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Appunti completi di Sociolinguistica dell'Italiano Contemporaneo | Lezioni + libri, Appunti di Sociolinguistica

Appunti di Sociolinguistica dell'Italiano Contemporaneo dalla prima all'ultima lezione della professoressa Mari D'Agostino compresi di parti aggiuntive dei libri e dei file della professoressa, utili sia per l'orale che per le prove in itinere. Il documento verte sulla parte storica dell'Italia, la Costituzione italiana e la sua lingua, le minoranze linguistiche, i dialetti italiani, la diffusione dell'italiano, Don Milani, Danilo Dolci, la disuguaglianza sociale, il multilinguismo e le migrazioni

Tipologia: Appunti

2023/2024

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Scarica Appunti completi di Sociolinguistica dell'Italiano Contemporaneo | Lezioni + libri e più Appunti in PDF di Sociolinguistica solo su Docsity! Professoressa Maria D’Agostino SOCIOLINGUISTICA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO L’uscita dalla guerra e la ripresa della vita politica Fra la fine di aprile e inizio di maggio del 1945, il nazismo e il fascismo furono definitivamente sconfitti: data simbolica è il 25 aprile, giorno della liberazione di Milano. L’Italia, uscendo dalla guerra, era una nazione che aveva bisogno di costruire anzitutto nuovi punti di riferimento civili e culturali. La riorganizzazione di partiti e sindacati di massa è stato un elemento essenziale delle profonde novità che contraddistinguevano la vita civile, sociale, culturale dell’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra. Già all’indomani della Prima guerra mondiale le organizzazioni politiche socialiste e cattoliche avevano acquisito alcune caratteristiche di partiti di massa, all’interno di un processo interrotto dal fascismo. Dal punto di vista strettamente quantitativo, nel 1946 gli iscritti al Partito Comunista Italiano (PCI) erano circa 800.000, mentre la Democrazia Cristiana (DC) ne registrava circa 200.000 in meno. La vita politica quotidiana, in forme non conosciute fino a quel momento, ha determinato un processo di acculturazione per uomini e in misura marginale per donne che fino a quel momento erano vissuti all’interno di mondi fortemente chiusi. Il 2 giugno 1946 è una data di importanza straordinaria per l’Italia. Circa 28 milioni di italiani, furono convocati alle urne del referendum istituzionale per scegliere tra repubblica e monarchia e per eleggere i deputati dell’Assemblea Costituente. Fra i votanti il 54,27% si espresse a favore della Repubblica, e il 45,73% a favore della Monarchia, con grande differenza fra Nord, a maggioranza repubblicana, e il Sud più fedele alla monarchia. L’affluenza al voto fu altissima: circa l’89% degli aventi diritto al voto si recarono alle urne. Straordinaria quella delle donne: 12.998.131, un milione circa in più degli uomini. Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino, la Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino, che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito. Nel 1877, un gruppo di maestre presentò infatti al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata. Esse infatti dichiararono che il termine “regnicoli” presente nello Statuto faceva riferimento anche alle donne: quando si parla di un gruppo in cui sono presenti persone di diversi generi, la grammatica italiana chiede di usare il maschile sovraesteso, e quindi quel termine avrebbe potuto includere tutti, sia uomini che donne. Se in un primo grado di giudizio venne dato ragione al gruppo di maestre, in un secondo momento venne respinta la petizione, tanto che oggi nei documenti ufficiali si citano esplicitamente entrambi i generi per evitare di ripetere gli errori del passato. Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, alcuni deputati proposero un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giovanni Giolitti vi si oppose strenuamente, definendolo un salto nel buio; la questione, rimandata all’esame di un’apposita commissione, venne quindi accantonata. Dopo la triste parentesi fascista, le prime elezioni politiche in Italia si svolsero nel 1946, e in quell’occasione finalmente votarono anche le donne e furono elette anche le prime donne sindaco della storia italiana. Tanta era la considerazione del genere femminile negli affari più importanti che fino al 1963 le donne non potevano neanche diventare magistrati ed è solo in quell’anno che è stato pubblicato il primo concorso aperto a tutti. Le sedute dell’Assemblea, l’organo legislativo elettivo incaricato della stesura della Costituzione della Repubblica Italiana, si svolsero poi fra il 25 giugno 1946 e il 31 gennaio 1948. Un ruolo cruciale fu svolto dalla Commissione di 75 membri, nominata dall’Assemblea Costituente, che, divisa in tre sottocommissioni, scrisse il progetto generale organizzato in tre parti: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione costituzionale dello Stato e rapporti economici e sociali. I lavori di redazione del testo terminarono il 12 gennaio 1947 e il 4 marzo cominciò il dibattito in aula che approvò il testo finale il 22 dicembre 1947. La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale dello Stato italiano e si posiziona al vertice della gerarchia delle fonti Professoressa Maria D’Agostino nell’ordinamento giuridico della Repubblica. Entrata in vigore l’1 gennaio 1948, è formata da 139 articoli e da 18 disposizioni transitorie e finali. È importante analizzare alcuni degli articoli fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana per conoscere quali diritti sono garantiti ai cittadini: - Articolo 1 che recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Essenzialmente quest’articolo sottolinea i principi di democrazia e lavoro come fondamentali per l’ordinamento della Repubblica; - Articolo 3 che recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Quest’articolo fa riferimento all’eguaglianza formale e sostanziale, per cui è compito della Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli che rendono l’uguaglianza non concreta. Nel suo saggio Osservazioni sulla morale cattolica del 1843, Alessandro Manzoni considerava tre elementi per caratterizzare la coesione e l’identità nazionale: la lingua, la religione e la monarchia. Durante il periodo del fascismo, questo criterio ottocentesco dell’unica lingua per indicare un regime unico è stato uno dei più importanti per la politica del fascismo, tanto che tutto ciò che era straniero era considerato una minaccia per lo Stato Italiano. La Costituzione cambiò allora questo registro, evitando ogni discriminazione. Venne anche creato un dibattito in cui alcuni dei presenti pensavano che parlare di concretismi come gli ostacoli avrebbe abbassato di molto il tono formale della Costituzione, ma si decise comunque di mantenere il termine per evitarne uno troppo elevato; - Articolo 6 che recita: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Esso sancisce il diritto dei cittadini di appartenere a una specifica comunità linguistica e ne stabilisce la tutela; - Articolo 17 che recita: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Con quest’articolo, la Costituzione afferma che il mancato preavviso non rappresenta una condizione di illegittimità della riunione né un’automatica presunzione di pericolo per l’ordine pubblico. A seguito del preavviso, il questore può impartire prescrizioni su modi, tempi e percorsi della manifestazione, potendo arrivare anche al divieto della stessa. Per questa ragione, gli scontri a Pisa di febbraio 2024 tra gli studenti pro Palestina e i manganelli della Polizia di Stato sono stati anticostituzionali, in quanto la manifestazione non doveva essere obbligatoriamente preceduta da un’autorizzazione o da un preavviso; - Articolo 21, che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Esso garantisce la libertà di stampa e stabilisce che nessuna autorità può esercitare censure su di esse; - Articolo 29 che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Quest’articolo risulta oggi anacronistico perché, sebbene non specifichi un’unione tra uomo e donna per la famiglia, afferma che quest’ultima è fondata sul matrimonio. L’articolo non tutela le famiglie omogenitoriali, non essendo ancora garantito un matrimonio tra coppie dello stesso sesso in Italia, così come le famiglie formate da un unico genitore o da qualunque altro tipo di tutore; - Articolo 34 che recita: La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di Professoressa Maria D’Agostino anno dopo, da stime e sondaggi, si è calcolato che soltanto meno del 20% della popolazione italiana, concentrato soprattutto in Toscana e nelle due maggiori città del Paese, parlava abitualmente italiano. C’era poi un’altra fetta consistente del 18% che parlava sia italiano che dialetto, ma più del 60% della popolazione italiana parlava solo il dialetto. Anche se i numeri sono diventati noti solo qualche anno dopo, questo spiega come mai persone che erano profondamente radicate nella vita sociale del Paese, come i Costituenti, abbiano sentito che questa era la situazione. Non c’era un circuito della comunicazione orale in Italia che potesse coinvolgere anche fuori dalle scuole le persone ad apprendere l’italiano. Essi avevano inoltre in mente l’incisività delle formule con cui Benito Mussolini riusciva a rivolgersi alla popolazione italiana, trascinandola sulle vie più folli con una capacità di comunicazione e persuasione enorme legata non tanto alle cose che proponeva, ma al modo in cui riusciva a proporle. Il principio della Costituzione era quindi di scrivere concetti difficili da dire utilizzando quelle formule ad effetto con cui Mussolini si era rivolto al popolo. E tuttavia, lo sforzo andava fatto nella direzione di trasmettere questi contenuti complessi con un linguaggio