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Appunti completi di estetica, Dispense di Estetica

Appunti completi e discorsivi integrati con il libro

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 24/10/2023

maticolucci
maticolucci 🇮🇹

5

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28 documenti

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Scarica Appunti completi di estetica e più Dispense in PDF di Estetica solo su Docsity! ESTETICA 2020/21 LEZ: 1 LEZIONE INTRODUTTIVA DUE TEST SCRITTI: 21 MAGGIO E 26 MAGGIO ALLE 14:30 ESTETICA: termine complesso, ma che ha un suo inizio, una sua storia. L’Estetica è la filosofia dell’arte. Ha le sue origini nella prima metà del 700, ha avuto successo perché si utilizza il termine “estetica” per indicare questa disciplina che si rivolge al gusto (fruizione), il genio (creatività), all’arte (oggettività dell’opera), sono tre ambiti molto differenti tra loro. Il gusto attiva i nostri sensi, ma non può prescindere da un’attività celebrale; la creatività, ci chiediamo se abbia regole o se sia completamente libera; l’oggetto d’arte è qualcosa di fugace, estraneo, di indefinibile. Non esiste una SOLA definizione di estetica, ma ne esistono diverse. Si analizzerà per prima la fruizione, attraverso i due volumi in programma “il senso del limite” e “guardare chi guarda” che comunicano tra di loro, si approfondiscono a vicenda. Che cos’è l’estetica? Di che cosa si occupa? L’estetica si occupa dell’arte, della bellezza, del brutto, disgustoso, sublime, dell’orrido. In che termini, però? è una disciplina speciale volta all’esame di certi oggetti, ad esempio la scienza dell’arte o del bello. Ed è l’uso critico del pensiero = capacità di approfondire, problematizzare un oggetto in particolare. La filosofia in genere è riflessione, problematizzazione, uso critico del pensiero. Per questo l’estetica è una disciplina filosofica. E si rivolge ad oggetti differenti (una corrente, uno sviluppo storico, ecc.), in particolare l’oggetto per l’estetica è l’arte, la fruizione e la creazione. Quindi Arte e Bello sono per l’estetica occasione di riflessione ed attraverso la riflessione estetica si dovrebbero comprendere meglio alcuni problemi connessi alle arti (fruizione, creazione, categorie estetiche), ma anche l’esperienza in genere. Approfondiremo nel corso la Fruizione: inevitabilmente, qualunque cosa stiamo facendo, giudichiamo al fine di incasellare la nostra esperienza in qualcosa che potremo definire brutto, bello, spiacevole, interessante, ecc. giudichiamo continuamente, noi stessi, gli altri e ciò che fruiamo. Questo esercizio è la fruizione, un esercizio legato al giudizio, la capacità di fruire. Estetica è uso critico del pensiero che può dirci qualcosa sull’esperienza, è il godimento estetico, la capacità di fruire, possibilità di essere felici, gioire o rattristarci, perché noi viviamo nel paradosso e il più grande paradosso è ciò che fuggiamo dalla realtà, cioè elementi negativi come la tristezza e il dolore, invece lo vogliamo, lo godiamo nella rappresentazione, finzione. Qual è il valore dell’arte? La storia dell’estetica è attraversata dal problema della valutazione. Ma non si hanno dei parametri a priori attraverso i quali valutare un’opera d’arte, perché nella nostra fruizione non abbiamo la possibilità di mostra quel “mi piace” o “non mi piace” perché sconfina in una modalità soggettiva in cui i termini sono molto labili. Per cui non si hanno parametri a priori, ci scontriamo con un oggetto vanescente, soprattutto nelle volte è difficile inquadrare, da definire, da scorgere, un esempio: mostre d’arte contemporanea  ci troviamo davanti ad oggetti che non avremmo mai potuto concepire come oggetto artistico, soprattutto le istallazioni anni ’90 nelle biennali di Venezia, dove si entrava e ci si chiedeva se un casuale pezzo di vetro fosse una bottiglia rotta o un’istallazione. La pandemia ha messo in crisi anche il mondo dell’arte e i suoi valori, non solo di opere ed artisti, ma di relazioni sociali, finanziarie, commerciali, di viaggi, scambi globali, turismo, speculazioni, mostre, ecc. In crisi 1 non solo sui termini economici, ma ci si interroga sul valore che è proprio dell’arte, un valore che se non giustifica tutto il sistema, almeno può portare alla mente la sua ragione di essere. Ma non lo sappiamo cos’è l’arte dopo la pandemia. E se abbiamo difficoltà a spiegare l’oggetto artistico, prima, figurati dopo. Estetica: è un tipo tipo e modalità di conoscenza, è un modo per conoscere, per guardare quell’oggetto artistico che normalmente noi consideriamo un oggetto di studio in relazione ad ambito storico. Qui l’ambito storico sarà soltanto un contorno, sarà un ritorno alle origini, alle modalità originarie, un incontro tra noi e l’altro, dove l’altro è un oggetto particolarissimo che si chiama arte. LEZ: 2 CHE COS’È L’ESTETICA? André Lalande nel Vocabulaire technique et critique de philosophie diede una definizione: Estetica è la scienza che ha per oggetto il giudizio di gusto che si applica alla distinzione tra bello e brutto. Sicuramente un riferimento è il giudizio di gusto, valutazione di ciò che è bello e ciò che è brutto. Elemento molto comune quello di giudicare qualcosa, qualcuno. Giudichiamo in continuazione. L’estetica come orizzonte ha sicuramente il giudizio, un giudizio particolare che si rivolge a particolari oggetti della natura o manufatti dell’uomo (le opere d’arte, ad esempio) e per le quali ha un’attenzione così particolare, quell’attenzione che si rivolge agli oggetti dal momento in cui noi ci aspettiamo qualcosa. In fondo, quando guardiamo un bel panorama ci aspettiamo qualcosa, un ritorno emotivo da quella vista, altrimenti siamo distratti, ma se abbiamo un ritorno emotivo vuol dire che ci concentriamo su quel panorama, è la stessa cosa con l’opera d’arte. L’opera genera aspettative e la nostra attenzione è rivolta a soddisfare tali aspettative. Tutto questo ambito è il giudizio di gusto che porta alla distinzione tra bello e brutto. Ma qual è l’oggetto dell’estetica? - Il giudizio di gusto, cioè il valore di un’opera, il valore che noi attribuiamo all’opera. Il fatto che noi attribuiamo all’opera un valore positivo o lo giudichiamo negativamente, che sia per noi piacevole o spiacevole; - L’arte stessa, le sue forme, la sua storia, la sua definizione. Ma non con un approccio di tipo critico, legato a quella branca della filosofia, che appunto l’estetica è. Uno sguardo, quello dell’estetologo, che non è quello del critico d’arte, va alla ricerca dei fondamenti, del perché, dei momenti essenziali di cui si compone non solo l’opera d’arte, ma la fruizione dell’opera e la creazione dell’opera d’arte stessa. Il termine estetica è senz’altro moderno e suggerisce come la disciplina stessa abbia, apparentemente, una nascita proprio nella modernità, pur derivando da una parola greca. Ma, se vogliamo vedere la riflessione sull’arte, cioè l’estetica, c’è da sempre. C’è da quando un primo uomo ha espresso un giudizio. Ma ancora di più, c’è una storia legata allo sviluppo di questa disciplina, per cui già nell’Antica Grecia la riflessione sull’arte era importante e preponderante: in Platone, in Aristotele, ecc. Una disciplina tutt’altro che moderna, ma il suo nome nasce ad opera di Baumgarten, nel 1735, in un volume intitolato “Le Meditazioni filosofiche su alcune cose che riguardano i poemi”. Perché proprio “estetica”? cioè Aisthesis: sensazione. Perché il primo punto, momento, contatto con l’opera d’arte giace proprio nella sensazione . È lì che si innesta il primo legame, passaggio, tra l’opera d’arte e il soggetto, nelle sensazioni. Quindi, se vogliamo ricostruire i punti di riferimento di questa disciplina, abbiamo sicuramente: 1. il giudizio di gusto; 2. il rapporto categoriale (bello, brutto); 3. l’oggetto dell’estetica (manufatto, natura); 4. e la sensazione. 2 Per uno scultore non è strano creare gioielli, in passato scultura e l’oreficeria spesso erano pratiche della stessa persona. Molti musei di arte antica hanno anche sezioni che ospitano monili, quelli archeologici espongono spesso monete con incisioni e rilievi. A Londra c’è un museo che è interamente dedicato a quello che un tempo si chiamavano “arti applicate” o “arti minori” in cui le sezioni di argenteria e oreficeria sono veramente sterminate. E se il nostro store avesse anche una libreria? Che cosa farà il malcapitato? Prenderà puramente e semplicemente tutti i libri, in fondo sono letteratura, oppure andrà a saccheggiare solo le sezioni di poesia e di fiction. Gli stessi problemi si ripropongono nel reparto CD. Nel reparto libri esistono anche libri che non hanno a che fare con l’arte, come per esempio manuali di informatica, ricettari, divulgazione scientifica, attività politica. Nel reparto CD è tutta musica per diletto. Prendiamo in considerazione la musica pop e i video-clip, di solito chi li ascolta non si pone affatto la domanda se sia arte o meno, anche se vengono utilizzati per compiere un’esperienza estetica. Non si considerano arte ad oggi, ma vedremo invece come l’elemento del kitsch (la categoria di cui fanno parte questi elementi) sarà centrale nello sviluppo delle prossime lezioni. Gli oggetti etnici (artigianato africano, stoffe dell’indigeni, maschere orientali, ecc.) reparto estremamente simile nei musei etnologici e antropologici, come la collezione del British Museum a Londra. Ma si è sempre in imbarazzo nei musei etnologici, perché quegli oggetti non sono opere d’arte, ma manufatti, oggetti d’uso, oggetti magici, rituali, amuleti, ecc. Se li guardiamo da occhi non esperti ci piaceranno perché sono belli, perché suscitano un determinato interesse di tipo estetico, cioè li guarderete per quello che NON sono, ma considerandoli come opere d’arte. La domanda a base dell’esperimento e che tutti noi ci poniamo sempre e di continuo “ma è arte questa?”. Tanti spettatori confusi dinnanzi ai tagli di Lucio Fontana, le opere di Cattelan che si fanno questa domanda. L’esperimento mentale di Kennick presenta anche un vantaggio, cioè il fatto di familiarizzare con un modo di intendere l’estetica assai diffuso ed egemonico per lungo tempo. Quella veduta che considera l’estetica: - Filosofia dell’arte. Hegel afferma sulle sue lezioni dell’estetica: “queste lezioni sono dedicate all’estetica; il loro oggetto è il vasto regno del bello e, più precisamente, il loro campo è l’arte o meglio la bella arte.” Hegel non ha dubbi che l’estetica si rivolga ad un unico grande oggetto, cioè l’arte. Questo modo di intendere l’estetica non è solo il più consueto, ma è anche il più facilmente intellegibile. L’estetica è quella parte della filosofia che riflette sulle funzioni, sulla natura e i destini dell’arte. Estetica disciplina filosofica specialistica che si occupa dell’arte. Ma si occupa SOLO dell’arte? Esiste anche la bellezza naturale. Kant, è stato l’ultimo filosofo (prima del 800) per il quale si poteva discutere di bellezza davanti ad un fiore, un animale, oltre che un’opera d’arte, cosa che era apparsa del tutto ovvia per millenni, finchè si è pensato che l’arte fosse bella perché rappresentava la natura, la interpretava, la imitava, ecc. Ma dopo Kant, i grandi filosofi del romanticismo e idealismo, infatti abbiamo fatto riferimento a Hegel, hanno ristretto il bello artistico l’oggetto specifico dell’estetica. Ad esempio, Schelling fu probabilmente il primo ad intitolare una delle sue lezioni “filosofia dell’arte”. - Scienza del sensibile. Ci rivolgiamo a chi dà il nome alla nostra disciplina, ovvero Baumgarten, nelle “Meditazioni” del 1735. Afferma: “l’estetica è scienza della conoscenza sensibile, è scienza di ciò che a partire dalla sollecitazione sensoriale, stimola un giudizio.” Dietro a queste due definizioni, si nasconde una situazione filosofica complessa. Cartesio aveva riconosciuto dignità riconoscitiva soltanto alle idee chiare e distinte, mentre Leibniz sosteneva che nello sviluppo del nostro sapere sono altrettanto importanti le conoscenze confuse fornite dalle sensazioni. Nella visione di Leibniz non c’è una contrapposizione radicale tra sensibilità e intelletto, contrapposizione radicale che 5 invece ritroveremo di nuovo in Kant. Tra il sensibile l’intellettuale razionale, per Leibniz, c’è una scala ascendente che prevede una progressiva distinzione delle note caratteristiche dell’oggetto, le nostre conoscenze possono essere oscure (ricordare un volto, un fiore ma non saperlo riconoscere se ci viene messo davanti agli occhi), oppure chiare (riconoscere un oggetto chiaramente), tra il sensibile e l’intellettuale razionale c’è una scala ascendente, prevede una progressiva distinzione, delle note caratteristiche dell’oggetto, le nostre conoscenze possono essere oscure o chiare. Le conoscenze chiare a loro volta possono essere confuse o distinte, per Leibniz confuso si oppone a distinto, ma NON a chiaro, che si oppone a scuro, non a confuso. Le conoscenze chiare e confuse sono conoscenze sensibili, cioè quelle a cui l’estetica si rivolge; le conoscenze chiare e distinte sono quelle intellettuali o razionali, appannaggio in particolare della nostra conoscenza, del quotidiano, ma soprattutto della conoscenza scientifica. Per questo Baumgarten si riferisce all’estetica come scienza della conoscenza sensibile, simmetrica alla scienza che ha contenuti chiari e distinti. Estetica è simmetrica alla Logica, è possibile una perfezione della conoscenza sensibile? Sì. Quando la conoscenza sensibile è perfetta abbiamo la bellezza, che dunque può essere definita per Baumgarten come la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale. Il neologismo di Baumgarten ha avuto fortuna, inoltre è entrato in uso comune in varie lingue, infatti oggi si discute dell’estetica di un’automobile, di una linea di abbigliamento, intendendo per questo l’aspetto che tali oggetti possiedono. Chirurgia plastica  interventi che alimentano la bellezza e tendono a limitare la bruttezza. ESTETICA = Una disciplina filosofica che indaga e riflette sulla natura, origine, sulla funzione, sui destini dell’arte, ma NON BASTA. Dove finisce il bello naturale? Dove finisce l’ambito della percezione e della fruizione? LEZ: 3 IL PROBLEMA DEL GUSTO, CIOÈ DELLA FRUIZIONE Voltaire quando scrive la voce del “gusto” nella Encyclopédie: Già la prima frase è molto forte, perché se sui gusti non si potesse discutere, allora le lezioni sull’estetica sarebbero inutili. Ma capiamo subito che lui si riferisce ai “gusti sensuali” che possono essere alterati da un difetto fisico del gusto stesso (es. il cibo) che appartiene alla minoranza, perché l’uniformità del gusto appartiene, di solito, alla maggioranza. Quindi il difetto degli organi è una variante del giudizio di gusto. (es: i daltonici con la sfumatura dei colori). Se è difficile intervenire su un senso deforme, è invece assolutamente plausibile intervenire su un difetto dello spirito che produce un gusto deformato. Una persona che ha fruito poco, che è poca avvezza all’arte, porterebbe fuori dal magazzino immaginario pochissimi oggetti. Al contrario, chi è avvezzo all’arte, porterebbe fuori un numero maggiore, ed è un bene perché amplia la possibilità di fruizione del bello, però può essere un problema perché va posto anche un limite, nel senso che il gusto va anche raffinato, va coltivato, il gusto non può essere qualcosa di indifferenziato. Come il genio è dato dalla natura, anche il gusto è dato dalla natura, in parte, questa è un’idea che tutti gli uomini del ‘700 condividono, ma è anche vero che se il genio è dato con il contagocce (cioè in pochi lo possiedono), il gusto viene elargito molto più abbondantemente, solo pochi non lo posseggono. Va però coltivato. Ultimo punto di Voltaire: il gusto è arbitrario nella moda e non richiede un’adesione profondamente condivisa e duratura, 6 perché è effimera, è ciò che passa. È vero che la moda si rivolge al grande pubblico, necessita una forma di adesione, ma che è appunto temporanea. In questo caso, la fantasia più che il gusto produce nuove mode. È il gusto che si rivolge all’arte, è la fantasia che si rivolge alla moda. Noi GIUDICHIAMO attraverso i sensi. E di questo il ‘700 è assolutamente convinto. Ci sono dei sensi estetici per eccellenza? Per il ‘700 sì. Ci sono dei sensi in vicinanza e dei sensi in lontananza. Vicinanza: il gusto, l’olfatto e il tatto, i sensi che per Voltaire non danno origine ad un gusto collettivo, condiviso, rimangono all’interno di una soggettività, sono gusti che difficilmente possiamo discutere. Rimane confinato nella propria sensibilità e difficilmente può essere alterato o cambiato attraverso una conversazione con qualcuno. Ma al giorno d’oggi abbiamo delle perplessità riguardo questa distinzione, ma perché esiste questa distinzione nel ‘700? Perché ci sono dei sensi in lontananza, ovvero la vista e l’udito, in modo particolare la vista, il senso più nobile per il ‘700. Ed è quello che si rivolge anche ad un’arte estremamente nobile, cioè la pittura. La vista ci consente una visione più distanziata, disinteressata (termine fondamentale). La vista consente la contemplazione, a distanza, disinteressata che da origine ad una comunicazione intersoggettiva che è fondante per il giudizio di gusto. Poi ci si chiede, nel secolo dei lumi, se esiste anche un sesto senso: esiste ed è proprio il senso del gusto. Non si “vede”, ma si vede in azione, se ne vedono i risultati, è quel “nonsoché” che si percepisce nelle opere. È quel qualcosa di cui siamo dotati che ci fa dire immediatamente “questa cosa è bella” o “questa cosa non è dotata di bellezza”, quell’immediatezza sta il lavoro del sesto senso. Quindi il GIUDIZIO è oggettivo o soggettivo? Se è legato al piacere, alla moda, al tempo, se è soggetto ad educazione, o se è del tutto immediato e non soggetto a nessuna forma di educazione. L’estetica si concentra proprio sul giudizio di gusto per arrivare a dire, almeno nel ‘700, che il giudizio di gusto deve essere soggettivo e universale. La grande spira del ‘700 è proprio quella di rendere ciò che è soggettivo universalmente condivisibile, solo in questo modo possiamo avere la certezza che il giudizio di gusto miri l’oggetto, lo centri. Il giudizio di gusto non è mai oggettivo, dice il ‘700, cioè non deriva mai da canoni. Dubos affermerà che un’opera può essere bella se non segue canoni. Il critico non avrà nulla da ridire, ma a noi non piacerà. Il gusto non è oggettivo, è sicuramente soggettivo, ma se fosse esclusivamente soggettivo e non universale, avremmo mille gusti discordanti e non potremmo accordarci su nulla, invece accordiamo che esistano opere inevitabilmente belle, che esistano dei capolavori. Il gusto è sicuramente legato al piacere, sarà anche legato alla moda, ma la moda influisce del tutto? Cioè un gusto passeggero può influire sulla nostra capacità di giudizio interamente o solo in parte? Il gusto può essere soggetto ad educazione, infatti va coltivato ed educato, ma nello stesso tempo può essere immediato e non soggetto a nessuna forma di educazione nel momento in cui spontaneamente di fronte ad un nuovo oggetto mai visto prima posso esprimere un giudizio, negativo o positivo che sia. La fruizione e il giudizio sono elementi molto complessi. L’Estetica non può darci una definizione di arte, non solo una, e se ce la dà ci complica la vita. Una possibile definizione di ARTE  è arte tutto ciò che può essere definito tale. Es: lo scolabottiglie è un’opera d’arte, dal momento che è stato esposto in un museo, è stato riconosciuto come oggetto d’arte, una comunità di spettatori che riconosce in quello scolabottiglie un’oggetto d’arte, allora è arte tutto ciò che è definito tale. È possibile oggi definire l’arte e vale ancora la definizione precedente, ovvero è arte tutto ciò che è definito come tale? Artur Danto afferma che per sapere se qualche cosa è arte è necessaria una riflessione filosofica sull’arte . (va contro gli ideali settecenteschi) Ciò che differenzia profondamente due cose identiche è la teoria che eleva una di esse al mondo dell’arte e gli impedisce di collassare nell’oggetto reale che essa è. (esempio: due scatole di Brillo, una in vendita nei supermercati e l’altra fabbricata da Warhol). Però è anche vero che Voltaire si riferisce ad un tipo diverso di arte rispetto a quella che intende Danto, infatti hanno ragione entrambi  Voltaire si riferisce alle opere che esprimono dal punto di vista 7 essere stata concepita come tale. Nel senso che qualunque oggetto a questo punto può essere arte, ma lo diventa nel momento in cui è concepito come arte, quindi si riconosce un ruolo immenso all’intenzione e se il lavoro dell’artista non comprendesse un legame cosciente con l’opera prodotta non potremmo dire che quello che sta facendo sia un’opera d’arte. Tutto ciò appare chiarissimo nel panorama del ‘900. Ma allora quali sono le intenzioni che contano? Solo quelle dell’artista? No. Quelle dei critici? Non sono sufficienti. Quelle dei critici e del pubblico? Beh, inizia ad essere una buona comunità: artista, critici e pubblico. E le INTENZIONI DEVONO ESSERE ESPLICITE. Perché se non sono esplicite è ben difficile riconoscere un oggetto qualunque da un oggetto artistico. Ma in che senso esplicite? Ci dev’essere un luogo nel mondo dell’arte dove queste intenzioni diventano esplicite, cioè i luoghi espositivi e i musei. Dickie definisce l’opera come artefatto che possiede degli aspetti che lo hanno candidato all’apprezzamento da parte di uno o più soggetti che agiscono a vantaggio del mondo dell’arte. Se si trattasse di un apprezzamento qualsiasi, ovviamente l’oggetto artistico non potrebbe distinguersi da qualunque altro oggetto che sia apprezzato per qualche ragione. L’oggetto è un oggetto intenzionato dall’artista in funzione dell’arte, ma se non avesse determinate caratteristiche, difficilmente una comunità potrebbe riconoscerlo come oggetto artistico, quindi le caratteristiche valutative estetiche. Le valutazioni estetiche fino ad ora sono state messe da parte, perché difficilmente attribuiremmo un valore estetico allo scolabottiglie di Duchamp. Queste caratteristiche devono essere presenti nell’oggetto affinché tale oggetto diventi oggetto artistico. Ma in realtà, basta un contratto affinché un oggetto diventi un soggetto artistico, a prescindere dalle sue qualità estetiche. Tanto è vero che gli artisti, provocatoriamente, invece di esporre l’oggetto artistico, espongono il contratto, perché basta questo. È un paradosso odierno. Però le qualità estetiche non mancano sempre, a volte possono essere del tutto trascurate, altre volte continuano e persistono come qualità di grandissimo spessore, sono le prime che di fatto incontriamo. Ad esempio, le opere di Cattelan, sono ironiche ed incarnano le categorie estetiche, ma lo scolabottiglie di Duchamp aldilà del fatto che è un oggetto interessante, non ci colpisce per questo, ma per il gesto dissacratorio che rappresenta. Danto esclude le proprietà in un’opera d’arte che Duchamp avrebbe chiamato “retiniche”, cioè quelle che hanno a che fare con un aspetto dell’opera, e lo fanno perché colpito che due oggetti identici (tipo le due Brillo box) possono rivelarsi uno un’opera d’arte e l’altro no. Ma poi, reintroduce la nozione che non ha senso se non sulla base di considerazioni estetiche, cioè valutative e retiniche, cioè il fatto che quelle scatole sono bianche, abbiano quella forma, rossa, ecc. che colpiscono il nostro apparato sensoriale. Ma è sufficiente che questa caratteristica basti per farlo diventare oggetto d’arte? Assolutamente no! Lo era forse per Diderot, ma per i nostri giorni no. Il ready made è arte perché si connette a tutta l’arte precedente ed è come se la citasse per antifrasi, cioè è opera d’arte ma non ha le classiche caratteristiche da opera d’arte che siamo abituati a vedere. È quel modo di porsi come altro, come problematico che fa sì che ancora ne stiamo parlando. Se fosse stato soltanto qualcosa di rivoluzionario e in contrasto, ci saremmo mossi ancora in quel genio che dà la regola all’arte di cui tanti hanno memoria. Ma dopo anni, un secolo, che vediamo sempre le stesse ready made: il primo si oppone, il secondo è solo una copia. E conferma che dell’esperienza estetica non se ne sbarazza. Stiamo vivendo un periodo da cent’anni in cui l’arte fatica a trovare una sua definizione, è veramente quasi impossibile dare una definizione dell’arte. Una volta messo in crisi ogni possibile concetto legato alla definizione di arte, torniamo indietro e ripartiamo. Tolstoj definisce l’arte in “Che cos’è l’arte”” è un’attività umana per cui una persona, servendosi di determinati segni esteriori, trasfonde consapevolmente i sentimenti da lei provati in altre persone, che a loro volta ne restano contagiati e li provano”. Per alcuni prodotti dell’arte è ancora così, lo è pienamente, ma altri prodotti dell’arte, come il ready made, questo non è: Duchamp non aveva nessuna intenzione di trasfondere i sentimenti da lui provati in altre persone, ha fatto un’operazione di tipo intellettuale, fatto un’operazione provocatoria di tipo intellettuale e Danto lo mette bene in evidenza. 10 Valgono tutte e tre le definizioni che abbiamo visto, ciò significa che dell’arte, dello stato attuale, non si può dare una definizione. Non è possibile una definizione univoca, ma più definizioni. Ma che cos’è l’esperienza estetica? È guardare attentamente un’opera? È vivere intensamente un’opera attraverso l’attivazione del sentimento? Definizione generica, ma potrebbe essere. È attivare un “disinteresse” estetico preventivo per poter essere del tutto interessati all’opera stessa? Capiremo che cos’è il disinteresse estetico, ad esempio per il ‘700 questo elemento è sicuramente fondamentale, non si dà esperienza estetica senza un preventivo disinteresse, cioè purificazione, distacco legato al quotidiano, essere lontani dall’opera ma essere vicini all’opera, cioè diventa un qualcosa che si contempla e si giudica senza preconcetti e senza il proprio patrimonio pregresso di sentimentalismi, ma di esperienze e vicini perché l’opera d’arte va compresa, assorbita, coinvolti. LEZ: 4 INTRODUZIONE AL MANUALE: “LINEAMENTI DI ESTETICA” La prima parte del manuale è suddivisa in quattro capitoli che riguardano il concetto di mimesis, cioè il vastissimo tema delle imitazioni dell'arte e la domanda fondamentale: l’arte è imitazione o creazione? L'arte è copia del reale o l'arte è invece l'introduzione di qualcosa di prettamente umano, fondamentalmente caratteristico dell'uomo e della sua immaginazione? Impareremo a capire che una risposta definita non c'è, esistono una pluralità di risposte possibili. Il secondo capitolo invece riguarda la polarità della creazione. Due grandi temi dell'estetica sono quelli della creazione e della fruizione: creare e stare dalla parte dell'oggetto, nella sua crescita e per oggetto s’intende un racconto, un'opera pittorica, scultorea, una fotografia. La fotografia è forse una delle arti che maggiormente mette in crisi i concetti di cui stiamo parlando, il problema dell'imitazione per esempio, nell'ambito della creatività. È veramente una copia del reale a fotografia? O già nel momento in cui viene scattata mette in evidenza l'apporto umano? Quella scelta che il fotografo fa di fotografare quella porzione e non quell'altra di ciò che gli sta di fronte. Invece, l'ambito della fruizione si rivolge più allo spettatore, a noi pubblico che fruiamo dell'oggetto (leggere un libro, vedere le serie televisive, il cinema, il teatro). Il capitolo 2 si rivolge quindi all’ambito creativo, il tema dell'immaginazione sarà sicuramente centrale e lo vedremo svolgersi nel tempo dall’antichità fino ai nostri giorni. Genio, quindi, va di pari passo con creatività, con direzione artistica, con espressione, con la tecnica, con il potere che l'uomo esercita sugli oggetti affinché diventino altro. Nel capitolo successivo, cioè il terzo, si tratta dell’altro grande tema, cioè la polarità della fruizione, lo spettatore che si pone di fronte all’oggetto artistico. La fruizione nell'estetica prende un nome particolare, cioè gusto. La creazione prende il nome di genio e la fruizione, la nostra modalità di stare di fronte all'opera d'arte prende il nome di gusto. “Genio” e “gusto”, quindi sono due momenti essenziali della fruizione estetica, quando si parla di genio e gusto capiamo che sono dei termini antichi, oggigiorno non si dice più di un artista che è il genio dell'arte, suona anche un po’ ironico. Colui che crea lo chiamiamo il creativo o artista semplicemente. Allo stesso modo non si usa “gusto”, non parliamo comunemente di giudizio di gusto per intendere se un'opera è bella oppure no. Perché se utilizziamo il termine gusto spesso lo utilizzano in un’accezione specifica, cioè il gusto palatale, il gusto che deriva dall'assaporare. Però, è anche vero che il gustare in generale è un assaporare, quando si legge un libro lo si assapora metaforicamente. Nel Settecento non era così, il termine gusto, in generale, indica proprio l'ambito della fruizione, sganciandosi quindi dal gusto palatale, ma diventando invece giudizio di gusto, cioè valutazione dell'opera che va dal “mi piace” o “non mi piace”, al bello che è condiviso, un bello che è da tutti assaporabile, più o meno nello stesso modo. Infine, un ultimo capitolo s’intitola “estetica e cultura visuale” perché ha che fare con quell’ampio spettro degli studi di estetica che si rivolgono principalmente alla vista, quindi l'ampio spettro di problemi che si legano alla cosiddetta cultura dell'immagine. 