente della politica europea su cui egli si concentra è caratterizzato da un grande immobilismo politico, cioè le percentuali di voto dei partiti rimangono sostanzialmente inalterate per un lungo periodo, durante il quale non ci sono grandi trasformazioni, e questo è il caso della Prima Repubblica italiana, ma in generale anche dell’intero contesto europeo. Egli cerca una spiegazione a questa situazione sostanzialmente cristallizzata che va molto indietro nel tempo, ritiene infatti che l’assetto dello spazio politico sia il risultato delle modalità con cui gli Stati nazionali si sono costruiti, si deve quindi osservare il processo di costruzione dello Stato per comprendere la situazione contemporanea. Egli considera un periodo di mille anni, addirittura tornando alla caduta dell’impero romano, per esaminare il processo di costruzione dello Stato in Europa. A questo scopo egli analizza la disgregazione del vecchio centro imperiale e l’emergere di una serie di nuovi centri politici, alcuni dei quali riescono ad estendere il loro raggio d’azione su un territorio sempre più ampio. Rokkan introduce una serie di concetti utili alla sua analisi. Il primo consiste in una dicotomia tra centro e periferia, che in realtà non è l’unico ad adottare, ma è quello che lo fa in modo particolare. Secondo egli un centro è un luogo fisico in cui si concentrano le decisioni per i diversi campi dell’attività, ovvero è una città, un territorio in cui si possono riconoscere le sedi del potere politico, economico e culturale. Non è detto che un centro politico sia anche economico e culturale, ma nel caso in cui si concentrino in esso tutte e tre le risorse si ha a anche fare con un centro molto potente. Esso può avere un raggio di azione più o meno ampio a seconda delle risorse, dello sviluppo delle tecnologie e dalle vie di comunicazione. Il raggio di azione è la distanza entro cui si esercita effettivamente il controllo di un territorio. Una periferia è un territorio che subisce le decisioni del centro, quindi un territorio marginale dal punto di vista politico, economico e culturale, tre elementi distinti che possono in alcuni casi coincidere. Questa dicotomia si struttura su dinamiche e congiunture storiche e può dunque anche cambiare nel corso del tempo. Infatti, nel corso della storia europea delle periferie sono diventate centri, mentre dei centri sono diventati periferie. Ne è un esempio Roma che, seppure non subisca il processo di emarginazione fino in fondo, perché rimane il centro culturale, diventa periferica per buona parte della storia moderna italiana, dopo essere stata centrale nell’impero romano. Dunque centri e periferie non vanno intesi come qualcosa di stabile nel corso del tempo. L’idea di Rokkan è qui di quella di andare a ricostruire proprio il conflitto che si produce nella storia europea fra centri tra loro in competizione. Questo processo di costruzione dello Stato in Italia è relativamente tardo, nel senso che un centro, Torino, riesce ad avere la meglio sugli altri solo nel 1861 e poi definitivamente nel 1870 con la conquista di Roma. La corona sabauda riesce infatti con una guerra di annessione a conquistare l’intero territorio italiano strappandone una fetta all’impero austro-ungarico e sottomettendo il resto dei regni d’Italia, fino a quel momento indipendenti. In seguito dunque alcuni altri centri diventano dei centri decaduti o falliti, divenendo periferie, mentre altri centri, come Milano, continuano ad essere importanti centri economici e culturali. I centri che si trasformano in periferie sono principalmente le città dell’Italia meridionale, come Napoli, che aveva avuto un grandissimo ruolo nella storia europea. Secondo Rokkan, determinati tipi di conflitti possono lasciare delle lesioni stabili nella società, cioè le divisioni che si creano nella società in determinati momenti non si rimarginano, ma come fratture continuano a delineare lo spazio politico. I cleavages sono dal punto di vista geologico delle fessure che si vengono a creare nel terreno a seguito di uno smottamento. Essi sono quindi dei momenti storici che, simili a terremoti, destabilizzano la società dividendola in blocchi. Sono esempi di questi terremoti crisi come guerre civili, rivoluzioni, contrapposizioni che comportano scontri fisici tali per cui quella ferita non viene rimarginata, ma consolida una determinata strutturazione dello spazio politico. Per capire la strutturazione dello spazio politico, secondo Rokkan, bisogna collegarli alle fatture che si sono determinate nel corso della storia moderna dell’Europa tra il 1300 e l’inizio del Novecento. Egli ritiene che alcuni paesi siano stati attraversati precocemente da tali fratture, ricalcate poi dai partiti, che nascono molto tempo dopo. Rokkan individua nella storia europea alcune grandi rivoluzioni e ritiene che la storia moderna dell’Europa è dominata da due processi rivoluzionari: • Rivoluzione nazionale, con cui si producono le nazioni moderne. Le nazioni moderne sono entità culturali che si hanno quando una popolazione si riconosce accomunata da una tradizione linguistica, culturale e politica e in virtù di questi legami ritiene di avere un compito ed un destino comune, di essere in sostanza una comunità. La nazione è una variante specifica delle comunità politiche, che si basano specificamente sul senso di appartenenza, ma la modernità si basa sul fatto che essa non si trova negli stessi termini nel passato. Esse sono in particolare caratterizzate da omogeneità linguistica e culturale, almeno in linea generale, infatti l’elemento linguistico non si può ritenere risolutivo in quanto ci sono nazioni distinte che parlano la stessa lingua o nazioni all’interno delle quali esistono più lingue, tuttavia si può ritenere comunque l’elemento chiave. La gran parte delle nazioni contemporanee in effetti nasce proprio grazie allo sforzo di omogeneizzazione, di trasmissione di valori e di standardizzazione culturale e linguistica operato dagli Stati nazionali. Questo processo avviene in gran parte grazie all’istruzione. • Rivoluzione industriale • Rivoluzione internazionale. Queste non sono rivoluzioni politiche, ma processi di trasformazione. Dentro questi tre processi rivoluzionari si individuano cinque processi più specifici, che sono strettamente connessi alle fratture che emergono. Questi sono: I. Processo di costruzione dello Stato in senso stretto, che dà origine alla frattura centro-periferia II. Processo di costruzione della nazione, che dà origine alla frattura stato-chiesa L’obiettivo principale di Rokkan è capire il motivo per cui lo spazio politico in alcuni contesti è più frammentato, mentre in altri è più semplice. Secondo egli, la risposta è da trovare nel timing, cioè nel momento in cui le varie fatture si presentano e soprattutto nell’intervallo temporale che separa l’emergere di una frattura dall’emergere di quella successiva. Ci sono quindi due ipotesi da prendere in considerazione: • In un primo caso possiamo trovarci in un paese in cui le fatture emergono con un grande intervallo tra loro, cioè quando emerge una nuova frattura quella precedente è in gran parte indebolita ed ha perciò perso la sua intensità. Nel caso più semplice la frattura emerge più o meno nel 1300 e la successiva fino a due secoli dopo, in questo caso c’è un intervallo molto ampio tra le due e, secondo Rokkan, all’emergere della seconda frattura la prima si è quasi completamente rimarginata e, di conseguenza, la seconda frattura ravviva la precedente sovrapponendosi ad essa. Il risultato è che lo spazio politico rimane suddiviso in due porzioni. Questo tipo di configurazione, pur non essendo riscontrabile in nessun caso, presenta degli esempi che si avvicinano ad esso e il caso emblematico in questo senso è quello della Gran Bretagna. In questo contesto, infatti, la prima frattura emerge molto presto, quando Londra riesce ad annettere le regioni distanti geograficamente, ma militarmente e politicamente controllate da essa, come la Scozia, il Galles e l’Irlanda, che diventa ben presto una sorta di dominio coloniale. Le ripetute rivolte e guerriglie contro la corona inglese, soprattutto in Scozia, sono indicative del fatto che emerga questa frattura tra centro e periferia. La seconda frattura, quella tra Stato e Chiesa, invece, emerge dopo la riforma protestante, quando il sovrano d’Inghilterra proclama la nascita della chiesa d’Inghilterra, cioè la religione anglicana, affrancandosi così dal domino spirituale del Papa di Roma. La terza frattura, quella tra città e campagna, emerge solo con la rivoluzione industriale quando, alla fine del Settecento, sorge la divaricazione tra liberali, a favore del libero commercio e degli interessi dell’industria cittadina, e conservatori, a favore del mantenimento delle barriere doganali e a sostegno dell’aristocrazia terriera e del suo ruolo tradizionale. La quarta frattura emerge non molto tempo dopo, nella seconda metà dell’Ottocento, con la nascita del movimento operaio e del futuro partito laburista. Nel caso dell’Inghilterra però non sia ha la frattura legata alla rivoluzione internazionale. Osserviamo perciò che