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Appunti completi di Letteratura italiana, Sbobinature di Letteratura Italiana

Il documento contiene gli appunti di Letteratura italiana presi in classe durante la spiegazione del professore, e sistemati successivamente.

Tipologia: Sbobinature

2022/2023

In vendita dal 02/06/2023

auroramolteni
auroramolteni 🇮🇹

4

(1)

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti completi di Letteratura italiana e più Sbobinature in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! 1 LETTERATURA ITALIANA Lezione 1: 3 marzo 2023 EUGENIO MONTALE “Ho sceso, dandoti il braccio” è una poesia di Eugenio Montale dalla raccolta Satura del 1971. Non è un titolo vero e proprio, ma è una parte del primo verso. Il primo verso è l’incipit (inizio) del testo e una parte dell’incipit, quando il verso è molto lungo, può diventare il titolo del testo. Per quasi 5 secoli non esisteranno i titoli nei testi italiani, ma verranno usati gli incipit; Leopardi sarà il primo a mettere i titoli ai testi. “L’infinito” ha un titolo fondamentali per capire il contenuto del testo. HO SCESO DANDOTI IL BRACCIO Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue. E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino: “è il vuoto” è simile a “c’è il vuoto”, si presenta, esiste, lo percepisco. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio: nonostante tanto tempo vissuto insieme, è stato breve il nostro lungo viaggio. Siamo davanti a un paradosso, per quanto lungo sia stato, il viaggio è una metafora della vita. Montale sta parlando con una donna che è stata compagna della sua vita, una donna affascinante, ma con un forte problema alla vista che riusciva a compensarla con degli occhiali molto spessi, per questo motivo la soprannomina “Mosca”. In generale, la poesia ha questo dato di fatto che si può sottrarre all’esperienza biografica immediata. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono: il “né” si scompone come “e non”; “non mi servono più/non mi occorrono più”. le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede: “Gli scorni” sono le delusioni che hanno anche il significato di offesa, gli sbagli a cui vanno incontro. La rima in “crede” e “vede” è uguale da un certo punto in poi, dal punto su cui cade l’accento, la parte che precede l’accento, invece, è diversa. Montale se la prende con quelli che si accontentano di credere che quello che vedono è la realtà. La realtà, invece, è qualcosa di più complesso. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio: l’idea comporta che chi scrive si 2 appoggiava all’altra persona, che lo guida, ma che non vedeva bene, era quasi cieca. Non già perché con quattr'occhi forse si vede di più: non vedeva bene anche se aveva gli occhiali, ma nonostante questo lo guidava. È un paradosso presente nel testo. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue: “Offuscate”: non limpide, velate. È un elogio paradossale di una vista, che fin dalle origini è sempre stato l’organo più importante tra quelli di senso, perché noi percepiamo il mondo e diventa motivo di paradosso. Anche questo paradosso fa parte della modernità di questo testo. La poesia parla soprattutto d’amore; la nostra idea d’amore la costruiamo su questi testi, l’ha inventato la letteratura. La poesia si realizza secondo formule che sono vicine alla prosa; capiamo che è poesia perché ci sono degli elementi che normalmente non useremmo: dare del tu a qualcuno che è morto o andare a capo, che è deciso da chi scrive, dal poeta; Ungaretti, ad esempio, prende dei versi e comincia a frantumarli in maniera microscopica rispetto alla lunghezza della riga. Nella nostra percezione, questa poesia, l’avremmo letta in modo diversa, ci saremmo soffermati sulle pause. È un testo molto semplice anche perché si avvicina al linguaggio prosastico, un linguaggio quotidiano, non ci sono termini difficili. L’aggettivo prima del nome, in italiano, risuona carico; e qualche volta, modifica anche la percezione della stessa espressione. “Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio”: il viaggio è una metafora della vita, c’è dietro quel modello tradizionale. Il viaggio è inteso come vita che ti offre esperienze nuove, il nostro modo di pensare si fonda su Omero, sul viaggio di Ulisse che è lontano dalla patria per 10 anni a causa della guerra, che riuscirà a vincere, ma che gli provoca nostalgia (dolore provato per il ritorno), ma desiderio di scoprire, iniziando un viaggio di altri 10 anni lontano da casa. Questa poesia è una dichiarazione d’amore per una persona che è quasi cieca e che il mondo diventa più difficile da vivere nel momento in cui questa persona non esiste più, ma nonostante questo la tratta come se fosse ancora viva. Questo meccanismo scenico è tipico della poesia: qualcuno che parla a qualcun altro nonostante non ci sia più e non può ascoltarlo, ma si indirizza ad altri e crea una dinamica che è a stessa che troviamo a teatro e nel cinema. Una formula che è piuttosto complessa e che non appartiene a una globalità. Da un certo punto in poi, la lingua ha smesso di esprimere e basta, ma ha iniziato ad esprimere qualcos’altro; usare la lingua in un certo modo voleva dire avanzare verso qualcos’altro, e privilegiare degli aspetti che non erano quelli appartenenti alla realtà comune. La lingua ci abitua a pensare a cose che normalmente non siamo capaci di esprimere. DANTE ALIGHIERI Tanto gentile, testo in prosa: Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia (mirabile: degna di 5 elemento, una lettera e vale anche per l’inizio delle parole. Dante sta traducendo in parole l’ineffabilità, quello che non può essere detto. Questa dolcezza al cuore la può capire solo chi l’ha provata. E par che de la sua labbia si mova: e pare che della sua bocca/delle sue labbra si muova. “Labbia” è una parola molto vicina al latino, in cui esprimono le labbra, ma sono un plurale neutro che identifica un genere che non è né maschile e né femminile. È un plurale che in italiano diventa singolare, vi è un principio di economia. Un spirito soave pien d'amore: uno spirito leggero pieno d’amore. Dante, davanti alla S impura, la seguita da consonante, può usare l’articolo abbreviato ”un”. L’amore trova la sua identità, la sua ragione d’essere; si muove, quindi, il suo spirito come una nuvola di vapore che non ha una sostanza, non ha nemmeno una sostanza di parole perché Beatrice non parla con quelli che incontra, ma con la parte più nascosta di se stesso. Che va dicendo a l'anima: «Sospira!»: tutto quello che può fare è sospirare. Sospirare per lo stupore e la sorpresa davanti a un miracolo. “Va dicendo” esprime un’azione che dura nel tempo; questa forma del verbo “andare” + gerundio si chiama durativo. Dante nasce nel 1265 e muore nel 1321; questo testo è stato scritto da Dante quando aveva 25 anni, intorno al 1290 in cui scrive il libro “Vita Nova”. In italiano, il trattamento delle due vocali insieme, che si chiama dittongo mobile, è abbastanza complicato e può esserci come può non esserci. Gli ultimi 20 anni della sua vita sono dedicati alla Divina Commedia. Dante aveva formato una scuola di poesia e come maestro vi era Cavalcanti; la scuola è un gruppo di giovani fiorentini e prende il nome dalla novità che il loro stile impone alla poesia con un tema principale: l’amore. Ogni altra cosa (guerra, viaggi…), sono un pretesto per parlare d’amore. Questo gruppo di poeti era chiamato dolce stilnovo. “Vita nova” è un genere letterario molto particolare, che però non avrà fortuna; si tratta di una serie di capitoli in cui sono presenti sia la prosa che i versi. I testi di questo tipo si chiamano prosimetri. Uno degli elementi caratteristici della poesia rispetto alla prosa è il ritmo, e il ritmo è la regolarità di certe cadenze; prosa, dal latino prosus, vuol dire andare di seguito. Si chiama “Vita Nova” perché celebra il rinnovamento, la via giusta che Dante ha trovato quando ha incontrato una donna, la donna della sua vita, di nome Beatrice. Dante non era innamorato di lei, ma la amava al di sopra di ogni cosa. Essere innamorati di qualcuno significa poter pensare ad una donna in maniera completa. Beatrice appartiene ad un livello superiore, è un miracolo, qualcuno che è sceso dal cielo a dare prova della potenza di Dio, ed è l’incontro con lei quello che ha rinnovato la sua vita. Il dialogo di Dante con Beatrice assomigliava ad un dialogo di una persona con la Madonna, piuttosto che con una donna normale; Gemma Donati, la moglie di Dante, questo lo capiva. Dante, per Beatrice, ha devozione assoluta, è un principio che assimila Beatrice alla Madonna, un principio assoluto legato alla fede di Dante. Quando Beatrice si è manifestata, Dante ha provato una forma d’amore diversa dal normale, è superiore, e questo lo si può capire già dal nome Beatrice, che significa “colei che ti rende beato”. Beata è la 6 categoria dello spirito, quasi santo. Chiamarla donna è riduttivo perché le donne sono ben altre, lei era la Madonna. Quello che Dante concepisce ci fa capire che esiste una gerarchia anche