11 Introduzione: la nascita moderna dell'estetica risale al 1735 quando Baumgarten battezza con questo nome la nuova disciplina filosofica. Data fondamentale quella del 1735, Baumgarten è un grande filosofo, fondamentale per l'estetica perché dà il nome alla disciplina. L'estetica è una branca della filosofia, una disciplina filosofica e quindi come tale ha la sua storia, la sua nascita. in realtà NON NASCE NEL 1735, Baumgarten non è il fondatore della disciplina, ma semplicemente colui che le dà il nome. Chiama quell'ambito che si interessa del “sensibile”, quel qualcosa che è alternativo, eppure parallelo, eppure dialogante con la ragione. Qualcosa che però non è pienamente ragione, l'arte, infatti, non coincide pienamente con la ragione, ma con qualcosa d'altro, coinvolge il sentimento, immaginazione, la sensibilità, l'emozione che coinvolge i sensi. Tutti elementi labili, fugaci, incoglibili, non spiegabili fino in fondo, di quanto lo sia invece una dimostrazione matematica. Kant utilizzerà il termine “estetica”, così come Hegel, e a questo punto il termine arriva fino a noi. Nel 1750 Baumgarten scrive un volume che si intitola “estetica”, quindi battezzando un volume con quel nome diede ancora più vigore al termine stesso. Una disciplina che Baumgarten definisce come posta a metà strada tra la filosofia e la poetica, la retorica e che quindi devono ancora faticare a trovare definitivamente uno statuto, ancora oggi fatica a trovare scisso dalla retorica, spesso si sente affermare che l'estetica è figlia della retorica, è vero se la facciamo risalire alla genesi del 600, lo è meno se ci si concentra sul fatto che l'estetica apre a un rimando di senso che non può già nel Settecento essere solo gioco linguistico, ma al contrario l’incontro con il sentimento che si nasconde per essere scoperto in quei particolari oggetti che sono le opere d'arte. Un rischio che in generale la filosofia corre è quella di confondersi con la retorica, di diventare gioco retorico, diventare riflessione su sé stessa, sterile, di perdere l'oggetto di riferimento, di parlarsi addosso potremmo dire. Che cosa deve fare l'estetica? Non perdere mai di vista il suo oggetto, ma non è un unico oggetto, non è facilmente identificabile l'oggetto dell'estetica, sono gli oggetti dell'arte e delle arti, sono la fascinazione che l'arte ci dà, sono la fruizione cioè ciò che l'arte ci procura a livello di sentimento, emozione, ma anche ragionamento un certo punto. Un vastissimo ambito e quindi difficile da cogliere in un unico sguardo. Però, se l'estetica perde completamente il suo termine di riferimento, se si confonde, se pensa soltanto alle sue radici, se ritorna continuamente su sé stessa, allora diventa retorica. Chi fa questo mestiere non deve perdere il punto di riferimento, cioè l'esempio, l'esemplificazione, il rimando deve essere sempre l'arte e i suoi oggetti, quindi non deve essere un parlare invano, ma un modo per acquisire maggiore consapevolezza nel giudicare o nell’entrare anche da dilettanti nel mondo dell'arte. È vero allora che l'estetica è una disciplina che ha le sue radici nel Settecento, se non altro il suo nome. È una disciplina che vuole rivolgersi a quel vasto ambito che è il sentmento. Già nel primo capitolo il termine sentimento è centrale, altro termine un po’ desueto perché per “sentimento” oggigiorno noi intendiamo qualcosa che, passato il romanticismo, l’Ottocento, è arrivata a noi un po’ tormentato questo termine ed ha che fare con il sentimentalismo, difficilmente parliamo di sentimento in senso nobile, o pensiamo a qualcosa simile all'innamoramento, oppure ai fini sentimentali. Per noi un romantico è sentimentale, ma nel 700 il sentimento è proprio la base del giudizio di gusto, la disciplina estetica ha un suo linguaggio. Termini dell'estetica sono genio, gusto ma anche sentimento, il sentimento si attiva nel momento in cui noi dobbiamo giudicare un'opera d'arte. Ovviamente non lo sappiamo definire fino in fondo, perché se sapessimo definire in fondo il sentimento probabilmente l'ambito di cui parliamo sarebbe stato indagato esclusivamente dalle neuroscienze. Invece, anche le neuroscienze non arrivano a dire l'ultima parola per quanto riguarda i sentimenti, perché il sentimento, cioè il nostro sentire, provare piacere o dispiacere di fronte ad un'opera dipende solo dalla nostra sensibilità, non solo dalle nostre attivazioni delle porzioni del nostro cervello e dipende dalla nostra educazione, dipende da dove siamo nati, dipende da quanto abbiamo fruito, cioè da quanto siamo vicini all'arte, da quanto amiamo l'arte, da quanto ci lasciamo invadere dall'arte, quanto invece impediamo all'arte di entrare in noi, per il semplice motivo che non siamo abituati, perché non vogliamo, perché non siamo dotati di un particolare tipo di sensibilità e di urgenza. Concentriamoci su alcuni aspetti del secondo capitolo e in particolare sull'operato del genio , vediamo cosa significa creazione, creatività e genialità, se vi sono modelli di creazione per approfondire in particolare alcuni elementi del Settecento, analizzando brevemente il pensiero di Batteux fino al pensiero kantiano. 12 Inoltre, vi si afferma che le regole e le leggi del gusto intralcerebbero il genio, che li infrange per elevarsi al sublime, al patetico e al grande. Già qua è delineata una prima possibilità che il genio possa staccarsi, scindersi dal gusto per elevarsi a qualcosa di più grande, di sublime, qualcosa di patetico  pathos, fondamentale perché l'arte si porta il pathos sempre o quasi sempre dietro. Si tratta di un genio espressivo, interpretazione diventa nel contempo espressione, non si trasgredisce per ottenere una novità qualsiasi, bensì per creare una regola nuova e condivisibile. Edison fa emergere prepotentemente nell'ambito della creatività il termine “immaginazione”. Per Joseph Edison, che parte da una forte ispirazione per Locke, il genio è innanzitutto immaginazione, il legame tra genio e immaginazione è esplicito, un’immaginazione creativa che non si limita a riprodurre la realtà, ma la varia liberamente. Ecco di nuovo la potenza del genio, la potenza del genio è la libertà, genio e libertà vanno sempre insieme dal 700 in poi. L'immaginazione è in grado di dar vita a cose, persone mai viste dall'occhio dell'esperienza, derivano dall'esperienza, l'immaginazione coglie l'esperienza del genio, ma non imita nell’esperienza e quindi donne e uomini che derivano da romanzi e serie non ci saranno, cioè sono plausibili e derivano dalla nostra esperienza, ma non ci saranno perché non li incontreremo mai. Si può dire che il poeta non si limiti a scoprire possibilità preesistenti nascoste, ma che sia un demiurgo creatore, un demiurgo capace di plasmare, capace appunto di crearne di nuovi, l'elemento della novità e dunque primarie in Edison, i due termini fondamentali in Edison: “ immaginazione ” e “ creatvità ” che si collega a un altro termine fondamentale che “novità”. Originalità e creatività sono due principi che nel contesto anglosassone vanno a contrapporsi al secolare principio di imitazione. L’imitazione viene tradita nel momento in cui è una copia della natura a favore della creazione della novità dello sviluppo dell'immaginazione. Gerard, sempre nell'ambito della cultura anglosassone, scrive un famoso saggio del 1774. Sulla scia di Edison, per Gerard il genio è invenzione ma aggiunge un altro elemento nella scienza come nell’arte questo elemento sarà fondamentale per Kant, vedremo che per lui il genio sarà soltanto nell'arte NON nella scienza, Gerard invece sostiene che in entrambi i casi possiamo avere della genialità, oggigiorno tendiamo a pensare che effettivamente sia così, i grandi scienziati nel momento in cui individuano nuove possibilità della ricerca scientifica, spesso assomigliano molto più a degli artisti che ha dei puri possessori di una regola o di una legge. Anche in Gerard la facoltà che contraddistingue essenzialmente il genio è l'immaginazione, di nuovo secondo la lezione francese si tratta di un’immaginazione che non deve essere sregolata, è un’immaginazione ancora sottoposta in parte al gusto, nella creazione artistica che mira alla produzione del bello, la funzione di controllo è svolta dal giudizio che veglia sulla coerenza dell'invenzione e appunto dal gusto che ne misura la bellezza. Principio dell'associazione delle idee che assurge al ruolo d'origine del potere del genio. Detto in soldoni: l’ippogrifo non esiste. Non incontreremo mai un ippogrifo, è un prodotto dell'immaginazione, quindi un prodotto creativo, originale ma in fondo che cos'è l’ippogrifo se non un insieme di elementi di animali che noi già conosciamo, se non l’insieme di esperienze pregresse. È questo quel che vuol dire Gerard e Edison. L’immaginazione lavora in modo prepotente verso la novità, ma andando a pescare ciò che l'esperienza ci ha insegnato. Notiamo questo punto come movimento di naturalizzazione dei geni, tentativo di eliminare i principi del divino che ne sarebbe la fondamenta, ma non riesca a esaurire la componente ignota del processo creativo. È veramente ignota questa parte del processo creativo o noi possiamo andarla in qualche modo a sondare? Non è che l'ignoto magari è soltanto un meccanismo di automatizzazione che noi applichiamo nel momento in cui creiamo, o anche semplicemente dimentichiamo. C’è veramente qualcosa di geniale nel genio? C’è veramente qualcosa di potentemente immaginativo, nel senso di magico, oppure semplicemente c'è un processo che nel momento in cui viene sviluppato e articolato si dimentica e già della modalità attraverso cui è giunto al risultato? Non lo sappiamo. È una domanda che si pone ancora il Settecento, è una domanda che per l’estetica è pregnante e che qua ricompare. È noto quanto nell'Ottocento dirà in ambito francese Arthur Rimbaud nella celebre Lettera del Veggente parlando del soggetto poetico, come a dire che il soggetto nel momento in cui diventa genio diventa altro, 15 cioè non si riconosce più, perde la propria identità, diventa parola, per il Settecento della natura, per l'Ottocento della genialità, diventa parola dell'immaginazione stessa. Il genio è creatore nel momento in cui diventa parola di qualcos'altro. È veramente una perdita di identità o un modo per acquistare un’identità altra? Si profila di tema che nella creazione il chi geniale sia sempre un altro ed è difficile pensare l'essenza del genio senza questa dimensione di estraneità, sia essa divina, naturalizzata, oppure inconscia, una dimensione che sembra riguardare anche ciò che rappresenta alla fine del Settecento il punto di approdo e di rilancio della riflessione di un secolo intorno alla nozione di genio. LEZ: 5 SUL BELLO Leggiamo l’introduzione del libro “La promessa della Bellezza” di Winfried Menninghaus. “La percezione della bellezza contiene già in sé una qualità sensibile, positiva”  il rimando immediato è a Baumgarten. “indipendentemente da cosa possa stabilirla” noi non sappiamo cosa possa stabilire la bellezza in modo oggettivo, “sappiamo però che la percezione della bellezza dispone di una dimensione affettiva che viene avvertita soggettivamente come piacere”. Queste righe ci portano a poter ragionare, andare in luoghi che ci servono per fare delle considerazioni di tipo interessante. Prima di tutto, questo legame tra bellezza e piacere, legame molto stretto. Quando noi godiamo del bello ci aspettiamo che ci piaccia, ci aspettiamo di provare un piacere estetico.  forma di auto-ricompensa, come se dal bello ci aspettassimo proprio una ricompensa, la stessa che non ci si aspetta dal brutto, una ricompensa che non ci aspettiamo nemmeno dal sublime e tanto meno dal grottesco. Ci aspettiamo la ricompensa perché ci aspettiamo che l’oggetto bello ci piaccia, che l’oggetto susciti in noi un aspetto positivo. “la bellezza risveglia il desiderio”, se la bellezza fosse soltanto passività, non risvegliasse il nostro desiderio, l’oggetto non sarebbe bello. Il bello attiva il piacere e il desiderio, desiderio di provare sentimento positivo legato alla bellezza. Si può dire che la bellezza si ricerca, difficile ricercare il brutto, il brutto si trova, si fruisce, il brutto irrita, indispone, la bellezza invece viene ricercata. L’elemento desiderativo e di soddisfazione, l’elemento di auto-ricompensa, tutti questi elementi sono insiti nel bello. “nei corpi sessuati lo stesso avvicinamento va oltre al semplice scopo di osservare, nel caso di opere d’arte e altri oggetti belli, la conseguenza dell’azione consiste nell’osservare gli oggetti belli di qualsiasi specie in modo preferenziale e più a lungo rispetto agli altri, nel cercare ripetutamente la loro visione ed eventualmente il loro tentativo di appropriarsene”  Kant non avrebbe detto che il bello produce il desiderio, perché mette tra parentesi il desiderio legato al bello, tuttavia è anche vero che il bello affascina, attrae e che da sempre questa confusione con il corpo bello, che è ricercato, e l’oggetto bello altrettanto ricercato, esiste, almeno da un punto di vista di esperienza quotidiane. “il termine bello gode di accezioni variegate, nel linguaggio comune esso viene utilizzato come significante quasi universale per l’attribuzione di una valenza positiva, mentre al brutto è sempre associato una valenza negativa (ma non deve per forza coincidere con una valutazione negativa), al bello viene attribuito una valenza positiva. “con l’attributo bello si contrassegnano due classi di oggetti: corpi naturali (paesaggi naturali) e le opere d’arte di ogni genere, in senso più ampio comprendono anche sculture, monili, arnesi, case, mobili, creati dall’uomo, che alla base hanno anche un design estetico o che vengono in regola giudicati per le loro caratteristiche estetiche” Nella sua introduzione Menninghaus ricorda anche che il piacere per il bello è sempre qualcosa di più dell’affezione dei sensi. Il piacere del bello non è un’immediatezza sensoriale, lo è anche, ma è più complesso, può arrivare anche ad una compenetrazione di tipo intellettuale, esso configura una percezione sensibile con prestazioni cognitive  c’è un piacere anche della conoscenza, della ricerca che possiamo identificare con il bello. Investimenti affettivi che indichiamo come bello, con conseguenze comportamentali. Per Kant, questo piacere rappresenta tanto in modo sorprendente nel quale tutte le nostre facoltà cooperano  da qui si comprende come anche per Kant, se pur non in funzione conoscitiva, le facoltà cooperano, per facoltà si intende l’intelletto, immaginazione, la ragione, si uniscono nel bello, nel senso che liberamente si giostrano tra loro, non in funzione conoscitiva, ma forse in funzione di una ricompensa che è il sentimento positivo. La pluralità delle implicazioni cognitive, affettive, pratiche connesse alla percezione che giudica esteticamente, costituisce un suo proprio spazio di risonanza. Questo 16 circoscrive l’orizzonte della promessa che per l’osservatore proviene dalla bellezza che motiva la sua forza di attrazione, di nuovo torna il desiderio di attrazione e l’idea di promessa. Noi ci aspettiamo molto dal bello e ci aspettiamo meno dal brutto, il brutto ci sorprende, ci coglie alle spalle a volte, ma dal bello ci aspettiamo molto, infatti se la ricompensa non c’è noi ne siamo delusi, e la delusione porta a un giudizio contrario, ovvero “questa cosa non è bella”. “Il potere della bellezza è il potere di una promessa scritta nella percezione di essa, tale promessa ha una sua storia e persino una storia naturale e una preistoria, questo studio indaga il bello come promessa”. Arriviamo alle conclusioni del volume  il tema della bellezza, all’interno del sistema categoriale, ha un ruolo centrale, anzi predominante, ma che si tende a tradire, perché? Perché le altre categorie come il brutto, il sublime, sono più interessanti, più coinvolgenti, il bello ai nostri giorni, esiste, ma il suo statuto è incerto, ancora più complesso di un tempo, spesso quando si sente parlare di bellezza o di ricerca della bellezza si intende qualcosa che ha che fare con l’arte in generale, gli artisti cercano la bellezza e quando un artista afferma di cercare la bellezza di fatto afferma di cercare l’arte, l’espressione, cercare una ricompensa, una ricompensa sensibile, sentimentale, emotiva a ciò che va facendo, a ciò che rappresenta. L’attore ricerca la bellezza quando trasmette qualcosa che ricompensa lo spettatore, lo ricompensa del biglietto speso, del tempo per andare a teatro e della sua aspettativa. Aspettativa positiva, il desiderio di una ricompensa. Ultimo capitolo del libro si intitola “l’elaborazione del lutto del bello”. “I testi più significativi dell’estetica filosofica condividono la convinzione secondo la quale la bellezza è essenzialmente un qualcosa di passato”  c’è questa idea che la bellezza sia qualcosa si passato che oggigiorno si parla di bellezza in un contesto diverso rispetto alla sua predominante presenza ancora nel 6-7-800. “Qualcosa di ormai problematicamente irraggiungibile nella cultura odierna. Già per Platone, la più alta bellezza era la visione un tempo beata e magnifica delle idee possibile agli uomini decaduti soltanto per qualche momento attraverso il faticoso passaggio di molti livelli preparatori”. Godere del bello, dell’idea del bello è un esercizio molto complesso secondo Platone e possibile per noi, che siamo uomini decaduti, solo dopo molti livelli preparatori. “L’estetica classico-romantica ha riconosciuto all’arte greca antica una bellezza superiore in quanto tale non ripetibile e superabile”, soprattutto il Settecento (Wincklemann fra tutti) riconosce al classico una bellezza non superabile, quindi già ormai passata, una bellezza che ormai non può più essere riconquistata, così come l’idea, non è più possibile che venga accolta dall’uomo decaduto nella sua potenza, immediatezza e forza. “La natura”, scrive Kant, “era bella, se essa appariva nello stesso tempo come arte”  qua il problema è diverso. Menninghaus mette insieme questi tre elementi che però sono profondamenti diversi l’uno dell’altro. Per quanto riguarda ciò che dice Kant, si guarda meno una perdita rispetto a quanto detto prima. Una perdita perché da un lato, nell’estetica classico romantica non possiamo più recuperare il bello antico, possiamo farne solo copia, nella speranza di non diventare solo degli imitatori, nel contesto platonico, l’Idea rimane una forma di aspirazione, l’arte è lontana dalla verità, dall’idea tre volte, quindi attraverso l’arte noi non possiamo più in nessun caso cogliere l’idea, quindi c’è un lutto, c’è una perdita, ma Kant, con la frase che afferma riportata prima, vuole dire qualcosa d’altro. Vuol dire che nella natura noi scorgiamo una mano, un intento, scorgiamo qualcosa che ha una finalità, ma senza scopo. E allora la natura ci pare bella, ci pare bella quando sembra arte. Non c’è una perdita in questo caso, ma c’è una contaminazione tra natura e artefatto, ma un artefatto portato alla sua idealità da Kant. “Sembra dunque che, nello splendore della bellezza, nello splendore della bellezza per varie ragioni, si è scritto un’esperienza di perdita sentimentale, ed è proprio questo momento di rielaborazione del ricordo del lutto ad adottare il piacere del bello, del colore che gli è più proprio, della profondità e dell’intensità della sua risonanza”. In sostanza, Menninghaus sostiene che questo elemento di perdita dà al bello qualcosa in più, un’attrattiva maggiore . “È vero che l’arte bella non corrisponde nel pieno senso del termine ai criteri del bello naturale. Kant non si è mai stancato di sottolineare il fatto che il bello naturale corrisponde ad esigenze più complesse e più meravigliose del fatto di essere soltanto uno analogo dell’arte, ma per parte sua, all’arte riesce anche di essere un analogo della bella natura, in forza della forma, di presentazione che le è propria, essa crea un’illusione, una simulazione di vitalità”  concetto tipico del 7-800, un’arte che si avvicina alla natura, la natura che si avvicina all’arte. La natura si avvicina all’arte nel senso che in essa scorge un’idea, una logica e una finalità, ma d’altra parte l’arte si avvicina alla natura e ciò crea il bello, non imitandola, ma 17 2. Legato alla ricezione del bello come elemento morale, il bello necessariamente al bene. Shaftesbury e Kant legano il bello al bene, il canone morale. 3. La terza articolazione si riferisce al bello legato al piacere, che invece apre al piano sensibile, alla ricezione soggettiva. Se si ha un canone, nel momento in cui l’uomo produce basta vedere se il bello corrisponde al canone imposto. Ma se il bello si lega all’aspetto soggettivo e il canone viene escluso, dire se qualcosa è bello oppure no diventa più complicato. Il bello invece richiede, per essere riconosciuto come tale, una universalità , una condivisione di giudizio . È proprio il grande scoglio dell’estetica, rendere universale qualcosa di soggettivo. L’estetica vive un’evidente scissione definitoria tra una bellezza “oggettiva”, ritenuta proprietà, qualità (ideale o reale) delle cose e una visione “soggettiva” del bello, riferita al piacere che suscita, al gusto dei soggetti o allo scopo che deve soddisfare. La bellezza oggettiva legata al canone ha una lunga vita, almeno fino al 1700, e una bellezza soggettiva che invece ha che fare con una condivisione, una pretesa all’universalità. Una pretesa che però, in qualche modo, si ottiene. Alcune opere sono ritenute dei capolavori, quasi tutti concordiamo. Ma qualcuno no, quel qualcuno fuori dal coro, indica la sua mancanza di una certa sensibilità? Nella sua mancanza di educazione culturale, estetica? O c’è la possibilità che quel qualcuno abbia le sue ragioni e che quindi metta in crisi la comunità di chi riconosce quel qualcosa in un oggetto artistico in un capolavoro. L’estetica è il regno della valutabilità, cioè nell’ambito del giudizio estetico, giudicare ciò che ci circonda. Il nostro giudizio fa parte dell’espressione di ciò che noi proviamo, spontaneamente senza riflettere, relativamente a ciò che ci capita. L’estetica si occupa di rendere problematico quel giudizio, di capire cosa sta dietro all’espressione “è bello” o “è brutto”, a complicarla, a darle una storia, ma non una definizione, perché troppo complessa. Emettiamo giudizio di gusto spontaneamente, ma l’espressione di giudizio di gusto è un meccanismo estremamente complesso , che deriva in parte dalla nostra storia, sia storia condivisa che individuale. IL BRUTTO Il brutto è il mero rovescio negativo del bello, incarna esso il puro e semplice disvalore, infatti nella nostra vita quotidiana il termine incarna questa accezione. Ma nell’ambito dell’estetica, è puro disvalore? Può essere considerato come tale? Esiste un valore estetico relativo al brutto? È sempre stato così o c’è una storia o c’è una storia nell’ambito dell’estetica che determina la possibilità del brutto che non sia mero disvalore? Brutto può riferirsi a ciò che non è riuscito, quindi siamo nell’ambito nel giudizio di valore. non soddisfacente, non compiuto. Oppure può riferirsi a ciò che non è finito e in questo caso è un giudizio tecnico, perché un’opera d’arte di qualsiasi genere lasciata a metà, non portata a compimento. Ma in realtà questo aspetto è rivalutato, nella fotografia l’imperfetto, il non riuscito, l’errore, possono essere riconsiderati all’interno di ciò che piace, ciò che suscita un’emozione, ma in ogni caso il “non finito”, a meno che non sia stato rivalutato, viene considerato brutto. Il deludente, sicuramente all’interno di un giudizio di valore, ma è soggettivo. Capita quando spesso si hanno aspettative altissime (tipo il magnum inferno), ma lo è per il singolo, non è deludente per tutti. Spesso il deludente è del fruitore ingenuo, cioè il fruitore non aperto alle possibilità. Fruire dell’arte in generale con troppi preconcetti è un grave problema. Perché non ci si apre e la delusione arriva subito e ci si impedisce un godimento che potrebbe essere nel complesso soddisfacente. O ancora, il brutto può riferirsi a qualcosa che è tecnicamente perfetto, risponde perfettamente ai canoni, c’è armonia, ma è il soggetto rappresentato ad essere brutto. La tecnica utilizzata, i canoni sono applicati in modo corretto, ma è il soggetto stesso ad essere brutto  in questo caso il giudizio è tecnico e morale. Altrimenti, può essere un tecnicamente perfetto, con un soggetto brutto, MA questo brutto mi piace . Allora qui, si tratta di un giudizio di gusto. Quindi, c’è una tecnica che si adatta perfettamente al soggetto rappresentato, il soggetto rappresentato è brutto, ma ciò che viene rappresentato, il soggetto collegato all’orrore, suscita piacere, allora il giudizio di gusto 20 non è legato a un disvalore, ma un valore, iniziamo ad intuire che è possibile avere un giudizio di valore estetico legato a qualcosa che chiamiamo brutto. Facciamo qualche esempio per capirci: - Quadro di Nicolas Poussin, “Il Martirio di Sant’Erasmo” del 1628. Rappresenta un’eviscerazione, che è un soggetto decisamente brutto, ma Poussin esegue l’opera in maniera eccelsa. Quindi, abbiamo qualcosa di tecnicamente riuscito in un soggetto brutto, legato ad una variante del brutto, ovvero il disgusto. Tuttavia, nessuno attribuirebbe un disvalore estetico. - Gericault e l’Alienata con monomania dell’invidia del 1822. Soggetto rappresentato è ovviamente brutto, una paziente anziana dell’ospedale psichiatrico, ma anche in questo caso la tecnica è eccelsa, quindi non vi è un disvalore estetico della rappresentazione del brutto. - Un esempio un po’ più complesso, “La décollation de Saint Jean-Baptiste” di Jean-Baptiste Marie Pierre, quadro del 1716. Quadro descritto da Diderot nei suoi Salon. Il soggetto è brutto, anzi, disgustoso. Ma in questo caso, la variante è che anche dal punto di vista tecnico la rappresentazione è brutta. Soggetto brutto, rappresentazione (cioè la resa artistica) è brutta, ma l’insieme, il tableaux vivent (in questo caso la collocazione dei personaggi) all’interno della composizione spaziale è brutto, secondo il giudizio di Diderot. Quindi, questo caso, articola tre dimensioni del brutto: brutto del soggetto, un brutto tecnico e un brutto della resa dell’articolazione spaziale. Diderot critica la rigidità dei personaggi, il fatto che Gian Battista è appena stato decollato ma non c’è una goccia di sangue, il cadavere è bianco tanto da sembrare decomposto, indica un elemento vicino più al disgusto, che all’orrore. Il disgusto è ciò che