almeno tre fratture emergono con un enorme intervallo di tempo tra l’una e l’altra e dunque lo spazio politico tende a rimanere abbastanza semplificato. Nel momento in cui emerge la frattura tra capitale e lavoro, infatti, vengono inglobate quelle precedenti, tanto che nel caso del partito laburista, almeno in passato, una storica roccaforte è la Scozia. Quindi in sostanza si ha uno spazio politico abbastanza semplificato, tanto che la dinamica rimane per molto tempo prettamente bipartitica, al punto che all’inizio degli anni ’20, anche per effetto del sistema elettorale, si passa rapidamente da un bipartitismo che vede contrapposti liberali e c conservatori ad uno che ha come proteggo isti conservatori e laburisti. • Un caso opposto è quello in cui le linee di frattura si presentano con un intervallo di tempo molto ridotto l’uno dall’altro. In questo caso Rokkan afferma che all’emergere della nuova frattura la precedente non si è ancora riassorbita e, di conseguenza, la precedente non va ad inglobare la successiva, ma queste si intersecano e generano 4 bacini elettorali (nel caso di due fratture). In teoria se tutte e cinque le fratture si presentassero in questo modo la strutturazione del sistema politico sarebbe estremamente frammentata. In Italia, la prima linea di frattura emerge nel momento in cui si realizza il processo di riunificazione nazionale, cioè nel 1861, quando il centro politico di Torino riesce ad annettere l’intero territorio nazionale attraverso delle guerre più o meno cruente. Il regno sabaudo si scontra soprattutto in alcune aree con l’aristocrazia decaduta che riesce spesso a mobilitare parte della popolazione locale. La seconda linea di fattura emerge invece il 20 settembre 1870 quando i bersaglieri entrano da Porta pia a Roma, occupano militarmente la città e cacciano il papa. Questo episodio completa parzialmente l’unificazione dello Stato italiano, ma apre la frattura tra Stato e Chiesa, cioè una lacerazione tra chi sostiene il papa e chi sostiene invece la corona. La terza frattura emerge con la rivoluzione industriale tra fine dell’Ottocento e inizio del Novecento, questa costituisce una frattura sicuramente meno visibile in Italia, ma che comunque provoca una divaricazione tra posizioni più liberali e posizioni maggiormente conservatrici. La quarta frattura, quella tra capitale e lavoro, inizia a emergere negli anni ’90 dell’Ottocento, quando inizia a formarsi il movimento, e poi il partito, socialista, che viene fondato nel 1892. Le organizzazioni sindacali e le organizzazioni operaie iniziano in questo periodo a diffondersi sia nelle campagne che nelle città. Nel 1998 avviene un evento emblematico da questo punto di vista perché si ha una grave repressione degli scioperi da parte di operai a Milano, durante la quale vengono uccisi molti manifestanti. Questa azione viene vendicata dall'anarchico italiano Gaetano Bresci, che torna dagli USA, e due anni dopo uccide il re Umberto I. In Italia, a differenza di quanto avviene in Inghilterra, la quinta frattura esiste ad emerge a partire dal 1917 per poi essere compiuta nel 1921 quando nasce il partito comunista italiano. Tra la prima e l’ultima frattura trascorrono solo 60 anni, questo significa che lo spazio politico italiano in 60 anni subisce l’impatto di ben cinque fratture, questo comporta che il sistema politico italiano rimane per tutto il Novecento percorso da linee di frattura che sono tra loro indipendenti, come quella tra laici e cattolici che domina lo scenario fino alla fine del secolo scorso, quella tra socialisti e comunisti, quella tra centro e periferia, che riemerge soprattutto in alcuni momenti di crisi, cioè nel 1945 con gli indipendentisti siciliani e alla fine degli anni ’80 con le leghe regionali, e anche tra conservatori e progressisti. Quest’ultima è un po’ l’eredita dalla frattura tra città e campagna, situazione che viene complicata dall’esperienza fascista, che genera una frattura tra fascisti e antifascisti, la quale riprende e ricalca in qualche misura quella precedente linea tra conservatori e liberali. Rokkan si chiede anche per quale motivo in alcune aree europee il processo di statalizzazione si sia concluso prima, mentre in altre questo è avvenuto più tardi. Nell’Europa del 1300 possono essere individuate una zona a struttura monocefala e una a struttura policefala. Egli in generale afferma che le strutture monocefale nascono nelle zone più lontane dal vecchio centro imperiale, cioè nelle zone più lontane da Roma, in cui l’eredita romana si dissolve prima. Invece, le zone policefale sono quelle in cui l’eredita romana rimane più consolidata e un unico centro emerge più difficilmente. Le zone periferiche sono quindi l’Inghilterra, la Francia settentrionale, la penisola iberica settentrionale ed occidentale e le zone dell’est Europa, quelle al di là della linea dell’Elba, cioè Germania orientale, Polonia, Danimarca. In queste aree i centri trovano meno ostacoli economici, politico-coercitivi e culturali. Secondo Rokkan quindi questo è il motivo per cui il processo di statalizzazione si avvia prima in Inghilterra e in Francia, ma anche in Spagna, dove però incontra un ostacolo in Catalogna, e nei paesi dell’est europeo, dove grandi centri iniziano a conquistare un territorio relativamente ampio abbastanza precocemente. Invece, nella zona policefala della fascia centrale dell’Europa i centri emergenti fanno molta più fatica ad avere la meglio sugli altri centri concorrenti. Qui infatti rimane un’eredità romana più forte, per cui ad esempio si continua ad utilizzare il latino come lingua ufficiale, dunque la lingua volgare fa più fatica ad affermarsi, ma rimane anche il diritto romano, che serve come codice giuridico per regolare le transazioni economiche. Esso non richiede necessariamente la garanzia di un’autorità statale perché è costituito da un insieme di principi che regolano i rapporti tra privati e che per questo può applicarsi anche in assenza di un’autorità sovrana. C’è poi un ostacolo anche dal punto di vista economico, perché le vie di comunicazione costruite sotto l’impero romano continuano ad essere percorribili ed utilizzate, a differenza delle altre aree europee, che si ricoprono di foreste e diventano quindi difficilmente percorribili. In europa centrale invece le strade romane ripristinate vanno a costituire la cosiddetta via delle fiere, cioè una via dei commerci che dalle città dell’Europa centrale arriva all’Italia centrale per poi spingersi verso il mar Mediterraneo orientale. Questa situazione costituisce un ostacolo alla formazione di nuovi centri. Se ci chiediamo come mai lo Stato moderno sia riuscito ad avere la meglio rispetto alle altre forme di organizzazione del potere, possiamo individuare tre tipi di risposte differenti che si concentrano su dimensioni diverse, cioè: I. La rilevanza del potere coercitivo II. I ruoli del potere economico, quindi le trasformazioni economiche che intervengono in contemporanea con l’affermazione dello Stato III. Il potere simbolico. CHARLES TILLY è uno studioso americano di origine francese che si fa fatica a definire nella sua collocazione disciplinare, in quanto è un sociologo storico, che si è occupato soprattutto della costruzione dello Stato e quindi possiamo considerarlo anche un esponente della politologia storica. Egli cerca di dare un risposta alla domanda sul perché lo Stato riesca ad avere la meglio sulle altre forme di organizzazione del potere. Tilly nel corso della sua carriera studia i movimenti collettivi, le proteste, i modi in cui si sviluppano i grandi cicli di rivolta popolare nella prima età moderna, fino agli scioperi e alle mobilitazioni collettive dell’Ottocento e del Novecento. Accanto a questo però studia anche il processo di costruzione dello Stato ed elabora una risposta riducendo la sua tesi ad un vero e proprio slogan, il quale afferma che lo Stato fa la guerra e la guerra fa lo Stato. Questo intende che si dà innanzitutto una priorità ai fattori militari e dunque innanzitutto alla competizione geopolitica che si viene a creare nel territorio europeo. Per cui il potere coercitivo è il punto principale, l’esigenza principale che gli Stati devono soddisfare. C’è poi anche l’idea che la modalità di fare la guerra cambia nel tempo, e questi cambiamenti nelle modalità innescano il processo di statalizzazione. La prima parte dello slogan veicola l’idea che l’esigenza fondamentale dello Stato è quella di fare la guerra, di avere un apparato coercitivo che sia in grado di portare avanti una guerra offensiva o difensiva. La seconda parte dello slogan, invece, afferma che la necessità di avere un esercito efficiente induce alcuni sovrani a costruire l’apparato statale, che può cosi diventare uno Stato moderno. Secondo Tilly ci sono alcune grandi rivoluzioni militari che segnano la storia dello Stato e, in generale, la storia europea. Queste consistono principalmente nel modo in cui si fa la guerra e sono state importanti anche nel passato, cioè non solo nell’età moderna, ma anche all’inizio della modernità e soprattutto all’inizio del Quattrocento. Gli eserciti sono fino ad allora composti