nel linguaggio. Qui Dante racconta l’esperienza che per lui, e per chiunque, rappresenta la visione di Beatrice, e il racconto funziona con una forte gerarchia tra il testo in prosa, che serve per spiegare il testo in versi e ha una funzione utilitaria, e il testo in versi. Tra i due non c’è un confronto di gerarchia, il testo importante è quello in versi, la prosa è subalterna. Questo testo non ha un titolo, ma in qualche manoscritto antico il titolo che gli hanno dato è “Effetti della visione di Beatrice”. “Visione” è una parola estremamente complessa, deriva da visus, che vuol dire “vedere” in latino, ma deriva anche la parola “viso”, l’oggetto dello sguardo, è quello che colpisce di più di una persona. È il momento dell’innamoramento, anche se è una esperienza del tutto particolare. Beatrice dona beatitudine anche attraverso il suo volto. In latino, Beatrice si dice “Beatrix” che si scompone in “BEATR” + “IX”, che in latino rappresenta il numero 9. Da BEATR si ricava “Berta”, un nome abbastanza comune, e che deriva da un nome germanico. Con il termine Berta si indicava la maggior parte della popolazione femminile. Il nome di Beatrice è dato, quindi, dalla somma di tutte le donne + 9, che rappresenta il numero perfetto 3, la Trinità, moltiplicato per se stesso, portato alla propria potenza; è un numero che identifica la perfezione, ma anche il miracolo dove la perfezione si manifesta in un modo spettacolare. Questo ce lo dice anche Dante tre capitoli dopo a questo. Anche tra pittura e letteratura c’è sempre stato un gioco delle parti. Il pittore ci mostra questa scena con Beatrice vestita di bianco e circondata dalle sue amiche, e Dante che la osserva. Qui si capisce subito la differenza tra quello che stiamo leggendo e quello che ci mostra questa pittura. La pittura ci dice già tutto e riusciamo anche a riconoscere Dante per il suo naso, il cappellino, la mano sul cuore e la mano appoggiata al ponte. Il margine di interpretazione è piuttosto limitato. Nel testo, invece, le parole danno spazio all’immaginazione; il pittore è costretto a rappresentare Beatrice nei dettagli, mentre, nella poesia, si da spazio all’immaginazione, non ci viene detto com’è fisicamente la donna. Dante, nella Vita Nova, non descrive mai Beatrice perché la descrizione vorrebbe dire rendere visibile qualcosa che è pura astrazione, che si manifesta attraverso le sue doti e le sue virtù, non i suoi dettagli. Questo testo diventa il vero e proprio manifesto dello Stilnovo, soprattutto per gli ultimi due versi del testo che spiegano la fisiologia dell’Innamoramento, cioè qualcosa che è riservato ai pochi e fa arrivare al cuore questa dolcezza, questa esperienza di salvezza. Questo sonetto è sì piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d'alcuna divisione; e però lassando lui, [XXVII] dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei (attraverso/grazie a lei) erano onorate e laudate molte (molte le assomigliavano, ma non erano come lei). Un sonetto è un testo di 14 versi, divisa in 4 parti: • 2 parti di quattro versi ciascuna, chiamate quartine; • 2 parti di tre versi ciascuna, chiamate terzine. Esiste un legame forte già al tempo di Dante tra la poesia e la musica perché “sonetto” deriva dal latino somnibus, “piccolo suono”; diventa anche un virtuosismo. Il sonetto procede attraverso le rime che si susseguono dalle quartine alle terzine, l’uguaglianza di due, o più parole, dall’accento in poi. Questi testi, di solito, venivano messi in musica; in qualche caso, qualcuno ha preso un sonetto e l’ha messo in musica anche in epoca moderna. 7 Abbiamo, inoltre, il passaggio della dote dall’universo della fede all’universo laico; esalto l’amore che provo per una donna angelicata come Beatrice. GUIDO CAVALCANTI Dante considerava Cavalcanti un maestro e la persona più intelligente con cui aveva avuto a che fare. Cavalcanti nasce 7 anni prima di Dante e muore prima di lui. Cavalcanti era ateo e si fa fatica a immaginare Dante, che si costruisce sulla religione, e capire come avesse visto un maestro in Cavalcanti. Fa parte del dolce Stilnovo, è uno dei maestri e ci fa capire il passaggio, fondamentale per l’occidente, dalle lodi, dalle preghiere, dalla poesia, dalla Madonna a una donna che lui ama. Questo testo è stato scritto del sonetto di Dante; è anche questo un sonetto, il tema è lo stesso: è una donna che si muove, ma non è Beatrice, è una donna che vede. CHI è QUESTA CHE VEN, CH’OGN’OMO LA MIRA Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’âre e mena seco Amor, sì che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira? O Deo, che sembra quando li occhi gira! dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare: cotanto d’umiltà donna mi pare, ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira. Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, e la Beltate per sua dea la mostra. Non fu sì alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, che propiamente n’aviàn canoscenza. Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira: chi è questa che viene, che ogni uomo la ammira. Nella prima quartina troviamo “mira” e “sospira” proprio come nel sonetto di Dante. Questo vuol dire che Dante ha volutamente imitato questo testo di Cavalcanti per rendergli omaggio. Che fa tremar di chiaritate l’âre: che fa tremare di l’aria. E mena seco Amor, sì che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira?: e porta con sé Amore, tanto che nessun uomo può parlarle, ma ciascuno può sospirare. “Amor” ha la lettera maiuscola perché è una divinità. Cavalcanti sta mettendo in evidenza quello che in Dante abbiamo avvertito meno: il passaggio dall’elemento religioso a quello laico. Dal testo sacro, gli stessi moduli di rappresentazione, passano al testo laico; siamo di fronte ad una ibridazione di elementi, si mescolano. Allo stesso tempo, il sacro si mescola con la mitologia pagana (Amore che è un Dio). I contemporanei, che erano abituati alla lettura della Bibbia e delle preghiere, avvertono questo passaggio dell’amore che si laicizza. Questo testo è fonte del testo di Dante, l’origine, da cui Dante prende ispirazione per i suoi testi. O Deo, che sembra quando li occhi gira!: o Dio, che cosa sembra quando si guarda intorno. Cavalcanti non sta parlando di Beatrice, sta parlando di una donna più materiale. Dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare: dica Amore, che io non saprei raccontare. Cotanto d’umiltà donna mi pare: mi appare/ si manifesta a me donna così tanto di umiltà. L’umiltà è mettersi al livello degli altri, sentirsi ammirati ma al tempo stesso non mettersi su un piedistallo. 10 parlerei a quei due che ’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri". Ed elli a me: "Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello Amor che i mena, ed ei verranno". Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: "O anime affannate, venite a noi parlar, s’Altri nol niega!". Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l’aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov’è Dido, a noi venendo per l’aere maligno, sì forte fu l’affettüoso grido. "O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l’aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c’ hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che ’l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove ’l Po discende per aver pace co’ seguaci sui. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. china’ il viso, e tanto il tenni basso, fin che ’l poeta mi disse: "Che pense?". Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!". Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?". E quella a me: "Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante". Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com'io morisse. E caddi come corpo morto cade. Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito: poiché/dopo che io ebbi udito il mio dottore. “Poscia” deriva dal latino “pos cuam” (dopo che) ed è utile per Dante, è quello che in italiano significa “poiché”; indica un rapporto di causa-effetto che è connotato nel tempo. La sequenza temporale ha creato un dato effetto e il tempo è anche un dato che ci aiuta a capire il mondo che abbiamo intorno. “Udito” messo in posizione forte alla fine del verso ha un significato importante perché fa capire che Dante ha tutto proteso nell’ascolto a quello che gli diceva Virgilio. “Dottore” si riferisce a Virgilio, e lo chiama così perché significa competente in un determinato argomento, ma deriva anche da “dotto”, cioè colui che sa per eccellenza, l’uomo di scienza. 