ci fa ritrarre, ci mette in una condizione fisiologica rivoltante. L’orrore invece ci attrae e ci ripugna allo stesso tempo, è molto simile al sublime, a quel gioco complesso che è il sublime, il piacere e il dispiacere insieme. Paul Valery accusava i filosofi di essere superficiali, di attribuire il bello non tanto ai soggetti, quanto ad un ideale che sfuma e che non è afferrabile, quindi di fare della retorica, esprimere a parole dei concetti troppo labili, volatili e non ancorati alle cose pratiche. Nei “Cattivi pensieri” scrive: “come la mano non può mollare l’oggetto rovente su cui la sua pelle fonde e si incolla, così l’immagine, l’idea che ci rende pazzi di dolore non può essere strappata dall’anima e tutti gli sforzi e le deviazioni della mente per disfarcene la trascinano con loro”  iniziamo a comprendere quanto le categorie estetiche possono essere ancora più forti, coinvolgenti, penetranti, di quanto lo è il bello. Il soggetto che ci colpisce nel profondo, più legato al brutto, è legato all’orrore (degenerazione del brutto), tanto da lacerare le nostre carni, aderisce alla nostra pelle, la strappa, strappa l’anima, e tutto ciò che facciamo per dimentcare è vano, perché quell’immagine ci porta con sé. IL BRUTTO NELL’ARTE Nell’universo delle arti il brutto è indubbiamente presente da sempre: lo incontriamo nella figura omerica di Tersite. È tuttavia un luogo comune, o lo è stato, che soltanto col diffondersi del Cristianesimo, e con l’allargarsi dei confini della rappresentabilità artistica da esso resa possibile, il brutto faccia il suo ingresso a pieno diritto nella storia dell’arte. Di questo parere sono Hegel, Hugo e Diderot. Quest’ultimo sostiene che la mitologia legata al Cristianesimo sia ricca di brutto con i suoi martiri, la stessa passione del Cristo è una rappresentazione del brutto. È proprio Victor Hugo a dare una rappresentazione del brutto, da una svolta importante ad una variante del brutto, cioè il grottesco, una variante molto particolare perché rappresenta il contraltare del sublime. Hugo la teorizza nella prefazione al Cromwell del 1827. Che cos’è il grottesco? Pensiamo sicuramente a due personaggi di Hugo, uno è il Gobbo di Notre Dame de Paris, ovvero Quasimodo. È un personaggio duplice, complesso, grottesco. Nel senso che la sua fisicità, brutta, deforme e ai tempi si osava dire “mostruosa”, ma 21 a questa deformazione corrisponde a un animo puro, nobile, bello. Il grottesco è un connubio in bilico tra bello e brutto, uno stridere quasi armonioso, due elementi che compongono uno stesso personaggio. Hugo stesso dice che la vita è questo, la vita è alti e bassi, cielo e terra, qualcosa che ha che fare paradiso e inferi sempre, l’uomo è proprio quell’elemento di mezzo tra l’angelo e il demone, qualcosa che sta a metà , la sua carnalità più profonda e la sua elevatezza di spirito più alta. Altro personaggio: Triboulet, cioè il Rigoletto di Verdi che lo estrapola dal “Il re si diverte” di Victor Hugo. Altro personaggio duplice, ancora più complesso. Perché Triboulet è anch’egli deforme, possiede la gobba, ma è un buon padre di famiglia, ama la figlia (Bianca/Gilda a seconda delle versioni), la protegge. Questa duplicità, che è proprio una caratteristica del grottesco, è una variante del brutto. Ma quando inizia una teorizzazione del brutto? Nasce pochi anni prima della teorizzazione del grottesco e si sviluppa pochi anni dopo. Nasce con Schlegel nel suo scritto “Sullo studio della poesia greca” del 1797 quando introduce l’espressione “teoria del brutto”, prendendo atto della valenza chiaramente estetica ormai assunta dal problema, cioè: prendendo atto del fatto che il brutto non è più mero disvalore estetico, ma che del brutto si deve parlare come di una categoria compiuta. Il progetto di un’estetica del brutto giungerà a esplicita maturazione solo più di un mezzo secolo dopo con Rosenkranz che progetta, per la prima volta, un’estetica del brutto portando a maturazione il problema, ma ancorandolo alla fascinazione del bello. Cioè Rosenkranz sosterrà che del brutto si può parlare solo come contraltare del bello. L’unica categoria estetica autonoma è il bello, ma un bello che del brutto non può fare a meno, il bello viene esaltato dal brutto, aiutato dal brutto, il bello viene portato al suo eccesso dal brutto, ma il brutto non può esistere senza un bello, perché il brutto è ancora connotato come un disvalore morale. (Rosenkranz: “Estetica del brutto” – 1853) Esiste un brutto che possiamo chiamare “pre-artistico” e un “brutto propriamente artistico”. Un brutto della cosa e un brutto della sua resa artistica. E va da sé che le due cose possono anche coincidere, ma non necessariamente debbono: ciò che comunemente si dice brutto in natura può acquisire una grande bellezza nell’arte, e viceversa, com’è noto. E già lo diceva Aristotele nella sua Poetica. Si potrà separare, in arte, un brutto dell’opera nella sua oggettività da un brutto relativo agli effetti che questa può suscitare nel fruitore, nelle sue impressioni, nei suoi atteggiamenti. Altro esempio: “Dirty White Trash With Gulls” di Tim Noble and Sue Webster (1998), qui abbiamo sicuramente una tecnica, una resa artistica piacevole (l’ombra), ma la base di partenza è legata la brutto e al disgustoso, cioè al riciclo di pattume, materiali di scarto che probabilmente emana anche un odore disgustoso. Altra opera di Tim Noble and Sue Webster, fatta con altri materiali di scarto, dà origine a due ombre, le quali, invece di suscitare piacere o indifferenza, sorpresa o meraviglia, suscita raccapriccio e disgusto. Quindi, una complicazione, variazione del brutto, che si articola su più livelli. Il brutto, ad oggi, ha assunto un’importanza centrale nell’estetica, autonoma e a parere della prof addirittura superata, sorpassata, quasi morta. Superata da due categorie che sono molto più forti, almeno negli ultimi 30 anni: le categorie del disgusto e del kitsch. Fino alla metà del ‘900 il brutto restava parziale, ammissibile in arte ove fosse però riscattato da altro. Lo stesso grottesco, da un certo punto di vista, è un brutto che si riscatta nell’ambito della risata (ad esempio la smorfia), oppure dove il riscatto avviene in ambito morale (personaggio brutto ma la sua anima è nobile), riscatto di tipo morale. Si era dell’idea che il brutto non tiene da solo l’arte, tanto meno di renderle ragione del valore di un evento estetico, lo è per Rosenkranz. Difficile scindere il brutto da un disvalore. Esempio significativo di come il brutto fosse concepito prima di diventare una categoria estetica autonoma: opera di William Hogarth, il manicomio di Bedlam del 1733. Come si conclude la carriera di un libertino? Non può essere edificante, si conclude infatti nel brutto, cioè 22 processo di creazione non è dell’uomo, ma della natura: la natura, vale a dire il genio. Natura significa la costituzione del genio, natura si intende il come la macchina umana è costruita, il come l’uomo agisce, si muove, il come del movimento delle facoltà. il genio è nell’uomo, non si identifica con quest’ultimo, ma lo guida nella creazione dell’opera e della regola, Kant lo dice in maniera molto chiara: è la natura che offre all’uomo la propria mano. Il genio è natura, è predisposizione (no istinto!!), è un elemento innato, una facoltà che determina la possibilità di creare qualcosa di nuovo, e questo qualcosa di nuovo è la regola. Questa distinzione fra uomo e genio è ribadita, facendo riferimento all’etimologia di genio, questa parola deriva dalla parola “genius”, lo spirito peculiare di un uomo di cui è dotato dalla nascita, per proteggerlo e guidarlo, dalla cui ispirazione proverrebbero quelle idee originali, il genio è talento in grado di produrre qualcosa che non potrebbe essere prodotto seguendo delle regole determinate, non si tratta di un’attitudine che può essere insegnata, ma la sua condizione principale è l’originalità. Originalità necessaria, ma non sufficiente. Per essere geniali non basta essere originali, interviene il gusto. La prima caratteristica del genio è quello di essere libero, la seconda è l’originalità. Ma queste due componenti insieme al massimo grado da origine ad un genio pazzo, folle, ovvero, nella sua originalità non darebbe addito a nessuna creazione, ma a pura follia che nemmeno lui comprende. Il gusto regola l’operato del genio, lo frena, pone dei limiti. Al genio non è concesso di imitare l’opera di un altro genio, il genio può proseguire il genio che l’ha preceduto solo facendo come lui, ossia mettersi a servizio della propria originalità, ma sempre tenendo presente che tale originalità esemplare deve adeguarsi al gusto, cioè deve adeguarsi ad una comunità che lo possa comprendere. Il prototipo del genio concerne opere che non possono essere né spiegate, né spiegate, dirà nel Novecento Marcel Proust attraverso “le idee dell’intelligenza”, proprio queste ultime considerazioni fanno dire a Kant che vi può essere genio nell’arte, ma non nella scienza. Il genio scientifico non esiste: la regola del genio può essere imitata, ma non può essere eguagliata. La regola dello scienziato non solo può, ma DEVE essere imitata, questa regola può essere smontata, rimontata, costruita, ogni passaggio per arrivare alla regola deve essere chiaro e deve essere acquisita tale e quale da ogni uomo, applicata da ogni uomo. Al contrario, la regola del genio artistico non può essere applicata da ogni uomo, anzi, deve arrivare un altro genio che distrugge la regola precedente e ne crea una nuova. Inoltre, non ogni passaggio della regola del genio sarà chiara, non tutti i passaggi della creazione artistica sono limpidi e originali, alcuni passaggi sfuggono perché sono o automatizzati o perché sono fonte d’ispirazione (come viene detto nel 800). Il genio è ispirato. Sappiamo che l’opera del genio è irripetibile, però proprio per questa sua caratteristica, è difficile che la regola precedente venga spezzata per arrivare a qualcosa di totalmente nuovo, che nessuno di noi è in grado di replicare esattamente nello stesso modo, ma anche se fosse possibile si perderebbe l’originalità. Questo mistero, unico ed originale, ammanta l’arte di qualcosa che non può essere afferrato, spiegato, non può essere reso a concetti, l’ispirazione è una sorta di folgorazione , proprio perché non può essere ricostruita, chiarita ed esplicitata in tutti i suoi passaggi. Che cos’è per Kant un’idea estetca? Con quest’espressione intende la rappresentazione della forza dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto, senza che tuttavia qualche concetto (pensiero determinato) possa essere adeguato. Che cos’è un’idea estetica? È una rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione a pensare molto  es: andare al Louvre per vedere la Gioconda. Ma se prima di andare al Louvre prima ci degustiamo una baguette con formaggio francese, è lecito che a qualcuno non piaccia questo baguette (non piace il formaggio, problemi di gusto alterati, vicino alla crosta, ecc.) dopodiché si va ad ammirare la Gioconda, che è capolavoro a massimo grado, ma se questo è vero la pretesa all’universalità del giudizio è richiesta. Ma se abbiamo tutti gli organi (i sensi) a posto, tipo la vista, quindi siamo tutti normodotati, abbiamo un’esperienza pregressa dell’arte, non abbiamo preconcetti, se tutte queste condizioni rispettate, se quell’opera esprime davvero quel talento naturale, se è davvero l’opera di un genio, si pretende l’universalità del giudizio. Quest’opera è bella e perché è bella? Perché mi dà da pensare molto, senza che il pensiero corrisponda a nessun concetto. Apre l’ambito dell’immaginazione, mi fa viaggiare su canali diversi, che NON sono i canali della conoscenza razionale, apre 25 mondi possibili, apre universali immaginativi, dà da pensare molto. NON DA RAGIONARE, nessun concetto può arrivare a concludere tale pensiero. Se qualcuno di fianco a me chiede se la gioconda mi piace e mi chiede perché non è detto che io sappia spiegarlo, benché il mio procedimento mentale sia già partito verso nuovi lidi, verso nuove esperienze. So che è bella, so che mi piace, ma non so dare una giustificazione razionale. Bisogna precisare che l’insufficienza del concetto determinato, palesata dal sorgere dell’opera bella, non comporta l’esclusione dell’intelletto e dalle forze d’animo che compongono il genio. L’intelletto non opera attraverso concetti in questo ambito, ma nello stesso tempo non posso dire che l’intelletto e la ragione siano esautorati, che non facciano parte di un procedimento di avvicinamento all’opera. Si assiste piuttosto ad uno scambio di ruoli tra immaginazione e intelletto rispetto a quanto avveniva il giudizio conoscitivo. In quest’ultimo caso, ovvero nel caso del giudizio conoscitivo, io impiego le mie facoltà (immaginazione, intelletto e ragione) in funzione conoscitiva, la forza di immaginazione è sottoposta alla costruzione dell’intelletto, la mia immaginazione viene frenata dall’intelletto perché devo conoscere, costruire attraverso i concetti, quindi prima l’intelletto e poi l’immaginazione. Nel caso del genio, dell’arte e della creazione, l’immaginazione è libera ed eccede i confini del concetto, eccede i limiti che impone i limiti dell’intelletto, il quale non riesce ad abbracciare la rappresentazione del poeta, il concetto non arriva, il concetto non imbriglia, è smarrito, non parla e se parla non trova le parole. Se da un lato l’intelletto non trova in questo gioco una diretta fonte di conoscenza oggettiva (non può spiegare, dare una ragione al tutto) dall’altro, poiché le forze conoscitive vengono soggettivamente vivificate si può dire che anche in questo caso, seppur indirettamente, l’intelletto trova materia da impiegare, anche in funzione di conoscenze. Ma quali conoscenze? Di quel pensare molto che apre universi e possibilità. Universi che aprono momenti che si legano al sentimento: universi immaginativo-emotivi, universi sentimentali. È importante ricordare che l’espressione del genio, pur non essendo definibile concettualmente, possa non di meno essere comunicata e avere una valenza intersoggettiva. Il gusto interviene quando al genio viene richiesta una valenza intersoggettiva. Ritornando all’esempio della Gioconda: il gruppo di persone che la sta ammirando, comunicano fra loro, la assaporano insieme, comunicano non verbalmente, ma sentimentalmente e sono tutti concordi che quell’opera è l’opera di un genio. È in gioco la possibilità di comunicare senza un veicolo di un concetto determinato, non stiamo comunicando alla Gioconda tramite concetti, non c’è la guida del Louvre che sta spiegando, non interessa neanche nel momento in cui godiamo lo spettacolo della Gioconda, non interessa saperlo, come quando stai gustando un piatto e lo chef arriva e spiega tutta la preparazione del piatto. Possiamo arrivare ad avere un’esperienza legata al gusto nel momento in cui riconosciamo l’oggetto l’opera di un genio e nel momento in cui le nostre facoltà si attivano (immaginazione e intelletto), ma non in veste conoscitiva, non per riconoscere una regola che può essere scritta, ma per pensare molto, per lasciarci andare al gioco che è libero, libero gioco tra intelletto ed immaginazione che da origine a un pensare molto, senza essere legato a concetti. CAP.3: GUSTO E FRUZIONE ESTETICA Differenza fra critico e uomo di buon gusto  il critico è colui che conosce la regola e guarda l’applicazione della regola, quindi può arrivare a dire se un’opera è ben fatta oppure no, ma NON se un’opera è bella o brutta, perché ovviamente il parere è soggettivo, è obbligato dalle regole ad attenersi all’oggettività. L’uomo di buon gusto, al contrario, non si basa sulle regole, è colui che ha raffinato la propria percezione, ha raffinato i propri sentimenti, sicuramente ha fruito molto e ha la capacitò di cogliere, anche a prima vista, le bellezze di un’opera. L’uomo di gusto fruisce, fa un’esperienza. Il critico applica la regola, osserva, giudica in base a criteri, invece l’uomo di buon gusto osserva e giudica ma non in base a criteri, ma alle sollecitazioni soggettive e nel contempo trasmissibili che l’opera suscita. Du Boss dirà: un’opera può rispettare tutte le regole (lì il critico non ha nulla da dire perché l’opera è perfetta) e non piacere oppure viceversa: quell’opera può non rispecchiare le regole (e quindi il critico avrebbe da ridire) eppure può essere bella, può piacere ad una comunità che la riconosce come bella, un giudizio di gusto universale. Ma come può diventare un 26 giudizio di gusto soggettivo universale? Lo diventa trasversalmente, lo diventa nel momento in cui io, non singolo, faccio parte di una comunità che come me ha le stesse facoltà, gli stessi sensi, raffinatezza e non può che assentire quando dico “che è bello”. L’uomo di buon gusto sarà l’uomo eletto, l’uomo che non giudica per distruggere o costruire un personaggio, un artista, una corrente, ma fruisce per godimento, perché gli piace, perché lo vuole fare, perché vuole fare un’esperienza. Il critico andrà a riscontrare se le regole sono state ben rispettate, ma dopo aver controllato non avrà detto niente che possa far cambiare idea. LEZ: 8 CATEGORIA ESTETICA DEL MELODRAMMATICO Usciamo da un preconcetto di ambito performativo e musicale, ha comunque a che fare con la categoria estetica del melodrammatico, ma bisogna entrare in un altro ambito in cui non lo comprende. In letteratura, come per tutte le arti, la pratica ha preceduto la teoria, le persone di genio hanno incontrato il bello prima che le persone di gusto potessero dettare delle norme. Queste regole non hanno valore assoluto, soprattutto per la categoria estetica del melodramma. Questa categoria prende piede nel 700, acquisisce particolare importanza nel 800 fino ad arrivare ai giorni nostri. Es: le serie tv fiction della rai possono essere assimilabili alla categoria estetica del melodramma, dal momento che sono composte da una letteratura piuttosto semplice, estremamente condivisibile e sentimentaliste. Nel 700 questa categoria prende una consistenza teorica e le consente di essere individuata come categoria estetica. Il 700 è un secolo in cui le prime forme del melodrammatico vengono apprezzate dal pubblico e da una parte della critica, in genere è il pubblico che apprezza il melodramma, molto meno la critica. Don Matteo sicuramente apprezzato da una grossa parte del pubblico, ma non può essere considerato un prodotto elitario. È un ambito di immediatezza, emotività, un ambito che coinvolge l’elemento patetico, dove il tema dell’empatia è centrale, la relazione con il sentimento che sorge spontaneo di fronte ad oggetti belli, che è un sentimento collettivo, condivisibile che nasce da un concetto esteso di gusto, è richiamato da un pubblico che inizia ad avere un’ingerenza sull’opera stessa. Don Matteo non può tradire le aspettative del suo pubblico, invece un programma elitario può farlo perché il pubblico non è il principale oggetto di riferimento, ma lo è l’opera. Nel melodramma il pubblico è sicuramente un punto di riferimento fondamentale, si pensa, si lavora, si costruisce, si pensa, si immagina per un pubblico che è ben determinato, ben studiato e ben conosciuto da chi produce. Nel melodrammatico il pubblico acquista una nuova forza, un nuovo valore, una nuova consapevolezza, già nel 700. Il giudizio dei fruitori sarà fonte di giudizio universale di tipo empatico. Una delle caratteristiche del melodrammatico è il suo intento didascalico, ciò che rientra in questa categoria non è complesso, non è difficile, si costruisce attraverso emozioni facili. Il messaggio da comunicare è semplice, arriva direttamente, non segue vie traverse, non aderisce alla teoria di Hemingway dell’iceberg, per cui il fruitore vede soltanto la cima dell’iceberg e il non detto è molto più del detto. Nel melodramma ciò che si inserisce il detto è più del non detto, è esplicitato, i caratteri sono semplici, ben individuabili, difficilmente assistiamo ad una parabola in cui il buono diventa il cattivo oppure a plot twist estremamente interessanti, ma non prevedibili. Se un buono diventa cattivo, i segni del “male” sono già presenti nel personaggio che prima o poi da buono passa a diventare cattivo. Il pubblico non ha sorprese, è un tutto già detto, lo sappiamo in fondo, lo abbiamo già capito, sappiamo già come andrà a finire, e se veniamo traditi ci dà anche un po’ fastidio. Tra le caratteristiche del melodramma c’è anche il messaggio da comunicare, che è ovviamente semplice, immediato, che non tradisce mai i principi morali condivisi, ma anzi, ne rafforza. Difficile avere un prodotto melodrammatico in questa categoria che tradisce i principi morali condivisi, o che ne prospetti di nuovi. Gli autori del romanzo, della serie, tutto ciò che è connotabile come melodrammatico, hanno sempre la consapevolezza che il fruitore rimanga l’uomo del suo tempo. Non si rivolgono ad un pubblico futuribile, non si aspettano che la loro 27 L’elemento più passionale quindi può essere spinto al massimo ed essere fortissimo producendo emozioni che vanno dal disgusto alla rabbia è importante sottolineare il fatto che ci riferiamo a tutti gli elementi che possono comporre una opera per esempio nel teatro, le inquadrature, la sceneggiatura, in una pittura il colore, ciò che è all’interno del quadro…. Ciò che si cerca di fare quindi è una sorta di dosaggio funzionale ad una corretta fruizione anche da parte dello spettatore in che senso una presenza da parte del fruitore? Per fruire del Kitsch del melodrammatico ci vuole un fruitore predisposto. Come per fruire quelle categorie che si pongono un po’ al limite. Ci vuole una apertura, anche semplice, non richiede nulla di pregresso ma un atteggiamento di partecipazione. Il sublime è carico di emozioni è un tema esplicito già agli inizi del 700 pg.87 del gonzo sublime. inizi del 700 che vedono la pubblicazione importante, il testo di Jan Batpiste due Boss riflessioni critiche sulla poesie e pittura 1719. Due Boss: è uno degli autori più copiati, lo citano tutti, da Lessing a Kant. Sfruttano le sue riflessioni in mille modi, anche nei ricettari. questo autore del 700 afferma che l’animo dell’uomo è fortemente impressionabile ed è predisposto ad emozionarci di fronte a qualche opera d’arte. È una banalità si lo sappiamo ma il problema è capire, se si emoziona di più di fronte alla natura o l’arte e se lo scopo dell’arte è esclusivamente è che debba essere impressionato e colto dall’emozione. La finalità dell’arte è suscitare emozione? Questa non è una domanda banale, l’arte povera o concettuale non hanno come finalità quella di suscitare emozioni anche non maniera primaria. È vero però che l’emozione non può essere messa tra parentesi. L’emozione può non essere immediatamente il fine dell’arte. In alcuni casi invece l’arte si prefigge il compito di emozionare e di suscitare l’emozione questo accade nell’ambito del patetico se noi geni creativi o meglio ci mettiamo in testa di scrivere un racconto che ha una finalità fortemente patetica, non possiamo prescindere di passare attraverso l’emozione, sarà una componente di cui dobbiamo tenerne conto se vogliamo impressionare il nostro pubblico dal punto di vista emotivo, un buon apporto patetico con tematiche familiari etc… tutti questi elementi possono essere un espediente per fare meno fatica per raggiungere lo scopo, l’emozione. Il ruolo dell’arte per l’autore (com’è che si chiama che non ricordo ahhaha) è quello di emozionare. L’impegno di uscire di casa ed andare a teatro o cinema deve valere. Vale quando c’è il ritorno a casa con una buona dose di emozione. Il 700 si apre quindi all’elemento patetico e a quella categoria estetica quella del melodrammatico. la natura ha adottato l’uomo di una sensibilità pronta e sollecita come principale fondamento della società e per DB sostiene che a fondamento della società vi è l’uomo si MA dotato di grande sensibilità, la società si fonda su tale principio di coesione simpatetica. SI fonda sulla idea che c’è un mutuo soccorso una mutua condivisione dettata proprio dall’elemento patetico, dalla simpatia dalla voglia di tendere la mano verso l’altro. Questo rivolgerci all’altro semplicemente procura a noi stessi un godimento ci procura una gioia una capacità di godere che evidentemente l’arte deve essere in grado di suscitare di nuovo e a comando. DB sostiene che l’animo umano è particolarmente sollecito nel provare emozioni… ma come facciamo a fargli provare emozioni? Con la via del patetico, la via più semplice è quella di colpire il cuore. Per DB se sei un creativo se devi rivolgerti ad un pubblico per appassionarlo, bisogna farlo appassionare e poi dare quel qualcosa in più è il primo livello nonché mondo per richiamare una folla e tenerla incollata. 