da cavalieri feudali, che risolvono i conflitti in duelli o lunghi assedi delle città, dunque si tratta di guerre combattute da piccolissimi eserciti feudali composti da poche decine o centinaia di armati. I cavalieri sono sostanzialmente autonomi proprietari di terre che dispongono dell’equipaggiamento necessario, cioè di uno o più cavalli e di servitori che lo accompagnano in battaglia. Si parla perciò di guerre molto poco cruente, che non hanno delle grandi ripercussioni sulla popolazione civile. Nel Quattrocento però interviene una trasformazione radicale, per cui si inizia a passare all’utilizzo delle armi da fuoco, che vengono utilizzate non da cavalieri, ma da una fanteria, la quale viene qualche volta accompagnata da alcuni reparti più specializzati con armi da assedio più consistenti. Questa trasformazione porta dei cambiamenti abbastanza radicali, ma implica anche che l’utilizzo dell’arma da fuoco, seppure ancora rudimentale, è abbastanza semplice e non richiede competenze o posizioni sociali particolari. Le guerre iniziano a coinvolgere quindi molte più persone e durano anche molto di più, oltre a conoscere efferatezze molto maggiori, in quanto questi fanti, una volta impossessatisi di una città, iniziano a compiere qualsiasi atto visto che gli viene dato campo libero. Tilly spiega in sostanza che questa rivoluzione militare è la premessa per la nascita e la costruzione dello Stato moderno. Egli elabora una periodizzazione in cui individua 4 fasi storiche, che vanno dal 1200 alla fine del 1900. C’è una prima fase che è quella del patrimonialismo, la seconda è quella brokeraggio o dell’intermediazione, la terza è quella della nazionalizzazione e infine la quarta è quella della specializzazione. Secondo egli, tutte queste fasi hanno implicazioni sulla storia dello Stato, ma quella con maggiore rilevanza è la seconda. I. La stagione del patrimonialismo è la stagione feudale in cui gli eserciti sono appunto eserciti feudali. In questa fase, un sovrano feudale con una certa rilevanza non dispone di un proprio esercito personale, ma di una serie di vassalli legati a lui da un rapporto di obbedienza e fedeltà. Questa è un’eredità propriamente feudale, in cui ci sono dei cavalieri indipendenti, ognuno dei quali è tenuto a dare auxilium et consilium. Il signore feudale guida poi materialmente o indirettamente l’esercito di cavalieri feudali che vanno a muovere verso la città avversaria fino a scontrarsi con il nemico in un rituale cavalleresco non particolarmente efferato. II. Nella fase del brokeraggio iniziano a comparire gli eserciti di fanteria, che nascono in quanto più efficaci perché riescono a raggiungere gli obiettivi più facilmente. Questi eserciti di fanteria sono eserciti privati messi insieme da privati, da capitani di ventura, che arruolano nelle zone più povere dell’Europa contadini, montanari e poveri per formare dei grandi eserciti. Tutti questi ricevono un compenso, sono quindi salariati, si chiamano infatti soldati perché sono al soldo di un capitano di ventura. Esso è un intermediario il quale vende la propria prestazione militare al sovrano che vuole fare la guerra e si trova a siglare con esso un contratto che assicura la vendita dei propri servizi e di conseguenza la sua erogazione. La seconda intermediazione emerge dalla retribuzione dei soldati da parte del sovrano feudale, che dovrebbe andare a chiedere un sostegno economico all’aristocrazia ormai diventata da guerriera a dedita alla rendita terriera. Il sovrano però non agisce così perché la sua volontà è quella di diventare autonomo dall’aristocrazia, quindi sottometterla e decidere indipendentemente. Per questo egli si rivolge agli intermediari finanziari. Questi secondi intermediari sono i grandi gruppi bancari che emergono a Firenze, a Genova e in Olanda a cui si chiede un finanziamento, un prestito che serve a finanziare la guerra. Il prestito viene successivamente ripagato grazie alla conquista del territorio, dalla cui popolazione si inizia a riscuotere le tasse. Questo significa che per ripagare il debito, i sovrani devono costruire un apparato amministrativo fiscale che prelevi le risorse fiscali dalla popolazione conquistata e contemporaneamente costituire un apparato coercitivo che controlli i territori. Questo avviene nel Quattrocento prevalentemente in Francia e non in altri Stati, che rimangono arretrati per motivazioni ben precise. politico dell’aristocrazia, incrementando i flussi economici che arrivano nelle casse dello Stato. Indirettamente si favorisce il consolidamento di tutte le condizioni che danno origine ad un’economia di tipo capitalistico. Gli eserciti mercenari ad esempio vengono pagati in moneta, e questo fa si che i soldati dispongano di denaro contante che può andare ad alimentare le economie cittadine. Inoltre gli Stati vanno a finanziare le loro operazioni militari ricorrendo al supporto dei grandi gruppi bancari, andando a ridurre progressivamente le limitazioni morali all’esercizio del prestito di interesse. Per quanto concerne il mercato della forza lavoro invece gli Stati indirettamente favoriscono la nascita di economie cittadine che non porterebbero esistere se non con l’apporto di forza lavoro libera da vincoli feudali provenienti dalle campagne. All’interno di ciascuno Stato si cerca di sviluppare i presupposti di un’economia di tipo capitalistico perché in questo modo si possono ottenere più facilmente gli introiti fiscali. Si finisce perciò a creare un equilibrio instabile tra Stato e imprenditori, perché gli interessi del primo sono configgenti con quelli degli imprenditori, ma gli uni non possono fare a meno degli altri. Questo consente la stabilizzazione nel tempo dei presupposti dell’economia di tipo capitalistico. Nel sistema inter-statale si viene invece a creare un equilibrio di potenza fra gli Stati, questo significa che gli Stati protagonisti del sistema iniziano a comportarsi in modo da creare volontariamente un equilibrio volto ad impedire che uno degli attori diventi tanto potente da poter tendenzialmente inglobare tutta l’economia mondo. Si crea cioè un equilibrio che impedisce che uno degli attori diventi un impero, si viene perciò a creare un insieme di strategie che impediscono la trasformazione dell’economia mondo in un impero mondo. In sostanza quindi lo Stato e il sistema inter-statale forniscono la spiegazione della stabilità dell’economia mondo di tipo moderno, del capitalismo storico, moderno e del sistema economico che si va a creare progressivamente all’inizio dell’età moderna, estendendosi a tutto il pianeta. PERRY ANDERSON è uno studioso di impostazione marxista che si concentra soprattutto sulla transizione dal feudalesimo allo Stato moderno, focalizzandosi in particolare sulla nascita dello Stato assoluto e sulla sua connessione con la formazione dell’economia di tipo capitalistico. Per almeno tre secoli, dall’anno 1000 fino al 1200 l’economia subisce un’incremento notevole della produzione agricola in Europa. Questi sono secoli che, rispetto al periodo buio del medioevo, rappresentano periodi di grande vitalità economica in quanto fanno registrare un grande aumento della produttività e della produzione agricola e contemporaneamente un grande incremento della popolazione (da 20 milioni a 54 milioni in Europa). Inevitabilmente si registra anche un’inflazione dei prezzi legata all’incremento demografico e alla crescita delle città, che chiedono alle campagne prodotti agricoli. Si formano poi anche dei piccoli gruppi bancari che, soprattutto in Italia, iniziano prendere piede. Questa dinamica inizia secondo Anderson ad entrare in crisi nel XIV secolo quando vengono a maturazione le tendenze progressivamente emerse e si registra un’inversione di tendenza in quanto la popolazione europea si riduce, a seguito della diffusione della peste nera, di circa un terzo nel giro di un anno. Questo passaggio, secondo egli, è particolarmente indicativo perché impone ai proprietari terrieri delle scelte abbastanza radicali che poi influiscono sulla nascita dello Stato. Infatti i prezzi iniziano a scendere vertiginosamente e questo comporta che coloro che possiedono le risorse agricole vedano i loro introiti ridursi e, al contempo, la manodopera nelle campagne diminuisce, dunque la capacità produttiva scende. La risposta dei proprietà terrieri è quella di un aumento delle ritmi lavorativi e della quota di risorse da versare nelle loro casse, cercano cioè di aumentare la pressione sui contadini. Il secolo che segue è quindi un secolo di rivolte contadine che caratterizza tutta l’Europa, ma con esiti diversi. Tutte le rivolte vengono in realtà sedate sanguinosamente, ma la loro sconfitta porta a conseguenze diverse nei vari contesti europei, dove non è egualmente distribuito il fattore cruciale delle economie urbane. Secondo Anderson la presenza delle economie urbane in alcuni contesti viene a svolgere una funzione di solvente nei confronti delle istituzioni feudali. Le città sono così rilevanti per due motivi: • Innanzitutto esse rappresentano un polo di attrazione per i nobili e gli aristocratici, che per trasferirsi devono però monetizzare