11 Nomar le donne antiche e ’ cavalieri: nominare le donne antiche e i cavalieri. Virgilio aveva fatto dei nomi, è qualcuno che sa e che gli ha raccontato delle cose. E questo ci fa capire come Dante, ogni volta che parla di Virgilio, non lo chiamerà mai con il suo nome, ma è nominato a seconda della funzione che assume in quel momento. Qui, ad esempio, ha mostrato di sapere tutte le donne e gli uomini che c’erano in quel girone dell’Inferno in cui si trovano Paolo e Francesca. “Le donne antiche” sono le donne dell’antichità, le figure di eroine, donne protagoniste di storie d’amore tragiche; i “cavalieri” sono quelli medievali, coloro che prestano servizio al re e all’imperatore. Virgilio, se ha nominato questi personaggi, significa che li conosceva. Le donne antiche e i cavalieri hanno una caratteristica comune, cioè il fatto di ritrovarsi tutti in una bolgia. La bolgia è la parte dell’inferno dove ci sono i peccatori di una determinata specie che scontano il loro peccato, il peccato che hanno commesso: i lussuriosi. Hanno abbandonato la ragione per il piacere, si sono fatti trascinare dalla tempesta dei sensi. Dante inventa un luogo in cui a ogni tipo di colpa corrisponde una pena, e lo fa secondo un modello che si chiama contrappasso, cioè il passo contrario, che per chi ha vissuto la tempesta dei sensi, è trovarsi nell’Inferno in una tempesta senza fine, un vento che li sbatte contro le pareti di questa enorme grotta infernale che è la bolgia. In questa parte dell’Inferno c’è un buio infernale, una visione infernale, dove ci sono alcuni lumi che guidano il cammino e danno delle indicazioni generiche. Si trovano le anime che vorticano tra loro sbattendo contro le pareti dell’Inferno e che soffrono una pena materiale che fa loro del male, si lamentano anche se sono incorporei. Questa pena, Dante la rende eterna, non cambierà mai nel tempo, non ci sarà mai fine. Pietà mi giunse, e fui quasi smarrito: mi raggiunse la pietà, e fui quasi smarrito. “Pietà” è una parola chiave dell’inferno, è una parola chiave per definire Dante stesso. La pietà la può trovare soltanto la persona che è in sintonia con gli angeli perché è Dio. Provare pietà significa lasciarsi commuovere. Qui lo dice perché è la prima volta che Dante incontra dei dannati, Dante non ha ancora parlato con nessuno dei dannati, era appena arrivato all’Inferno. Qui per la prima volta si trova davanti a dei dannati con cui parla. “Smarrito” significa che non è perduto, ma può essere ritrovato; questa è la consapevolezza di sé, significa perdere la coscienza. Dante si è quasi sentito male, tanto era la pietà che aveva provato per i dannati. I’ cominciai: "Poeta, volontieri parlerei a quei due che ’nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri": io cominciai: “Poeta, volentieri parlerei a quei due che vanno insieme/che si muovono insieme, e sembrano così tanto (essere) leggeri al vento”. Dante ci dice “io cominciai” perché, se Dante ha tenuto nella memoria la Divina Commedia e non l’ha mai scritta, anche un piccolo dettaglio come questo e le virgolette che si aprono e si chiudono, lui non aveva la minima idea che esistessero perché per Dante la scrittura era qualcosa di estremamente raro. I segni di punteggiatura, tra cui le virgolette, per la generazione di Dante e per quella successiva, non esistevano, ma cominciano ad apparire nel ‘500, dopo l’invenzione della stampa. La punteggiatura è l’elemento più artificiale della scrittura, che venne inventata quando la scrittura diventa patrimonio comune. Prima di allora, anche lo spazio tra un verso e l’altro, una terzina e l’altra, non esisteva, vengono introdotti dai codici di legge. Quindi, per Dante, l’”io cominciai” è una necessita per far capire al lettore questo cambiamento. Tutte queste parti che non sono belle, sono funzionali per Dante per far capire al lettore cosa sta succedendo. Qui Virgilio viene chiamato “Poeta”, colui che conosce l’animo umano, ci sta guidando alla sensibilità; Virgilio viene identificato a seconda delle sue funzioni. “Volontieri” significa che dipende dalla volontà; “paiono” ci vuole fare capire che anche qui il senso privilegiato è la vista. Sembrano essere più leggeri delle altre anime perché sono soli e uniti. Dante usa un linguaggio che fino a tempi recenti era difficile da definire, ma che ora si chiama subliminale, al di sotto del limite dell’esplicito. Contiene, però, anche il sostantivo “paio”; Dante ci sta mettendo davanti a due che vanno insieme, sono una coppia, sono uniti. Il vento che unisce ha un’idea di visione, vedo gli effetti del vento, ma lo sento anche, sollecita anche una visione di tipo acustico. Paolo e Francesca sembrano essere più leggeri rispetto agli altri perché sono due soli e sono uniti. 12 L’idea che Dante incontri per primi, nel suo viaggio all’Inferno, due personaggi come questi non è una cosa da poco. Tra i due, Paolo e Francesca, per raccontare la loro storia, sarà soltanto una voce, sarà quella di Francesca: la prima voce di un dannato nell’Inferno. Questo è per far commuovere chi ascolta; il personaggio femminile è quello che si carica di maggiore emotività, quello che commuove, è quello che crea un processo di immedesimazione. Nasce, quindi, il piacere di ascoltare qualcosa, ma che mi fa capire di essere salvo, di essere uno spettatore. Quando Dante scriveva questi versi, ascoltare storie, sentir raccontare una storia d’amore, non era così frequente, si ascoltavano storie solo durante la Messa. Qui si afferma una morale laica; molti che avevano ascoltato per la prima volta la storia di Paolo e Francesca scoprono che di amore si poteva morire. Ed elli a me: "Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega: ed egli a me: “Li vedrai meglio quando saranno più presso/vicino a noi; e tu allora pregali. Dante ha omesso il verbo reggente “disse”/”si rivolse”, ma, quando il verbo manca, il nostro cervello lo inserisce automaticamente. Le frasi che sono senza verbo si chiamano frasi ellittiche, che vogliono dire “mancanti di qualcosa” e che solitamente mancano di verbo. “Vedrai” questo verbo non ha un significato unicamente visivo, ma ci fa capire che è un verbo visivo perché il verbo visivo è quello che ha la priorità su tutto. In questo caso intende “aspetta e vedrai”. “Li priega” diventa “pregali”; Dante sposta il dittongo sulla sequenza iniziale di vocali. Dante scrive così perché ha bisogno di fare rima con “piega” e “niega” della terzina successiva. Per quello amor che i mena, ed ei verranno": per quell’amore/in nome dell’amore che li conduce, ed essi verranno. “Menare”, in questo caso, significa “condurre”. Inoltre, l’amore è una potenza che può valere anche nell’inferno; Dante, con un gioco di specchi, sta mettendo davanti al lettore una realtà dove l’amore l’uno per l’altro lo provano ancora, l’amore è una forza della natura. “Per”, in questo caso, ha il significato di “in ragione di”/”in nome di”, Dante ha bisogno di toccarli nel loro sentimento più profondo come se giurassero su qualcosa in cui credono di più. Virgilio sta suggerendo a Dante come rivolgersi ai dannati, di farli avvicinare a loro, perché c’è un rumore terrificante. Sì tosto come il vento a noi li piega mossi la voce: "O anime affannate, venite a noi parlar, s’Altri nol niega!": Non appena il vento li piega/volge verso di noi mossi la voce: “O anime affannate, venite a parlare a noi, se altri non lo nega!” “Mossi la voce” indica il permesso di parlare (è la prima volta che un uomo vivo parla con un dannato), indica la paura, il timore di Dante, la spinge fuori con fatica, rinvia a un momento di forte tensione, un forte condizionamento psicologico. È una locuzione importante perché si rifà alla ragione stessa della poesia. Nella Vita Nova c’è un passo dove Dante racconta di come gli è venuta in mente la poesia e ci fa capire come qualcosa gli sia venuto in mente e di come quello era stato un dono, come nei profeti della Bibbia. Le profezie della Bibbia sono tutte in versi perché era più facile che venissero ricordate. Tutto questo significa ispirazione. “Mossi” può anche indicare il fatto che dovette alzare la voce in modo da sovrastare il forte rumore. “Affannate” significa “piene d’affanno”, l’affanno è la manifestazione visibile di qualcosa di interiore, è un dato obiettivo. “Nol” significa “non lo” ed è una preposizione simile a “sul” e “col” e fanno parte di modelli linguistici, alcuni dei quali hanno avuto fortuna, altri invece no. “Altri” è singolare perché indica “qualcun altro” e si riferisce, quasi a chiedere permesso, a Dio. “Niega” sta per “nega” ed è scritto con la I perché a Dante fa comodo perché fa rima con “piega” e con “priega”. Il verbo è singolare, mentre il soggetto è apparentemente plurale. Quali colombe dal disio chiamate: come colombe chiamate/spinte/sollecitate dal desiderio. “Disio” è il desiderio che, in questo caso, è quello di stare insieme l’una con l’altra, la colomba vive e prolifica in coppia. Con l’ali alzate e ferme al dolce nido: con le ali alzate e ferme verso il dolce nido. Quando le ali della colomba sono alzate e ferme significa che è quasi vicino all’obiettivo. 