30 Il pianto è una arma potente e immediata capace di attirare l’attenzione dal bambino al vecchio la sofferenza, nel momento in cui è espressa è enunciata ci coinvolge prima di sapere il motivo di quella sofferenza. DB, andiamo a fondo nella tematica 700 cosa ci sta dicendo? DB afferma che l’occhio, la vista è un mezzo potentissimo di narrazione perché immediato e arriva più della parola. L’immagine fissa deve essere ben calibrata. Va colto quello che si chiama l’istante pregnante al momento. in quel momento patetico non vi deve essere fermato un attimo prima o un attimo dopo per ovvi motivi. C’è un luogo, momento e azione da immortalare. Questo vale pittori e fotografi ma è anche vero che DB dice che il tempo è fondamentale l’occhio vuole la sua parte ma la narrazione è tanto potente quanto l’immediatezza dell’occhio. E per questo che DB che avrebbe amato alla follia il cinema pensa che l’arte completa non sia la pittura privilegio dell’occhio … ma sia il teatro, tempo e spazio hanno un innesto una possibilità di fondersi e di coinvolgere maggiormente lo spettatore. DB la parola è artificio per DB al contrario la vista narra le cose così come sono se noi riusciamo a fondere i due elementi vista e parola siamo a teatro. DB è un autore fondamentale e avremmo modo di approfondirlo nel corso della narrazione, è fondamentale anticiparlo oggi perché per molti versi è il fondatore del melodrammatico che andremo ad indagare. Il fondatore pone gli elementi premessi e poi sviluppati, questo autore verrà ripreso da Diderot autore che dialoga con il presente e dialoga con il nostro presente un autore che paradossalmente è invecchiato meno rispetto ad altri autori del 700. Un altro autore particolare si chiama Diderot, autore estremamente eclettico, sperimenta. Dove giace la sua sperimentazione su più fronti nell’ambito filosofico. Scrive anche trattati è curioso degli aspetti scientifici. Scrive trattati di fisiologia, è drammaturgo è tra i primi a introdurre il teatro in prosa e in borghese. Scrive romanzi in una forma particolare, tanto che ancora oggi amiamo. È uno tra i primi critici d’arte. Va ai salon e li analizzando le opere, inizia un grandissimo viaggio quello dei salon che dura diversi anni e moltissime pagine. In tutto questo Diderot è anche un teorico del patetico, non teorizzerà il patetico del sublime ma partlerà del sublime patetico lo fa in uno scritto particolarmente sgnificativo perché è un piccolo saggio dedicato a richarson autore di due romanzi epistolari noti. (Clarissa e Pamela ) sono due romanzi epistolari in cui le dosi di patetico e melodrammatico in cui gli elementi moralistici sono presenti Diderot si appassiona a questi due romanzi in modo molto intenso esattamente come quando ci appassioniamo ad una serie. Romanzi di appendice: tipici del 700 funzionavano come le serie televisive. La categoria del melodrammatico ha radici nel pensiero di Diderot, a parere di Diderot, il melodrammatico porta con se una attenzione al quotidiano a ciò che appare come essere come quotidiano. Per esempio Beautiful è fuori da una realtà naturale es. Mamme più giovani dei figli, tutto comunque è giustificato, deve essere del tutto plausibile, la meraviglia va messa tra parentesi. Il lettore va sorpreso att. lo sviluppo narrativo ma non alle spalle. A parere di Diderot non è la meraviglia ma l’attenta osservazione della natura. La riflessione va regolata e governata dall’esperienza e l’esperienza codiuvata dall’osservazione….. Per Richardson non scrive romanzi, nessuna combinazione di fatti troppa esatta, nessuna coincidenza inverosimile, tutto funziona, Richard non scrive finzione, non meraviglia ma fa entrare in casa sua, nella casa di Clarissa e Pamela. Nasce con Clarissa quella che da più parti la religione dell’amore sentimentale. Di 31 questo Diderot si rende conto Richardson descrive la natura e i sentimenti profondi dell’animo umano. Se noi dobbiamo tessere le trame del patetico, dobbiamo intrecciare il vizio e la virtù in genere se andiamo se poi andiamo verso il kitsch la virtù deve vincere. Anche a costo che l’eroina muoia. La virtù non può soccombere, la virtù va esaltata, la morale comune va preservata. Quindi la virtù viene messa in pericolo ma la virtù regge. Trama semplice molto immediata ed efficace perché ancora oggi viene riproposta. La storia di clarissa è semplice quanto mai melodrammatica. Perché clarissa muore come una martire? La virtù viene preservata. La protagonista incarna l’innocenza e la virtù. La virtù non può essere violata! L’elogio di Richard e il pensiero di Kant: Defoè, scrive Robinsoncrusoe, le vicende si susseguono, sfida tutto il benessere economico … sfida qualsiasi cosa nella ricerca della scoperta. Fa della scoperta l’elemento della sua vita si lascia cogliere dall’accettazione della sfida di quegli elementi che possono mettere a rischio la sua stessa esistenza. se la pamela e la clarissa sono chiuse all’interno delle stanze dove le lettere vengo scritte, se tutto si gioca all’interno di uno svolgersi psicologico di eventi e relazioni in Robinsoncrusoe è azione e avventura tra i due Kant predilige Richardson, perché l’elemento morale in R viene sondato. L’azione e lo svolgersi dell’azione sicuramente non è il romanzo prediletto da Kant perché ci interessa questa cosa? Perché gustare Richardson, cosa distingue allora una serie di avventura da un film patetico? Il film patetico pone al centro il legame sentimentale il film di avventura può portare con se un legame sentimentale ma non lo sonda fino in fondo, non rappresenta lo sviluppo psicologico dei personaggi. Può anche non esserci. Di fatto però gli estimatori del melodramma non avranno vita facile. Il melodramma è una categoria estetica che emerge in periodi di crisi ad esempio dopo la rivoluzione francese i grandi melodrammi che venivano dati e rappresentati avevano gran successo, il melodrammatico accoglie la visione morale più addomesticata e più diffusa era piacevole per gli spettatori entrare a teatro che il cattivo veniva punito e il buono si salvava. Chaviè (?) passa tra il 1818 e il 20 da una posizione classicista a sostenere il romanticismo anche nelle sue manifestazioni popolari quali del melodrammatico è uno dei pochi ad esporsi dal genere melodrammatico. Perché veniva ampiamente criticato e sostenuto da pochi. Addirittura Chandoviè ne scrive. Siamo nei primi anni 30 dell’800 i tempi lo esigevano! Da una parte la censura che non consentiva le opere moralmente riprorevoli, quindi si andava sul kistch questo porta sofferenza a Vicotr Hugo perché deve giustificare le rois’amuse… perché fa un perno con questa rappresentazione drammatica, mette in scena un dramma che si chiama Le Roi s’amuse, un capolavoro… la cui trama viene ripresa da verdi che ne fa il rigoletto, oggi rappresentato mentre Le roise.. mai rappresentato. (Qui dobbiamo fare riferimento a Victor Hugo (rif.tribulè) Le roi s'amuse) e il rigoletto di Verdi) Infatti, l’opera di Victor Hugo non è mai entrata in scena, a causa di ciò che era considerato riproverevole da parte del pubblico, ma ne viene riconosciuta la genialità di verdi perché il rigoletto si basa sulla sua opera solo che opera modellamenti, per esempio nell’opera di Victor Hugo viene rappresentato un re perverso mentre nell’opera di verdi viene rappresentato un duca di Mantova che dopo tutto non è così perverso. Il fatto di abbassare la tensione tra vizio e virtù ad una opposizione tra virtù vincente e vizio perdente, riportare il tutto ad una comprensione immediata del pubblico fa si che una opera controversa come Le Rois… diventi un capolavoro verdiano, al contrario Le roi… tribulè non avrà vita… e sarà poco letto anche se Victor Hugo oggi è uno degli autori più tradotti nel melodrammatico e nel Kistch pensiamo al gobbo di notre dame, il musical, la rappresentazione esplicita del Kitsch, Hugo sfiora il melodrammatico ma rimane all’interno del dramma, abbiamo elementi melodrammatici che saranno poi colti dalla nostra contemporaneità e presi dalla Disney oppure riproposti in chiave di musical. LEZ: 10 32 dell’estetica emozionale che da origine poi al melodrammatico e un po’ perché gli autori successivi, gli enciclopedisti, non possono prescindere dal suo pensiero. “Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura 1719” L’attrattiva dell’emozione è potentissima e tale attrattiva è ancora più forte nel momento in cui le emozioni sono quelle provocate dalla realtà, non dalla funzione, però dice Du Bos si dovrebbe sapere che queste emozioni provocate dalla natura provocano in noi qualcosa di negativo, ci lasciano l’amaro in bocca, che ci fanno stare male, dovremmo evitarle ma siamo fortemente attratti. Cosa bisogna fare? trovare una soluzione-> è il mondo dell’arte perché produce passioni di fortissima intensità ma che non hanno controindicazioni. Edmund Burke (1729-1797) Inquiry into the Origins of our Ideas of the Sublime and the Beautiful (1757)-> deve moltissimo alle riflessioni sulla poesia e pittura di Burt. Se per Du Bos esiste un’esistenza di tipo qualitativo tra le emozioni e le passioni provate a teatro che sono artificiali e quelle che noi proviamo in natura e che ci sono suscitate dalla realtà, per Burke tale differenza non è di tipo qualitativo ma quantitativo, cioè le passioni provate a teatro sono meno intense delle passioni provate nella realtà ed è per questo che gli spettatori svuotano il teatro per andare in piazza se in piazza vi è un’esecuzione capitale. Afferma Burke: Vi sono piaceri di natura positiva molto forti-> piacere sessuale. Il sentimento proveniente dalla cessazione o diminuzione del dolore non rassomiglia a un piacere positivo abbastanza da essere considerato della medesima natura o indicato con il medesimo nome. Questa sensazione non ha nome. La chiamo diletto (delight). Diletto è la sensazione che accompagna la scomparsa di dolore o pericolo Il delight si ha anche quando il dolore o il pericolo sono visti a distanza, quando noi guardiamo la nave che affonda nel mare in tempesta ma salvi dalla riva senza che nulla turbi quello spettacolo perché su quella nave non conosciamo nessuno, non trasporta i nostri averi e quindi rimaniamo incantati dalla potenza della natura e dalla sua malvagità che non colpisce direttamente noi ma gli altri e gli altri si trasformano in spettacolo. Capiamo quindi che l'auto preservazione è fondamentale, è il principio stesso dello statuto spettatoriale. Nelle disgrazie reali o in quelle immaginarie, non è la nostra immunità che desta il diletto; non riscontro in me nulla di simile. La nostra immunità è una precondizione necessaria affinché noi possiamo godere del dolore altrui, è questo quello che poi si chiamerà il piacere del pianto. Gli effetti della simpatia La disgrazia altrui è un motore potentissimo. La differenza tra la passione artificiale e la passione pura è una differenza di tipo quantitativo. L’indagine filosofica di Burke sull’idea di sublime è condotta a partire da un’analisi empirica delle passioni e delle qualità sensibili degli oggetti che suscitano tali passioni. Il sublime reagisce nei sentimenti di paura, orrore, generati dalla percezione di un rischio anche estremo, nonostante il terrore si tartta tuttavia di un terrore piacevole che appunto viene definito delight perché il piacere non ha alcuna relazione con il dolore, il diletto è allora un piacere negativo che nasce dalla scomparsa di un dolore o di un pericolo e il presupposto perché si possa parlare di sublime è che il soggetto si trovi a una certa distanza dal pericolo che lo minaccia. Connessa all’idea di sublime vi è l’idea di stupore, stato d’animo in cui la mente è così assorta che non può pensare a un altro oggetto. Lo stupore è effetto del sublime, al suo grado più altro. Poi seguono l’ammirazione, il rispetto. L’idea di sublime per certi aspetti si contrappone al bello. Burke nega possa essere definito con gli stessi termini del sublime. Il bello è proporzione, armonia, il sublime non lo è. Il bello è connesso a una forma di socievolezza, il sublime è connesso a un sentimento di autoconservazione. Il bello nasce dalla visione di cose piccoli dotate di contorni leggeri, al contrario il sublime è suscitato dalla 35 contemplazione di spazi ampi, grandi, da una potenza naturale, legato da tutto ciò che è legato all’idea di privazione, il buio, la solitudine, il vuoto, legato all’eccesso. Il suo favore va alla poesia in grado di produrre il sublime in sommo grado perché per Burke la poesia non è arte dell’imitazione ma bensì della sostituzione. Chiarezza e precisione sono caratteri opposti al sublime. Burke non ama i pittori che indugiano su immagini chiare e precise. La tempesta va goduca su una riva e non all’interno di un museo. Moses Mendelssohn (1729-1786) “Rapsodia (1761)” Autore che si occupa del sublime negli stessi anni è debitore soprattutto a Du Bos. Ovvio che disapproviamo il male accaduto, ci auguriamo che non accada più, ma è accaduto, non dipende dalla nostra volontà. Ciò che è accaduto diventa per noi spettacolo. Lo statuto spettatoriale Da un lato lo statuto spettatoriale è presto delineato. Mendelssohn: Chi fruisce il dolore nella disgrazia non deve avere alcuna responsabilità diretta dell’accaduto: non ne è responsabile. Non può in nessun modo, una volta che il male si è verificato, porvi rimedio ed è, in tutto e per tutto, “spettatore”. Lo statuto spettatoriale è uno statuto ideale nel quale chi fruisce della disgrazia non ha responsabilità e non può portare soccorso. La funzione spettatoriale quindi è fondamentale per poter godere del dolore, in campo artistico ma anche nella realtà. Se da un lato Du Bos differenzia fruizione del dolore altrui nella funzione e nella realtà per Burke tale distinzione è solo di tipo quantitativo e non qualitativo. Paradossi Se le persone non amano provare dolore perché vogliono fare esperienza di un’arte che procura dolore? Brady (attore contemporaneo) possiamo delineare due teorie che indagano questo paradosso: Meta-response theory -> il terrore e la paura sono esperienze negative, dolorose per il soggetto, mentre il piacere è la meta risposta ad esse. la meta-risposta è il riconoscimento della nostra capacità di provare emozioni appropriate, sviluppando il nostro senso di umanità. Ci scopriamo uomini “morali”. Rousseau non sarebbe d’accordo. Conversion theory -> afferma che esiste una distinzione tra l’emozione percepita (piacere e l’oggetto che la genera (oggetto che possiamo disapprovare). Soluzione compatibile con quella di Mendelssohn: sublime come sentimento misto (godimento per la rappresentazione e disapprovazione per l’oggetto). In conclusione: L’asse D-B-M (Du Boss, Burke, Mendelsshon) può ancora oggi rappresentare una base di partenza soprattutto là dove indaga le passioni artificiali. L’indagine sul sublime può quindi ripartire anche sul piano scientifico se si accolgono e analizzano le sue fondamenta teoretiche settecentesche. LEZ: 12 IL PIACERE DI PIANGERE 36 Testi che fanno la storia del piacere del pianto: il mondo sublime, il senso del limite (tradotto in inglese francese e spagnolo), e la tirannia delle emozioni. Il piacere del pianto è un’emozione negativa però la più forte emozione che noi proviamo difronte all’arte. Emozione legata al melodrammatico, legata al sublime. Emozione che si prova difronte ad un opera d’arte che cerchiamo di trovare il più delle volte. Volume di Paolo D’Angelo (La tirannia delle Emozioni) pag. 125 / Siamo esseri singolari noi umani quando vogliamo distrarci passare qualche ora libera può accadere che scegliamo un film divertente leggero piacevole ma accade abbastanza spesso che decidiamo di assistere ad un horror a un thriller ad un melodramma, un tipo di storia che ci metterà paura che ci metterà ansia che ci farà assistere a casi dolorosi lacrimevoli commuovendoci e intristendoci per un poco. Se questo accade con i generi di intrattenimento più popolari, non ci stupirà che accada anche nella grande arte, nell’arte alta. La tragedia, il genere letterario più blasonato per millenni considerato il vertice dell’arte teatrale della letteratura racconta storie terrificanti, di padri e madri che uccidono i proprio figli e di fili che uccidono i loro padri le loro madri di fratelli che si dilaniano di eroi colpiti da sventure di tradimenti assassini e massacri. Nella tragedia senechiana e quella elisabettiana la scena si riempie spesso di cadaveri, le passioni sono enormi la sofferenza il dolore sono spesso sospinti fino all’insondabile. Le arti figurative non sono da meno, l’arte cristiana per secoli ha rappresentato crocefissioni martiri santi arrostiti sulla graticola, o squartati sulla ruota, sante alle quali sono tagliati i seni, strappati gli occhi e annegate con una macina al collo. Del resto anche uscendo dal campo dell’arte molti miti e leggende narrano storie terribili, non per nulla la materia della tragedia antica è con pochissime eccezioni quella fornita dal mito, e persino le fiabe per bambini contengono storie piene di sofferenze, abbandoni paura e dolore, patrigni e matrigne crudeli insensibili, orchi affamati di carne umana, streghe malefiche, eppure i bambini le ascoltano estasiati e non si stancano di sentirle ripetere, ne hanno paura ma ne sono irresistibilmente attratti. / D’Angelo sottolinea che questo è uno strano fenomeno ed è vero. Abbiamo già visto nella lezione dedicata al sublime. Ma è la nostra natura. Aristotele nella poetica notava che in pittura ci procurano piacere rappresentazioni di cose che nella realtà non vorremo vedere. Nel 700 Du Bos, Markel, Henderson si interrogano su questo problema mettendo in luce la natura negativa del sentimento sublime. David Hume scrive nel suo breve saggio “Sulla tragedia” / Sembra inspiegabile il piacere che gli spettatori di una tragedia ben scritta ricevono dal dolore dal terrore dall’angoscia e dalle altre passioni che sono in se stesse spiacevoli e penose, più essi sono colpiti e commossi maggiore è il loro diletto che traggono dallo spettacolo e non appena le passioni cessano di operare dalla presentazione è alla fine. / Siamo difronte a quello che abbiamo già chiamato nella lezione sul sublime: un Paradosso. Dove risiede tale paradosso, in 3 momenti principali: le tragedie suscitano in noi emozioni negative genuine - se qualcosa suscita in noi emozioni negative tendiamo a evitarlo e tuttavia – noi non tendiamo di evitare di assistere alle tragedie anzi le ricerchiamo. Du Bos / Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura (1719), 1770. Personaggio imprescindibile, filosofo che fonda con la sua teoria emozionalistica quello sviluppo che appunto da origine al sublime. Riuscendo a far godere delle proprie emozioni senza il timore di esserne sopraffatti per du bos l’arte realizza un giusto equilibrio vitale. Assistere ad un esecutzione capitale non è noioso per Du Bos, ma è sicuramente uno spettacolo che osserveremmo inorriditi. Questo non accade se la scena la si osserva ben riprodotta in un dipinto o narrata in un poema o vissuta nell’ambito della finzione a teatro. L’arte perciò, in quanto finzione consapevole non ci induce mai a credere di trovarci di fronte alla realtà. Quando andiamo a teatro non ci aspettiamo di vedere effettivamente giocasta edipo ma ci andiamo aspettandoci di vedere quello che effettivamente vediamo. Possiamo dire che lo spettatore per quanto profondamente commosso possa essere mantiene il suo buon senso. PARADOSSO: Le tragedie suscitano nuove emozioni negative, se qualcosa suscita in noi emozioni negative, tendiamo ad evitarlo e tuttavia noi non tendiamo di evitare di assistere a tragedie, anzi le cerchiamo. Si 37 qualcosa di positivo. C’è la soluzione organicista che argomenta che la negatività dell’emozione si inserisce in una totalità all’interno della quale gioca un ruolo in eliminabile al fine della valutazione positiva e del complesso. Infine i tipi di soluzione revisionista e deflattiva che dissolvono il paradosso più di quanto lo risolvano mostrando che le presunte emozioni negative non sono intrinsecamente spiacevoli e non desiderabili eppure che esse non sono realmente suscitate nel fruitore, cioè se le emozioni non sono vere emozioni ma emozioni finte, allora si può spiegare perché esse non producano realmente dispiacere. Quest’ultima soluzione è quella che ritroviamo in Du Bos il quale però distingue nettamente tra emozioni pure artificiali che sono quelle suscitate dall’arte e invece quelle emozioni che artificiali non sono e sono quelle suscitate dal reale. Distinzione fondamentale non viene messa in luce. Non vi è quindi una sola soluzione, ma ve ne sono molte. Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) Laocoonte 1766. Pone il tema del doloro e dell’arte dolorosa al centro della sua riflessione. Nel suo Laocoonte si oppone a Winckelmann da un lato e che richiama nel volto dell’Laocoonte quell’elemento di dolore di riconoscimento simpatetico del dolore che è di fondamentale importanza. Il gruppo marmoreo aveva offerto a Winckelmann lo spunto per articolare la sua teoria del bello ideale e dell’esemplarità dell’arte greca. Al contrario lo stesso Laocoonte da a Lessing da la possibilità a Lessing di mettere in ombra il richiamo dell’unità delle belle arti, per evidenziare le differenze e i limiti delle loro specifiche modalità espressive. Nel suo volume Laocoonte Sui confini tra la pittura e la poesia 1766, Lessing contesta il detto raziano della pittura poesis che era stato il filo conduttore dell’estetica 700esca per distinguere le belle arti legate alla parola e quelle legate alla pittura. Fondamentale per l’analisi del piacere dell’arte dolorosa. Perché fruiremo e fruiamo in modo diverso dell’arte dolorosa nel momento in cui ci viene data come immagine e nel momento in cui ci viene data come poesia. Nel senso che la fruiamo in modo diverso se quell’immagine è statica fissa ferma o se quell’immagine invece è in movimento. Se quell’immagine è chiusa nella spazialità che la blocca o se quell’immagine invcece si svolge in una temporalità che ci consente di superare il momento traumatico attraverso una consequenzialità di immagini. Il punto di partenza della critica di Lessing è costituita da una domanda fondamentale: Perché nel celebre gruppo marmoreo il Laocoonte non apre o perlomeno apre la bocca ma non la spalanca? Perché il dolore è espresso dal volto è fisiologicamente trattenuto in un espressione del dolore che non è eccessiva che non è estrema. Sebbene siamo di fronte a ciò che sarà la sua morte e quella dei figli. Non spalanca la bocca per gridare nonostante sia dilagnato dal dolore. Wincklmann aveva già tentato una risposta, ma non soddisfacende per Lessing. Per W il L non spalanca la bocca perché è stoico perché resiste al dolore perché non lo può manifestare nelle sua violenza per una questione di tipo morale sentimentale è legato alla sua stessa dignità. Se fosse così dovrebbe essere anche in Virgilio, in Virgilio è proprio il clamore che lo contraddistingue, lui grida il suo dolore. Ma è vero che un animo nobile non può gridare? Per W si per Lessing no, i greci gridavano li caratterizzava come uomini erano eroi e da eroi potevano permettersi di essere umani. Gli eroi veri, dice Lessing, non devono provare la loro eroicità. Quindi possono gridare. Quindi il Laocoonte può gridare. Ma allora perché quello scultoreo non grida, tace mentre quello di Virgilio grida. Perché le regole delle arti poetiche sono diverse da quelle delle arti figurative. Gli eroi di Omero “Per quanto omero elevi i suoi eroi al di sopra della natura umana, essi le rimangono sempre fedeli quando si tratta della sensazione del dolore e dell’offesa, dell’espressione di tale sensazione con grida o con lacrime, o con imprecazioni. Per le loro azioni sono esseri d’una specie superiore; per i loro sentimenti uomini veri”. La ragione per cui il Laocoonte di Virgilio possa gridare senza suscitare ripugnanza come invece avverrebbe a chi vedesse una bocca urlante raffigurante nel marmo, consiste nel fatto che le arti figurative sono arti spaziali quelle poetiche sono arti temporali. Pur avendo entrambe in comune il fatto di essere un linguaggio imitativo la poesia imita le azioni raccontandole nel loro susseguirsi nel tempo mentre le arti plastiche figurative possono imitare le rappresentazioni solo evocandole attraverso la rappresentazione del corpo 40 umano che le compie. Per questo che le arti plastico figurative potendo suggerire le azioni soltanto attraverso l’atteggiamento del corpo e dei corpi devono badare a scegliere il loro momento più significativo e pregnante. Si tratta appunto dell’ISTANTE PREGNANTE. Lessing afferma: Lo storicismo “Lo storicismo è anti teatrale, e la nostra compassione è sempre commisurata alla sofferenza che l’oggetto del nostro interesse esprime. Se lo si vede sopportare con magnanimità la sua pena, questa grandezza d’animo susciterà certo la nostra ammirazione, ma l’ammirazione è tuttavia un affetto freddo, la cui inerte meraviglia esclude ogni altra più calda passione, e anche ogni altra chiara rappresentazione.” A teatro dove le immagine si svolgono nel tempo così come in poesia, dove ancora le immagini si svolgono nel tempo e non in pittura dove invece si svolgono nello spazio. L’eroe deve scendere alla nostra misura per scendere alla nostra compassione. Noi abbiamo bisogno di empatizzare. Se l’eroe fa cose che noi non possiamo fare lo ammiriamo ma non soffriamo. Quello che ricerca l’artista di suscitare proprio questo piacere doloroso. Se lo vuole fare deve passare attraverso un anti storicismo. Lessing conclusione: “Vengo dunque alla mia conclusione. Se è vero che il gridare provando un dolore fisico, in particolare secondo l’antica mentalità greca, può conciliarsi con la grandezza d’animo, allora l’espressione di un tale animo non sarà il motivo per cui l’artista nonostante ciò ha voluto imitare nel marmo questo gridare. Ci deve essere un’altra ragione che lo induce a scostarsi dal suo rivale, il poeta, il quale esprime a bella posta queste urla.” Qual è il motivo allora, il motivo è che nelle arti plastico figurative si possono suggerire le azione solo attraverso l’atteggiamento dei corpi e allora tali atteggiamenti devono essere scelti con cura, devono essere scartati gli estremi, ciò deve essere scartata l’inizio e la fine dell’azione. La rappresentazione scultorea deve limitare al massimo la presenza del brutto e del racapricciante che se sono rappresentati così come tali alla vista non possono che suscitare una sensazione solo spiacevole. Non misto. Siamo di fronte a qualcosa che è profondamente spiacevole. La bocca. “La sola ambia apertura della bocca – senza tener conto di come anche le altre parti del volto vengono in tal modo stravolte e contratte violentamene e disgustosamente – nella pittura è una macchia e nella scultura un incavo che fa l’effetto più sgradevole del mondo.” Ogni arte può rappresentare il brutto la pena l’orrore a suo modo e deve conoscere i limiti della rappresentazione. Goethe dice che un attimo prima o dopo quella rappresentazione sarebbe stata sbagliata. Lessing fa notare che se il volto fosse stato più deformato allora tutto il corpo sarebbe stato diverso. Il Laocoonte rappresenta l’emblema della scelta, l’istante pregnante che l’artista ha individuato in maniera eccelsa. Poesia Scrittura Pittura La Poesia è un’azione visibile progressiva, le cui diverse parti seguono una dopo l’altra nel tempo. La scultura è un’azione visibile statica le cui diverse parti si dispiegano l’una accanto all’altra nello spazio. Istante pregnante. La pittura, nelle sue composizioni coesistenti, può utilizzare solo un singolo momento dell’azione, e deve perciò scegliere il più PREGNANTE, sulla base del quale quel che lo precede e quel che lo segue si rendono più comprensibili. Lavoro che si invita a fare all’immaginazione del fruitore. Andare oltre quel dolore, senza ritrarsi. C’è un modo per trasmettere il dolore e deve essere calibrato. Disgusto. Scrive Lessing. “Le rappresentazioni del timore delle tristezza del terrore della compassione.. possono suscitare dispiacere solo quando riteniamo tale male reale. Queste però possono venire risolte in sentimenti piacevoli ricordando che si tratta di un inganno artistico. In virtù della legge dell’immaginazione però, il sentimento sgradevole del disgusto segue alla semplice rappresentazione nell’anima, sia o meno l’oggetto del reale. Perciò a cosa serve all0animo offeso se l’arte tradisce molto la sua imitazione? Il suo dispiacere non scaturiva dal presupposto che il male sia vero, ma dalla sua mera rappresentazione, e questa esiste veramente. I sentimenti di disgusto sono dunque comunque natura, e mai imitazione.” Cosa significa disgusto? Significa provare un sentimento estremamente forte e fisiologico, è una reazione fisiologica. Se l’orrore e il terrore trovano una loro esposizione nelle arti e forse nelle arti vengono risolti rispetto alla realtà. Risolte con le teoria che dicevamo prima. Questo elemento di piacere e di straniamento rispetto al 41 dolore reale non lo abbiamo di fronte al disgusto. Il disgusto che sia reale o meno produce nell’individuo una contro reazione che non ha nulla di piacevole. Non importa se l’oggetto che abbiamo di fronte sia reale o meno, c’è un effetto di contagio che non può essere soppresso. Il disgusto va dosato va messo a piccole dosi. Perché il disgusto è legato all’aspetto fisiologico della nostra fruizione perché ci sono Sensi oscuri “i sensi oscuri il gusto, l’odorato, il tatto, quando vengono in contatto con qualcosa di ripugnante non possono contemporaneamente percepire tali realtà, di conseguenza il ripugnante agisce da solo con tutta la sua potenze, e non può essere accompagnato nel corpo che da una convulsione ancor più violenta.” (Sensi contemplativi vista udito). Del disgusto non ci si libera colpisce i sensi oscuri è qualcosa che penetra nell’organismo e che agisce attraverso contagio per questo è più forte ma anche meno convincente all0interno di un’arte dolorosa. Nell’arte dolorosa va dosato. A tal punto che dev’essere il minore possibile. Il disgusto entra nel nostro animo. Immagini risurrezioni di Lazzaro. Si narra che lui quando risorse puzzava. Cosa accade, alcuni si soffiano il naso aspetto deleterio perché ci induce a pensare che quel corpo è in putrefazione e quindi invece di esaltare quell’attimo così meraviglioso nella sua spiritualità quell’elemento miracoloso ci porta a un brutale essenza terrena che ci disgusta e non ci lascia apprezzare quell’attimo. Giotto Resurrezione di Lazzaro. Aelbert van Ouwater La resurrezione di Lazzaro. Sebastiano del Piombo Resurrezione di Lazzaro. Michelangelo Carducci la resurrezione di Lazzaro. Caravaggio Resurrezione di Lazzaro. Qui in Caravaggio nessuno si tura il naso, anzi abbiamo Marta e Maria che abbracciano quel corpo che ha subito le ingiurie della putrefazione che l’amore supera perché solo l’amore può superare il disgusto. Qui le sorelle ci rendono il corpo amabile. Il veicolo di superamento del disgusto è proprio l’amore la pietà la compassione, attraverso esse noi possiamo provare a superare ogni forma di disgusto. LEZ: 13 LA SIMPATIA -Venerdì 1 giugno va in onda "The big donor show" in Olanda, spettacolo presentato come un reality durante il quale una donna, malata terminale, dovrebbe scegliere tra 3 candidati in lista per il trapianto. Deve scegliere a chi donare i suoi reni, la scelta è basata sulla simpatia che uno dei candidati susciterà nella donna. Gli spettatori da casa sono invitati a mandare messaggi in diretta con consigli sulla persona da scegliere, e i candidati vengono presentati con un livello di suggestione elevata; viene ricostruita la vita tramite clips, e i personaggi così vengono presentati come costruiti in modo melodrammatico. Lo scopo della trasmissione nell'ultima puntata viene dato come un finto reality, la donna è un'attrice e non malata; si vuole denunciare la carenza di donatori di organi.. Tuttavia, cosa accade? Accade che nel promuovere la trasmissione viene detto che essa darà vertici di intensità nel guardare il dolore altrui. Vertici, considerati illeciti che apriranno un dibattito sulla liceità di un programma del genere ; la sua resa melodrammatica è un estremo. Vi è un oscillare esplicito tra realtà e finzione, è un ancorarci alla realtà dove il sentimento del dolore altrui si fa più forte. 