le loro rendite, cioè devono trasformare le rendite in natura in pagamenti in denaro liquido. Quando questa trasformazione avviene il proprietario feudale cessa di essere tale e inizia ad essere solo un proprietario terriero. • Il secondo fattore è legato al fatto che esse rappresentano un polo di attrazione anche per i contadini in fuga dalle campagne. Scappare dalle campagne non è consentito nell’Europa medievale perché si è legati alla terra, ma per sfuggire alla condizione di oppressone molti decidono di fuggire alla ricerca di libertà e di possibilità di vendere la forza lavoro. Questa possibilità esiste però solo quando esistono effettivamente delle economie cittadine, che rappresentano un forte incentivo all’inurbamento e allo spostamento illegale. In questo modo i contadini si sottraggono al rapporto feudale e iniziano ad offrire la propria forza lavoro. Questo processo in Italia è abbastanza precoce ad esempio nel caso dell’economia fiorentina. Il feudalesimo viene invece abolito ufficialmente in Russia nella seconda metà dell’Ottocento. Secondo Anderson, la formazione di un’economia capitalistica inizia ad accelerare dopo la seconda metà del Trecento, a seguito di queste dinamiche convergenti. Quando poi nei secoli successivi iniziano a riemergere le rivolte contadine, la situazione nelle campagne è completamente mutata perché di fatto i signori feudali sono diventati semplici latifondisti privi di ruolo militare e politico e dunque, per sedare le rivolte, essi non possono che rivolgersi al sovrano. In sostanza la nascita dello Stato assoluto è legata a questa trasformazione perché incoraggia e alimenta la dissoluzione dell’assetto feudale, dissociando il potere politico e il potere economico, consentendo allo Stato di diventare detentore esclusivo della forza coercitiva e garante di un’economia sempre più chiaramente capitalistica. Questo processo segue dinamiche differenti nei vari contesti europei. In Spagna si crea precocemente uno Stato assoluto che di fatto convive con l’assetto feudale. In questo caso infatti lo Stato non ha bisogno di alimentare la trasformazione capitalistica perché può contare sull’afflusso di metalli preziosi dal Nuovo mondo. La Francia invece rappresenta il caso opposto, in quanto la creazione dello Stato assoluto si accompagna alla totale politicizzazione dell’aristocrazia, tanto che ad un certo punto diventa semplicemente la comparsa di un grande rituale a Versailles. In Inghilterra invece l’assenza di una competizione geopolitica consente la convivenza tra corona e aristocrazia, anche se di fatto qui lo Stato assoluto non riesce mai ad essere costruito. In Russia e in Prussia, cioè nelle aree orientali dell’Europa, la costruzione dello Stato assoluto avviene solo molto più tardi, fra il Seicento e il Settecento, per tentare di adeguare militarmente l’apparato statale alla minaccia rappresentata dai vicini. Il feudalesimo tuttavia in questi paesi continua ad esistere e l’aristocrazia feudale diventa un’alleata delle case regnanti che cercano di costruire lo Stato moderno. L’economia capitalistica è sicuramente identificabile come un’economia di mercato ma, in particolare, è un tipo di economia in cui esiste una forza lavoro che eroga la propria capacità lavorativa ad un detentore dei mezzi di produzione, cha la utilizza per produrre delle merci. Questa idea generale non è necessariamente legata all’economia di mercato, quindi le due espressioni non vanno sovrapposte, perché anche le economie pianificate di tipo socialista sono delle economie a capitalismo di stato. Ad esempio, nella Cina contemporanea esiste un’economia di tipo capitalistico, nonostante una parte dei mezzi di produzione sia detenuta dallo stato e ci sia una forte pianificazione economica. Invece lo sviluppo socio-economico è più legato ad un’idea di produttività. Gli aspetti culturali che riguardano la formazione dello Stato riguardano soprattutto un elemento, cioè il fatto che la costruzione dello Stato moderno comporta anche la concentrazione delle risorse simboliche nelle mani dell’apparato statale. Questo processo è stato affrontato e considerato da molti studiosi, tra cui anche Stein Rokkan, Norbert Elias e Pierre Bourdieu. In particolare, i due sociologi si sono concentrati in maniera diversa sulle implicazioni culturali della nascita dello stato moderno. NORBERT ELIAS è un sociologo tedesco che ha messo in relazione la nascita dello stato con il processo di civilizzazione o di disciplina delle passioni. Egli in sostanza dice che nel Medioevo non esistevano quelle che noi definiamo le buone maniere, le norme di buona condotta e che oggi tendiamo a considerare come normali, ma che sono in realtà un lascito della costruzione dello Stato moderno. Ovvero, se prima, con la concentrazione dei cavalieri feudali nelle corti medievali, questi sono tenuti ad essere cortesi, successivamente per emulazione le regole vengono adottate anche dai ceti emergenti e progressivamente dal resto della popolazione. PIERRE BOURDIEU, sociologo francese afferma che lo Stato moderno ad un certo punto diventa qualcosa di simile alla banca centrale del capitale simbolico, perché a partire dal Seicento monopolizza tutte le risorse che danno credibilità e autorevolezza agli attori sociali. La parola DEMOCRAZIA ha una lunghissima storia, nel corso della quale, però, il suo significato è cambiato radicalmente. Il primo tassello, in tale senso, riguarda l’origine delle prime istituzioni definite come democratiche, e questo porta ad Atene, nella Grecia del V secolo a.C.. La storia della democrazia prende infatti forma qui, ma non significa che tutta la storia greca sia stata democratica, infatti questa finisce dopo qualche secolo, con apice in un periodo di circa 150 anni, dopo il quale le istituzioni entrano in crisi. La parola ‘democrazia’ deriva dalla combinazione di demos, cioè popolo e kratos, cioè potere, c’è tuttavia qualche ambiguità legata a tale parola. Demos può infatti indicare due cose, l’insieme della popolazione o un suo settore specifico, cioè la maggioranza della popolazione e la maggioranza dei più umili. Questo in realtà non è tanto diverso da quello che accade nella lingua italiana attraverso la nozione di popolo. I più poveri sono, agli occhi degli aristocratici e delle élite, i peggiori, cioè i più ignoranti e coloro che si fanno manipolare. Kratos invece indica potere, ma in realtà si tratta spesso di un potere connotato negativamente, come esercizio di una forza coercitiva e arbitrio, e che si distingue da forme di potere legittime. Questo evidenzia il fatto che la parola democrazia, nel V secolo, in realtà viene utilizzata molto poco ad Arene, e solo dai suoi avversari, che la intendono come arbitrio della maggioranza incolta, dittatura del popolo. Chi invece vuole esaltarne gli aspetti positivi utilizza un altra parola, che è isonomia, che indica l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzioni di ceto. Si parla anche di isegoria, cioè di eguaglianza di diritto di parola in assemblea, questo significa che ogni persona che sia cittadino ha diritto di prendere la parola in assemblea e di ricoprire le cariche pubbliche. Non si sa molto oggi su tutte le polis che sono state democratiche, le quali in tale periodo erano circa 1000, tutte indipendenti tra loro, ognuna cioè con una propria costituzione ed un proprio governo. Infatti la maggior parte delle informazioni sull’organizzazione democratica che abbiamo sono relative ad Atene, dove la democrazia ha inizio tra il 508 e il 507 a.C., quando vengono approvate riforme che allargano il diritto di cittadinanza, cioè il diritto di partecipare all’assemblea. La vicenda della democrazia ateniese finisce poi gradualmente, dopo diversi colpi di stato e periodi di restaurazione autoritaria, a partire dalla metà del IV secolo, quando tutte le polis greche vengono inglobate all’interno di unità imperiali più ampie. La democrazia degli antichi era sicuramente una democrazia diretta, espressione che in realtà usiamo noi, ma che per i greci poteva essere solo tale. Gli elementi caratterizzanti erano innanzitutto il riconoscimento dei diritti politici a tutti i cittadini maschi adulti che potevano prendere parte all’assemblea, avere il diritto di parola in tale contesto e ricoprire cariche pubbliche. Questi si ritiene che fossero compresi in una percentuale che va tra il 10 e il 20% della popolazione, escludendo cioè schiavi, donne, stranieri e bambini. Questi dati conducono a considerare, nel momento di massima espansione, una popolazione di circa 10.000/15.000 uomini che effettivamente potevano partecipare e settimanalmente si recavano alle assemblee. Un secondo elemento caratterizzate è il ruolo sovrano dell’assemblea dei cittadini, in cui coesiste ciascuno degli ambiti che noi riportiamo ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, divisione che invece non esiste nel mondo geco. Dunque l’assemblea può prendere decisioni di qualsiasi carattere. Il terzo elemento riguarda l’assegnazione delle magistrature, cioè generali cariche pubbliche, mediante sorteggio tra tutti i cittadini, almeno in teoria, e non mediante