15 “Siede” significa che si posa, si colloca, rappresenta la terra attraverso una presenza fisica. Viene attribuito ad un dato topografico qualche attributo umano; la terra sta comodamente seduta, quindi è una terra felice, è come se si sdraiasse. Su la marina dove ’l Po discende: sulla costa dove il Po discende La “marina” è una porzione di terra che guarda sul mare, è una costa, un luogo in cui il mare non è lontano. Il Po fa il suo percorso e sfocia, va verso il mare si getta nel mare per trovare pace. Per aver pace co’ seguaci sui: per avere pace coi suoi seguaci I “seguaci” del Po sono coloro che lo seguono, cioè gli affluenti. Questa è un’immagine di grande prosperità: l’acqua è benedetta per rendere la terra fertile e perché possa essere coltivata, è un’immagine felice che ci spiega che si trova agiata, si distende in maniera felice in questa zona. Francesca sta dando un’immagine come se mettesse davanti a Dante, con un’idea di felicità, della sua terra che si fissa con un’idea di rimpianto. Queste tre terzine successive cominciano tutte con la parola “Amore” e all’interno di queste tre terzine sono attivati dei percorsi di simmetria con un’attentissima costruzione del testo. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende: Amore, che si aggrappa velocemente al cuore gentile Francesca parla d’amore perché sa che questo è un tema che cattura l’attenzione dei due che ha davanti, Dante e Virgilio. Francesca parla con un vocabolario che è lo stesso della Vita Nova, lo stesso dello Stilnovo, lo stesso che ha usato Cavalcanti e Dante. “Ratto” è alla base di un italiano che deriva dal latino “raptus” che significa “veloce, fulmineo, istantaneo” ed è sua aggettivo che avverbio. In questo caso è un avverbio e ha il significato di “velocemente”. Vi è l’idea dell’istantaneità, l’idea dell’amore che colpisca in un attimo, a sorpresa e questa è l’idea dello Stilnovo. L’amore, in questa terzina, si aggrappa velocemente al cuore gentile; l’amore viene personificato e chi viene detto quello che fa. Prese costui de la bella persona: si impadronì per bella persona Sebbene la potenza d’Amore si manifesta attraverso lo sguardo, la bellezza è privilegiata, è una qualità. “Bella persona” significa che ha un bel corpo; persona in latino significa “maschera”, cioè diventare qualcun altro. Il nostro corpo, così come la maschera riveste il corpo dell’attore, è la maschera che riveste l’anima. Che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende: che mi fu tolta; e il modo mi offende ancora Il corpo di Francesca le è stato tolto, e il modo in cui le è stato tolto non lo accetta. La sua sofferenza è quella di qualcuno che non è d’accordo a quello che le sta succedendo; prova ancora rabbia come il suo bel corpo, di una posizione sociale alta, le è stato tolto. L’”ancora” fa capire a Dante che i dannati soffrono per quello che gli è successo, è la sofferenza di chi patisce qualcosa di ingiusto, ciò che hanno provato e che stanno patendo. Amor, ch’a nullo amato amar perdona: Amore che a nessuno che sia amato perdona il fatto di amare Amore non tollera che chi è amato lo riami, non tollera che chi è amato non ami a sua volta; chi è amato deve ricambiare. L’amore agisce anche contro di te, non tollera e non perdona; se tu sei amato devi a tua volta amare. L’amore a nessuno che sia amato gli perdona il fatto di amare, gli fa uno sconto sul suo amore. L’amore è una forza brutale che ti condanna contro la tua volontà. In questo caso, l’amore non tollera che chi è amato non ami a sua volta. Mi prese del costui piacer sì forte: prese me del piacere così forte di costui Questo era stata la colpa di Francesca, Paolo le dava piacere perché era bello anche lui, questa è l’attrazione; l’amore si impadronisce del fatto che le piacesse così fortemente colui che aveva vicino. Che, come vedi, ancor non m’abbandona: che, come vedi, ancora non mi abbandona/non mi lascia “Ancor non m’abbandona” significa che ancora non l’ha lasciata e non la lascerà mai, e questo è un piacere per Francesca. Quel “ancora” non vale soltanto fino ad ora, ma per sempre, oggi e domani saranno uguali. 16 Il periodo metrico, cioè la terzina, coincide con il periodo sintattico, sono frasi costituite da un’intera terzina. La sintassi è l’analisi del periodo, cioè qualcosa che ha una durata. La figura che sta parlando è estremamente realistica, sta parlando di sé e si sta mettendo a nudo. Sull’amore, Francesca la pensa come Dante; il suo amore è un amore dello Stilnovo. È un amore che trova il suo vocabolario nel sonetto “Tanto gentile” della Vita Nova. Su un episodio di Francesca, si può immaginare una morte violenta per mano di qualcuno che ha impedito che potesse proseguire il suo amore: è vittima di omicidio. Dante, a queste parole, ha già avuto modo di mettere a fuoco la persona che aveva davanti perché era stata protagonista di un caso di cronaca famoso a Rimini. Tra le famiglie più importanti d’Italia a Rimini, anche dal punto di vista politico, c’erano i Malatesta, infatti Rimini ha al centro della città il tempio malatestiano per dimostrare la grandezza di questa famiglia. Francesca è venuta da una famiglia che era chiamata Da Polenta, una famiglia di Ravenna, che era anche una famiglia nobile; forse Dante aveva anche soggiornato a Ravenna presso questa famiglia durante il suo esilio. Dante, da tutto questo, ha già capito di avere davanti la protagonista di questo caso di cronaca di cui non c’è documentazione che raccontano questa storia, forse perché i Malatesta erano così potenti da far sparire ogni documentazione. Non si ha nemmeno una data precisa, più o meno il fatto poteva essere successo 10 anni prima della nascita di Dante. Questo vuol dire che, nascendo 10 anni dopo, Dante ne aveva sentito comunque parlare. Amor condusse noi ad una morte: Amore ci condusse ad una morte “Ad una” ha un valore intensivo, intende ad un’unica morte, quindi significa che sono morti insieme. Amore li ha portati a morire insieme e ad un’unica morte. Caina attende chi a vita ci spense": Caina attende chi ci spense/ci tolse dalla vita “Caina”, che deriva da Caino, colui che uccise suo fratello, è il girone più profondo dell’inferno, il punto di maggior sofferenza dell’inferno dove si soffrono le pene peggiori e si trovano coloro che hanno sono stati omicidi dei propri famigliari. Chi li ha uccisi finirà nel più profondo dell’inferno, è quasi una profezia che anticipa il futuro, dice qualcosa che si avvererà ed è, in qualche modo, la vendetta che si avvererà. “Attende” significa che la persona di cui sta parlando non è ancora finita lì, ma è ancora vivo. La persona di cui si sta parlando è Gianciotto Malatesta, marito di Francesca e fratello di Paolo che è stato signore di Rimini e che morirà qualche anno dopo; quando Dante scrive Gianciotto non è ancora morto. Questo ci fa capire che i dannati conoscono qualcosa del futuro, hanno una reattività che consente loro di capire che Dante è vivo e che possono fare una profezia, in questo caso, nei confronti del marito che è una dannazione, una condanna. Questo è un verso che ci fa capire che finisce una parte. Il discorso di Francesca si attiva su due tempi perché Dante ha l’esigenza di voler sapere qualcosa di più su questa storia, ci fa capire come Dante sia interessato a capire e sapere la storia di Francesca. Dante vuole ristabilire la verità, ma alla verità manca un pezzo. Queste parole da lor ci fuor porte: queste parole ci sono state porte/presentate da loro “Ci” significa “a ni” e sta ad intendere sia Dante che Virgilio, perché erano presenti entrambi durante il discorso di Francesca. Quand’io intesi quell’anime offense: quando io finì di ascoltare quelle anime offese In questo caso Dante parla solo di se stesso, non usa il plurale perché non fa riferimento anche a Virgilio. China’ il viso, e tanto il tenni basso: chinai il viso, e lo tenni tanto a lungo basso “Tanto” è un avverbio di tempo, intende tanto a lungo. Colui che tiene il viso basso è chi sta pensando, sta ragionando tra sé e sé, quindi Dante è immerso nei suoi pensieri. Fin che ’l poeta mi disse: "Che pense?": finché il poeta mi disse: “Che cosa stai pensando?” Virgilio è ancora poeta perché la sua funzione è quella di entrare nell’animo di Dante e che si fa carico delle emozione degli altri, non è più dottore come nel primo verso perché non è colui che sa, in questo caso, ma è colui che sente. 