42 spettatore in questi caso cresce. Queste emozioni miste non sono mai stravaganti, ma presentano questa mescolanza di positività e negatività. Se la compassione è soggettiva, al contrario si può empatizzare nei confronti di chi non merita; inoltre le disgrazie gravi per il senso comune giocano con profitto tanto nel dramma quanto nel melodramma e, allora, è proprio nel patetico la possibilità di condivisione di tale risposta emotiva nella sventura. Insomma, le emozioni negative hanno impatto su di noi, e ciò spiega perché le cerchiamo. Le nostre esperienze reali di contenuti negativi e le nostre esperienze di finzione possono essere differenti, perché ci sono valenze che dipendono da elementi diversi, come la consapevolezza della loro non attualità o intenzione artistica. Il cuore dell'uomo può essere grande, e non è la compassione a essere ragionevole ma il giudizio che la regge. LEZ: 14 GENIO E CREAZIONE ARTISTICA Siamo al capitolo secondo del manuale lineamenti di estetica. Oggi introduzione del manuale. Quando si parla di creatività bisogna tener conto che abbiamo a che fare con un'espressione polisemica che cambia significato nel corso dei secoli, e che per quasi un millennio non appare né in filosofia, né in teologia e neppure nell’arte Europea. Per orientarci in questo scenario dobbiamo definire dei modelli di creazione: innanzitutto possiamo distinguere con lo storico dell’Estetica Tarakeviz, tra creazione divina e creazione umana. Nel secondo caso, in maniera più specifica, una creazione esclusivamente artistica per distinguerla da altri tipi di creazione che hanno luogo in altri ambiti (come quello scientifico). Partiamo da 4 domande che nella loro semplicità meritano di indirizzare l'attenzione sulle molteplici polarità in gioco nel nostro percorso. → Queste domande sono: chi crea? Che cosa viene creato? In nome di chi si crea? Per chi si crea? Entriamo nella questione e pensiamo a 2 vie attraverso cui filosofia e religione hanno concepito la creazione del mondo: 1) In filosofia pensiamo a Platone e al suo dialogo "Timèo". In questo discorso cosmologico di Platone vi sono 2 enti che già esistono prima dell'atto di creazione; da una parte il Demiurgo (artefice) e dall'altro la Chora (la materia). Seguendo le 4 domande possiamo dire che chi crea è il demiurgo che dà origine al cosmo partendo dalla contemplazione delle idee eterne che, in quanto eterne, precedono l'atto creativo. Il demiurgo crea in nome delle idee, esistono delle idee antecedenti la creazione e la creazione si fonda proprio sul modello ideale. Il demiurgo crea il cosmo a partire dal modello ideale. Il termine cosmo deriva dal greco "cosmos" che significa ordine; il demiurgo dà ordine alla materia imitando il modello ideale. 45 2) Un altro modello di creazione è quello biblico, in cui abbiamo una creazione "Ex Nihilo", quindi, una creazione a partire dal nulla; resa possibile dall'opera di Dio. Esiste Dio che crea il mondo e nulla esisteva prima del gesto di creazione. → Questi due modelli, pur nella loro differenza, esprimono un'idea di creazione attiva , colui che crea vuole farlo e sa cosa vuole creare. È chiaro che il chi della creazione interessa la creazione umana. Problema che trova le sue radici sin dall’antichita: Teognide di Mégara ad esempio dice che "vuole salvare in nome della vera sophia, ovvero la proprietà letteraria delle sue elegie, mettendovi una sfregis, un sigillo d'autore, “che le difenda dall'imperizia mimetica degli incompetenti e le rende riconoscibili in caso di plagio". L'attenzione vuole essere messa però sulla presenza divina nella creazione della poesia greca; già in omero dalla figura di Femio si assiste ad un intreccio tra figura divina ed umana. Dal nostro punto di vista ciò riguarda la questione della natura del creatore che si pone sulla soglia di queste 2 dimensioni: da una parte, esigenza quella di riconoscere nella creazione una cifra individuale, e dall'altro il fatto che questa stessa cifra individuale sembri dover trovare la propria giustificazione, fondazione in una fonte che le è estranea, sia essa ispirazione divina o talento innato. Abbiamo, quindi, una tensione tra individualità ed estraneità. → È importante sottolineare inoltre come ispirazione divina e talento innato possano essere distinte ponendo l'accento sulla differente temporalità che la caratterizza: L'ispirazione divina comporta un momentaneo stato di uscita da sé, una sorta di oblio della propria personalità per accedere ad una dimensione privilegiata. Il talento innato è una dote che contraddistingue ancora come un dono divino, ma si offre all'aedo come possesso permanente. -La spinta divina che anima la creazione la si ritrova nell’immagine emblematica della poesia che si ritrova nell'opera di Platone "Ione" (opera giovanile), nella Repubblica condanna dell’arte, tecne, mimetica come copia di copia, nel caso dello Ione, invece, abbiamo la caratterizzazione della poesia, e non dell'arte, poesia cantata dall’aedo come un'interpretazione dell'interpretazione, animata da un entusiasmo. Interpretazione ispirata dal Dio. Se dunque, nel caso di copia di copia ogni passo mimetico della catena comporta una degradazione, in quello dell’interpretazione vediamo espressa l'idea di una trasmissione di un potere che si propaga da una fonte che sta all’origine origine; fonte rappresentata qui, dalla celebre immagine della pietra di Eraclea, che viene introdotta nel dialogo da Socrate, quest’ultimo dice al Rapsodo Ione, che non è una tecnica che lo muove: 46 Consideriamo l'esempio della Magnete o, Eraclea, la quale non solo attrae gli anelli di ferro ma infonde in essi anche un potere tale, per cui possono anche essi attrarre altri anelli. Secondo questa interpretazione, il poeta epico è tale non per tecnica, ma perché ispirato e posseduto dalla divinità (potere divino); è l'ispirazione della musa che dà potere al poeta, come la pietra lo infonde agli anelli che ne sono attratti. Il poeta deve essere fuori di senno, posseduto della mania di cui Socrate parla nel "Fedro", che rende la sua poesia incomparabilmente migliore dalla poesia di chi, invece, è assennato, perché senza la mania il poeta sarebbe un poeta mancato. Troviamo, qui, il tema dell'uscita di sé : da questo punto di vista ai poeti non serve la tecnica, perché non si può dire che essi rappresentino il chi della creazione; essi possono poetare solamente in quanto diventano servitori, non sono più se stessi. Sempre nello "Ione" leggiamo che non sono i poeti a dire cose pregevoli, è la divinità che parla tramite il poeta, il quale diventa strumento del Dio; è un interprete passivo quindi. Tanto che il dio, per evidenziare di essere la sola mano dell’opera può divertirsi a comporre il canto più bello, per mezzo del poeta maggiore. Nel dialogo stesso si riconosce la divinità, come il chi della creazione, e il poeta è solo un tramite. Riassumendo: secondo esempio del magnete, rapsodo solo un anello della catena, la musa trasmette il proprio potere attraverso gli anelli, lo trasmette al poeta, al cantore che ne trasmette l’opera ed infine a colui che ascolta che ne riceve l’effetto finale. → Riferirci invece ad Aristotele per la nozione di creatività ci concede di confrontarci con le sue radici umane; proprio perché è legata all’immaginazione, in quanto facoltà rappresentativa che dipende dalle sensazioni, si tratta pertanto di un potere radicato nella dimensione estetica < Aesteis, sensibilità, sensazione. Più in particolare è la concezione di arte che nella filosofia di Aristotele acquista un accento poietico, creativo; con lui l'imitazione diventa una facoltà che si offre all'uomo come uno strumento di conoscienza che dà piacere proprio nella misura in cui ci permette di imparare. Piacere connesso alla dimensione euristica, di scoperta. Qui, imitando scopriamo, e la tecnica artistica viene liberata da compiti servili per scoprire potenzialità conoscitive che le sono proprie; non è sufficiente allora essere in preda alla mania per creare, ma si deve sviluppare una tecnica deve quindi accompagnare, anche servendoci dell’immaginazione, quell'istinto connaturato all’uomo che è l’imitazione. Non è la musa a rappresentare il chi della creazione, ma l’uomo: L'uomo non è più un tramite passivo, e inoltre qui la mimesis non è creativa, perché non mira a rispecchiare la realtà, ma a sondare le possibilità del verosimile; vuole allargare i confini della realtà, indaga ciò che potrebbe accadere ed è interessata all'universale. Per questo motivo Aristotele considera la poesia più importante della storia, la quale imita ciò che è già accaduto, con il mero fatto, con il particolare. Emerge così una caratterizzazione della creazione artistica in quanto imitazione creatrice, che possiamo dire che andrà ad innervare anche tutta la riflessione 700entesca. SECOLO DEI LUMI -Nel secolo dei lumi la riflessione sull'artista come interprete giunge ad un punto di sviluppo decisivo: qui assume importanza il rapporto fra uomo e natura. → Il genio è, colui che a partire da un confronto con la natura, natura di cui egli stesso è parte, illumina nuove porzioni di mondo. Il genio stesso è natura e la forza che lo spinge non è puramente individuale. Possiamo dire che la visione dell'interprete è qui impersonale, ma eppure originale (paradosso diderotiano); qui, la visione di interprete condivide alcuni tratti con la funzione imitatrice Aristotelica, per esempio da una 47 estetica è una rappresentazione della forza di immaginazione che non troverà mai un concetto determinante che la possa sussumere. Notiamo come la potente forza dell’immaginazione sia in grado di allargare i confini concettuali, che pensavamo potessero bastare per poter esprimere una determinata nozione. L'idea estetica ci costringe a forzare i margini del concetto e qui immaginazione è qui una facoltà creativa, non meramente riproduttiva. Esempio semplice: ~ Si può avere un concetto dell'amore? Può essere che una poesia ne renda i confini della definizione insufficienti costringendoci a pensare possibilità ulteriori, che cedono, vanno al di là di quello che pensavamo potesse definirli; in poche parole l'arte quindi tramite le idee estetiche ci porta a pensare più di quanto si lasci comprendere in un concetto e di conseguenza più di quanto si lasci comprendere in una espressione linguistica determinata. 800 → Seguendo il percorso del manuale questi temi alimenteranno anche la riflessione del romanticismo sul genio. Come dice Paolo d’Angelo, quando il discorso verte sul genio a discapito di quanto si potrebbe credere, non sarebbe del tutto corretto presentare il passaggio dal 700 al romanticismo come una frattura. Ciò detto, nell'800 vedremo comunque un distacco nel rapporto tra genio e gusto.. Ma, in che senso? Il secolo dei lumi vedeva il gusto prevalere sul genio, il gusto aveva una posizione di primo ordine, dominante rispetto al genio; nell'800 invece tra questi due principi ci sono differenze, ma sono di grado, non qualitative che portano al risultato di prevalenza del genio sul gusto. La differenza rimane di grado e non qualitativa perché il genio arriva a porre in dubbio l'autonomia del gustonell'800 non si dà gusto senza genio e il gusto sembra perdere la propria identità, mutando qualitativamente in genio. Il gusto si fa genio e il genio arriva a pervadere questo rapporto. In questo movimento come sottolinea Paolo d’Angelo si tratta di capire se si debba pensare Genio come qualcosa che riassorbe completamente il gusto oppure considerare il gusto come tale da essere già sempre genio. Comunque si scelga di rapportarsi a questa alternativa, si tratta comunque di due facce di una stessa medaglia che vedrebbe la predominanza del genio: il primo di questi due casi, si rispecchierebbe nell’idea che la forza del genio con la sua potenza attrattiva sarebbe in grado di trascinare l’uomo comune e quindi il genio assume qui quasi il ruolo della pietra di Eraclea, nel secondo caso che è comunque altra faccia della stessa medaglia, si tratta sempre di giustificare la predominanza del genio sul gusto, il secondo caso, quindi, corrisponde alla posizione che dal fatto che tutti possano in maniera maggiore o minore apprezzare un’opera d’arte deduce tutti in maniera maggiore o minore abbiano una quantità di genio e che tutti quindi in maniera maggiore o minore debbano in qualche modo essere artisti. 900 → Sguardo al 900: Qui troviamo una riflessione sullo statuto delle idee coinvolte nella creazione; quali sono queste idee? Le idee che vengono espresse tramite le opere d'arte, sono preesistenti alle opere stesse? La creazione porta sempre con sé la novità? Queste sono riflessioni aperte. 1) Ci riferiamo al saggio di Henri Bergson dedicato al Movimento retrogrado del vero; qui, l'idea della preesistenza di un'opera d'arte alla sua realizzazione che la pone in essere è il risultato di un'illusione. Secondo Bergson solo per ingenua abitudine connaturata all'essenza dell'intelletto stesso, che noi crediamo che ogni nostra scoperta esistesse già come possibilità. Cerchiamo di chiarire meglio queste astrazioni: se dovessimo che una melodia di un musicista preesiste al gesto che la scopre, al gesto che la disvela, ci troveremmo per Bergson in una sorta di superstizione. Per esempio una volta nata la V sinfonia di Beethoven, potremmo secondo questa logica di 50 retrospezione, proiettarla nel passato e dire che visto che è nata doveva in qualche modo esistere in forma di possibilità prima che venisse scoperta. Bergson critica l'idea di una preesistenza dell'opera rispetto al gesto che la disvela , e la riconduce ad un vizio connaturato del nostro intelletto che tenderebbe sempre a proiettare in un passato le verità acquisite nel presente. Questo può avere conseguenze per quanto riguarda un rovesciamento del rapporto tra idea e materia. Per esempio, Dino Formaggio (autore estetico italiano) ripensa alla nozione di possibile capovolgendo il suo rapporto con il reale...Cosa significa? Nei ritratti di pittori che Formaggio crea (nei testi dedicati a Van Gogh, Goya ad esempio), in questi testi l'autore ci parla di un genio che è corpo, che nasce dal basso e che per cercare la luce non alza gli occhi verso le idee intellegibili del sole platonico, ma le insegue lavorando per tutta la vita proprio a partire dalla matericità del colore. Non sono le idee astratte che modulano la materia, ma è proprio tramite la materia che si rendono visibili nuove idee, che non esistevano prima dell'atto creativo. 2) Anche l'autore Hand-Georg Gadamer insiste sul fatto che il riconoscimento in arte è sempre di tipo creativo; il riconoscimento di un’idea artistica nasce da un processo in cui non viene conosciuto di nuovo qualcosa che già si conosceva, non viene riconosce qualcosa che già esisteva e si doveva riportare alla luce, ma vi è un riconoscimento in cui si riconosce di più di ciò che si conosceva . È un riconoscimento che dà quindi piacere, in quanto riconoscimento creativo e conoscitivo. Aspetto che riecheggia con la funzione conoscitiva della mimesis di cui abbiamo parlato con Aristotele. 3) Altro autore da citare è Gilles Deleuze, facendo riferimento al modo in cui recupera la filosofia di Bergson per parlare dell'atto creativo nei termini di un rapporto tra virtuale e attuale; a questa coppia oppone possibile e reale. Pensare, per Deleuze, l'idea dell'opera già preesista equivarrebbe pensare in termini di possibile e reale. Esisteva la possibilità dell’opera già definita e l’artista è colui che ha dato forma a questa realtà. Pensando in questo modo, non c'è differenza fra possibile e reale, per Deleuze; solo l'attributo dell’esistenza li distingue, ma essa appartiene solo al secondo il reale, ma fa difetto al primo, il possibile. Per esempio la gioconda dipinta equivarrebbe alla Gioconda possibile, con l’unica differenza che la Gioconda dipinta si è realizzata e la seconda, invece, non detiene l’attributo dell’esistenza. Ma dal punto di vista concettuale le due sarebbero identiche. Proprio rileggendo Bergson, Deleuze attraverso la nozione di virtuale, alcune feconde indicazioni per definire in che senso specifico si possa parlare di preesistenza dell’opera d’arte rispetto alla sua realizzazione. Nel libro che Deluse dedica al Bergsonismo, distingue la ozione di virtuale da quella di possibile: se nella coppia possibile reale, il possibile somiglia al reale, cui unica differenza è esistenza, il virtuale al contrario non deve realizzarsi, ma attualizzarsi, diversamente dal possibile, il virtuale non si realizza semplicemente, ma si attualizza. Attualizzazione: distinta dalla realizzazione in questo contesto. Deleuze vuole insistere sul fatto che nella coppia virtuale-attuale entri in gioco la differenza. L'attualizzazione non si compie secondo il principio della somiglianza che domina il passaggio dal possibile al reale, bensì secondo quello della differenza, della divergenza, della creazione; questo passaggio si fa attraverso una creazione. Il virtuale per attualizzarsi deve cambiare, e divenire altro diverso da ciò che era. Da questo punto di vista, quindi, l’opera d'arte quindi, qui, esiste in una condizione virtuale che per attualizzarsi deve differenziarsi, e per farlo deve essere creata e non semplicemente realizzata. ES: La Gioconda dipinta non sarebbe la mera realizzazione della Gioconda possibile, ma l’attualizzazione che avviene per differenza di una virtualità. Da questo punto di vista non possiamo pensare che l’esatta forma dell’opera pre-esistesse alla sua scoperta, perché asserirlo equivarrebbe entrare in quel meccanismo in cui staremmo proiettando l’ombra dell’prodotto artistico finale all’origine del processo che gli ha dato vita, processo che secondo la coppia 51 virtuale -attuale non è la mera realizzazione di un’idea, ma la creazione di un’idea, anche proprio a partire dal rapporto con il sensibile, la materia, come abbiamo visto in precedenza con Dino Formaggio. LEZ: 15 MIMESI L’arte riproduce il mondo o crea qualcosa di nuovo? La categoria di mimesi vada in una direzione che ci porta ad intrecciarla in modo estremamente stetto con espressione Che cos’è la mimesi? Mimesi= è una parola che viene dal greco mimesis= significa imitazione, ma perché è così importante l’imitazione per l’estetica? Se consideriamo la sfera dell’arte è importante perché a che fare con la domanda: l’arte riproduce il mondo che ci circonda? O produce un qualcosa di nuovo? Personaggio di Pigmalione, perché quando la prof nella scorsa lezione ha parato del capolavoro sconosciuto d Basak, c’è personaggio Frenofer che si richiama a Pigmalione. Quando Fenofer crea questa donna, riproduce a quanto successo a Pigmalione. Secondo il mito P. crea una scultura così bella che se ne innamora e chiede agli dei che la rendano viva e questo succederà la scultura diventerà viva e Pigmalione e la scultura si ameranno. Cosa sul fondo di questa storia? Tema: l’immagine nella sua differenza dalla realtà e somiglianza della realtà. Fino a che punto l’immagine può assomigliare a qualcosa di vivo e fino a che punto se ne distacca. Problema della mimesi va al di là della concezione dell’arte. Altre domande: Quanto di quello che impariamo o conosciamo del mondo è un riprodurre quello che c’è già? E quanto di quello che imitiamo è un produrre qualcosa di nuovo? Per affrontare queste domande il manuale parte una immagine che abbiamo ritrovato. L’immagine dello specchio. Lo specchio riproduce la realtà che ci circonda. È presente in modo chiave nel libro di Platone nel 10 libro della repubblica; Platone scrive: 52 alle proprie creazioni, siamo agli antipodi di Pigmalione. L’arte si dice in un altro autore medievale, è un mendicante che può solo mendicare la forza creativa di Dio. Arte nel Medioevo spesso si distacca, quindi, dall’imitazione speculare della natura. L’arte diventa arte anti-naturalistica perché non bisogna guardare al mondo della natura, che è qualcosa che ci può sviare, traviare rispetto alla contemplazione di dio, bisogna guardare oltre l’aspetto naturalistico. Di qui, arte antinaturalistica. Nel rinascimento, 1400, un’invenzione fondamentale, la prospettiva, permette di rappresentare le cose come sono nello spazio, o almeno cos’ si ritiene. Permette di rappresentare la natura in modo scientifico. Artista valore pari a quello dello scienziato. Valore importantissimo assume l’osservazione della realtà. Ritorno all’imitazione speculare della realtà. Questa imitazione non è un’imitazione soltanto della natura, ma anche di un modello che per l’uomo rinascimentale è stato eccelso nell’imitazione della natura ovvero del modello greco. Idea di un’armonia esprimibile anche in termini matematici (prospettiva <termini matematici). L’armonia che deve essere rispecchiata dall’artista, ritorna l’idea dello specchio, soprattutto in Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci. Arte come qualcosa che imita l’armonia della natura. Artista deve rappresentare qualcosa che c’è già, un’armonia che c’è già all’interno della natura. L’artista quindi, non è libero, ma vincolato a riprodurre qualcosa che c’è già e che deve riprodurre. Quando smette di essere così? Momento della storia dell’arte in cui quest’idea della natura si incrina, cosa che avviene verso la fine del 500 e inizio 600. Perché? Avvengono cambiamenti proprio nel modo in cui si vede il cosmo, l’universo, ci sono scoperte scientifiche che mostrano l’uomo di quet’epoca che l’universo è infinito, che il sole non ruota intorno alla terra, ma è il contrario, quindi, i sensi ingannano conseguenza che fa entrare in crisi la possibilità di imitare attraverso la percezione del mondo sensibile l’universo. Tutto questo crea una sensazione di disorientamento, di meraviglia, ma anche di angoscia. Idea di imitazione inizia a vacillare, ma fino ad un certo punto, perché se si scopre la capacità della natura di infinita trasformazione, l’artista individua nel proprio compito quella di imitare questa infinta capacità di trasformazione della natura, di sorpresa. L’ingegno umano, inventività dell’artista deve rispondere a questa infinita inventività della natura. C’è sempre imitazione del cosmo. Sfondamento dei confini. Questo farsi infinito dell’universo. Allora quando l’uomo smette di imitare il cosmo così com’è o come pensa che sia? Sicuramente nel 700, c’è un farsi autonoma dell’arte e della sfera della sensibilità in genere. (vd. lez mimesi precedente). arte come mimesi che si intreccia all’arte come espressione. Nel 700 arte non solo più imitazione, ma emerge e viene portata a consapevolezza rispetto alla riflessione filosofica dell’arte la categoria di espressione. Con Batteux, belle arti riportate al principio di mimesi, e Diderot, la bellezza come percezione di rapporti. Sfera della finzione acquisisce un valore a sé rispetto alla realtà così com’è. Nell’800 tutto questo si accentua. Nell’800 l’artista come genio non è più sottoposto al gusto degli spettatori, si emancipa dalla regola del gusto. Quindi, il genio diventa creatore. Possiamo immaginare già che conseguenze questo ha su arte come imitazione, c’è una critica dell’arte al principio della semplice imitazione, della natura l’artista deve riprodurre lo slancio creativo. Per i romantici la natura è una grandissima potenza creativa e l’uomo ce l’ha anche in sé e la deve riprodurre . Questo si vede anche in filosofia per Hegel “l’arte è il farsi sensibile dell’idea”, l’artista non deve imitare il bello naturale, ma il bello dell’arte è un prendere forma sensibile da parte dello spirito, dell’idea. Cit arte pg.14 del libro. C’è un declino dell’idea di imitazione anche se nell’800, ci sono anche alcune correnti in cui l’idea dell’imitazione della natua è centrale, realismo e naturalismo, si pensi a Zolà, che ritiene che la letteratura debba descrivere la realtà come fa la scienza, la letteratura deve essere impersonale. Zolà ucciso per le sue idee politiche. Zolà quello che si è riproposto è rappresentare le condizioni disperate della popolazione nel 55 periodo della riv industriale. Quindi, non possiamo dire che la sua rappresentazione della realtà sia neutrale, c’è un filtro. Come anche nelle scienze la realtà viene organizzata, filtrata. Lukàcs (lakukacch), sostiene che l’arte deve essere imitazione della realtà. Anni 60 del 900, dove scrive la sua opera Estetica 1963. Pensiero che va contro la corrente più in voga nel 900. Perché Lukacs dice che l’arte deve essere imitazione della realtà? Perché vuole discostarsi dal pensiero di arte come fuga dalla realtà. Come auto appagamento in una sfera di sogno e disimpegno, l’arte invece deve saper cogliere i tratti essenziali di un’epoca. Come fa a farlo? Non deve per forza riprodurre la realtà così com’è, deve però riprodurre dei particolari in grado di rispecchiare i tratti dell’epoca in cui viene fatta. Da qui nasce il concetto di tipico in Luckacs, il Tipico è qualcosa in cui il particolare inventato dell’opera d’arte e il senso universale dell’epoca intera si incontrano. Incontro tra particolare e universale lascia spazio al dubbio.  somigliante, ma a chi? Quando vediamo questi quadri spesso abbiamo questa impressione di somiglianza.  Benjamin, parlerà di “somiglianze materiali”, questo prodursi di una somiglianza che, però, non ha a che fare con una riproduzione di quello che già è. A proposito di riproduzione, Novecento, riproduzione quasi fotografica della realtà, nell’Iper realismo, abbiamo un’impressione spaesante, in cui non capiamo se è un quadro o una fotografia, una scultura o una persona vera. Anche la riproduzione fotografica della realtà può generare spaesamento. Ma il Novecento, comunque corrisponde al prevalere ad una tendenza che va in direzione opposta rispetto alla riproduzione della realtà. Sul piano del teatro, Artaud, riflette su come il teatro può portare lo spettatore in credere in quello che si rappresenta. A non vederlo come un quadro finto, ma a illudersi, a credere davvero a quello che viene rappresentato. Negli anni in cui Artaud scrive, il teatro viene dal prevalere da un teatro naturalista, Artaud prova a ripensare al teatro, al darsi dell’illusione teatrale al di là della categoria della verosimiglianza, si richiama alla forza comunicativa, all’inquietudine dell’azione. Artaud parla di fare danzare l’anatomia. Vd. disegno, Anatomia. Rappresentazione di un’anatomia che non è quella già precostituita, è un’anatomia in fieri. Parla di una cultura in azione che diventa in noi come nuovo organo. Quindi, cos’è che si deve fare in questo porre l’accento sulla imitazione della realtà come qualcosa che è in fieri. C’è in gioco in questo la possibilità di riavvicinare la cultura e la vita. La cultura come serie di immagini statiche morte, sclerotizzate e la vita come processo del farsi queste immagini. Lo stesso vale per i ritratti. C’è proprio questa ricerca di mostrare l’immagine nel suo movimento, nel suo farsi. Questa vita che l’arte deve incontrare nel mettere in causa ogni risultato statico nell’imitare la realtà, è una vita molto concreto, aha a che fare con l’umanità. Questo, permetterà, di evitare qualcosa che avviene quando facciamo un ritratto o un autoritratto. 