di larga accessibilità, tenuto conto delle reali condizioni di difficoltà di comunicazione e di ricezione in cui si trovava buona parte della popolazione. Come disse Giorgio Napolitano, per raccontare “che cosa deve essere un Paese”, non quello che è, ma quello che deve essere, la Costituzione non è poi tanto lunga. L’italiano e le minoranze linguistiche storiche La Costituzione della Repubblica Italiana entrata in vigore nel 1948 delineò sul piano dei contenuti una profonda rottura con l’assetto istituzionale precedente sia dal punto di visa generale. Il testo poteva essere considerato un modello di politica linguistica, ovvero l’insieme delle leggi, degli ordinamenti e delle organizzazioni della nazione che dirigono in una maniera o nell’altra il prestigio linguistico. In ogni nazione è sempre presente un assetto linguistico e in Italia è l’italiano la lingua che possiede il maggior prestigio linguistico, in quanto è la lingua della legge, delle scuole, dei media e quella più parlata dai cittadini. Questa situazione in cui una lingua ha più prestigio delle altre è la situazione di maggioranza all’interno delle nazioni europee, ma le altre lingue esistenti non sono comunque represse. È stata anche discussa quest’importanza dell’italiano, in particolare per decidere se specificare o meno che è la lingua ufficiale nel testo della Costituzione; si preferì comunque evitare per non creare supremazie tra le lingue. Sebbene l’italiano sia la lingua delle legge in Italia, i mediatori linguistici o i traduttori sono comunque ammessi nei processi per rispettare la diversità linguistica, quindi nel momento in cui un individuo va in giudizio, potrà comunicare con la propria lingua. L’Italia ha una politica linguistica che non reprime la diversità, anzi la tutela e la valorizza pur riconoscendo uno status diverso all’italiano, e lo fa in particolar modo attraverso tre articoli della Costituzione: l’articolo 3, quando parla di eguaglianza formale e sostanziale e cita la lingua nell’elenco di fattori per cui non si può fare distinzione, la mette in status privilegiato. Nello Stato italiano, infatti, la lingua italiana ha un privilegio, ma utilizzarla per la comunicazione non ne ha alcuno. L’uso del termine “razza” nell’articolo ha poi portato oggi a discussioni a livello politico, in quanto appartiene a una storia non attuale, ma è comunque un segno di quegli anni in cui il colonialismo italiano in Eritrea e in Libia era ancora recente: parlare di razze era di uso comune per le popolazioni africane. Quest’articolo ha anche una seconda parte, che aggiunge che la Repubblica deve rimuovere quegli ostacoli che di fatto vanno contro l’eguaglianza sostanziale, quindi deve fare in modo che sia vera l’eguaglianza stessa. Per questo occorre separare tre termini quando si parla di lingue: - L’eguaglianza, ovvero la parità di status o valore tra due o più lingue; - La differenza, ovvero l’insieme di caratteristiche distintive tra le lingue, che non crea però disparità; - La disuguaglianza, ovvero il caso in cui una lingua è considerata inferiore o subordinata rispetto a un’altra per ragioni regionali o razziali. Professoressa Maria D’Agostino Questi ostacoli impediscono inoltre il pieno sviluppo e limitano la libertà, quindi se la differenza limita la libertà e l’eguaglianza, questa diventa disuguaglianza, che deve essere necessariamente rimossa. L’articolo non è quindi banale, non afferma solamente che ogni cittadino è uguale a i suoi pari, in quanto il secondo comma cambia lo scenario. L’articolo 6, in più, inserisce la salvaguardia delle minoranze linguistiche, che devono essere custodite ed evitare che muoiano. L’articolo 21, invece, conferma che la lingua serve anche per esprimere il proprio pensiero, da qui il bisogno di possedere una lingua articolata che funzioni sia sul piano orale che scritto. Dall’insieme di questi articoli deriva un modello di politica linguistica originale nel quale le diversità̀ idiomatiche costituiscono un patrimonio culturale da tutelare e non un pericolo per l’unità nazionale. È stabilito, quindi, il diritto a usare la propria lingua ma, nello stesso tempo, il diritto a partecipare pienamente alla vita sociale, cosa che può̀ realizzarsi solo attraverso l’acquisizione piena degli strumenti espressivi nei quali essa si svolge. Non è sufficiente, dunque, secondo la Carta costituzionale, una generica competenza produttiva e recettiva nella lingua italiana; è necessario invece che tutti possano confrontarsi anche con i testi di più̀ alta formalità, tra cui le leggi, i regolamenti o gli articoli scientifici, senza l’accesso ai quali non vi può̀ essere piena partecipazione alla vita economica e sociale del Paese. La prima immediata traduzione dei principi costituzionali, almeno per ciò che attiene alle minoranze linguistiche che negli anni del fascismo erano state particolarmente osteggiate, si ebbe negli statuti di alcune regioni a statuto speciale: il Trentino-Alto Adige (l. cost. 26 febbr. 