17 La fretta, la voglia di andare ad un punto è qualcosa di essenziale per Dante perché non può perdere tempo perché gli è stato dato un tempo fissato Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso: Quando risposi cominciai: “Oh povero me/Ahimè “Lasso” vuol dire stanco, affranto e si riferisce a se stesso, si riferisce a se stesso, a Dante. Quanti dolci pensier, quanto disio: quanti dolci pensieri, quanto desiderio/attrazione Dante sta pensando se il dolce pensiero e desiderio siano abbastanza per giustificare questa morte, la morte di Paolo e Francesca. Menò costoro al doloroso passo!": Menò costoro al doloroso passo!” Il “doloroso passo” per eccellenza è il passo estremo, la morte in cui lasciarono la vita; la morte era anche il trapasso. La vita è anche un cammino a cui ha contribuito anche Dante stesso a fissarlo nel nostro vocabolario. Poi mi rivolsi a loro e parla’ io: poi mi rivolsi a loro e parlai io Dante, ascoltando Francesca, ha paura che la richiesta che sta per farle risponde a questa paura, e per questo le chiede cosa le era successo e come era iniziato, va a chiederle qualcosa di estremamente delicato. Dante, con la sua insistenza sull’”io” ci fa capire che quello che vuole sapere è qualcosa di preciso e che riguarda lui stesso. E cominciai: "Francesca, i tuoi martìri: e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri È l’unica volta in cui in tutto il canto viene nominata la protagonista, quella che ha parlato; l’espressione del nome ci fa capire che Dante ha capito chi ha davanti. A questo punto, Dante ha offerto piano piano degli elementi al lettore per aver chiaro chi ha davanti. Il “martirio” è la sofferenza, sia in senso figurato che in senso realistico; è procurare dolore. Però, propriamente, questa parola è collegata ai martiri, coloro che hanno provato per eccellenza la sofferenza che gli ha portati a morire. Dante sta facendo un curioso uso della lingua perché si riferisce a una dannata trattandola come una martire, ma non è una parola scelta a caso. È quasi un controsenso che per un dannato si possano usare parole come queste; abbiamo un Dante che fa un doppio gioco perché prende un personaggio storico e lo mette nel suo racconto, che ha tradito il marito con il cognato, quindi ha commesso un incesto. Dante, però, si mette dalla sua parte quando racconta la sua storia e crea un gioco di specchi formidabile tra se stesso come personaggio e il suo essere poeta e narratore. Dante non ci racconta le cose così come sono, ma ascolta e quasi si identifica in lei, nella protagonista. Al punto da lagrimar mi fanno tristo e pio: mi rendono triste e pietoso fino a/al punto da lacrimare Dante ha pietà di loro, di Paolo e Francesca. Quindi, “pio” è la costatazione che Francesca aveva ragione, rende Dante triste e pietoso, empatico, prova compassione. Questo spiega perché Dante tenesse il capo basso per non fare vedere la commozione così vistosa e che si accompagnava alla riflessione su quello che aveva appena ascoltato. Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri: Però dimmi: al tempo dei dolci sospiri/pensieri “Dimmi” è un imperativo perché, nella logica che ha costruito Dante, il dannato non può rifiutarsi di rispondere. “Dolci pensieri” sono i pensieri d’amore, è l’amore tra i due ad evocarli e che si rivolge anche Dante; ma all’interno di quel luogo suonano stridenti. A che e come concedette Amore: a che fine e in che modo concedette Amore Anche in questo caso Amore è una divinità a cui non si può rifiutare obbedienza. Che conosceste i dubbiosi disiri?": che conosceste i dubbiosi disideri?” “Desideri dubbiosi”: i desideri di Paolo e Francesca non sono dubbiosi perché si sono realizzati. I desideri sono pieni di dubbi quando sono agli inizi, quando una storia sta per cominciare. Dante fa questa domanda ingenuamente perché vuole sapere com’è cominciata questa storia d’amore tra Paolo e Francesca, quali sono i primi sintomi di quello che può diventare un pericolo enorme se ci cadi dentro; Dante fa questa domanda perché sta pensando a se stesso. Se Dante capisce come 20 “Fia” è un futuro del verbo essere che vuol dire “sarà”. Quello che Dante aveva visto subito quando li aveva visti in coppia potrebbe essere un premio oppure un’aggiunta al loro tormento, qualcosa che potrebbe farli soffrire ancora di più. Dante ci fa riflettere su questo, lascia giudicare noi. Sono condannati a vivere insieme per l’eternità. Dante non ci sta dicendo qualcosa di superfluo, ce lo sta dicendo per invogliare il lettore a riflettere di più. La bocca mi basciò tutto tremante: mi baciò la bocca tutto tremante Dante si serve di una forma che si chiama dissimilazione dove la doppia S viene scomposta e arriva alla parola “basciare". In questo verso vi è un’allitterazione sulla B di “bocca” e di “basciò” e della T di “tutta tremante”. Questo nesso che si lega alla bocca ci da l’idea di un perfetto meccanismo fisiologico. Il bacio era qualcosa legato alla paura, un bacio clandestino che rappresenta l’incesto da questo punto in poi. Dante ci dice che non si sa quello che è successo dopo, non vuole farcelo capire e lascia spazio all’immaginazione. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: Galeotto fu chi scrisse il libro ma è stato anche il libro “Galeotto” significa che ha fatto da tramite, da mediatore, un ruffiano, qualcuno che ha dato una mano a fare qualcosa che forse era meglio non fare. In questo caso Galeotto è nome proprio, è un signore, Galeaut, è lo scudiero di Lancillotto che lo aiutava a salire a cavallo e si occupava di lui dal mattino alla sera. Galeotto disse a Lancillotto che Ginevra lo amava alla pazzia e li spinge a baciarsi l’uno con l’altra. Dante ci racconta che il libro ha spinto Paolo e Francesca a baciarsi. Galeotto è anche colui che racconta la storia dell’amore tra Ginevra e Lancillotto, è colui che scrive il libro ma anche che vive la storia, per questo si associa la parola “ruffiano”. Alla parola “Galeotto” si associa anche a chi si trova ospite di una “galea”, una nave dove venivano imbarcati degli uomini che lavoravano forzatamente e venivano chiamati galeotti. Quel giorno più non vi leggemmo avante": quel giorno non andammo più avanti nella lettura Queste sono le ultime parole pronunciate da Francesca in tutta l’eternità; anche se lei era insieme a Paolo, il rumore infernale che c’era copre la possibilità che loro si parlino perché non si sentivano. “Quel giorno” fa riferimento a “un giorno” dei versi precedenti, il giorno in cui ha esaltato e ha fatto nascere il loro amore, ma anche la loro condanna. Non ci dice quanto tempo è passato dal bacio all’assassinio. Mentre che l'uno spirto questo disse: mentre che l’uno dei due spiriti disse questo La chiusura del canto è una riflessione di Dante. “Spirto” ci riconduce al fatto che questi non erano materia, ma al fatto che Paolo e Francesca sono degli spiriti anche se per tutto il canto vengono trattati come esseri corporei. L'altro piangëa; sì che di pietade: l’altro piangeva; così che/tanto che per pietà “Di pietade” significa che Dante svenne a causa di tanta pietà; “Di” è un complemento di causa. Dante prova pietà per il male perverso di Paolo e Francesca. Io venni men così com'io morisse: io svenni così come se stessi morendo La risposta che Francesca ha dato a Dante è stata esauriente, ma lo mantiene nella paura, perché quello che era successo a loro è accaduto tutto in un attimo che ha segnato per sempre le loro vite. Vi è, quindi, l’incommensurabilità tra il peccato e la pena. E caddi come corpo morto cade: e caddi come cade un corpo morto Questo verso, che è il verso finale ed è uno solo, riprende il verso centrale della terzina precedente, così come fa ogni terzina rispetto alla precedente creando delle rime. Il lettore capisce così che il canto finisce. Qualche studioso di linguistica ha notato che Dante insiste, per ben due versi, sull’assenza di volontà che comporta il fatto di cadere; Dante non compie l’azione, è quasi come un’azione subita e come se avesse intuito la volontà di esprimere qualcos’altro. Dante quindi compie l’azione involontariamente e la subisce anche. 21 Lezione 4: 24 marzo 2023 L’INFERNO DI DANTE ALIGHIERI: ULISSE Questo è il canto XXVI e siamo nell’ottava bolgia che ci sta portando verso l’abisso, il centro dell’inferno. L’azione si sposta verso dei peccatori che appartengono a una categoria intellettuale che ha a che fare con l’abilità di parlare agli altri, di convincerli e che comprende anche l’astuzia e la perversioni. Si chiamano consiglieri fraudolenti; sono puniti perché vengono consumati da eterne lingue di fuoco, come la loro lingua è stata esercizio negativo durante la vita, ha portato loro stessi e altri alla rovina, così vengono puniti per l’eternità in una lingua di fuoco. Nel Medioevo esisteva una prospettiva gerarchica e Dante nell’Inferno fa la stessa cosa, c’è una fiamma minore e una maggiore, cioè quella in cui si consumava l’anima di Ulisse. Dante ha qualche dubbio sulla figura di Ulisse perché non conosce la fine dell’Odissea, ha qualche idea sulla guerra di Troia e conosce il viaggio che Ulisse e i suoi compagni compiono nel Mediterraneo. Il richiamo ad Enea e agli episodi dell’Eneide sono omaggi che Dante fa ai suoi maestri. Dante si sente autorizzato a creare un finale diverso per Ulisse perché non conosce la vera fine, la fine dell’Odissea. Il manoscritto greco dell’Odissea, nel Medioevo, non poteva essere conosciuto perché in Occidente non c’era ancora nessuno che conoscesse il greco. Si dovrà aspettare la caduta di Costantinopoli per avere le conoscenze del greco in Europa. CANTO XXVI: ULISSE Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: «Quando mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse, né dolcezza di figlio, né la piëta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore; ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola dalla qual non fui diserto. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola de’ Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta; de’ nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto dalla luna, poi che 'ntrati eravam nell'alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché della nova terra un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque; 22 dalla man destra mi lasciai Sibilia, dall’altra già m’avea lasciata Setta. "O frati," dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sopra noi richiuso». Lo maggior corno de la fiamma antica: il maggior corno della fiamma antica “Della fiamma antica” perché Ulisse era arrivato da prima della nascita di Cristo all’inferno. Ma se Ulisse ha vissuto nell’epoca degli dei pagani, perché viene punito da Dio, che è il Dio dei cristiani? È chiaro che Dio preesiste agli dei pagani, c’era anche prima, ma Ulisse non lo sapeva. Dante decide di mettere Ulisse all’Inferno perché rappresenta qualcosa di più, che ci dà l’idea di una diversa prospettiva sul mondo. Cominciò a crollarsi mormorando: cominciò a scuotersi mormorando. “Mormorando” significa “fare rumore” che qualcuno dice di essere il crepitio della fiamma, mentre qualcun altro sostiene che siano le prime parole che tenta pronunciare Ulisse e che non si capiscono. Se Dio concede che un dannato parli con Dante, gli rende anche la situazione comoda, fa tacere questo crepitio infernale delle fiamme che ardono e le urla dei dannati perché Dante possa ascoltare. Pur come quella cui vento affatica: proprio come quella che il vento affatica. Dante scrive “cui” invece di “che” perché gli piaceva così, fa una costruzione indiretta scegliendo un complemento indiretto usato in funzione diretta. “Cui” viene utilizzato per dire “a cui”, “per cui”, ecc. invece di “che” che è complemento oggetto, ma per Dante questa distinzione non è ancora codificata. “Affatica” perché il vento soffiando continuamente su qualcosa, è come se quel qualcosa non ne potesse più. Questa fiamma andrà avanti per l’eternità, e, il vento che si affatica, dà l’idea della vita che sia affatica. Dante attribuisce anche dei momenti di tipo umano agli elementi della natura, ad esempio le fiamme, ma anche il Po nel canto V di Paolo e Francesca che si avvia verso il proprio delta e sfocia nel mare per trovare pace. Indi la cima qua e là menando: dopo (il maggior corno) menando/muovendo la cima qua e là. Vi è il paragone della fiamma con la lingua che ci fa capire anche l’espiazione di questo dannato; nel linguaggio comune, noi usiamo come espressione “lingue di fuoco” come se fosse la lingua che parla. Come fosse la lingua che parlasse: come fosse la lingua che parlasse Dante non vede Ulisse, non ce lo descrive, ma è la lingua che si muove e sembra una lingua che parla. Gittò voce di fuori e disse: «Quando: gettò (la lingua) la voce di fuori e disse: “Quando “Gittò” ci da l’idea di una fatica, è lo sforzo, sottolinea una componente di volontà che corrisponde al verbo “mormorando” del secondo verso. Dante termina in questo modo la terzina, con un periodo sintattico che rimane bloccato con un avverbio di tempo e offre al lettore una cosa strana che non si ripete altrove nel testo, perché ci può aiutare a capire una cosa, ci aiuta a capire che l’elemento temporale è decisivo. Tutto il racconto di Ulisse è costruito sull’importanza che ha il tempo nella vita di un uomo. Dante sceglie qualcuno che è quasi in punto di morte, che è vecchio. Ulisse è condizionato dal tempo, ma anche Dante è ossessionato da questo fattore. Mi diparti’ da Circe, che sottrasse: Circe sottrasse me “Circe” è il racconto dell’Odissea, di questo viaggio che dura 10 anni dopo la guerra di Troia e ci racconta il soggiorno di Ulisse e dei suoi compagni presso la Maga Circe presso il promontorio che prende il nome dalla Maga, il Circeo, una delle penisole che fa parte del golfo di Napoli. Circe era una Maga a cui piaceva ad avere degli uomini a sua disposizione; Ulisse era stato oggetto di incantesimo da parte di Circe, mentre chi non voleva rimanere lì veniva trasformato in maiale. “Sottrasse” indica che Ulisse fu tenuto in prigionia dalla Maga Circe e non poté reagire a questo condizionamento. Me più d’un anno là presso a Gaeta: mi trattenne per più di un anno presso Gaeta. 25 Prima della pronuncia della I staccata dalla E vi è una sequenza delle O iniziali che hanno un colore cupo, scuro. Questa sequenza di O, che ad un certo punto si stacca, prima della I prepara a una chiarità, l’idea del colore. Questi procedimenti, che hanno a che fare con una lettura del testo, si chiamano fonosimbolici; il fonosimbolismo è da attivare i suoni in una determinata funzione. In tutti questi casi, l’accento finale del verso, che è l’accento più importante, cade sempre sulla decima sillaba. Non tutti i versi sono degli endecasillabi, ma esistono versi in cui l’accento cade sulla terzultima sillaba formando delle sillabe sdrucciole. La definizione corretta di “endecasillabo”, quindi, non è quella di verso di 11 sillabe, ma il verso il cui accento finale cade sempre sulla decima sillaba. Gli endecasillabi, come le parole italiane, possono essere tronchi, piani e sdruccioli. L’italiano può avere anche bisdrucciole, cioè l’accento cade sulla quartultima sillaba. Mentre le parole piane hanno la possibilità di avere rime senza troppi problemi, già con le parole sdrucciole si fa più fatica. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi: io e i compagni eravamo vecchi e tardi Di fronte a delle regole che erano ben presenti a Dante, vi è l’insistenza sull’elemento individuale e “i compagni” sembra una appendice che viene trascinata. “Vecchi e tardi” apparentemente sono due sinonimi, ma indicano due realtà, tra cui quella temporale, che è tra i focus più rilevanti del testo. Quando venimmo a quella foce stretta: quando venimmo a quella foce stretta Dante applica “la foce” al Mediterraneo come sei fosse un grande fiume che si getta nell’oceano; la chiama foce perché è stretta, è poco più grande del delta di un fiume. Dov’Ercule segnò li suoi riguardi: dove Ercole segnò i suoi confini Ercole aveva avuto il compito dagli dei di segnare quel punto sul promontorio africano del Marocco, sullo stretto di Gibilterra, il divieto di passaggio per gli uomini del Mediterraneo, aveva messo le colonne che segnavano il passaggio e la dicitura è “non plus ultra” per dire che raggiunto quel punto, non potrai andare oltre. “Riguardi” significa confini e sono suoi perché prendono il nome da lui, da Ercole. È una parola piuttosto strana e i linguisti ci si sono dedicati, fino a che è venuto fuori che questa è una parola che viene a Dante dai dialetti emiliani. “Riguardo” sono quelle due colonne che delimitano l’ingresso di una proprietà terriera che può avere o no anche un cancello e un perimetro, con una rete o un muro, che gira intorno alla proprietà. Sono quindi dei simboli indicatori di un confine, di un limite. È una parola che Dante poté imparare solo durante l’esilio, nell’ultima parte della sua vita. Se Dante ha potuto conoscere questa parola e se ne serve qui, vuol dire che, arrivato agli ultimi anni di vita, stava già scrivendo il testo della Divina Commedia; ha perfezionato la forma che doveva essere definitiva. I linguisti, hanno visto che dal punto di vista del lessico delle parole, il Paradiso e l’ultima parte del Purgatorio contengono molti più arcaismi rispetto all’Inferno, che Dante avrebbe probabilmente cambiato se fosse arrivato a rivedere anche quella parte. Quindi l’ipotesi dei linguisti è che Dante sia arrivato a rivedere fino a più meno i primi due terzi del Purgatorio. Acciò che l’uom più oltre non si metta: al fine che l’uomo non si metta/non vada oltre “Acciò” indica un complimento di fine, “con lo scopo di”. Il verbo “metta” è lo stesso del verso 100, ma in questo caso è l’uomo, in generale, a non doversi mettere oltre, non proceda oltre. Dalla man destra mi lasciai Sibilia: dalla mano destra mi lasciai Siviglia “Mi lasciai” indica una focalizzazione sulla prima persona, anche se tenta di parlare al plurale, i compagni sono presenti per trascinamento che con una precisa identità. “La man destra” indica la destra e il sud della Spagna dove c’è Siviglia. 