elezione. Il sorteggio è finalizzato ad evitare manipolazioni, dunque non si utilizza lo strumento delle elezioni perché si ritiene che attraverso tale strumento elettorale vincano sempre i più ricchi, che grazie alle maggiori risorse possedute, possono manipolare le elezioni stesse. Tramite il sorteggio invece si elimina l’effetto di censo affidando le nomine alla sorte e alla benevolenza divina. Le cariche pubbliche sono tutte retribuite, compresa la partecipazione all’assemblea, ma sono estremamente corte e devono ruotare, la loro durante è infatti di circa un mese. Non esiste inoltre una burocrazia professionale, anche perché spesso si è di fronte a proto-stati molto ridotti dal punto di vista territoriale, che non richiedono burocrazie professionali consistenti. La democrazia diretta dell’antichità lascia nei posteri un pessimo ricordo, cioè nella storia del pensiero politico, per circa duemilatrecento anni essa viene considerata come una delle peggiori forme di governo, come l’anticamera della tirannide. Questo giudizio si ha innanzitutto perché i primi filosofi politici del mondo occidentale, ovvero greco, sono in gran parte esponenti del fronte aristocratico, quindi avversari della parte democratica. Il primo tra questi è sicuramente Platone, personaggio che impone un’impronta destinata a rimanere nei secoli. Egli è il più feroce critico della democrazia e la sua intera opera può essere considerata come un tentativo di dimostrare che essa sia una pessima forma di governo. Platone infatti afferma che un governo democratico prende pessime decisioni in quanto nella piazza della discussione è impossibile arrivare alla conoscenza della verità, che è riservata a filosofi e sapienti. Aristotele è meno severo nella sua critica alla democrazia, ma sicuramente non ne è un sostenitore. Peraltro egli non era un ateniese, ma un macedone e perciò visto con scopettò ad Atene. Egli mette in luce alcuni rischi delle forme di governo democratiche e, in seguito, quasi tutti pensatori politici inizia a modificare il suo significato, che diventa più positivo, inoltre esso viene ad inglobare le istituzioni e i principi che fino a quel momento si erano sviluppati parallelamente. Nell’arco di circa 70 anni il concetto di democrazia viene infatti attraversato da tre trasformazioni: • La prima è che il concetto perde la connotazione negativa in coincidenza con la rivoluzione francese e soprattutto americana, anche se in Francia i rivoluzionari non usano particolarmente tale parola, ma preferiscono le nozioni di repubblica e rivoluzione. Ad usare il termine democrazia sono soprattutto i giacobini per riferirsi al potere del popolo, ma questo non porta particolare fortuna in Europa, in quanto essi non lasciano un ottimo ricordo della loro esperienza di governo. Anche per questo fino al 1830 dire democratico equivale a dire rivoluzionario, socialista, estremista. Negli Stati Uniti invece la sua fortuna inizia più presto, quando nella stagione della rivoluzione il termine viene utilizzato per indicare una forma di governo in cui il popolo abbia un ruolo ed eserciti effettivamente un potere. Tale mutamento, iniziato alla fine del Settecento, si conclude solo dopo il 1848, quando non tutti sono democratici, ma chi sostiene la necessità di introdurre riforme e allargare la partecipazione, inizia ad usare in modo positivo la parola democrazia. • La seconda trasformazione riguarda il significato del termine, infatti, mentre fino alla fine del Settecento la democrazia era solo quella diretta, a partire da questo momento essa inizia a diventare anche rappresentativa. Il termine comincia dunque ad indicare anche i sistemi rappresentativi, che non prevedono più la partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni pubbliche, ma la loro rappresentanza in parlamento. Nel documento dei federalisti americani che discutono su quale debba essere la nuova forma di governo in realtà c’è ancora una distinzione netta tra repubblica e democrazia, infatti si afferma che la democrazia è una democrazia diretta e non può essere introdotta negli Stati Uniti, perché il territorio è troppo vasto, deve invece esserci una repubblica in cui il potere del popolo si esercita indirettamente, attraverso la rappresentanza politica. Però già in questo periodo ci si inizia a riferire con il termine democrazia anche ai sistemi basati sulla rappresentanza, pertanto anche la stessa costituzione viene indicata come costituzione democratica. Questa estensione del significato continua per tutto l’Ottocento fino al Novecento, quando possiamo dire che la democrazia inizia a comprendere anche i sistemi basati sulla rappresentanza politica e dunque sulle elezioni. Nonostante questo però il termine continua a non riferirsi a una particolare forma di governo o ad uno specifico strumento istituzionale, ma indica i contesti in cui c’è un’uguaglianza politica e in cui il popolo è tendenzialmente il detentore del potere politico. Un esempio di questo utilizzo vago e generico lo possiamo trovare in una delle opere politiche più importanti del XIX secolo, La democrazia in America, di Alexis de Tocqueville, pensatore liberale francese. Egli si reca negli Stati aUniti per conto del governo francese per condurre un indagine sul sistema penitenziario americano, ma essendo interessato ai fenomeni politici illustra nella sua opera le caratteristiche della forma di governo sperimentale che ha preso vita oltreoceano. Per egli la democrazia non è uno specifico assetto istituzionale, ma è la generale tendenza all’uguaglianza delle condizioni economiche, sociali e politiche. Questa indica quindi la tendenza del ‘nostro tempo’ alla dissoluzione delle vecchie gerarchie. • La terza tappa del processo che va ad investire la democrazia è il concetto di libertà. Infatti, nel corso dell’Ottocento una serie di pensatori e di movimenti politici estende il concetto di libertà e lo modifica rispetto alla classica libertà di tipo liberale, identificata dalla libertà negativa, che consiste nell’assenza di limitazioni da parte di poteri esterni. Questa concezione ovviamente non viene meno, ma inizia ad emergere un concetto di libertà, definita come libertà positiva, che va a saldarsi pienamente con l’idea di democrazia. In questo caso si ritiene che l’autorità politica debba rimuovere quegli ostacoli che esistono nella società e impediscono che gli individui possano sviluppare pienamente le loro capacità. Non si tratta semplicemente di impedire le limitazioni, ma di agire nella società per rimuovere gli ostacoli e fornire gli strumenti necessari a sviluppare le proprie capacità. Questo tipo di libertà si sostanzia ad esempio nell’idea che tutti i cittadini non debbano avere semplicemente un’uguaglianza formale davanti alla legge, ma anche un’uguaglianza sostanziale, il diritto all’istruzione, il diritto alla sicurezza economico-sociale. Si dice quindi che le istituzioni devono agire per garantire una piena eguaglianza, che non è solo giuridica e formale, ma reale. Questa idea di libertà positiva in realtà può andare anche in contrasto con la libertà negativa, in quanto se si ritiene che uno stato debba fare qualcosa per garantire l’uguaglianza, implicitamente si ammette che possa andare a limitare le libertà negative degli individui. I pensatori che portano avanti questa idea sono innanzitutto Jean Jacques Rousseau, che è anche uno degli ispiratori dei rivoluzionari francesi e John Stuart Mill, per quanto riguarda invece il contesto inglese. In gran parte contribuiscono a tale idea anche il movimento socialista e il nascente movimento femminista in Gran Bretagna. In generale quella modificata da questi pensatori può essere definito come una democrazia di sviluppo, tenendo conto che non si tratta di una descrizione di un assetto istituzionale, ma di una concezione prescrittiva. Anche in questo caso però siamo di fronte ad una dilatazione del concetto che non chiarisce quale sia l’assetto istituzionale specificamente democratico e quindi da preferire. La reinvenzione del concetto di democrazia giunge a compimento solo durante il Novecento, quando agli occhi dei politologi esso viene a identificarsi con uno specifico assetto istituzionale. Una prima tappa rilevante da questo punto di vista è la fine della Prima Guerra mondiale, in quanto comporta il venir meno di tutti gli imperi che conservavano maggiore resistenza a riconoscere il principio della sovranità del popolo, come l’impero tedesco, l’impero auto-ungarico, l’impero ottomano e l’impero zarista. Le grandi autocrazie dunque crollano e tutti i nuovi regimi che nascono si presentano come emanazione della volontà popolare, cioè come democratici. I detentori del potere non sono più rappresentanti di dinastie tradizionali che si tramandano il potere, ma sono governanti che si presentano come legittimi detentori del potere, espressione del potere popolare. I due decenni che separano le due guerre mondiali poi sono anni in cui si contrappongono concezioni differenti rispetto a quale sia il reale significato della democrazia. Ad esempio l’Unione Sovietica, che rappresenta se stessa come democrazia popolare che assegna