56 Anche l’arte astratta del 900, parte comunque dall’osservazione della natura, riferimento alla natura che è fuori. Uno degli esempi più famoso è quello degli alberi di Mondrian. Che parte dall’osservare un albero, qui, riprodotto ancora in modo riconoscibile e pian piano questo albero diventa sempre più astratto, fino a portare all’astrazione vera e propria. Un altro esempio, è quello delle Damoiselle d’Avignon, che sono 5 prostitute che Picasso rappresenta e il cubismo nasce proprio non da un abbandono della realtà esterna, ma dalla possibilità di osservare la realtà esterna simultaneamente da diversi punti di vista. Quindi questo riferimento alla realtà esterna come qualcosa che il pittore imita, è qualcosa di cui difficilmente ci liberiamo. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito 1961, autore molto impo per capire la trasformazione che l’idea di mimesi subisce nel ‘900. Torna l’immagine dello specchio e l’immagine dei coniugi Arnolfini. Lo specchio ci permette di vedere una parte di realtà che altrimenti non vedremmo. Quindi, lo specchio è lo strumento di una magia universale (…). Quante cose può fare uno specchio che non ha a che fare con restituire un qualcosa che c’è già. Su questo Merlau si concentra per spiegare come lo specchio abbia a che fare con lo sguardo con l’altro, come un processo del vedere in cui siamo in qualche modo immersi e che è qualcosa che ci costituisce, non che noi costituiamo, ma che a sua volta ci costituisce. Lo specchio incarna lo sguardo dell’altro che permette di vedere ciò che altrimenti resterebbe estraneo allo sguardo. Ciò che lo specchio rimanda, non è dunque il visibile, ma l’invisibile. Tema molto forte in molte parti dell’estetica del 900. Perché imitare per molti artisti del 900, tra cui Cezanne a cui Ponty si dedica in questo testo, è un fare emergere degli aspetti della realtà che non sono visibili nella visione immediata che possiamo avere in un determinato momento. C’è un aspetto della visione che ha a che fare con un processo di visione di aspetti della realtà che è più ampio . Ecco perché i pittori vanno raffigurando se stessi nell’atto di dipingere, quasi a testimoniare che esiste una visione totale e assoluta al di fuori della quale niente rimane. Che cos’è questa visione totale? Che emerge quando il pittore si dipinge mentre dipinge, farsi della visione della realtà che non ha fine, ha il suo nesso con lo sguardo dell’altro. Cosa che emergerà in guardare chi guarda. Lo sguardo dell’altro. Lo specchio e la possibilità di vedere quello che in un determinato momento non riusciamo a vedere. Che vale anche in senso temporale. La pittura confonde tutte le nostre categorie: essenza ed esistenza, immaginario e reale, confonde o forse fa incontrare, porta uno scambio continuo tra queste categorie. Poi manuale si sofferma su una serie di opere in cui il tema dello specchio assume ruolo di critica a d una concezione ingenua dell’imitazione. Maigritte, La reproduton interdite, specchio non restituisce il volto del personaggio, gioco concettuale che mette in causa la nostra presunzione di avere accesso immediato alla realtà. La nostra visione non è qualcosa di immediato, lo specchio non può essere usato per pensare in questo modo. 57 in grado di nominarlo o rompe il clischè, quindi il Kitsch, rompe ciò che lo spettatore si aspetta di incontrare e vedere. Cosa che si trova nelle telenovelas, luogo del kitsch in assoluto, la loro espressione massima. Ora siamo un po’ più sofisticati, però, tipo programmi dove all’interno del Kitsch introducono l’ironia distruggendolo. Il Kitsch non è mai ironico, è una rappresentazione di uno stato che riconosciamo come nostro. NB: il KITSCH è DISTRUTTO dall’IRONIA  usa la risata esacerbante, subdola, amara, acida sul Clishé, fa riflettere e distrugge il mondo incantato che il Kitsh crea. Kitsh ha un DEBITO con il ROMATICISMO nelle sue derive  fornisce moltissimi spunti al Kitsh, il quale pesca le sue forme, più estreme e sentimentalisti (non quelle più sublimi). Pag. 141 “il romanticismo è un buon affare”, perché il romanticismo nelle sue derive della seconda metà dell’800, fornisce al Kitsch moltissimi spunti. Il Kitsch pesca dal romanticismo le sue forme più basse, più estreme, sentimentalismo, il sentimento portato all’estremo, che deriva dal sublime patetico proprio del melodrammatico e che viene sviluppata in modo anche in questo caso estremo. Quindi, che cos’è il Kitsch? Quanto entra nella nostra quotidianità? Quanto siamo vicini a questa categoria estetica? Anche nel nostro modo di atteggiarci, al nostro modo di porci? Quanto facciamo finta di non accorgerci di essere immersi nel Kitsch? E che il Kitsch è una parte integrante del nostro modo di vivere ed intregrarci? Prendiamo Petronio, 1979, riguardo alla Letteratura di Massa, esempio tipico del Kitsch “il critico letterario d’oggi, posto dinnanzi a fenomeni nuovi, costretto a prendere atto della loro esistenza lo fa, ma non riesce a inserirlo nel loro sistema di attese e giudizi.” La novità per la novità è difficile tanto per il fruitore normale, quanto per il critico che fatica ad orientarsi che fatica a comprendere un giudizio, ma d’altra parte, il critico come noi, una volta assaporato quello che l’arte alta ci dà, goduto dell’arte contemporanea, dove ci rifugiamo nel momento in cui vogliamo distrarci? “quei libri”, ci dice Petronio, “ci sono. La gente li legge e spesso li legge anche lui. Somigliano terribilmente a quegli altri che lui da sempre e non sapendo neanche perché chiama arte.” Il kitsch vive accanto alla letteratura, l’arte di massa vive accanto alla letteratura. Qual è in fin dei cont la vera differenza? “perché anche i libri dell’arte di massa, commuovono, divulgano una concezione del mondo etc, quei libri il critico può anche studiarli come sociologia della natura”, quindi mandarli in un luogo appartato dove può studiarli come evento sociologico, non come fenomeno letterario. “li tiene separati dagli altri”, negandogli lo statuto di arte vera. Negando loro la poesia, “però, altrettando senza spiegare mai cosa siano l’arte vera o la poesia”, facendo quindi fatica a dire che cosa è l’arte vera in confronto a ciò che essi rappresentano. “Che cos’ è l’arte vera? Ciò che ciascuno dice, ma che nessuno sa.” Rischio: ritenere il Kitsch semplicemente altro, ciò che racchiude ciò che altro non è. Fenomeno degno di interesse non del critico, non del filosofo, ma del sociologo, perché rappresentazione fugace del sociale e della società. Differenze fra arte e Kitsch, Froizer, non reggono. Quindi, abbiamo iniziato questa lezione dicendo che il Kitsch è costituita da elementi affini al melodrammatico (accumulazione, sinestesia, lirizzazione). Ma è vero che quest element non fanno parte della così detta arte alta? Assolutamente no. Sono tutti elementi che ricorrono a pieno titolo nell’arte alta. L’arte alta sfrutta e usa elementi Kitsch. Almodovar utilizza sapientemente il Kitsch nei propri film. Personaggio di Sabina nell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera si realizza proprio a contatto con il Kitsch. Kitsh condivide con la cultura alta moltissimi aspetti come accumulo etc,. 60 Scrive Grimberg: “l’alternativa a Picasso, non è Michelangelo, ma è il Kitsch”, questo è tipico degli anni in cui Picasso proponeva un’opera così alternativa, così fuori dagli schemi, dai cliché, rompeva il cliché, rompeva il kitsch, quindi se rompeva il cliché rompeva il Kitsch. Adesso ci siamo abituati a Picasso. Prima l’occhio aveva bisogno di un luogo di riposo da Picasso, aveva bisogno di ritrovarsi, di un’alternativa e questo era il Kitsch. Si cerca riparo dal senso di smarrimento dato dalle avanguardie che tendevano ad una rottura dal passato verso un’arte che avrebbero voluto creata dal nulla. Non c’era attenzione da parte delle avanguardie nei confronti del fruitore. Nel rapporto genio: gusto, prevalenza del genio sul gusto, il gusto non interveniva più in aiuto al genio per imbrigliarlo, dargli una direzione, una via, il genio era libero, in quanto libero e liberatore, capace di rompere il cliché. Arte che sembrava creata dal nulla a seguito della rivisitazione di possibilità pittoriche, poetiche musicali etc. il fruitore era completamente disorientato e così lo era anche il critico per certi versi, ma soprattutto il fruitore. Poetiche quelle dell’avanguardia che si opponevano ai cliché romantici, ai cliché del romanticismo che erano ambito da cui il Kitsch pescava. Si rifaceva a quella poetica, romantica, naturalistica. Nell’arte romantica naturalistica troviamo il Kitsch di cui l’uomo massa approvava il fine perché aveva bisogno di un riscontro, mimetico, patetico pacificante. Di qualcosa nel quale si potesse riconosce, nel quale non faticasse. Al contrario l’avanguardia rifiutava ogni rappresentazione mimetica. Nascono qui i manufatti. L’UTILITA’ DEL KITSH La novità per la novità è difficile sia per il fruitore normale che per il critco  fatica ad orientarsi nel nuovo e ad esprimere un giudizio Il fruitore una volta che ha goduto dell’arte alta, nel momento in cui si vuole distrarre, si rifugia nel Kitsh MA il Kitsh non rinchiude semplicemente ciò che non è “arte alta”  elementi caratteristici del Kitsh sopra citati sono anche presenti nell’ arte alta : l’ARTE ALTA USA il KITSH (presente del Kitsh anche nell’arte alta) Il Kitsh GRATIFICA Kitsh da RIPARO al SENSO di SMARRIMENTO: attenzione bisogni dei fruitori nel loro presente ESEMPIO  Grimberg = l’alternativa a Picasso non è Michelangelo MA il Kitsh  Picasso ROMPE il CLICHE’ e quindi il Kitsh (collocabile nel romaticismo-naturalismo) Le avanguardie, che si opponevano completamente ai clichè del romanticismo in cui il pubblico si rifugiava (Kitsh risponde a esigenza immediate). LEZIONE 17: IL DISINTERESSE ESTETICO Mentre il 700 mette il disinteresse estetico come fondamento dell’estetica stessa o della possibilità del giudizio di gusto, noi nella contemporaneità dubitiamo fortemente che il disinteresse estetico possa essere applicato così come voleva il 700. DISINTERESSE ESTETICO – PREMESSE TEORICHE Se si risale al 700 e si pone l’analisi dell’uomo di gusto e del giudizio di gusto siamo di fronte ad alcuni elementi essenziali:  Il 700 vuole risolvere il relativismo del gusto attraverso diversi momenti: 61 o L’individuazione di un sesto senso, facoltà particolarissima che c’è ma non si vede che è preposta alla ricezione e alla valutazione delle arti: il gusto. o Afferma che il piacere, anche se compromesso con i sensi è sempre condivisibile, c’è un senso comune ed esso è una circolazione del buon gusto che coglie comprende, accoglie soggetti di natura diversa, che insieme formano il pubblico che condivide, all’interno del quale c’è una circolazione e consenso o Infine, le preferenze individuali si coalizzano all’interno di una comunità che le riconosce: il pubblico. La sfida del Settecento è conciliare la soggettività del piacere con l’universalità del giudizio di gusto , è anche la grande sfida di Kant. Il pubblico esprime il giudizio e di fronte ad un oggetto estetico il pubblico ne decreta il successo (passeggero) e il valore (duraturo) che per Du Bos non sono necessariamente distinte, ma nemmeno coincidono. Il pubblico è un gruppo di persone eterogeneo che al di là delle differenze soggettive particolare, viene riconosciuta come comunità reale che è soggetta a vincoli (luogo, cultura etc.) cultura nel quale è vissuto e cresciuto. L’estetica settecentesca pone molta attenzione al TEMPO perché si orienta verso lo spettatore misurando il contenuto dell’opera sulla base dell’effetto che essa produce sullo spettatore, ricordiamo proprio Du Bos da questo punto di vista, e sulla base della risposta del singolo fruitore e del pubblico che è composto da singoli diventano un mostro dalle mille teste. È concesso l’errore perché l’uomo è incostante, ci può essere un giudizio avventato, l’errore verrà smascherato dal tempo, cioè se un giudizio sull’opera non muta con il passare delle generazioni allora siamo di fronte ad un capolavoro, è per questo motivo che l’opera antica è considerata dal Settecento eterna, perché è un modello a cui sempre riferirsi, proprio perché ha superato vaglio del tempo, delle culture, dei tempi.  Scrive Nicolas Boileau Desprèaux: “solo l’approvazione dei posteri può stabilire l’autentico valore delle opere” Allora che cos’è il disinteresse e in che modo si contrappone al coinvolgimento? In realtà non si contrappone perché il disinteresse estetico non presuppone una mancanza di coinvolgimento, anzi il disinteresse è una sorta di preliminare purificazione affinché il coinvolgimento avvenga, ma sia depurato da passioni pregresse, depurato da un interesse che non è rivolto verso l’oggetto, ma per esempio rivolto all’esistenza dell’oggetto in quanto oggetto di commercio oppure al contenuto dell’oggetto in quanto un’oggetto di un interesse sessuale. L’oggetto deve essere contemplato, il fruitore si deve porre di fronte a questo oggetto “depurato”, “puro”.  Interessato sì, ma privo di interessi specifici. Si tratta di un coinvolgimento educato al controllo e all’intensificazione di uno sguardo contemplativo e depurato. Cosa significa fare pulizia? Il soggetto, prima con Du Bos e poi con Kant, è disinteressato nel momento in cui è partecipe dell’evento artistico e avrà attuato una preventiva pulizia depurandosi dall’ambito personalistico, da passioni del tutto personali, da retaggi extraestetici e da emozioni vissute, che compromettono un’adeguata presa di posizione. Una volta che lo spettatore sarà depurato dai vissuti emotivi quotidiani, solo all’ora potrà degustare ovvero emettere un giudizio di gusto anche relativamente alle opere che lo coinvolgono anche solo a livello emotivo. 62 scarto non sia un giorno colmato, che il marmo inizi a vivere. Questa è un’idea che soggiace alla nascita di Galatea, al volgersi in vita del marmo e che è tipica di una certa corrente settecentesca e in particolare di Dideroit. A livello iconografico tutto il percorso di Pigmalione, la sua passionalità, il suo essere sensualmente coinvolto non trova rappresentazione a livello iconografico. In Jean RAOUX Pigmalione è in estasi di fronte alla statua, sembra che qualcun altro constati la sua vita toccando la testa di Galatea, perché ancora si pensa che l’anima sia nel cervello, mentre il cuore abbia un posto centrale nel controllo delle funzioni fisiologiche. In fondo lo sbalordimento ricorda l’estasi mistiche dei quadri barocchi e la presentazione del prodigio non si allontana dalle antiche immacolate concezioni. In Sebastiano RICCI abbiamo una Galatea che assomiglia alla Venus Pudica antica vista di profilo e Pigmalione è in estati ma sembra aver visto un fantasma. In ogni caso non c’è mai un contatto diretti tra i personaggi: distanza e mai tensione erotica. E.M Falconet, su quest’opera Dideroit nel salons del 1793 spenderà parole in una disamina. Dideroit sottolinea che la testa di Galatea è perfetta, è addirittura animata da vita e pensiero e tutto il corpo desta l’impressione della carne e la sfida di chiunque affronti questa tematica è ardua soprattutto per uno scultore perché osa tradurre nel marmo ciò che dal marmo si sta liberando. La resa degli incarnati è il segreto dice Dideroit perché la carne della statua non è quella di amorino né di Pigmalione, cioè sotto il nostro sguardo il marmo scompare. “Appoggiatevi un dito e la materia che ha perduto al propria durezza cederà alla pressione”. È un esplicito invito a trasgredire i dettami che vietano di toccare un’opera. Dideroit invita a toccare, ad usare quel senso di prossimità che il 700 aborre. “mettete una mano sopra la statua e sentirete che è viva”. Eppure, come spesso accade in Dideroit, dopo aver elogiato l’opera egli inizia ad enumerane i suoi difetti e quindi immagina di ricomporre il gruppo marmoreo dandogli un nuovo movimento teso al contatto tra i corpi, Pigmalione deve toccare galatea. Dideroit non cambierebbe nulla di Galatea, nel volto e nel corpo, ma chiederebbe che la sua azione vada da destra a sinistra, cioè conserverebbe a Pigmalione il suo aspetto, ma lo porterebbe alla sinistra di Galatea. Dideroit vuole che sia Pigmalione, e non amorino e non la dea, a costatare la vita di Galatea attraverso il tatto, appoggiando la mano sul seno sinistro per constatare se il cuore batte. È un atteggio voluttuoso e molto interessato. E perché questo? Per impedire che questa idea venga a noi, per Dideroit è fondamentale all’interno della fruizione è l’ASSORBIMENTO, ovvero il fatto che noi diveniamo parte dell’opera, suoi personaggi e sua carne, venendo assorbiti dall’opera e Dideroit si sente attratto da Pigmalione, ma se egli fosse Pigmalione allora toccherebbe la statua, ma come Pigmalione e non come spettatore esterno altrimenti si violerebbe l’opera, invadere la quarta parete, al contrario è l’opera che ci deve fare entrare in essa, nella sua narrazione, senza un atto di forza, ma con spontaneità e adesione. 65 Insomma, lo spettatore non deve essere un voyeur, non deve partecipare all’evento scenico da esterno, ma deve poter entrare e da dentro sentirsi de responsabilizzato perché non è lui che sceglie di toccare, ma è pigmalione che tocca e constata. Allora sarà quadro di Lagrenée che realizza l’aspirazione di Dideroit, un Pigmalione che tocca finalmente Galatea e che nel 1781 esegue quelle che sono le richieste di Dideroit, non sappiamo se egli abbia apprezzato quest’opera, ma sappiamo che Lagrenée in qualche modo ha letto i desiderata Dideroit e l’ha eseguita sul suo modello. UN RACCONTO DI BALZAC – IL CAPOLAVORO SCONOSCIUTO Ha riscosso molto successo tra pittori, scultori perché parla di loro, di quello che erano e quello che diventeranno, parla della loro vita, la loro essenza e la loro arte. Non è un caso che il Capolavoro Sconosciuto sia stato illustrato da Picasso, perché Frenofer(?) che è il protagonista è Picasso: è un pittore che evade il suo tempo, la sua opera, l’arte stessa che va oltre ai canoni del 800 che imponeva cosa dovesse essere l’arte e che produce un capolavoro sconosciuto, non perché rimanga inesplorato, ma piuttosto perché non sarà riconosciuto. Nelle acqueforti di PICASSO si vede bene questo rapporto alterato e perduto tra Pittore e Mimes e natura. Frenhofer doveva dipingere la donna più bella e più viva del mondo e si rinchiude per anni nel suo studio senza che nessuno possa entrare. Frenhofer è il pittore più bravo del tempo. Un giorno incontra due altri pittore, più giovani, e uno di questi è Poussin e attraverso una forma di ricatto i due pittori gli chiedono di vedere quest’opera meravigliosa, che è celata e segreta come se fosse un’amante, perché è l’amante di Frenhofer (legame con pigmalione), la vede la ama perché è vita. P carne ed è arte. Picasso legge che se Frenhofer sta dipingendo la donna più bella, avendo avuto sotto gli occhi le modelle più belle della Parigi di allora, sicuramente non ha sotto gli occhi la donna che è raffigurata nell’acquaforte. Frenofer è lui il modello ignudo e dipinge qualcosa che non c’entra nulla con la sua modella, ma non c’è nessuna relazione tra il pittore e la modella, tra pittore e la mimesi, tra pittore e realtà, ormai una relazione venuta meno perché la realtà non ispira più, è banale, non parla, non recita, non attira. È nel lavoro del pittore che giace tutto ed esula dal gusto che dovrebbe essere regolatore del genio. Per paradosso la modella appare, ma è alle spalle, è nuda, è presente ma sta dietro Frenhofer, non serve più perché ciò che ha bisogno è la sua stessa ispirazione, la sua stessa adesione all’opera, alla sua stessa compenetrazione dell’opera, che non ha più un connotato mimetico. Quando i due artisti vedranno L’opera di Frenofer non vedranno nulla. Anche DANTO si rivolge al capolavoro sconosciuto di Balzac e scrive un’introduzione e suggerisce di cambiare titolo e chiamarlo “il capolavoro non riconosciuto”, si tratta di una carenza della fruizione più che nella creazione. Insomma, l’opera non viene riconosciuto, il problema è di chi guarda eppure quella sconfitta non 66 è “nulla” per Frenhofer, visto il fallimento della sua opera, perché tutto sommato crede nel gusto e crede che il pubblico la debba riconoscere, deciderà di distruggere tutto e di togliersi la vita. CEZANNE amò a tal punto il Capolavoro Sconosciuto tanto che durante una conversazione con Joachim Gasquet, confessa di riconoscersi in Frenhofer, il quale vede più in là e più in alto degli altri pittori. Allora ovviamente Balzac non può prevedere le Avanguardie, ma coglie lo smarrimento e lo stupore dell’uomo di buon gusto settecentesco che non riconosce il quadro, che cercando il valore mimetico dell’opera non coglie nel segno. Un altro smarrimento che riguarda un pittore verso un altro pittore, V. KANDINSKIJ. Non possiamo ricordalo come pittore mimetico, anzi tutt’altro, eppure nello sguardo al passato scrive che si trovava di fronte ai covoni di Monet e non li riconosce in un primo momento perché non sono realistici, la mimesi sfugge e non tornerà più. Scrive Kandinskij: “il catalogo mi diceva che si trattava di un pagliaio, ma non riuscivo a riconoscerlo. questa incapacità a riconoscere il soggetto mi turbò. Pensai anche che il pittore non ha diritto di dipingere in modo così confuso . Senti oscuramente che in questo quadro mancava l'oggetto. i notai con stupore e con perplessità che il quadro non soltanto catturava lo spettatore, ma si imprimeva indelebilmente nella memoria e continuava sempre, in modo inatteso, a fluttuare dinnanzi agli occhi particolari minimi. Tutto ciò rimaneva confuso nella mia mente e io non fu in grado di trarre le semplici conseguenze di questa esperienza. Ciò che però mi riuscì perfettamente chiaro fu la forza incredibile era meglio prima ignota della tavolozza che andava oltre tutti i miei sogni . La pittura divenne per me una forza ed una magnificenza fiabesca. Senza che me ne rendessi ben conto era screditato ai miei occhi l'oggetto come elemento indispensabile del quadro”. Prima constata che non c’è mimesis e si innervosisce, si sente impotente, dice che il pittore non ha il diritto di fare ciò che fa, eppure l’opera si imprime nella sua memoria, è confuso, non sa perché, constata. Possiamo anche dire “senza che me ne rendessi conto era screditata ai miei occhi la mimesi come elemento indispensabile del quadro”. LEZIONE 18: LA POTENZA ESPRESSIVA TRA NATURA E ARTE Paragrafi 6-8 del capitolo 1 di Lineamenti di Estetica. Abbiamo visto il concetto di mimesi come imitazione  questo concetto, se inteso come semplice copia del reale è in sé problematico e ha bisogno di integrarsi con il concetto di espressione. Cosa vuol dire espressione? • Ex-primere: è un portare fuori qualcosa che sta nascosto. • Quindi, è un dare forma a qualcosa che forma non ha ancora forma. Differenza importante perché se il qualcosa che non ha ancora forma, ma prende forma nell’atto espressivo comporta libertà. • Questo comporta una certa dose di libertà: i l qualcosa a cui l'espressione dà forma prende forma solo nell'atto espressivo. Libertà di diversi modi in cui posso esprimere quel qualcosa che espressione ancora non ha. • Ma che cos’è questo qualcosa che sta nascosto? 67 • Torna il tema del furore platonico • Il furore è un'esperienza al tempo stesso di vita e di morte, in cui il finito si spinge verso l'infinito. • Elemento anti-mimetico: saltano i contorni tra le cose e il mondo prende nuova forma • Il sapiente VERS il furioso: il furioso non osserva da fuori ma da dentro, vive sulla propria pelle il processo della conoscenza. • L'infinito verso cui Atteone si sporge è quello della natura. FRANCIS BACON-BACONE Filosofo inglese. Ha un ruolo anche lui nello svilupparsi dell'espressione. Uno dei filoni importanti della mimesi era l'idea dell'imitazione della natura. Natura come qualcosa di pronto nella sua armonia ch noi dobbiamo mostrare. Bacone, mostra che non è così: vuole sviluppare un nuovo metodo di conoscenza. Scrive un'opera, il "Nuovo Organo"< l'Organo è un'opera di logica di Aristotele che ha fornito la base per la filosofia, questa però era un'opera molto scolastica, fatta di discorsi tutti interni al linguaggio. Quindi Bacone vuole una filosofia che faccia qualcosa di diverso, che vada alla scoperta del mondo. Esprime questa esigenza anche nella sua "Teoria degli idoli" (teoria che spiega noi uomini abbiamo capacità di pensiero e discorso, ma questi ci traggono anche in inganno perché nel nostro linguaggio e nella nostra cultura sono insiti pregiudizi e illusioni enormi e finché restiamo all’interno nostro linguaggio e sulle nostre rappresentazioni senza metterle in causa con l’esplorazione che sta al di fuori di queste restiamo all'interno di questi "idoli). La filosofia deve esplorare il mondo intorno a sé. Idea della conoscenza come viaggio, avventura. "Sapere è potere"  sapere che riesca ad avere degli effetti sulla realtà che Io circonda e che sia condiviso. Tornando al tema dell'imitazione in Bacone: c'è idea di conoscenza come capacità di scomporre la natura e ricomporla dandole un ordine. Questo è legato anche all'idea dell'immaginazione, come qualcosa che gioca con quello che prendiamo nella natura ricomponendolo liberamente. Anche nel caso della conoscenza c'è questa capacità di scomporre e ricomporre al servizio della conoscenza, i dati. SPINOZA Fu uno dei filosofi "scomodi". Era olandese di origini ebraiche la comunità ebraica di Amsterdam Io scomunica: Filosofo olandese, scomunicato dalla comunità ebraica di Amsterdam "essi hanno deciso che il detto Espinoza debba essere scomunicato ed espulso dal popolo d'Israele. Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte; sia maledetto quando si addormenta e sia maledetto quando si sveglia. Sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Il Signore non lo risparmi, ma la rabbia del Signore e il suo zelo ardano contro quest'uomo” Era così osteggiato perché alcune delle sue tesi andavano contro i tratti principali della visione del mondo a quei tempi. Lui diceva "Deus, sive Natura" (=Dio, ovvero la natura)  viene meno il concetto di provvidenza, siamo una parte del tutto, di quella grande natura che coincide con Dio. In Spinoza noi siamo una piccola parte del tutto. Quindi, essendo solo una parte, viene meno la concezione della libertà classica, dell'uomo dotato d libero arbitrio. Essendo nella natura siamo condizionati come tutti gli altri esseri . Da qui va costruita la nostra etica. Dobbiamo riconoscere di essere condizionati dall'essere natura, di essere dotati di passioni e da qui dobbiamo partire per fare il meglio che possiamo. Torniamo all'idea di espressione: Spinoza risponde in parte alla divisione fatta da Cartesio tra sostanza corporea (rex estensa) e sostanza spirituale (rex cogitans) per Cartesio c'è Dio, ma poi c'è anche una divisione della realtà in questi due principi, spirito e materia). Spinoza contesta questa separazione: dice che c'è un'unica sostanza e materia e corpo sono semplicemente due infiniti aspetti che questa sostanza divina, che coincide con la natura, ha. Per Spinoza la natura è come un impermeabile rigirabile, da una 70 parte la materia e dall’altra il pensiero, due aspetti dell’unica sostanza. La natura ha infiniti aspetti, e noi ne conosciamo solo questi due. L'espressione diventa, in questa visione un concetto fondamentale perché se Dio è un'unica sostanza con infiniti attribuiti, ogni aspetto dell'esistenza della conoscenza è espressione della divina sostanza. Anche noi Io siamo e Io siamo quando partecipiamo al movimento di questa sostanza, quando non rinneghiamo le nostre passioni, ma le accogliamo e sentiamo di essere animali dotati di desiderio, animali che tendono ad aumentare la propria gioia. Coltivando l'aspetto del desiderio, della gioia, possiamo arrivare alla conoscenza più elevata che possiamo avere del mondo: amore intellettuale di Dio (amor deis intellettualis). Questa è una conoscenza che non rinnega gli aspetti singolari come può fare la conoscenza razionale, ma che, penetrando nel singolare, arriva a vedere la connessione tra tutti questi molteplici elementi singolari . Dentro l'idea di espressione c'è impossibilità di ridurre la conoscenza, la rappresentazione a qualcosa di unico  espressione, conoscenza, rappresentazione, queste hanno bisogno del singolare come qualcosa che ci fa conoscere i legami tra le cose. L'eternità per Spinoza non è una mancanza di tempo, ma pienezza di vita - > altro elemento dell'espressione ha dunque a che fare con le passioni. Non si può prescindere dal singolare, né dall'elemento affettivo / passionale. Non più come in Cartesio res extensa e res cogitans, ma un'unica sostanza, con infiniti attributi. '*ln un mondo che coincide con Dio, ogni modo dell'esistenza e della conoscenza esprime Dio" Uomo come animale desiderante, che mira ad aumentare la propria gioia. È questa gioia che permette di sentire il reale "sub specie eternitatis": amor dei intellectualis: conoscenza che non abbandona il singolare: elemento importante per il concetto di espressione Modo appassionato di conoscere le cose specifiche, di entrare nella loro trama. Aion come forza vitale, pienezza di vita, Emergere delle passioni, come altro elemento legato all'espressione. Citazione di Deleuze: "ll significato dello spinozismo ci appare il seguente: affermare l'immanenza come principio, liberare l'espressione da ogni tipo di subordinazione rispetto a una causa emanativa o esemplare. L'espressione cessa di emanare e di somigliare". Causa emanativa: si pensa a Plotino (l'Uno da cui emana tutto il resto), quindi cose che lo esprimono veicolate a questo.; causa esemplare: carattere delle idee platoniche, il modello da cui l'artista copia. Spinoza, per il venir meno a una sottomissione ad un Dio trascendente, sarà fondamentale per autori come Goethe e Diderot e poi anche nell’800. LEIBNIZ Altro snodo fondamentale per pensare l'idea di espressione nel suo formarsi. Dialoga a distanza con Spinoza: tenta di dare Una risposta ad alcuni interrogativi lasciati aperti dal primo. Grandissimo matematico e giurista e fisico. Pensa che non ci possa essere una sostanza duplice come in Cartesio, ma neanche una unica come in Spinoza. "Non c'è un infinito solo, ci sono infinit centri di forza ". Arriva ad elaborare la teoria delle monadi  sono centri di forza immateriali da cui deriverà tutta la materia e l'estensione dei corpi. Centri di forza e anche di conoscenza e di desiderio. Sono infinite perché ognuna di queste monadi si rappresenta a suo modo tutto il resto dell'universo. In ogni monade è contenuto in modo incompiuto e oscurato tutte le altre. Sono delle infinità "intensive": sono un centro di energia così piccolo da non avere dimensioni che dentro di sé ha l'infinito. Come ha questo infinito? Lo ha nel suo rappresentarselo: è nel conoscere il resto dell'universo che ogni monade Io contiene in sé, lo rispecchia. Anche qui l'immagine dello specchio non è qualcosa che ha a che fare con un rendere passivamente qualcosa che già c'è, ma con un riprodurre e percepire in modo proprio irriducibile il resto dell'universo. Elemento barocco di Leibniz: infinità molteplicità di punti di vista nel barocco. Questa attività percettiva delle monadi non è riassumibile solo nel punto di vista, perché oltre che un guardare è un dare forma, un produrre. II mondo, l'esistenza scaturisce da quell'esprimere/percepire/produrre che le monadi hanno nella loro relazione e tutto il resto. Quindi l'essere viene fuori dalla relazione. Percepire che è un esprimere. Monadi sono sia espressione dell'universo, che qualcosa che esprime l'universo Reciprocità tra monadi e tutto il resto. Com’è questo percepire delle monadi? 71 Già per Leibniz, a cui Baumgarten si rifà alla sua idea di estetica, non c'è più una discontinuità tra sensazione e intelletto ma continuità: dalla nostra percezione sensibile che è chiara e confusa (chiara perché non è oscura, percepiamo qualcosa; confusa perché quando percepiamo sensibilmente non stiamo ad elencare il tipo di penna etc, non sappiamo dire tutte le sue caratteristiche). Queste percezioni confuse che sono tipiche della conoscenza sensibile sono quelle che portano le monadi a conoscere in modo anche distinto alla vera e propria conoscenza intellettuale. Leibniz dice che è l'irrequietezza delle monadi che le porta da questo rumore di fondo (il rumore delle percezioni) da cui si solleva ad una conoscenza più precisa che è quella intellettuale. • Non unica sostanza (Spinoza) né duplice (Cartesio), ma molteplicità di centri di forza: monadi. Non un solo infinito, ma infiniti infi niti. • Ogni monade infatti si rappresenta a modo suo tutto l'universo. Infinità intensiva. • Ogni monade ESPRIME il tutto in un modo suo particolare • Leibniz usa l'immagine dello SPECCHIO • Ogni modo di riflettere il tutto porta alla luce qualcosa di assolutamente nuovo: emerge il valore della differenza. Gradi diversi di chiarezza in queste diverse percezioni del mondo, tra i quali c'è una continuità: piccole percezioni, chiare e confuse. Continuità tra sensazione e intelletto. "Le molteplici sostanze finite non sono null'altro se non diverse espressioni dello stesso universo, secondo relazioni diverse e con le limitazioni proprie di ciascuna di esse. Allo stesso modo in cui un'iconografia ha infinite scenografie". La monade come espressione dello stesso universo. Altro aspetto importante è quello del "piccolissimo/ Micrologia”, scopre che c’è un mondo ancora più piccolo della materia, da cui la materia deriva. Sono gli anni in cui si inizia ad indagare l’infinitamente piccolo: «Vi è un mondo di creature, di viventi, di animali, di entelechie, di anime nella minima parte della materia. Ogni porzione di materia può essere concepita come un giardino pieno di piante, come uno stagno pieno di pesci, Ogni ramo della pianta, ogni membro dell'animale, ogni goccia dei suoi umori, è ancora un tale giardino un tale stagno» L'aspetto dell'infinità che sta nel piccolo viene ripreso da Walter Benjamin: WALTER BENJAMIN "E così, il mondo reale potrebbe davvero essere un compito, nel senso che bisognerebbe penetrare così a fondo in ogni aspetto della realtà da far sì che si dischiuda in esso un'interpretazione oggettiva del mondo. Considerato. Un simile compito di sprofondamento del pensiero, non è strano che il pensatore della Monadologia sia fondatore del calcolo infinitesimale (ovvero Leibinitz)". L'espressione, questo andare verso l'esterno, contiene in sé anche un altro movimento: verso l'interno delle cose, non solo verso l’esterno. Per immergersi in esse e conoscere nuovi aspetti. È un dare voce a sé, ma soprattutto agli altri, a quel che è altro da sé, quel che ci circonda. Questo aspetto, che riguarda le piccole percezioni, sono quello che spinge l'uomo a risalire alla conoscenza. Altro aspetto dell'espressione è la necessità di affrontare un'incertezza che non si può eliminare. Altro aspetto dell'espressione su cui possiamo riflettere è che l’espressione è un processo dinamico, non si può eliminare il tempo da essa. È qualcosa che si fa nel tempo, dobbiamo stare col tempo. Altro aspetto, è l'importanza dell'agire, dell'azione  agire che al tempo stesso è anche un essere agito. In Spinoza esprimo la sostanza di cui sono parte quando mi lascio portare dalle passioni. In Leibniz la monade esprime il mondo, ma è anche a sua volta espressione sul mondo. È attività e passività. 72 sensibile, sensoriale, sentimentale e l’ambito più conoscitivo. K cerca di conciliare gli estremi; la sua proposta è uno spostamento dell’asse teorico problematico dell’estetica. Egli pone un problema di tipo trascendentale, cioè si interroga sulle condizioni di possibilità, di legittimità non solo del giudizio di gusto ed estetico, ma del giudizio che non dispone di una regola (molto impo), le regole non ci sono più ad aiutare l’individuo nella determinazione del giudizio. Un giudizio che non dispone di una regola, ma non dispone neanche di un concetto da applicare, ma soltanto della risorsa soggettiva della riflessione = cioè egli pone un interrogativo sulle condizioni di possibilità di esprimere un giudizio di gusto. Il motivo per cui si interroga su questo tipo di giudizio particolare, cioè sul giudizio di gusto che non risponde a una regola esteriore e che non applica un concetto determinato, deriva dalla questione se sia possibile una qualche connessione o passaggio tra il dominio teoretico dei concetti di cui si occupa nella prima critica (concetti dell’intelletto che si applicano ai fenomeni della natura) e l’ambito pratico, morale dei concetti della ragione relativi all’ambito noumenico (non fenomenico) cioè di un soggetto razionale capace di agire liberamente nel mondo = per Kant si apre il problema di un passaggio tra due domini ampi: della natura (da un lato, fenomenico) e della libertà (dall’altro, noumenico). Indagati il primo nella prima critica e il secondo nella seconda critica. Insomma, egli non si vuole fermare davanti all’abisso che divide il dominio concettuale della natura da quello della libertà: vuole trovare un’altra dimensione che cerca nella terza critica. Possiamo quindi dire che per Kant nel Giudizio estetico, giudizio di gusto il soggetto è libero da scopi determinati: il giudizio di gusto si pone su un livello diverso dall’ordine conoscitivo, essendo il suo principio legato al puro sentimento di piacere (e non alla conoscenza). Un piacere di giudicare qualcosa per la sua forma, per il suo aspetto prescindendo dallo scopo pratico, che determinano l’oggettività. Giudicando qualcosa “bello!” noi lo giudichiamo semplicemente in relazione al sentimento di piacere che la sua forma suscita in noi. Tale piacere non è una mera sensazione  Kant distingue nettamente il piacere del giudizio di gusto, da quello di giudizio di sensazione, da quello di giudizio conoscitivo. Piacere del giudizio di gusto: il piacere è necessariamente presente ma ha carattere individuale  sensazione soggettiva legata a qualità sensibile dell’oggetto. Rimando chiaro a quello già visto: il gusto palatale. Piacere del giudizio estetico: non si giudica l’oggetto sulla base di una qualità o di un’altra che lo rende piacevole, ma nell’unità della sua forma. Questa mette in moto e implica una libera immaginazione capace di unificare la rappresentazione dell’oggetto e di offrirla all’intelletto. Il piacere del giudizio estetico scaturisce proprio da quello che lui chiama libero gioco (tra immaginazione e intelletto). Nel libero gioco nel giudizio estetico il sentimento riguarda l’accordo libero tra le facoltà conoscitive dell’intelletto e dell’immaginazione implicate nei giudizi di conoscenza, ma che si dispongono liberamente. In contrasto con Baumgarten che pone la bellezza come perfezione dell’oggetto, Kant esclude che la bellezza sia un concetto e che il giudizio di gusto rappresenti una conoscenza dell’oggetto. Qual è la relazione tra giudizio estetico e piano della conoscenza? Il giudizio estetico rappresenta un’anticipazione della forma di una conoscenza in generale e in ciò sta la sua universalità. Cioè nel fatto che l’oggetto viene giudicato bello come se si trattasse di conoscenza dell’oggetto ma NON è conoscenza dell’oggetto. L’arte è sempre un “come se” in quanto l’arte non è natura. Per questo l’universalità, a cui aspira il giudizio di gusto, non è un’universalità logico, oggettiva, ma estetico soggettiva che si lega al sentimento, a una proporzione armonica tra le facoltà conoscitive. Kant propone due tipi di giudizi: 75 1: giudizi determinanti  prima critica. Le intuizioni sensibili della conoscenza sensoriale vengono dopo e attraverso lo schematismo ordinate sulla base delle categorie. C’è una sussunzione delle intuizioni sensibili sotto le categorie. 2: giudizi riflettenti  terza critica (si occupano della sfera dell’arte nella prima parte). Non c’è sussunzione. Cerca un’universale a cui collegare un particolare su cui riflette. E, tale universale sarà allora un principio soggettivo o una massima. Il giudizio di gusto consta di 4 momenti:  Il primo: secondo la qualità, nel primo paragrafo Kant afferma che il giudizio di gusto è estetico. È qui che parla del disinteresse estetico, afferma che nel primo momento secondo la qualità il giudizio estetico è detto disinteressato. Per capire cosa voglia dire disinteressato Kant contrappone il piacere per il bello a quello per il gradevole. Il gradevole è legato alla sensazione. Contrappone il piacere per il bello al buono, che invece, esige sempre un concetto necessario a determinare l’utilità di qualcosa o la sua bontà. Il piacere del bello è disinteressato in quanto a differenza del gradevole e del buono, non vede nell’oggetto (opera d’arte) un mezzo per soddisfare un impulso sensibile, né in forza di un preesistente concetto di utilità o bontà, insomma, se noi quell’oggetto lo volessimo possedere, lo guardassimo per acquistarlo, per giudicarlo in base alla sua utilità lo mancheremmo: staremmo per fare altro. Quando si contempla un’opera d’arte, l’elemento legato al commercio e quello legato all’utilità (di arredamento, per esempio) devono essere banditi. Dobbiamo essere disinteressati: in quanto oggetto d’uso, di commercio. Non ci deve interessare l’oggetto in quanto oggetto d’uso. Concezione kantiana distante anni luce da un collezionista o gallerista d’arte di oggi. = Kant afferma che: Nel paragrafo 2: il piacere che determina il giudizio di gusto e scevro di ogni interesse. Non dobbiamo nemmeno desiderare quell’oggetto: saremmo ottenebrati da un interesse. 76  Il secondo: secondo la quantità, è relativo alla bellezza di qualcosa, è detto singolare: non applica concetti determinati. Il bello non è NON un concetto. Il giudizio estitico è un giudizio fondato su una relazione soggettiva con l'oggetto sul sentimento di piacere per la sua forma. Un sentimento che consiste nel libero gioco che si instaura tra immaginazione e intelletto. Nel secondo momento, dopo aver detto che il giudizio di gusto è soggettivo nel primo momento, Kant si rivolge invece alla possibilità di estendere tale giudizio, cioè alla sua universalità. Il bello è ciò che è rappresentato senza concetti, come l'oggetto di un piacere universale. Universalità puramente estetica. Grande sfida del 700: rendere il giudizio soggettivo un’estensione universale. Giudizio di gusti  disinteressato  ha valore universale, si svincola dalla sua intrinseca soggettività.  Il terzo: secondo la relazione, Kant considera il giudizio estetico dal punto di vista della sua finalità: la conformità a scopi concerne unicamente l'aspetto dell'oggetto la sua forma e pertanto siamo di fronte a una forma paradossale, cioè una finalità libera, una finalità senza interesse, una finalità senza scopo. una finalità riferita soltanto soggetto è una conformità a scopi senza uno scopo determinato: è come se l’oggetto detto bello venisse incontro alle esigenze soggettive di un rapporto armonico, appunto, tra le facoltà rappresentative cioè l'immaginazione e l'intelletto. Kant cioè distingue tra la finalità formale da una finalità oggettiva: insomma, come accordare il riferimento a una finalità con una mancanza di interesse? Deve quindi distinguere tra finalità e un fine. Esiste una finalità formale contemporanea all’assenza di un fine reale. Scrive: “La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo”. L’unica forma di finalità messa nell’estetico è quindi quella di tipo soggettivo formale: il piacere che determina il principio del giudizio estetico è appunto quell’espressione del libero gioco delle facoltà. Sappiamo che Kant distingue due tipi di bellezza: bellezza libera e bellezza aderente. Le bellezze libere: es fiori rari di cui non sappiamo nulla, non sappiamo le caratteristiche botaniche. Le bellezze libere non presuppongono alcun concetto di quello che l’oggetto dovrebbero essere, non conoscendoli. Le apprezziamo per la loro bellezza formale. Le bellezze aderenti: presuppongono tale concetto e anche la perfezione es bell’uomo, bella donna, 77 → C'è poi Gunter Brus che in self-mutilation dipinge una mutilazione e non si procura dolore fisico: ci si chiede quale sia il limite tra dolore fisico e dolore rappresentato? Nel fuitore c’è questo scarto? Fino a che punto il fruitore è prevenuto di fronte ad un evento reale? È pronto ad accoglierlo? Nel caso fino a che punto prima di scappare via inorridito. → Con Schwarzkogler "Azione 65" siamo dentro un aspetto reale dell'imitazione. Siamo nel rischio assoluto della body art, non sappiamo se le performance fossero controllate o in caso fino a che punto fossero controllate, ma qualcuno si è fatto sparare ad esempio, un altro arriva all’evirazione. Non è più sublime, non è più arte del dolore, arriva all’eccesso, alla mostruosità, al disgusto al fatto che il fruitore ha quasi l'obbligo di allontanare lo sguardo e ripararsi e far riparare lo spettatore, questo è o non è una sconfitta per l'arte? → Con l'azionismo viennese di Hermann Nitsch, nel 1965 abbiamo una ritualizzazione del processo legato a una forma estrema di performance artistica. Carne, carne smembrata, azioni di laceramento per comprendere le zone amorfe dell'essere. Estremizzazione assolutamente presente. Mette in scena delle performance colelttive. In uno spazio molto grande all’aperto e come in un rito, un mito l’animale viene sgozzato e del sangue si rivestono si rivestono poi gli attori in una grande e suggestiva performance. → Paul Mccarthy: con lui manca l'aspetto reale, tentativo è quello di essere all’interno di un realismo molto forte, ma non si avvale di oggetti reali, uso di bambole, manichinini, oggetti di plastica, sangue colorante, non abbiamo un rimando esplicito al immediato reale, ma ad un reale imitato. RITORNO AL 700 -Il disgusto è una categoria estetca molto antica, ma mai del tutto teorizzata fino ai giorni nostri. Il disgusto è quindi una vera e propria categoria estetica che è il contrario del kitsch; tematizzazione del disgusto nel XVIII sec porta attenzione nei confronti del disgusto, dopo essersi concentrati sul gusto. Se si parla del gusto si va incontro e si incontra il disgusto, e tutto si amplia fino ad arrivare ad una capacità di discernimento dello stile. Il disgusto non è una grandezza negativa, non è un’anti valore come il male, o l’inverso del buono o del bene, ma un rifiuto che si giostra nella logica della sensazione che arriva in una repulsione viscerale. → Con Kolnai, autore novecentesco di un volumetto sul disgusto in ambito fenomenologico. Disgusto non derica da un giudizio critico, siamo bloccati da una logica della sensazione. Qui, siamo bloccati prima del giudizio critico, siamo in una logica della sensazione in cui "ci viene da vomitare". Quindi il disgusto dipende da un fiuto, una facoltà di sentire che individua il miasma della putrefazione; siamo in una logica di sensazione e non di giudizio, si può giudicare un gesto, una parola come disgustoso, ma è un senso fisico ma resta confinato nella sensazione, che suscita una reazione fisiologica che di solito è di rigetto nei confronti dell’oggetto. Disgusto ed empatia sono antitetici, modi alternativi di vivere la fruizione; il disgusto ha poco a che fare con l'autopreservazione, mentre il sublime implica l’autopreservazione come elemento centrale, siamo disgustati da cose che ricordano la morte, ma non ci mettono in pericolo. Siamo disgustati da ragni innocui, da animali che non sono pericolosi come un leone inferocito, un elefante inferocito. Il disgusto sempre è implicato con l'organico e dunque richiama l'idea di contagio. Il disgusto che entra dal palato è quindi più facile da rigettare, mentre quello che entra per olfatto, si pensi ai quadri della resurrezione di Lazzaro, il 80 contagio passa per l’olfatto e da lì è difficile attuare una forma di rigetto. Se un odore ci entra nel corpo è difficilissimo liberarsene. → Il processo di fruizione simpatetca implica disinteresse estetico, che si pone all’interno di un distacco e non di un contagio. Al contrario dell’angoscia a volte il disgusto può avere a che fare con ciò che è inoffensivo, impossibilità di causare danno eppure proprio per questo è ancora più insopportabile dell'angoscia e si pone su un altro versante rispetto al sublime, che pure si avvale dell’orrore, non ha nulla a che fare con la paura, senso di pericolo. Spesso il disgusto è motivato da idee, legato alla natura, all’origine della cosa, riguarda i confini del corpo, e perché qualcosa risulti disgustoso deve essere estraneo a noi, quando i nostri umori escono da noi, come le lacrime; detto in altri termini il disgusto è ai limiti della rappresentazione. È il vomitato, e non l'atto di vomitare: atto di vomitare è liberatorio, il vomitato no, il vomitato è espulso, è ciò che è altro da noi. → Il disgusto non dà sollievo, è duplicazione, iterazione, e da esso ci si libera molto difficilmente e con esso viene la distinzione, fondamentale per lo spettatore, tra la nostra sensazione e la natura dell'oggetto. Iniziale approccio al disinteresse, se non c’è differenza, abbiamo visto che non è possibile la formulazione di un giudizio. Siamo di fronte ad un’imposizione dei sensi, una sorta di violenza, che impedisce ogni forma di giudizio. Siamo di fronte ad un'imposizione, che impedisce ogni forma di godimento. Il disgusto è l'esatto opposto del giudizio di gusto a cui pensa Kant; il disgusto sul piano empirico è un brutale sentire, inganno per i sensi ed è così prossimo ai sensi, che li brutalizza e inganna. → Kant → " L'oggetto qui, nel disgusto, viene rappresentato come se si opponesse al godimento, e ad esso ci opponiamo con violenza; allora la rappresentazione artistica dell'oggetto non è più distinta nella nostra sensazione dalla natura di questo stesso oggetto, ed è impossibile quindi che possa essere ritenuta bella". Cit da La critica del giudizio di Kant Lessing diceva che col disgusto il prodotto artistico viene scambiato per natura; per Kant nel disgusto il prodotto dell’arte viene scambiato per natura. L’arte non c’è. C’è solo la natura, noi, la nsotra fisicità. Non esiste universalità del disgusto: il disgustoso quindi rientra nell'ambito di una soggettività fisiologica. Non è possibile, quindi, una rappresentazione bella del disgustoso, allora il disgustoso davvero sovverte alle leggi del gusto. → Conclusione: può esistere un gusto nel disgusto? per il 700 no, disgusto è chiusura all’interno di una negatività che non porta mai ad alcun piacere verso un sentimento misto, cioè possiamo dire che il giudizio di gusto è cacciato all’interno del disgusto, non può esistere, non è possibile. non può esistere un gusto del disgusto. Il disgusto non entra in ciò che può essere considerato artistico, almeno nel 700, noi lo abbiamo accettato. non porta mai verso un piacere o un sentimento misto; il giudizio di gusto nel disgusto viene cacciato ed è qualcosa di impossibile. 900 81 Dopo il ready made è vero che qualsiasi oggetto può entrare nell'ambito artistico.. Ma nel 700 tutto questo era assolutamente impossibile, venendo a mancare qualsiasi forma di disinteresse, di distacco, essenziale per innescare il giudizio, quello che abbiamo di fronte non può essere arte, è natura, depravata, perversa, contaminata, che si difsa, che viene meno, che perde la sua la sua vivezza e bellezza. Piero Manzoni, merda d’artista Altri fanno uso in grande scala degli escrementi umani in bronzo. L.Bourgeois, Precius Liquids, riempe una botte piena di ampolle con liquidi umani, come pipi, saliva, vomito, lacrime. Nebreda, opera difficilmente sopportabile per varie ragioni. Volto, interamente coperto da una materia giallstra, testa dell’uomo è sepolta in un impasto escrementizio. Maschera di infamia che suscita in noi l’orrore. Principio capitale del corpo umano è diventati anus mundi, il mondo è diventato clocaca. Nel 1999 in Inghilterra si premia Tracey Emin My Bed, un letto macchiato di urina, con preservativi usati, test di gravidanza, macchie di vodka.. letto utilizzato in una settimana di depressione post separazione. Opera che è stata acclamata per la sua valenza realistica. Idea di rigettare, di qui degradare, arte inferiore, arte dei rifiuti, arte che resta dopo tutto quel che è stato rigettato, o meglio la tabula rasa dell’avanguardia che pretendeva di rispecchiare, di specchiare nel festino dei secoli, interessata a ciò che il corpo trasuda quando è affaticato, o che rigetta quando inutilmente è stato digerito. Può esistere un’arte simile si chiede Jean Claire? E se esiste, come ammetterla ad un’esposizione destinata ad un pubblico? Arte che mette in scena il suo stato di abbandono fino al rilassamento degli sfinteri, che altro fa se non dare il segnale della sua morte clinica? LEZ: 21 Gusto e fruizione artistica -Proseguiamo con il manuale, la scorsa settimana dopo la nozione di genio e dopo aver parlato dell'esperienza artistica possiamo dire di aver approfondito anche la figura dell'artista. Questa lezione, invece, è un’introduzione al lato dell'esperienza estetica che è opposto a quello del creatore, ossia stiamo parlando del lato dello spettatore. Oggi siamo al capitolo 3 del manuale dedicato all'estetica del gusto e della fruizione artistica, in altre parole al momento della ricezione dell'opera. → Iniziamo col dire che il gusto, come oggetto teorico di una disciplina, ovvero l'estetica, trova la sua fondazione moderna nel 700. Secolo che vede anche la nascita dell'estetica stessa. → La categoria del gusto nasce nel momento in cui si vuole indagare il fondamento autonomo del piacere estetico che possiamo trovare di fronte ad opere o della natura, o d'arte. Si cercano regole che possano giustificare quel peculiare tipo di piacere che proviamo di fronte a queste opere. È un sentimento che affonda le sue radici nella categoria 600esca del "non so che", la quale cerca di dar conto alle nozioni di senso della vita umana che non sono riconducibili alla ragione; tuttavia sembrano suggerire, però, un'armonia nascosta e un ordine. Leibniz in "Nuovi saggi sull'intelletto umano" tematizzava la presenza nella conoscenza di piccole percezioni inconsce, che formano il "non so che". Immagini chiare nel loro insieme, 82 gusto. Per Hume, il superamento di questo caos può essere risolto mediante la delimitazione di una serie di condizioni empiriche socialmente condivise, che possono portare a un corretto esercizio del gusto. Non ci può essere, però, un ritorno a un fondamento naturale oggettivo del gusto; i critici devono avere delicatezza e assenza di pregiudizi, ma soprattutto affinarsi tramite la pratica ed esperienza per usare il gusto. Ecco che dalla parte del gusto acquisito, che l'esperienza diventa fondamentale per raggiungere la regola, che possiamo ritrovare nel gusto raffinato e vissuto degli esperti, i quali possono arrivare ad esprimere valori riconosciuti dal consenso di una collettività. → L'attenzione relativa alla pratica, all'esperienza del fruitore si afferma anche in ambito tedesco, nel quale Winckelmann e Lessing insistono sull'importanza del contatto diretto con le opere d'arte per l'educazione del giudizio di gusto. L'esperienza concreta dell'arte diventa fondamentale soprattutto per il critico in cui Lessing si identifica nella sua prefazione al celebre "Laocoonte". Anche Winckelmann, pur riconoscendo che la predisposizione al bello possa avere un fondamento naturale, individua nell'insegnamento e nell'educazione 2 strumenti per sviluppare tale dono. L'insegnamento è un momento decisivo nella visione diretta degli originali nell’arte classica moderna, contemplazione delle belle immagini, quindi, si afferma l'idea per cui la pratica visiva crea nello spettatore uno sguardo capace di giudicare con gusto. Troviamo riaffermata l'idea per cui è la pratica visiva che, quindi, crea nello spettatore, uno sguardo capace di giudicare con gusto. -Ancora una volta, come già avevamo visto, è in Kant e nella sua "Critica del giudizio di gusto" del 1790 che troviamo un punto di snodo fondamentale per tutto il secolo. Il giudizio di gusto in Kant si pone in un punto di incrocio fra quel giudizio soggettivo e quel principio oggettivo del giudizio di gusto a cui abbiamo accennato. → Il giudizio di gusto in Kant è soggettivo; diciamo che ha luogo nella sfera soggettiva e non può essere ricondotto a principi oggettivi, elementi concetti determinanti dell’intelletto. Il giudizio estetico è riflettente, che non si basa su concetti determinanti dell'intelletto. Come vedremo, però, questo giudizio soggettivo riflettente in Kant ha delle pretese di universalità, e questo può essere paradossale, di una soggettività che si vuole universale. → Kant, però, caratterizza la struttura del giudizio di gusto attraverso 4 momenti: 1) Il primo riguarda la qualità del giudizio di gusto, che è disinteressato. È importante notare come questo disinteresse riguardi l'esistenza dell'oggetto; non è un disinteresse assoluto, ma riguarda la sua esistenza. Il giudizio di gusto, non dipende dall'esistenza dell'oggetto, ma da come l'oggetto appare. Se giudico un fiore bello, è il modo in cui appare che determina il mio giudizio, e non il fatto che esso sia o meno esistente. Kant distingue qui, il bello dal piacevole; nel piacevole siamo interessati all’esistenza dell’oggetto, siamo compromessi fisicamente con esso e con la sua esistenza, l’ambito del gusto, il giudizio di gusto, coinvolge il sentimento con una connessione al giudizio, sentimento che gode di autonomia rispetto ad un giudizio di piacevolezza, gradevolezza connesso alla sensazione, come quando per esempio possiamo giudicare buona una pietanza. Il bello ci piace, per Kant, in modo disinteressato., non siamo interessati al possesso dell’oggetto, ma siamo interessati al modo in cui si manifesta, come appare genera in noi questo piacere estetico. 