26 Dall’altra già m’avea lasciata Setta: dall’altra mano mi aveva già lasciato Ceuta Ceuta si trova all’interno del Marocco ed è ancora oggi una enclave spagnola, cioè che appartiene alla Spagna anche se è circondata da territorio straniero. Dante era partito con un discorso diretto e le virgolette si chiudono alla fine del Canto, perciò abbiamo di fronte un discorso continuato di Ulisse, parla solo lui e non ci sono interruzioni o commenti da parte di Dante, la voce è soltanto quella di Ulisse. "O frati," dissi, "che per cento milia: “Fratelli” dissi “che attraverso cento mila Qui siamo al punto si aprono delle virgolette all’interno del discorso di Ulisse e parte con un vocativo indirizzato ai suoi compagni. “Dissi” significa che Ulisse, in queste tre terzine fino al verso 120, sta pronunciando il discorso decisivo, quello che ha convinto i suoi compagni a fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto, il folle volo, un’esperienza assurda che mai prima nessuno aveva tentato trasgredendo il divieto divino. Ulisse pronuncia una piccola orazione, una preghiera rivolta ai suoi compagni per convincerli; è proprio da qui che nasce il suo peccato di consigliere fraudolento. Ulisse riesce a convincere i suoi compagni, i quali erano entusiasti. Dante prova a scrivere quello che Ulisse avrebbe detto e vengono fuori tre terzine tra le più famose della Divina Commedia. Perigli siete giunti a l’occidente: pericoli siete giunti all’occidente L’”occidente” è l’estremo occidente, l’ultimo occidente, quello che chi lo vede torna indietro. Tornare a casa prima delle colonne d’Ercole, dopo aver visitato la Sicilia, è quello che Omero fa fare ad Ulisse, ma Dante non conosce la fine dell’Odissea per cui inventa questo. A questa tanto picciola vigilia: a questa vigilia così breve Questi versi ci mostrano come le prime due terzine facciano coincidere ritmo e sintassi su sei versi e costituiscono un’unica frase. La terzina finale dell’orazione è la conclusione; siccome la preghiera deve essere ben strutturata, abbiamo, come nel caso di Ulisse, un testo retorico breve che si chiama orazione piccola. Questa orazione piccola è divisa in tre parti: la prima è la premessa minore, la seconda è la premessa maggiore e la terza terzina è la conclusione. La “vigilia” solitamente è la notte prima di un evento; solitamente si veglia su qualcuno quando è malato o si veglia sul corpo del defunto e lo si accompagna nella notte che precede la sepoltura con le preghiere della veglia. La veglia, quindi, è il tempo che viene prima. Dante si serve volutamente della parola “vigilia” perché ha a che fare con il tempo funebre, è come se Ulisse dicesse ai suoi compagni che quella era la vigilia della loro morte. De’ nostri sensi ch’è del rimanente: di quel poco che resta dei nostri sensi “I sensi” è tutto quello che ad Ulisse e ai suoi compagni rimane, è la viglia della loro morte. Sta dicendo che se fossero giovani forse non gli avrebbe mai chiesto questo, ma la loro vecchiaia e quel poco che hanno da vivere, è fatta per conoscere qualcosa e fare una esperienza che nessuna aveva mai fatto prima. Non vogliate negar l’esperïenza: non vogliate negarvi l’esperienza Questo verso significa che Ulisse dice ai suoi compagni di non negarsi l’esperienza, ma di desiderarla; Ulisse non sta ordinando ai suoi compagni, ma vuole la loro volontà, sta chiedendo un consenso. “Esperïenza” si lega al fatto che anche i compagni di Ulisse stanno diventando esperti, come lo era lui. L’esperienza sarà quella del mondo senza gente, la conoscenza ed essere diventati gli esperti del mondo. Di retro al sol, del mondo sanza gente: del mondo senza gente, stando dietro al sole Il mondo “sanza gente” è il mondo in cui non vi è nessuno, dove nessuno era mai stato. Non potevano approdare in nessun luogo perché la corrente li avrebbe trasportati lontano e in alto mare. “Dietro al sol” perché il sole sorge ad oriente e tramonta ad occidente; quindi Ulisse e i suoi compagni seguono il corso del sole. Considerate la vostra semenza: considerate il fatto che siete uomini “Semenza” sta ad indicare il fatto che sono uomini, il loro appartenere al seme di Adamo, l’origine dell’umanità. 27 Fatti non foste a viver come bruti: non siete stati fatti per vivere come animali “Fatti” significa che sono stati fatti così, indipendentemente dalla creazione; quello a parlare è Ulisse, colui che non conosceva l’esistenza del Dio dei cristiani. Qui vi è una posizione ambigua ma che corrisponde perfettamente al personaggio di Ulisse che non è contento di subire la volontà del Dio dei cristiani. Abbiamo nuovamente di fronte un dannato che ha anche lui da ridire su quello che gli è successo perché, se aveva il dovere di spingere al massimo la sua sete di conoscenza, non capiva perché era finito all’inferno. I “bruti” sono gli animali che non hanno volontà propria, gli animali che l’uomo ammaestra e di cui si ne serve; gli animali che non hanno la ragione. Ma per seguir virtute e canoscenza": ma per seguire la virtù e la conoscenza” Anche qui abbiamo il solito “ma” che ha una forza che anticipa un punto forte della struttura narrativa del testo. Ulisse dice di seguire la virtù propria dell’uomo, che è il desiderio di scoprire, e la conoscenza. Anche questa fa parte di quelle sentenze di Dante che colpiscono il lettore e che possono essere anche estratte dal contesto per ritrovarle nelle biblioteche del Rinascimento e del ‘700. Inoltre, anche qui il tema del tempo è ricorrente. È la fine del discorso diretto che Dante ha riportato tale e quale a come l’aveva pronunciato Ulisse. Li miei compagni fec’io sì aguti: i miei compagni li resi così aguti “Aguto” è acuto, cioè qualcosa che ci serviamo, nel linguaggio corrente, per indicare qualcosa che punge, che ha un effetto e il contrario di acuto è ottuso. Perciò, uno è acuto quando è pronto, rapido, reattivo, quando sa quello che deve fare, ogni sua azione è rapida e intelligente. Ulisse ha reso i suoi compagni pronti e questo pronome personale “io” ci fa capire ogni volta la missione di responsabilità, ci fa capire che è testimone di quello che ha fatto ed è orgoglioso di quello che ha fatto e lo manifesta. Con questa orazion picciola, al cammino: con questa piccola orazione, al viaggio/cammino “Orazione picciola” è il termine che definisce un testo destinato a convincere e si usa per chiedere qualcosa, costruito su tre fasi: una premessa minore, una premessa maggiore e una conclusione. Il “cammino” è una metafora del viaggio e della vita. Che a pena poscia li avrei ritenuti: che a pena/fatica dopo li avrei trattenuti Ulisse non solo aveva convinto i suoi compagni, ma li avevi resi entusiasti di questa avventura. E volta nostra poppa nel mattino: e la nostra poppa (parte dietro della nave) volta nel mattino La nave ha due punti focali: la prua, la parte davanti, e la poppa che è la parte dietro. La poppa è rivolta verso il mattino, cioè volta verso oriente. De’ remi facemmo ali al folle volo: dei remi facemmo ali verso il folle volo È come se i remi, tanto era l’impeto e la volontà di muoversi, fossero diventati ali. “Fare” indica proprio la loro volontà e l’esecuzione da parte di esseri umani. Il “folle volo” è il cammino, “folle” è un insulto al buon senso. Questa nave usa i remi insieme alle vele per rientrare in costa diventando un’unica cosa. Sempre acquistando dal lato mancino: sempre guadagnando terreno dal lato di sinistra Il “lato di sinistra” è l’occidente. Lezione 5: 31 marzo 2023 Tutte le stelle già de l’altro polo: Le due terzine di seguito rinviano a delle competenze di cui Dante fa sfoggio, Dante ha competenze di geografia astronomica; l’astrologia, lo studio degli astri e l’interpretazione dei movimenti degli astri, per Dante sono temi abbastanza vicini e fanno parte della conoscenza e competenza dell’uomo del Medioevo. Cinque volte racceso e tante casso: cinque volte acceso e riacceso e cinque volte cancellato Dante ci dice che da quando hanno oltrepassato le colonne d’Ercole sfidando le leggi imposte dagli dei, il lume della luna era 5 volte acceso e 5 volte cancellato. La luna per 5 volte si accende e fa il suo corso 30 Levi non traduce le parti in tedesco e francese perché sottintende che se dà un minima idea al lettore di quello che era successo, il lettore doveva fare uno sforzo per capirle come facevano loro nel campo. Il lettore deve capire la fatica e quello che avevano subito loro. Ci fa capire che quello che sta succedendo intorno, e che non è controllabile, è simile a quello che era successo Dante quando andò all’inferno. Lezione 6: 14 aprile 2023 FRANCESCO PETRARCA Paradossalmente, per la nostra letteratura, Petrarca è stato di gran lunga più importante di Dante. Petrarca ha avuto una fortuna nettamente maggiore rispetto a quella di Dante, anche se la maggior parte delle sue opere sono scritte in latino. Francesco Petrarca è toscano e di famiglia fiorentina; nasce ad Arezzo, dove c’è già una toscanità particolare. Petrarca nasce ad Arezzo perché il padre lavorava proprio in quella città ed era notaio per conto di una delle più importanti famiglie italiane. Siccome il padre di Petrarca era un guelfo bianco, Petrarca deve lasciare Arezzo e si trasferisce nella Francia del sud, ad Avignone dove, nel 1309, era cominciata la “Cattività avignonese”, dal latino captivus, che deriva dal verbo captus o captare e che vuol dire “catturare”. Quando catturiamo qualcuno, viene messo in prigione, e la prigione è la cattività, viene tenuto segregato. Il catturato, siccome è in carcere o in cattività e recluso, di solito come stato d’animo diventa cattivo. Con questa parola si indica la nascita della parola “cattivo” di oggi. Il papa Bonifacio VIII dato che aveva litigato con le potenti famiglie e dinastie italiane, aveva trovato rifugio in Francia dove il re di Francia offre la città di Avignone perché diventi la nuova città dei papi. La cattività avignonese durò per quasi tutto il ‘300, dal 1309 al 1377. Petrarca era nato nel 1304 ad Arezzo e arriva ad Avignone a 8 anni, nel 1312; inoltre, Petrarca proviene da una famiglia ricca, e questo, rispetto a Dante, gli consente un vantaggio. Petrarca poteva comprarsi materia di scrittura quando voleva e documenta la sua attività in un’enorme quantità di manoscritti che ci