effettivamente il potere al popolo, e viceversa gli stati occidentali, i quali si presentano come i reali depositari del potere popolare. Anche i regimi autoritari che sorgono negli anni ’20 e ’30, in realtà non si presentano come regimi autocratici, ma come reale espressione della volontà popolare. Questo dimostra quindi che tutti cercano di appropriarsi del concetto e di presentarsi come democrazie più autentiche. Proprio in tale contesto il dibattito politologico inizia ad interrogarsi sulle reali caratteristiche distintive del regime democratico. Nel corso di questa discussione che inizia tra le due guerre mondiali emerge il criterio di fondo utilizzato più o meno da tutti i politologi, anche contemporanei. Questo viene proposto e individuato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter, che si trasferisce negli Stati Uniti e quando questi sono già entrati in guerra, cioè nel 1942 pubblica un’opera intitolata Capitalismo, socialismo e democrazia. Proprio in quest’opera egli fornisce una definizione scheletrica del regime democratico, che in seguito, più o meno esplicitamente, tutti i politologi riprendono. Egli cerca di decifrare le trasformazioni del mondo contemporaneo ed è convinto che il capitalismo stia attraversando una trasformazione radicale, cioè che si stia per dissolvere in quanto basato sul mercato e sulla concorrenza. In sostanza, secondo egli, la grande crisi del ’29 ha fatto entrare in scena gli stati come attori e pianificatori dell’economia, per cui nei paesi industrializzati ormai le economie sono tutte pianificate e hanno sostituito i mercati in cui gli imprenditori sono i veri attori autonomi. Schumpeter distingue tra una concezione classica della democrazia e una concezione realistica della stessa, che è quella che egli propone. La prima fa riferimento ad una situazione in cui il popolo si autogoverna e decide collettivamente sulle decisioni da prendere in vista del bene comune e dell’interesse generale. L’idea che si avvicina di più a questa concezione è quella di Rousseau nella descrizione dell’Assemblea generale come espressione delle volontà generale, che è quella del popolo. Secondo egli però questa è una concezione irrealistica perché non è realizzabile nel mondo contemporaneo e non ha nulla a che vedere con ciò che accade nei regimi denominati democratici. Infatti anche in questi esistono minoranze ed élite che concretamente decidono in nome del popolo ma senza di fatto consultarlo e inoltre riescono a manipolare il consenso dei cittadini. In più i cittadini non decidono razionalmente perché, per quanto possano essere istruiti, in ambito politico diventano preda delle passioni per le proprie appartenenze, quindi non esprimono opinioni sulla base delle conoscenze, ma sulla base delle emozioni. Questa idea quindi non è solo irrealistica, ma anche irrealizzabile. Schumpeter allora propone una concezione alternativa che è a suo avviso realistica perché meno esigente. Questa si concentra non sugli obiettivi da raggiungere, ma sulle caratteristiche istituzionali, cioè sulle procedure che caratterizzano i regimi e possono effettivamente essere riconosciute. Egli infatti afferma che la definizione realistica si deve soffermare sull’idea per cui la democrazia non è un insieme di ideali, ma un metodo con cui vengono prese le decisioni. Innanzitutto in una democrazia intesa in senso realistico il compito del popolo non è quello di autogovernarsi, ma è quello di decidere a chi consegnare il potere di governare per un periodo di tempo limitato e predeterminato. Questo è assegnato mediante il metodo qualificativo della democrazia, cioè le elezioni competitive, con cui si sceglie tra almeno due candidati o partiti fra loro alternativi. Egli in realtà utilizza il termine governo nel senso americano, cioè non per indicare il potere esecutivo, ma in riferimento a tutte le funzioni svolte dalle istituzioni pubbliche. Questa definizione estremante semplice ci consente chiaramente di distinguere i regimi democratici da quelli autocratici e pertanto siamo in grado, di fonte ad un regime, di delinearne la natura. Tale idea è in parte analoga al funzionamento del mercato, cioè gli elettori sarebbero qualcosa di simile ai consumatori, che non possono definire i contenuti del prodotto, ma limitarsi a scegliere i prodotti già fatti. Questa visione è stata poi sviluppata ampiamente da una serie di politologi che hanno interpretato la politica con il ricorso a schemi della teoria economica, campo in cui rientra la cosiddetta teoria economica della democrazia, che afferma che ogni elettore è un elettore razionale che cerca di massimizzare i propri interessi, a sua volta, l’imprenditore politico cerca di massimizzare i suoi. Da ciò sono nati sviluppi che hanno cercato di spiegare i comportamenti politici in termini economici, ricorrendo all’idea che è la razionalità di tipo strumentale che induce il soggetto a perseguire i propri interessi economici. Nonostante Schumpeter abbia in qualche modo indotto questa concezione, secondo egli gli elettori non sono affatto razionali, infatti quando iniziano a parlare di politica il comportamento diventa guidato da una serie di passioni. La definizione di Schumpeter, ripresa dalla maggior parte dei politologi degli anni ’70 ed inglobata nelle loro definizioni, appare ai nostri occhi troppo essenziale, perché si riferisce alle elezioni competitive, senza però aggiungere dettagli circa chi possa votare o essere eletto alle cariche pubbliche o rispetto alle garanzie di libertà di espressione. Nel momento in cui egli scrive infatti i paesi che adottano elezioni competitive sono pochissimi, e fra questi il suffragio universale è utilizzato solo da una minoranza. In generale, Schumpeter afferma che l’economia pianificata è compatibile con il regime democratico, nonostante gli esempi di economia pianificata a sua disposizione caratterizzassero tutti regimi autoritari. Il suo dubbio invece riguarda soprattutto le democrazie consolidate in quel momento e con economie avanzate, cioè gli Stati Uniti, che vivono una fase crescente di pianificazione economica da parte dello Stato. La questione era particolarmente viva tra gli economisti, in quanto Friedrich von Hayek, economista liberale di origine austriaca, sosteneva invece che, quando si inizia ad introdurre un qualche elemento di pianificazione economica, ci si mette su un piano inclinato destinato a condurre alla perdita della libertà e alla dittatura. Infatti secondo egli la pianificazione introduce il principio per cui l’autorità politica può decidere quali sono gli obiettivi degli individui. Successivamente, la sensibilità dei politologi inizia a diventare molto più marcata per cui soprattutto nelle definizioni degli ultimi 40 anni all’idea delle elezioni competitive si aggiungono anche altri requisiti, per cui oggi non si può affermare, dal punto di vista politologico, che è democratico quel regime in cui esistono le elezioni competitive senza altri aspetti fondamentali. Ad esempio negli anni ’80 non si diceva che in Sudafrica ci fosse una democrazia, in quanto nonostante ci fossero elezioni competitive, da queste era escluso il 97% della popolazione nera. La discussione su quali debbano essere gli altri aspetti fondamentali è stata molto animata, ma oggi si è tendenzialmente d’accordo nel accettare otto requisiti necessari per definire come democratico un regime. Questo significa che l’assenza anche solo di uno di tali requisiti non consente di definire come democratico un regime, si tratta quindi di una soglia minima, che non esclude che possano esserci democrazie più partecipative ed inclusive, che consentano una maggiore eguaglianza sociale, ma tali otto punti rappresentano la soglia di base. Questi sono: I. Elezioni competitive, libere, ricorrenti e corrette. Questo significa che innanzitutto alle elezioni devono presentarsi almeno due contendenti. Il requisito della competitività però non è privo di problemi di interpretazione, ad esempio nel 1989 anche i regimi non pienamente democratici hanno iniziato ad utilizzare le elezioni, in cui si presentavano talvolta anche più candidati. In generale allora il criterio da adottare è quello che stabilisce che si parla di elezioni competitive quadro esistono almeno due contendenti che, alla vigilia delle elezioni, nel corso della campagna elettorale, hanno credibili probabilità di vittoria. Un indice di questo ci è fornito dai risultati nel tempo delle elezioni, per cui se sempre la stessa forza politica ottiene fortissime maggioranze mentre gli altri candidati risultano sconfitti ottenendo percentuali molto basse, allora non si è in presenza di elezioni effettivamente competitive, ma ci sono elementi distorsive. Il fatto che le elezioni siano libere significa che nell’espressione del proprio voto gli elettori devono essere privi di costrizioni, e cioè devono essere liberi da interventi di controllo esterni. Esse devono poi essere ricorrenti, ovvero nel momento in cui gli elettori sono chiamati al voto essi devono conoscere quale sia il termine massimo entro il quale torneranno ad essere chiamati alle urne. Quindi la durata