85 2) Il secondo momento riguarda la quantità: per Kant il giudizio di gusto deve possedere una quantità universale senza fondarsi su un concetto determinante. Quindi, paradossalmente, il giudizio di gusto gode di un'universalità soggettiva che non si può basare su nessuna regola o definizione logica. È un giudizio soggettivo e singolare, si riferisce sempre alla manifestazione di qualcosa, per esempio il giudizio di guasto dice sempre “questa rosa è bella” e che pure pretende di avere un valore universale. 3) Il terzo momento, secondo la relazione dei fini, riconosce la bellezza come la forma della finalità di un oggetto, in quanto essa viene percepita senza rappresentazione di un fine. In altre parole si ribadisce la purezza del giudizio di gusto, che non dipende da qualcosa di esterno; l'unica sua finalità concerne la sua forma, il nucleo del nostro giudizio, logo dove essi si appaga. La bellezza naturale è quindi finalità nella forma; c'è armonia tra l'oggetto e il nostro sentimento di piacere, perché l'oggetto non ha uno scopo esterno. “esperisco un oggetto il cui scopo è il mio piacere, non un fine esterno”. 4) In questo ultimo momento il bello viene riconosciuto come un oggetto che piace necessariamente senza concetto. Qui l'accento si pone sulla necessità del piacere soggettivo che proviamo di fronte dall'oggetto bello; nel caso del bello il piacere è connesso ad una pretesa, come se il bello dovesse piacere necessariamente. Diremo, quindi, che piace ciò che è bello, e ciò che è bello deve piacere universalmente e necessariamente. Kant, però, non deve fondare questa pretesa di universalità del bello in una legge logica, in un concetto determinato, bensì in una base estetica. Siamo sul terreno estetico, che Kant individua in un senso comune, presente in ognuno di noi che permette la comunicabilità del sentimento estetico. -L'ultimo paragrafo del capitolo del manuale si riferisce ad una crisi del gusto che si manifesta nell'800. Sebbene non si possa leggere il passaggio da 700 a 800 come una frattura netta, si può dire che nell'800 la nozione di gusto perde forza per lasciare spazio alla nozione di genio. In questo senso si parla di una detronizzazione teorica del gusto; il buon gusto del 700, come evidenziato in Hegel, impallidisce di fronte alla potenza creativa dell’immaginazione. L'equilibrio tra genio e gusto che abbiamo visto caratterizzare l'opera Kantiana si dissolve, perché il buon gusto non riesce a comprendere il genio, a fermarne l’avanzata, definirne la regola. → Nell'800 la critica romantica pone l'accento su una differenza qualitativa fra un gusto produttivo che appartiene al genio, e al gusto sterile di chi osserva l'opera senza farsi, egli stesso, artista. Nell'800 il genio fagocita anche le qualità che prima erano del gusto. → Nel 900 infine il gusto sembra essersi dissolto in una moltiplicazione di stimoli che gli impediscono di porsi come un punto di riferimento per le diverse forme di fruizione. È la crisi stessa del concetto di arte e bello nel 900 a rendere impossibile il ritorno a questa unità perduta. Si arriva persino a provocare il buongusto, fino all’emergere alla categoria del disgusto. Emerge poi alla fine il disgusto; molte categorie estetiche infatti hanno visto la luce proprio nel 900. Il disgusto sembra essere un esito contemporaneo e paradossale del gusto. → La sfida è quella di ritrovare dei temi di questi discorsi, cercando di rispondere alle esigenze di nuove forme di complessità, che il fruitore affronta nel panorama dell'arte contemporanea. LEZ: 22 . Teoria estetca e soggetto-spettatore, pt.1 86 Presupposto Il primo elemento sul quale non si può non essere d’accordo con l’autore è il fatto che l’opera non può essere definita ontologicamente sufficiente, se non con gli spettatori. Si dice che il teatro non può esistere senza una sola cosa, senza l’attore. Ma è vero che l’opera d’arte un generale, non si definisce come tale senza lo spettatore, cosa sarebbe l’arte senza un punto di riferimento, senza un motivo per cui essere esposta, per cui darsi. Soltanto un lavoro intimo di un creativo, di un uomo, di una donna, di un bambino che per diletto gioisce di ciò che fa. Il che è possibile, vero, esiste, ma nel momento in cui l’opera d’arte si pone come tale, allora essa necessita dello spettatore. Altro punto di condivisione con Puelles, da spettatori dobbiamo esporci piuttosto che proteggerci, il piacere di chi si arrende, lasciarsi andare, prendere, posizione non passiva, piacere di chi si arrende ha la stessa dignitià di chi si discosta e giudica. Ecco le due polarità spettatoriali: un’arrendevolezza che è un lasciarsi prendere e un distacco che è una maggiore consapevolezza del proprio ruolo. Lo spettatore compie una scelta e un esercizio fondamentali per la valorizzazione e la vita stessa dell’opera. Apprendimento dell’opera d’arte comincia con il predisporsi all’ascoltarla, con tutte le conseguenze che essa porta con sé. Anche quelle che riguardano i piaceri ignobili e gli intrattenimenti di serie B. Relazione Lo spettatore è quindi sempre in stato di relazione, in relazione con l’opera e immediatamente Puelles, chiama questa relazione con il suo nome, ovvero relazione estetica. Essendo a rigor di logica, una relazione estetico artistica, ovvero la relazione definita dall’incontro tra un soggetto individuale e un oggetto artistico funzionale. Una relazione che accade che avviene, una relazione che è appunto un incontro tra un soggetto e un oggetto, ma che precede anche queste due componenti al punto che la relazione stessa si costruisce come oggetto di se medesima. Insomma nella relazione estetica il desiderio prioritario è di avere un rapporto incline a suscitare in noi un’esperienza piacevole. Con la relazione è a priori nel senso che è quella che tutto sommato ci spinge ed incita ad entrare nella sala di un museo, nell’andare a teatro, al cinema, iniziare una serie tv, prendere in mano un romanzo. È una relazione che ha un suo statuto, che vive un suo statuto. Relazione che prende forma, appunto nell’incontro tra soggetto e oggetto, ma che in qualche modo precede quell’incontro. Perché tra quei due oggetti si istituisce una reciprocità che non possiamo eludere. Insomma, l’opera d’arte e il suo destinatario diventano correlativi. Si generano e si confondano, l’uno non può essere senza l’altro. Abbiamo visto la carenza ontologica dell’opera senza spettatore. Non può essere che lo spettatore prima sia e poi si relaizoni, lo spettatore esiste ed è soltanto in relazione, non c’è distacco c’è comunanza sempre. Quindi accade che la sua essenza non sia altro che essere in relazione, l’essenza dello spettatore è la relazione stessa. Lo stesso vale per la rappresentazione artistica, la rappresentazione dell’arte essenzialmente costituita da questo suo rivolgersi a qualcuno. Insomma, una co-dipendenza, fondante e possiamo dire a priori. Fantasma Idea di Puelles, di identificare lo spettatore come un fantasma. In fondo quando lo scrittore si dedica ad un romanzo, è solo di fronte al suo computer, lo spettatore-il fruitore è solo un rimando lontano, come il lettore. Anche quanto l’attore si mette all’opera o il regista e così via. Puelles scrive il fantasma è ciò che è presenza senza che lo si veda, riceve quel che gli viene dato e sebbene assente tutto è diretto a lui. Lo spettatore prende ciò che gli viene dato e lo fa nell’oscurità, che è anche un’oscurità non tanto fisica, se non sala cinematografica e teatrale, quanto più oscurità assoluta nel momento in cui l’opera va in mano a chiunque. Scrittore, artista, scrive per un fantasma. Fruitore giace in un’assoluta impunità, e con massima disinvoltura può lasciarsi trasportare da associazioni, ricordi, dialoga con l’opera, la critica, la distrugge magari ed è protetto. Nell’opera possiamo fare ciò che vogliamo e siamo impuniti, nessuno ci può accusare di sbagliare nel momento in cui qualcosa non ci piace per nulla. 87 Corretto quello che Puelles dice, ma appunto qui sta la divergenza del nostro pensiero. Quell’idealizzazione per la prof è anche ricerca personale, sofferta. Nel 700 credevano molto a questa idea, che certo porta con sé un po’ di sofismi, disinteresse, libero gioco, pretese di universalità. Ma che tutto sommato, il fruitore 700 prova veramente a vivere, a realizzare, allora in questo senso, quel distacco che Puelles vede dallo spettatore così idealizzato nello spettatore empiricamente incarnato non è una frattura insanabile. È vero, che, in questa sorta di idealizzazione un po’ si dimentica il vero e più concreto mestiere dello spettatore. Perché il rischio c’è, il rischio di idealizzazione incombe sempre, la teorizzazione diventa una forma di idealizzazione e sradica poi le proprie radici nella realtà, laddove parte, per diventare riflessione di riflessione. In definitiva Oblio subordinare lo spettatore a due approcci disciplinari: uno estetico, una sorta di estetizzazione della ricezione, l’altro artistico, la consacrazione romantica idealista che ha fatto dell’arte l’oggetto preferito dell’estetica. Il risultato è stato così che lo spettatore è rimasto impercepibile, inavvertito: vivo e invisibile. Il pubblico e gli spettatori Riassumendo quindi, lo spettatore è una terra di mezzo e il testimone di qualcosa, un essere a parte. Seppur nella sua completezza singola, diventa pubblico nel momento in cui condivide un’esperienza, pubblico che è uno spettatore astratto. Astratto all’interno di tratti comuni condivisi, sempre meno individuali. Individuo spettatore, a volte si stacca dal pubblico eppure si può parlare del pubblico come un unicum, abbiamo visto più volte il mostro dalle mille teste. Ambiguità costitutiva che avvolge lo spettatore, il quale non può essere altro se uno spettatore tra il pubblico parte integrante dell’insieme e nel contempo isolato tra gli altri spettatori, integrato e isolato contemporaneamente. Due estremi: il primo dei quali è la posizione dissolutrice dell’individuo spettatore. Questa posizione si definisce innanzitutto nella dimensione sociopolitica e tale dimensione si può individuare lungo un tracciato che va da Platone a Brecht, uno dei principali riferimenti di Puelles. In questo filone orientare massivamente le forze della moltitudine impone di non considerare il singolo individuo nella sua complessità e unicità, cioè il singolo viene assorbito nella moltitudine. In questo senso si dissolve all’interno della moltitudine. Per Platone non si trova in mezzo agli altri. Brecht rifiuta tutto ciò che di positivo può esserci nell’esperienza estetica individualizzante, emozionale. Tutto questo per Brecht va cancellato in favore di un individuo che diventa massa, ma in quanto tale va istruito. Per Platone l’individuo si può perdere nella massa che può sbagliare, se non ben orientata dal filosofo. Il secondo estremo è dato all’illusione dell’individualità. Se Platone ci fornisce un ritratto di una moltitudine identica a se stessa e coesa dall’ignoranza, Aristotele vi rintraccia diverse differenze interne. Il pubblico è occasionalmente una riunione ciscostanziale di individui eterogenei. Da questo punto di vista Puelles ci fa cogliere un altro aspetto del pubblico, vero che che teatro, cinema posto di riunione, ma ognuno concentrato a suo modo, posto in cui uno si isola. A teatro ognuno è concentrato a suo modo, quindi un posto in cui ciascuno si isola nonostante sia considerato un mostro dalle mille teste. Lo spettatore può essere visto come un’egoista, così lo vedeva anche Rosseau, spettatore che si dimentica di tutto il resto e che egoisticamente si rinchiude in un auto-compiacimento. Insomma, lo spettatore è solo in sala o per 90 certi versi può illudersi di essere solo od obbligato. Perché è vietato parlare con l’amico di fianco, è scorretto. Eppure non si sente così solo quando piange o ride insieme agli altri. Lo spettatore privilegiato è Proust…isolamento condizione pragmatica, per saper sentirsi e sentire. Nel senso che lo spettatore diventa egli stesso soggetto di riflessività sentimentale e questo è un ulteriore paradosso. Lo si trova ad esempio di Emma Bovary che si appropria dei propri personaggi costruiti, dei propri ideali da donna borghese di provincia, fino a farne la sua vita. La sua vita aderisce ad un fantasma rappresentativo e in questo senso, da spettatrice, costruisce una rappresentazione nella quale vuole entrare. Emma Bovary entra in un ruolo che si è prefigurata da spettatrice. Madame Bovary è pienamente personaggio, è attrice che entra in un ruolo che da spettatrice si è prefigurata. Il critico Se lo spettatore può essere situato completamente nell’esperienza di se stesso o addirittura mettere in scena se stesso dopo aver costituito da spettatore i personaggi, chi, invece, giace nel giudizio della rappresentazione artistica è il critico. Il giudizio dello spettatore c’è, in Du bos, più importante di quello del critico. Nel corso dei secoli giudizio del critico più impo. Tanto che al pubblico non si chiede un giudizio fondato, ma un orientamento, mentre quello dello spettatore è un giudizio fondato. Lo spettatore è in quello che sente, che accade. Essendo in questo, è interessato, non può attuare il disinteresse estetico, molto coinvolto in forme che si avvicinano al pregiudizio. Il critico, di contro, non dovrebbe trovarsi nell’esperienza individuale, ma stando alle parole di Du Bos, è proprio il critico che si trova nell’esperienza individuale, che parte con pregiudizio ad analizzare l’opera, ma dovrebbe risiedere il critico all’interno di quel giudizio auspicabilmente disinteressato, oggettivamente e distaccato che abbiamo visto essere il giudizio dell’uomo di buon gusto 700entesco. 91 Se noi assegnamo, all’esteta, il nome di spettatore, e al giudice, il nome di soggetto estetico, allora arriviamo esattamente a quello che Puelles sta sostenendo, cioè l’esteta (lo spettatore) è colui che si lascia guidare dal piacere, e il giudice (soggetto estetico, il critico) è colui che emette un giudizio colto nell’ambito di un rapporto cognitivo a p p re z z a ti vo o v ve r o i n u n a d i m e n s i o n e g i u d i c a t i v a e giustificativa . Nella distinzione di Du Bos l’esteta è colui che gusta il sugo e lo apprezza subito, il giudice, invece, è colui che arriva in secondo tempo col ragionamento a trovare una giustificazione di ciò che ha percepito col palato. Per Puelles il soggetto estetico è giudice e quindi è distanza, attua il disinteresse e non può non trovarsi a distanza, la sua posizione è esterna al soggetto, è libero. Al contrario lo spettatore fatica a porsi a distanza ed è esposto all’esperienza che l’azione artistica può suscitare in lui, si trova dentro il vissuto esperienziale e la sua partecipazione non è puramente formale, come dovrebbe essere per poter emettere un giudizio di gusto. Per Puelles l’uomo di gusto 700esco è un’astrazione, che lo spettatore si trova sempre dentro il vissuto esperienziale e che la sua modalità di fruizione è una penetrazione emotiva nella trama, a tal punto dentro l’esperienza, tanto da vivere la finzione. Cosa che, invece, il soggetto estetico che emette un giudizio di gusto non dovrebbe o potrebbe fare. Differenza tra oggetto estetico e oggetto artistico Quando ci si riferisce a oggetto estetico si pensa a qualcosa che ha un’estensione più ampia rispetto all’oggetto artistico come una città, un volto, un uccello in volo ecc. distinzione importante, perché sia l’uno che l’altro suscitano profonde emozioni però il loro statuto è diverso. Il paradosso del secolo dei Lumi La teoria estetica di matrice illuministica crea una corrispondenza biunivoca tra: 1) l’autonomia dell’arte 2) l’autonomia del soggetto estetico trascendentale, di Kantiana memoria Autonomia dell’arte attraverso la quale gli esiti della creazione artistica possono essere chiamate opere d’arte solo con dizioni che circoscrivano i loro obiettivi all’ottenimento di una bellezza non eteronoma, ovvero autonoma. Questa doppia autonomia dell’arte, da un lato libera e dall’altro l’autonomia del soggetto estetico come libero anch’egli e quindi capace di fruire e giudicare disinteressatamente, accresce il credito di cui gode la ricezione specialistica a confronto della ricezione del pubblico comune che in genere viene screditato o comunque non assurge a diventare modello come quella specialistica. La ricezione del critico in opposizione alla grossolanità degli spettatori, che ridono, piangono lasciandosi troppo influenzare dalla loro emotività estrinseca. Teorici come Kant e Lessing, chiamati in causa da Puelles, auspicano l’autonomia dell’arte e ciò non impedirà a Hegel e Winkelmann, padri della storiografia artistica, di mitizzare l’autore. 92 personaggi ben definiti, con dei ruoli fissi, dai quali non si può uscire. Così nel gioco le leggi del quotidiano vengono sostituite da altre leggi, non si può barare, anche in parte barare fa parte del gioco. Il baro non distrugge il gioco, il gioco viene distrutto dall’assurdità delle regole di natura puramente convenzionale. Il gioco viene distrutto da chi si rifiuta di giocare, da chi si pone fuori dal gioco, non credendoci più, perché il gioco non ha altro senso che sé stesso. Altra componente del gioco fondamentale che non troviamo, per esempio, nell’ambito artistico- performativo, o perlomeno difficilmente. L’esito del gioco deve essere necessariamente incerto, non sappiamo chi vince, ed è questa la parte bella, se sapessimo sempre chi vince e chi perde il gioco perderebbe il fascino dell’incerto. Nell’ambito della rappresentazione gli attori sanno perfettamente chi vince e chi perde, non lo sa lo spettatore. Nel gioco l’esito è incerto, nella trama narrativa l’esito è fisso, è uguale a sé stesso. Se non è incerto, il gioco si chiude. In una competizione sportiva le forze devono essere bilanciate, ma ciò vale anche per una narrazione, se noi abbiamo un personaggio la cui potenza è strabordante rispetto agli altri, il gioco narrativo finisce lì, sappiamo che vincerà lui. Ma se non abbiamo un equivalente negativo da porgli di fianco, gliene poniamo cento, mille, un miliardo di forze a tal punto che dobbiamo necessariamente mettere in difficoltà e in grande difficoltà, perché altrimenti il gioco non funziona, le partite di calcio più belle sono quelle che vedono l’equivalersi delle squadre. È anche vero che una vittoria è pur sempre una vittoria, anche contro una squadra debole. Ma se la conquista di una vittoria è sudata, allora la gioia è più grande. In sostanza nel gioco, così come nella fiction, è ciò che è importante è il constante rinnovamento della situazione e con questo generare attesa e sorpresa, che sono i grandi motori della fruizione. Ci sono dei giochi che apparentemente sembrano senza regole, che sembrano più liberi rispetto a giochi con regole molto più ferree e difficili, ma in realtà anche questi giochi hanno delle convenzioni che devono essere condivisibili da tutti, se si gioca con le bambole da soli si creano e ricreano delle convenzioni condivise solo da sé stessi, ma se vengono degli amici a giocare con le bambole con te devi condividere le tue convenzioni con loro. La realtà del gioco è fittizia, accompagnata da una consapevolezza di una diversa realtà, una totale realtà rispetto ad una vita normale. Quindi, possiamo dire che ogni significato totale in relazione ad un contesto e che il contesto è quella cornice che racchiude quel mondo di senso, mondo di regole che però TUTTI dobbiamo assolutamente condividere e che se non condividiamo ci cacciano fuori dal gioco, ci espellono. Il contesto si avvicina molto a questo ambito di finzione, prima di entrare a teatro stiamo accettando le regole della finzione, altrimenti faremmo altro. Un altro contesto da approfondire, fondamentale per un fruitore specifico, che è il contesto dell’assorbimento. Significa un entrare, un essere richiamati dall’opera, essere assorbiti da quest’ultima. EFFETTO BALZAC: Ma che cos’è questo “effetto Balzac”? è l’entrare nella storia. Nel quadro con una casa, noi pensiamo che ci sia qualcuno, dentro ci sia gente che vive, parla, crede, si emoziona, si dispera, piange, ride e che ha problemi quotidiani. L’assorbimento è essere assolutamente attratti da qualcosa tanto che il resto del mondo sparisce, e questo avviene di fronte a un bel quadro, quando il quadro apre ad una possibilità 95 narrativa. Il quadro è l’innesco di un rapporto con la propria immaginazione che mette in moto personaggi, mondi. Entrare nel quadro significa abbandonarsi alla dimensione immaginativa, quindi perdersi. Nel disinteresse estetico, in questa ragione Puelles rimane una forma di distacco, frattura tra soggetto e oggetto. Frattura che si perde nel momento in cui si entra dentro nel quadro. Diderot affermava che questo assorbimento non fosse proprio del tutto svincolato da una forma di disinteresse, bisogna pensare che cos’è il disinteresse, se il disinteresse è soltanto una forma di purificazione così come vuole Du Boss, allora quel tipo di disinteresse è fondamentale per l’assorbimento, bisogna togliersi da ogni forma di preconcetto, forma di mia intrinseca passionalità ed emotività per poter aderire a ciò che avviene nel quadro e quindi entrare nel quadro. Ma se invece, il disinteresse è una forma di stacco non emendabile, recuperabile, allora un fruitore disinteressato difficilmente entrerà a pieno titolo nel quadro. Qualcuno ha sostenuto che “l’effetto Balzac” lo prova solo uno spettatore illuso, ingenuo, affascinato. Sicuramente non uno spettatore kantiano, ma è veramente così ingenuo uno spettatore come Balzac? Balzac è sensibile al valore estetico del quadro, nonostante poi vi entri in un modo un po’ kitsch, allora l’effetto Balzac, anche se in modo ingenuo, non impedisce il piacere estetico, anzi lo esalta, non impedisce il giudizio di gusto, infatti si apre con “che bel quadro” e non sicuramente una disquisizione erudita o tecnicistica, quando Diderot è di fronte a un quadro, è all’interno della sindrome di Balzac, dice “che bello” o “che brutto”, dà un giudizio estetico, ma per far vivere il quadro ci entra dentro, cioè ci racconta cosa fanno i protagonisti del quadro. Qui, Baudelaire, Balzac e Diderot si troverebbero d’accordo sull’affermazione: un quadro è un bel quadro se dipinto bene, il cui obiettivo è quello di farmi sognare, immaginare di abitarlo, si adempia agli scopi letterari che si propone. Dopo aver narrato questo aneddoto, Baudelaire afferma: Lo stregone che è il pittore. Balzac e Baudelaire intavolano bene quell’opera non in rapporto verticale di riverenza, ma un rapporto orizzontale di reciprocità, rapporto faccia-faccia, in virtù del quale l’effetto si realizza come esperienza vissuta, come esperienza intima, quasi segreta. Arriviamo ad una pria conclusione: comprendere chi si lascia coinvolgere emozionalmente. Questo è un principio guida del volume di Puelles. Il fruitore distaccato e contemplativo non è l’emblema della fruizione, in alcuni contesti è importante e vince su ogni altro tipo di fruitore, ma in altri contesti, come il contesto melodrammatico, il fruitore contemplativo è da bandire. L’intima comprensione dello spettatore 96 non è conoscenza dell’esterno, ma un punto di vista in intima immediatezza con la finzione, con la vita propria della finzione. Lo spettatore capisce che vi si trova dentro, perché è lì dove si comprende o dove egli stesso è compreso, coinvolto. Lo spettatore dev’essere coinvolto. È una grande impresa quella di Puelles, ma è necessaria se si vuole parlare di fruizione. Comprende il valore emozionale della fruizione diventa scopo dell’indagine di Puelles. D’altra parte, comprendere significa anche attribuire a quel valore emozionale un qualcosa in più, qualcosa di diverso. Ciascuna opera è assoluta se viene compresa per mezzo dell’intuizione della sua eccezionalità e quell’intuizione della sua eccezionalità non è il critico che colloca l’opera all’interno del primo Picasso cubista, ma quella del fruitore alla Balzac, magari ingenuo, ma di quell’opera fa un’esperienza emotiva, passionale, sentimentale e narrativa. LEZ: 24 LA COMPLESSA SPARIZIONE DELLO SPETTATORE Terza parte su Puelles, “Guardare chi guarda” Citazione di Flaubert tratta da “Madame Bovary”  il marito la porta all’opera a seguito di una sua profonda depressione dovuta a motivi romantici. Madame Bovary è esempio di spettatore interessato (è contenta di andare all’opera e rappresentare il contrario della donna borghese di periferia che in realtà lo è). Madame Bovary incarna però la donna borghese di periferia in tutte le sue manifestazioni, anche nel suo non volerlo essere. Quando va a teatro si atteggia a fruitore non occasionale, si dispone a sentire l’opera. Quando, però, si presenta un suo vecchio amore, l’opera non le interessa più, chiede al marito di uccidere perché lo spettacolo è altrove: lo spettacolo è ella stessa in riferimento al suo amante ritrovato e in riferimento al marito con il quale continua a giocare il ruolo della brava moglie. Si tratta di ruoli. Lo spettacolo è Madame Bovary. Ciò che Flaubert dipinge è un quadro della fruizione borghese ottocentesca che per certi versi non si stacca molto da quella settecentesca sebbene la prima sia molto più ordinata, abituata ad andare a teatro anche per godere dello spettacolo. Si dice “anche” perché non era l’unico scopo, in quanto si incontravano amici e si facevano affari, mentre per le “mantenute” è quello di trovare clienti, la dama delle Camelie, ad esempio, cambiava colori delle camelie in base al fatto di essere libera o meno. Madame Bovary ammira dall’alto ed è quello lo spettacolo che favorisce  quando il sipario si alza il suo interesse scema mentre ammira quello spettacolo nel quale vuole entrare e partecipare da attrice. Il soggetto esposto si sdoppia in un soggetto esibito con il quale viene a coincidere. Il soggetto esposto si raddoppia con la finzione distinguendosi dagli altri spettatori nell’eccezionalità del sentimento. Il soggetto di messa in scena si rapporta preferibilmente 97
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