sono rimasti. Petrarca aveva anche i mezzi per comprarsi diversi libri, a differenza di Dante che come unico libro aveva forse la Bibbia e qualche romanzo. Petrarca era estremamente curioso intellettualmente dei libri che non conosce, soprattutto dei libri che nessuno conosce perché il ‘300 è il periodo in cui nasce il Rinascimento, dove rinascono anche le conoscenze, l’uomo ritrova le competenze che si sono perse. Petrarca, un giorno, sente nominare uno storico latino, che si conosceva solo dal nome, e scopre che, in un monastero benedettino, esiste un manoscritto di questo autore e lo vuole comprare. Naturalmente, il monastero non gli avrebbe mai dato il testo originale, ma una copia trascritta. Per questo motivo, chiedono a Petrarca una cifra molto alta. Perciò, per comprare il manoscritto di Livio, vende un podere di famiglia. Questo manoscritto esiste ancora oggi ed è patrimonio della biblioteca ambrosiana di Milano, dove ci sono anche alcuni manoscritti di Petrarca. Petrarca leggeva Virgilio, uno dei più grandi autori dell’antichità, e compra un suo manoscritto, lo fa ritrascrivere e lo fa illustrare da Simone Martini, uno dei più grandi pittori del suo tempo, e viene poi nominato “Il Virgilio di Petrarca". Possedere un libro come questo è una fortuna, ma Petrarca poteva permetterselo, poteva permettersi anche di scrivere a margine delle postille sue annotando il giorno e l’ora in cui aveva fatto quella lettura. Petrarca è molto preciso su questi elementi, che sono per lui decisivi per il suo rapporto con il resto del mondo. Al contrario di Dante, che di sé parla pochissimo, Petrarca parla quasi esclusivamente di se stesso. Nel 1312 torna in Italia per studiare diritto a Bologna e poco dopo la laurea prende gli ordini sacri e diventa canonico, poteva celebrare messa ma non poteva sposarsi. Nel 1327 Petrarca ha 23 anni; il 6 aprile 1327 (quello che lui chiama “il dì sesto d’aprile”) si trovava ad Avignone nella chiesa di Santa Chiara, si gira verso la navata destra e vede una donna che ha i capelli 31 biondi e gli occhi azzurri. Questo ce lo dice lo stereotipo, cioè un tipo che si è codificato in un genere, un’immagine che si ripete. La donna amata da Petrarca è uno stereotipo e di lei sappiamo che apparteneva a una famiglia importante e spesso veniva raffigurata accanto a Petrarca, ma lui non l’aveva mai conosciuta, l’ha amata da lontano. Laura è l’amore della sua vita, e questo amore è un amore tormentato, un amore non corrisposto. Ha cominciato a scrivere poesie su di lei, ha continuato ad amarla. Questo è l’immagine di un amore che non si realizza, ma è un amore vero, un amore come desiderio di possesso. L’anno dopo, il 6 aprile 1328, scrive un sonetto dove dice che è passato un anno da quando aveva visto per la prima volta Laura. Aprile diventa il mese dell’innamoramento, anche grazie a Petrarca; il 6 aprile ci sono associazioni di poesia che festeggiano il giorno di Petrarca il 6 aprile di ogni anno. Laura muore nel 1348 a causa della peste, la stessa peste descritta da Boccaccio nel Decameron. Da quel momento, per Petrarca inizia un periodo di afflizione. Petrarca, nella sua vita, aveva visto e viaggiato per gran parte dell’Europa; era diventata una figura di riferimento leggendaria per la sua cultura, per la sua conoscenza dei classici e per la fama delle sue opere. Quindi, capitava molto spesso che famiglie importanti, come i Visconti a Milano, lo invitassero a Milano dove ci rimane per 3 anni vivendo in una casa in campagna, ma anche una casa in città. Visita Milano, Napoli, Roma, ma anche le grandi città straniere come Parigi, Basilea, va anche in Germania. Molto spesso, da questi viaggi che durano anni, torna con dei libri. Negli ultimi anni di vita, nel ritornare in Italia, compra una casa sui colli Euganei, che oggi è un museo, in un paesino di nome Arquà e muore lì nel 1374. Il padre di Petrarca aveva conosciuto Dante ad Arezzo, e Petrarca aveva invidia di Dante, aveva capito che Dante era bravissimo e riuscire a surclassarlo non era facile; iniziò così una lunga lotta. Petrarca scrive anche lui un poema epico, un poema sulla storia di Roma che racconta la lotta tra Roma e Cartagine e si intitola “De Africa” e lo scrive tutto in latino. Petrarca aveva la convinzione che il mondo sarebbe tornato a parlare latino, infatti, la maggior parte delle sue opere le scrive in latino. Anche le sue lettere sono scritte in latino, lettere che ci informano molto della sua vita e delle sue amicizie. Petrarca rappresenta perfettamente quel modello che è stato identificato da un’età particolare, cioè l’Umanesimo. Petrarca scrive anche dei testi in volgare, che giudica essere meno importanti, e che sono caratterizzati dall’acronimo RVF che significa Reum Vulgarium Fragmenta (frammenti di cose volgari). I testi di Petrarca nel Reum Vulgarium Fragmenta sono 365 + 1, cioè il sonetto proemiale. Petrarca divide i tesi in due parti perché lui ha continuato a scrivere testi per Laura anche dopo la sua morte. Questo ci fa capire che l’amore esiste per qualcuno anche dopo la morte. Il titolo vero che da Petrarca a questi testi scritti in volgare è Reum Vulgarium Fragmenta, ma noi, per semplificare le cose, lo chiamiamo Canzoniere. Tutto questo fa riferimento al rapporto che la nostra poesia ha con la musica. La cosa curiosa è che da un titolo latino a un’opera in volgare, ma anche il fatto che li presenta come frammenti nonostante siano 365. L’opera è divisa in due parti: “Rime in vita di Laura” e “Rime in morte di Laura”. I primi 263 testi sono rivolti a Laura quando ancora era in vita, mentre i restanti testi, dal 264 al 365, sono rivolti a Laura dopo la morte. Petrarca sta creando il modello perfetto di letteratura che esisteva già e che rende perfetto per lui, in cui tutti possiamo riconoscerci. Qui abbiamo il tema dell’invenzione di un reale alternativo. Petrarca, che ha Dante come antagonista, scrive una poesia che parla di se stesso, mostra al lettore diversi elementi come proprie debolezze. Dal punto di vista del contenuto, abbiamo davanti un testo limitato; quello che conta è la forma. Petrarca ha una lingua con un vocabolario estremamente ridotto e che non ha un estremo né verso l’alto, né verso il basso. Questo modello di Petrarca ha funzionato. 32 PETRARCA, RVF XXXV Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l'arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d'alegrezza spenti di fuor si legge com'io dentro avampi: sì ch'io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch'è celata altrui. Ma pur sì aspre vie ne sì selvagge cercar non so ch'Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co’ lui. Solo et pensoso i più deserti campi: solo e pensoso vado misurando i più deserti campi “et” si pronuncia “e”. “I più deserti campi” sono i campi in campagna, “deserti” sta ad indicare che non c’è nessuno; Petrarca aveva una casa in campagna vicino a una zona tra le più frequentate della Francia. Il lancio turistico di queste zone lo si deve a Petrarca che le nomina nelle sue lettere e nei suoi testi. Vo mesurando a passi tardi e lenti: “mesurando” significa “misurando” ed è un durativo, un verbo che indica qualcosa che si misura nel tempo. Misurare significa anche percorre ritmicamente, ma è un passo di chi non ha bisogno di andare veloce, da quasi l’idea di qualcuno che sta per davvero misurando i campi. Queste misurazioni servivano per fare i contratti. Saturno era il Dio della misurazione dei campi, ma è anche un pianeta. Saturno è un pianeta che presiede anche a un particolare stato d’animo, cioè la malinconia. Saturno è il pianeta nero, data la lontananza e la capacità di servirsi di strumenti che vanno oltre la vista. Diventa umor nero che colpisce chi rimugina le cose dentro di sé, cioè i poeti e gli artisti. Il testo di Petrarca consente una duplice lettura, noi capiamo quello che ci sta dicendo. “Passi tardi e lenti” è qualcosa del tutto anti dantesco, Dante non avrebbe mai usato due aggettivi per esprimere un concetto. Il ritmo conta molto di più del significato, l’idea è la prevalenza del ritmo sul significato; è più importante il ritmo, il significato è banale, è sempre lo stesso. In due versi abbiamo ben 5 aggettivi che sono a coppie; la coppia influisce sul ritmo e sulla lettura. La coppia in letteratura si chiama “endiadi”. Nel caso di “tardi e lenti” abbiamo l’endiadi tra due sinonimi, tra due parole che vogliono dire la stessa cosa, e si chiama “endiadi sinonimica". Et gli occhi porto per fuggire intenti: e gli occhi attenti per evitare Ove vestigio human l'arena stampi: dove l’impronta umana stampi l’arena/segni il terreno Altro schermo non trovo che mi scampi: non trovo altro rifugio che mi scampi. Dal manifesto accorgersi de le genti: dall’accorgersi manifesto delle genti Dal fatto che la gente se ne accorga chiaramente, in maniera evidente. Perché negli atti d'alegrezza spenti: perché di fuori nei miei gesti/movimenti privi di allegria Di fuor si legge com'io dentro avampi: di fuori si decifra/si capisce come io dentro bruci
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