1948 nr. 5), la Valle d’Aosta (l. cost. 26 febbr. 1948 nr. 4) e il Friuli-Venezia Giulia (l.cost. l. cost. 26 febbr. 1948 nr.2). Si tratta, in tutti e tre i casi, di realtà linguistiche con un preciso riferimento extraterritoriale: la Francia per i francofoni della Valle d’Aosta, l’Austria e la Germania per i germanofoni del Trentino-Alto Adige e la Slovenia per gli slavofoni del Friuli-Venezia Giulia. Per quanto riguarda la Valle d’Aosta, l’italiano e il francese vengono visti come due lingue di una stessa comunità possedute, in linea di massima, da tutta la popolazione. Si prevede quindi un’amministrazione bilingue e un sistema scolastico bilingue. In Trentino-Alto Adige è stato invece adottato un bilinguismo di tipo separativo, con due distinte comunità: l’una di lingua italiana e l’altra di lingua tedesca. Ad entrambe le comunità viene riconosciuto il diritto all’educazione e alla vita amministrativa nel proprio idioma, riconosciuto anche alla comunità di lingua slovena. La realtà italiana presenta, accanto a queste, un ampio numero di altre situazioni di multilinguismo che vengono prese in esame con una legge organica che, dopo essere stata discussa più volte dal Parlamento a partire dal 1991, è stata infine approvata nel 1999. La legge 482/1999 reca il titolo Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche e, pur se attesa da oltre mezzo secolo in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, hanno suscitato una serie di dubbi e di perplessità gli articoli contenuti al suo interno: - Articolo 1, che recita: “La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano. La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge”; - Articolo 2, che recita: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo”; - Articolo 3, che recita: “La delimitazione dell’ambito territoriale e subcomunale in cui si applicano le disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla presente legge è adottata dal consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni”; - Articolo 4, che recita: “Nelle scuole materne dei comuni di cui all’articolo 3, l’educazione linguistica prevede, accanto all’uso della lingua italiana, anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle attività educative. Nelle scuole elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è previsto l’uso anche della lingua della minoranza come strumento di insegnamento. [...] Al Professoressa Maria D’Agostino momento della preiscrizione i genitori comunicano alla istituzione scolastica interessata se intendono avvalersi per i propri figli dell’insegnamento della lingua della minoranza”; - Articolo 7, che recita: “Nei comuni di cui all’articolo 3, i membri dei consigli comunali e degli altri organi a struttura collegiale dell’amministrazione possono usare, nell’attività degli organismi medesimi, la lingua ammessa a tutela”. Già in sede di formulazione appare discutibile la presenza del termine “storiche”, che intende limitare espressamente l’ambito di applicazione della legge a comunità di antico stanziamento, tagliando fuori le realtà multilingui determinate dai recenti flussi immigratori. Sempre dal punto di vista della formulazione non appare chiara la distinzione posta nell’articolo 2 fra “popolazioni albanesi, catalane, germaniche […]” e “quelle parlanti il francese, il francoprovenzale […]”, che stabilisce un duplice criterio di identificazione: il primo su base etnica e il secondo su base linguistica. Ancora discutibile è l’aver posto all’interno della stessa normativa il friulano e il sardo, oltre che il ladino, sul cui statuto linguistico i pareri sono assai discordanti. Da segnalare infine è l’esclusione fra le lingue di minoranza il romaní, la lingua indoaria della comunità rom e sinti, il cui numero di locutori è stimato intorno alle 120.000 unità e per circa il 60% con cittadinanza italiana. L’etnicizzazione è il processo che indica proprio la presenza di minoranze culturali. Questa continua etnicizzazione abbassa il capitale umano, ovvero l’insieme dei saperi condivisi, che diventa un problema solo quando le differenze diventano disuguaglianze. Non è quindi l’aumento delle differenze culturali che diventa un problema, ma piuttosto quando queste differenze creano disuguaglianze, le quali sono un problema per la nazione. Quando si parla di eguaglianza non si parla infatti di essere omogenei e uguali l’un l’altro, come ad esempio parlare un’unica lingua normativa eliminando le varietà, ma piuttosto dare valore a ciascuna indipendentemente dal suo status. La scolarizzazione e le culture di massa La proclamazione del Regno d’Italia fu l’atto formale che sancì la nascita dello Stato unitario italiano, istituendo il Regno d’Italia. Avvenne con un atto normativo del Regno di Sardegna sabaudo del 1861, con il quale Vittorio Emanuele II assunse