della carica eletta è predeterminata e gli elettori sanno che alla scadenza del mandato ci saranno nuovi elezioni. Infine le elezioni devono essere corrette, cioè nel momento del conteggio del voto non devono esserci manipolazioni rilevanti o sistematiche. In alcuni paesi per evitare queste sono previste delle commissioni di osservatori internazionali che devono sorvegliare sulla regolarità delle operazioni di voto. II. Suffragio universale maschile e femminile. Questo requisito è una conquista relativamente recente in quanto nella storia delle democrazie si tratta di un’innovazione non remota. L’estensione del diritto del voto alle donne, avviene infatti nei primissimi paesi alla fine dell’Ottocento, ma inizia a consolidarsi solo partire dagli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Se Schumpeter non era molto esigente sotto obiettivo, senza però raggiungerlo realmente, per una serie di peculiarità della società italiana e di ostacoli incontrati dal regime nelle proprie aspirazioni. La discussione sulle caratteristiche dei regimi totalitari inizia soprattutto a partire dagli anni ’40, cioè negli anni della Seconda guerra mondiale, concludendosi di fatto agli inizi degli anni ’60. Le principali riflessioni si svolgono in questo arco temporale in quanto poi i veri e propri regimi totalitari iniziano ad attenuarsi o a scomparire del tutto. In generale, le caratteristiche attribuite dai politologi ai regimi totalitari possono essere intese come una sintesi idealtipica rispetto ad una discussione molto articolata e sono: I. Il primo elemento è l’assenza di pluralismo politico, sociale e culturale. Pluralismo politico significa pluralità di partiti, per cui in sua assenza non ci sono partiti al di fuori di quello totalitario, che è unico e controlla e mette fuori legge tutti gli altri. La peculiarità è invece l’assenza ad pluralismo sociale e culturale, il che significa che tutte le realtà associative presenti nella società che non si occupano di politica ma di attività ad esempio ricreative o connesse alla sfera religiosa o attività culturali sono non eliminate, ma poste sotto il controllo del regime e volte alla trasmissione dell’ideologia del regime totalitario. Tutte le altre attività associative che invece non possono essere messe sotto il controllo del regime vengono messe fuori legge. In questo senso l’idea di totalitarismo si riferisce alla totalità sociale. Ciò significa che tutti gli attori presenti all’interno dello stato, quindi anche burocrazia statale e civile, vengono subordinate al partito e sottomesse al suo controllo, che riguarda tutte le articolazioni dello Stato. Sia l’Unione Sovietica che la Germania hitleriana presentano queste caratteristiche, in particolare nel secondo caso, la figura del Fuhrer è preponderante. Tale elemento è trovato solo in parte invece nel fascismo, e proprio per questo esso non può essere considerato propriamente un totalitarismo. Infatti, nonostante l’ambizione di controllare l’intera società italiana, il regime si scontra contro due ostacoli che non riesce mai a superare. Il primo ostacolo è interno alla burocrazia civile e militare dello stato italiano, infatti la burocrazia civile continua a rimanere fedele alla corona sabauda e al re d’Italia, e solo subordinatamente al capo del fascismo. Il secondo ostacolo è invece rappresentato dalla Chiesa Cattolica, che nel corso dell’esperienza fascista viene a patti con il regime attraverso i Patti Lateranensi, ma ottiene in cambio il rispetto di alcune sfere di autonomia che consentono alle gerarchie ecclesiastiche, al vaticano e alle organizzazioni cattoliche di conservare un’automa rispetto al Partito nazionale fascista. Ad esempio l’unico giornale non controllato nel corso del ventennio l’unico giornale non sottoposto a censura era l’Osservatore romano, ma al di là di ciò, le organizzazioni cattoliche avevano un grande presa sulla società per cui il fascismo non riesce ad inglobare tutta questa rete associativa sotto il proprio controllo. II. Il secondo elemento concerne l’esistenza di un partito unico, sicuramente l’elemento più eclatante e visibile. Il partito unico non solo è l’unico legale, ma è anche un partito con le caratteristiche di un partito di massa, cioè è presente capillarmente su tutto il territorio nelle varie istituzioni e inquadra la popolazione in una serie di organizzazioni collaterali. Questo tipo di partito è di fatto un’invenzione del fascismo italiano ed in particolare di Mussolini, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di divise paramilitari. Infatti gran parte della popolazione era reduce dalla prima guerra mondiale e i soldati avevano ormai dopo quattro anni di vita in tria cena interiorizzato certi modi di agire. Prima ancora di lui in realtà Gabriele d’Annunzio con la spedizione fiumana e i suoi legionari aveva avviato il fenomeno, andando a costituire un esempio anche per quanto riguarda gli slogan politici. Quando il fascismo prende il potere cerca di radicare sul territorio le proprie organizzazioni partitiche con l’obiettivo di incapsulare e organizzare capillarmente tutti gli ambiti della società italiana e i regimi successivi in gran parte riprendono questo modello. C’è poi un altro obiettivo che è quello della rivoluzione dall’alto, cioè rivoluzionare la società non partendo dal basso, ma utilizzando le istituzioni per cercare un clima rivoluzionario e produrre una trasformazione. Anche per questo tutti i totalitarismi non sono sicuramente conservatori, perché anche quando puntano a conservare qualcosa del passato, tale elemento si combina sempre con un’istanza rivoluzionaria. III. Il terzo elemento è la peculiarità dell’ideologia totalitaria. Un’ideologia innanzitutto è in senso neutro una rappresentazione del mondo che dà una spiegazione della situazione del mondo e definisce come dovrebbe essere il mondo da raggiungere e come costruirlo, c’è quindi una finalità di mobilitazione politica. Le caratteristiche dell’ideologia totalitaria sono il fatto che essa sia abbastanza articolata e precisa, cioè non si tratta di una rappresentazione generica, ma con testi di riferimento, interpretazione canonizzata da autori e pensatori chiave e si pone l’obiettivo della trasformazione radicale totale non solo della società ma anche dell’essere umano, cambiando il suo modo di vivere e di vedere le cose. Esempi di questa ambizione possono essere trovati nell’ideologia nazionalsocialista, per cui il corpo del popolo tedesco deve essere purificato da tutti gli elementi che tendono ad inquinare la sua purezza, cioè ebrei, zingari, omosessuali ecc. L’obiettivo è di costruire individui che pongano il regime al di sopra di tutto e siano disposti a porre la sua causa al di sopra di qualsiasi atro legame. Qualcosa di analogo poi essere trovato anche nell’Unione Sovietica staliniana, anche se in modo apparentemente meno brutale, dove l’uomo nuovo socialista pone al di sopra di tutto la realizzazione del regime socialista ed è disposto a tutto per raggiungerlo. Anche in questo caso, tale costruzione comporta costi umani notevoli causati principalmente delle purghe finalizzate all’eliminazione degli oppositori o di portatori di stili di vita antitetici rispetto alla realizzazione del socialismo. L’ideologia totalitaria richiede poi il riferimento e la contrapposizione al nemico oggettivo che non è semplicemente il nemico politico, ma è qualcosa di più. La differenza tra le due categorie sta nel fatto che il nemico tradizionale è quello contro cui si combatte in guerra, che è anche interno nel caso del regime totalitario, il nemico oggettivo è invece un individuo che non mette in atto una condotta contraria al regime e non svolge nemmeno una critica implicita, quindi soggettivamente non fa nulla contro di esso, ma tale soggetto può avere delle caratteristiche oggettive che lo rendono ostile, e dunque un pericolo, agli occhi del regime stesso. L’esempio più semplice ci conduce in Germania e riguarda ovviamente gli ebrei, ma anche gli omosessuali. I nemici oggettivi fanno parte dell’ideologia totalitaria perché essa non può fare a meno di ricreare costantemente un clima non solo rivoluzionario, ma anche di mobilitazione militare, cioè di un conflitto bellico, e pertanto ha la necessita di identificare sempre un nemico, anche quando questo è invisibile o non esiste. Il caso emblematico è quello dell’Unione Sovietica in quanto benché negli anni ’30 non ci siano visibili tracce di opposizione il regime ha costantemente bisogno di dipingere come oppositori coloro che fanno capo a Trotsky. IV. I regimi totalitari sono regimi di mobilitazione dall’alto. La mobilitazione rappresenta quel processo in cui gli individui si organizzano allo scopo di raggiungere collettivamente determinati obiettivi, questa è però di solito dal basso, cioè proveniente dalle organizzazioni presenti nella società. Nei regimi totalitari invece la mobilitazione avviene dell’alto, cioè la popolazione si mobilita non spontaneamente, ma incoraggiata o diretta dall’alto. Anche in questo caso il grande inventore del meccanismo è il regime fascista, che inventa le grandi adunate oceaniche alla presenza del duce, mobilitazioni non propriamente spontanee. Questo comporta anche che il partito unico sia una struttura di mobilitazione o comunque che abbia al suo interno delle strutture di mobilitazione, con cui la popolazione è chiamata a manifestare visibilmente il proprio supporto al regime. Le mobilitazioni servono dunque sicuramente alla propaganda ma anche, e soprattutto, per mantenere vivo il clima di disordine rivoluzionario senza cui il regime non può sopravvivere, in quanto queste sono quasi sempre dirette a nemici sia esterni che interni alla società. Se la tensione rivoluzionaria venisse meno il regime non sopravviverebbe, in quanto esso vive e si nutre di essa, anche per nascondere l’impossibilita di raggiungere altri obiettivi e inoltre perché se il regime nasce in un contesto rivoluzionario, il raggiungimento di uno scopo provocherebbe naturalmente il venir meno dell’intensità. V. Il quinto elemento riguarda la presenza al vertice del regime di un leader o di un gruppo di leadership ristretto fortemente visibile e riconoscibile. Ovviamente c’è una forte personalizzazione del potere. VI. L’ultimo elemento sta nel fatto che nei regimi totalitari c’è assenza di limiti prevedibili all’esercizio del potere da parte del leader del partito unico. I limiti in questione sono innanzitutto quelli legali, per cui si può sicuramente dire che non c’è il rispetto dei principi dello stato di diritto. Inoltre, riuscendo il regime a eliminare qualsiasi tipi di pluralismo sociale e culturale, nel suo esercizio del potere non si scontra con alcun altro gruppo sociale che possa contrapporsi alle sue ambizioni e mire. Ciò significa ad esempio che il regime totalitario non ha alcun limite prevedibile nella repressione di coloro che vede come oppositori politici o nemici oggettivi, questo porta alla creazione di un vero e proprio universo concentrazionario, cioè un sistema consolidato di campi di concentramento in cui tutti i nemici possono essere collocati dopo essere stati sradicati dalla società. Il campo di concentramento però non va confuso con il campo di sterminio, infatti il primo è un luogo in cui vengono concentrati gli individui considerati pericolosi per la società. I campi di stermino invece sono campi di concentramento trasformati in luoghi in cui vengono eliminate fisicamente le persone. Il campo di concentramento in realtà non è un'invenzione del regime totalitario, ma un’invenzione legata alle esigenze della guerra di massa moderna, che coinvolge le popolazioni civili. In questi casi, infatti, i governi coinvolti hanno la necessità di isolare dal resto della popolazione gli individui ritenuti pericolosi e concentrarli appunto in dei campi in modo da poterli tenere sotto stretto controllo e impedire loro di svolgere azioni di spionaggio o sabotaggio. Questa è un’invenzione inglese che risale alla guerra contro i Boeri alla fine dell’Ottocento e una soluzione che è stata poi adottata da più o meno tutti i paesi durante la prima e la seconda guerra mondiale, ad esempio gli Stati Uniti dopo il 1941 isolano tutta la popolazione di origine giapponese all’interno di campi di concentramento, per poi liberarla solo a guerra finita. Nei regimi totalitari il campo di concentramento diventa qualcosa di più di un mero strumento legato a momenti di guerra, diventa invece uno strumento ordinario in cui vengono deportati tutti gli individui considerati soggettivamente o oggettivamente minacciosi per il regime, talvolta con l’obiettivo di farli lavorare gratuitamente o di rieducarli. A parte i due casi più noti ci sono sicuramente altri casi citati all’interno dei dibattiti politologici attorno al tema dei totalitarismi su cui però non tutti concordano, il primo sicuramente è quello del fascismo italiano. In generale, possiamo dire che il fascismo italiano ha sicuramente delle caratteristiche dei regimi totalitari, come l’ideologia strutturata, anche se non del tutto coerente, il partito unico, la mobilitazione dall’alto, ma non la totale assenza di pluralismo sociale e politico, che rappresenta l’ostacolo alla piena realizzazione delle ambizioni totalitarie. Un altro caso suscettibile di essere considerato un regime totalitario è la Repubblica Popolare Cinese nella fase della grande rivoluzione culturale, collocabile tra il 1966 e il 1974. Tale rivoluzione è considerata come riferimento da tutti quegli studenti occidentali che nel 1968 si mobilitano, in quanto la considerano un tentativo di sburocratizzare il socialismo reale. Gli storici di fatto, invece, affermano che questa si è tradotta in una serie di deportazioni di massa di burocrati del regime, obbligati a trascorrere per circa un decennio le loro vite in campi di rieducazione. La Repubblica Popolare Cinese odierna invece sicuramente non può essere considerata un totalitarismo in senso classico. Altri casi sono poi quello del regime cubano negli anni ’70 e ’80, il Vietnam del Nord negli anni ’70, la Romania di Ceausescu fino all’inizio degli anni ’80 e la Corea del Nord, forse l’unico regime propriamente totalitario oggi esistente, anche se alcuni elementi lo avvicinano ad un regime tradizionale. Complessivamente quindi il numero di regimi totalitari rimane abbastanza basso, intorno a 10, che scende a 2/3 volendo essere più rigorosi. I REGIMI AUTORITARI ci mettono di fronte ad un numero di casi empirici molto più elevato rispetto a quelli riscontrati per quanto riguarda i totalitarismi, perché la gran parte dei regimi non democratici che non sono totalitari finisce in questa casella. Per questo motivo si sono poi suddivise diverse categorie all’interno di tale definizione. La definizione classica e di carattere generale prende in considerazione più o meno gli stessi elementi presi in considerazione per il regime precedente e il suo autore è Juan Linz, uno studioso spagnolo di origine tedesca che negli anni ’60 si trasferisce negli Stati Uniti, dove conduce le proprie ricerche soprattutto in questo campo, ma con alle spalle la conoscenza diretta di un regime non democratico, che è quello franchista spagnolo. Egli costruisce una definizione che in gran parte ricalca proprio tale regime, che si instaura dopo la guerra civile, nel 1949, in Spagna e si conclude solo nel 1975, con la morte di Franco. Tale regime ha degli elementi in comune con il fascismo, ma, a differenza di questo, non ha un’ambizione di mobilitazione delle masse, tuttavia, sicuramente la Spagna non partecipa alla Seconda guerra mondiale ma sostiene le potenze dell’asse, vicine ideologicamente. Non partecipando al conflitto, essa sopravvive alla sconfitta dei regimi autoritari europei almeno fino al 1975, quando si attenuano gli elementi fondanti fino a scomparire del tutto con la morte del leader. Linz costruisce la propria definizione proprio sul modello di tale regime, ritenuto più significativo del fascismo, che ha troppi elementi totalitari, da questo emergono degli elementi di debolezza. Le caratteristiche dei regimi autoritari sono: I. Pluralismo limitato, sia politico che sociale e culturale. Esiste cioè nella società una pluralità di organizzazioni libere di esercitare il proprio ruolo. In senso specificamente politico si intende l’esistenza di una pluralità di partiti, mentre il pluralismo sociale ed economico indica l’esistenza di organizzazioni sociali ed economiche non direttamente controllate dal regime. Il pluralismo limitato indica invece l’esistenza di un pluralismo che non è totale, come nei regimi democratici, ma presenta dei confini che escludono determinate organizzazioni dalla possibilità di svolgere la propria attività. Quello che interessa Linz non è tanto il pluralismo politico, quanto quello sociale, che rappresenta una certa libertà di azione e un’autonomia da parte di alcune organizzazioni, come quelle cattoliche, che erano parte della coalizione che aveva fondato il regime e sostenuto la sua nascita, nel caso spagnolo. Ricadono in tale categoria anche le organizzazioni che tutelano l’ambito dell’imprenditoria e, in particolare, gli interessi imprenditoriali di tale settore. II. Esistenza di una mentalità caratteristica e non di un’ideologia strutturata. Questo è un elemento distintivo forte rispetto al totalitarismo, in cui si possono individuare ideologie autoritarie, cioè dottrine elaborate e canonizzate in una serie di testi, non presenti nel caso dei regimi autoritari, dove invece possono essere trovate delle mentalità caratteristiche, termine ripreso da alcuni sociologi dei decenni precedenti. Le mentalità sono delle visioni del mondo che si appoggiano a parole d’ordine particolarmente evocative, come ordine, gerarchia, tradizione e nazione, ma che non rappresentano una visione strutturata, coerente e organizzata della società. Nel caso del regime di Franco si trova in effetti un’esemplificazione di questo e il motivo è che, nel momento in cui questo prende forma, gli altri regimi autoritari stanno tramontando e dunque la Spagna da sola non può avviare un nuovo ordine corporativo. Tale elemento può essere ritrovato anche nella maggior parte dei regimi militari di
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