per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia. All’alba di questa nuova unità nazionale, la situazione italiana dal punto di vista linguistico era disastrosa, a causa dell’alto tasso di analfabetismo. L’italiano non era una lingua compresa, era sconosciuta ai più in quanto a livello orale era presente solo nelle scuole di buona parte della penisola e a livello scritto solo nei contesti formali. Le differenze tra il nord e il sud e la non obbligatorietà dell’istruzione contribuivano poi a rendere difficile la diffusione della lingua italiana. Con l’unificazione, la distanza tra l’Italia e altre nazioni come la Francia o la Germania era enorme in termini di scolarizzazione. Questa distanza si è colmata oggi solo da un punto di vista formale, perché l’Italia rimane uno dei Paesi europei con il più basso tasso di qualità a livello scolastico. Tutto ciò avviene perché gli studenti non devono essere solo obbligati a frequentare la scuola, ma devono anche imparare e ricevere una formazione di qualità. La quantità di libri letti annualmente in Italia è altrettanto bassa, portando l’Italia continuamente nei gradini più bassi delle classifiche e contribuendo a una scarsa conoscenza della lingua. Fin quando la lettura dei quotidiani era un indice importante e fin quando quasi ogni italiano guardava la televisione, questo tasso era molto più alto, ma con la fruizione globale di internet, si è creato uno iato enorme. Anche con la nascita della Repubblica Italiana nel 1946 si parlava di scarsa scolarizzazione, data la situazione di grande squilibro e di esclusione di intere classi sociali dalla scuola. Solo nel 1962 si venne introdotta la scuola media unica, che venne approvata dal Parlamento con una legge che la rese obbligatoria. Prima di questa legge, la scuola per le classi sociali più basse veniva chiamata scuola di avviamento professionale, che era finalizzata al mondo del lavoro o alle scuole tecniche e professionali, mentre per le classi agiate prendeva il nome di scuola media, ed era finalizzata al liceo. Nel 1973, Tullio De Mauro, Umberto Eco e Piero Nelli hanno dato vita a un programma televisivo diffuso dalle reti della Rai, Parlare, leggere, scrivere, in cui attraverso dei documentari si mettevano in luce gli eventi della storia della diffusione dell’italiano a livello unitario. Professoressa Maria D’Agostino ceti colti nelle situazioni pubbliche e solenni. Anche in questo ambito si registravano, peraltro, notevoli eccezioni, come rilevò nel 1855 il politico Ruggiero Bonghi quando sottolineò che per una gran parte dei letterati scrivere in lingua italiana costava più pena di molto, e più fatica che scrivere in francese. Nel 1868 Alessandro Manzoni consegnò al ministro Emilio Broglio una relazione, Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla. In essa proponeva come mezzi principali per diffondere il fiorentino al di là della Toscana l’allestimento di una grammatica e di un vocabolario. Il luogo se non unico, ma certo principale, individuato da Manzoni per il compito impegnativo di diffondere la lingua era la scuola: nella scuola doveva anzitutto circolare il vocabolario e con esso la lingua. Nella stessa direzione andava la raccomandazione, contenuta sempre nella relazione, di utilizzare nelle scuole di tutta la penisola insegnanti toscani o educati in Toscana. Un’analisi più complessa venne avanzata in quegli stessi anni da Graziadio Isaia Ascoli, insigne linguista e dialettologo. Egli partiva dalla considerazione che la situazione linguistica del Paese era la conseguenza del ristagno plurisecolare della sua vita economica, sociale e intellettuale. Inoltre, questo era aggravato dalla mancanza in Italia di un centro unificatore come Parigi, città capace di avere un forte ruolo di diffusione del suo modello linguistico in tutta la Francia. Infatti, grazie alla sua supremazia politica, economica, sociale, la capitale francese era stata in grado di imporre il proprio idioma a tutti i cittadini dello Stato. Nel 1872 Ascoli pubblicò un proemio alla nuova rivista da lui fondata, Archivio glottologico italiano, nel quale, sulla base della sua analisi, delineò una politica linguistica profondamente differente da quella di Manzoni. Per Ascoli, l’unificazione linguistica non poteva avvenire semplicemente diffondendo il modello toscano attraverso una scolarizzazione elementare, bensì ampliando radicalmente il numero degli operai della cultura, quindi colmando il vuoto fra i grandi intellettuali e il resto della popolazione. Con ciò, Ascoli trasferiva la questione della lingua al di fuori della lingua stessa, mostrando che la soluzione di quei problemi stava nella circolazione del sapere, nell’organizzazione della società civile, nella modernizzazione delle istituzioni culturali, delle università, delle scuole e nel progredire della scienza e della tecnica. Il censimento del 1861 aveva messo inoltre in luce la presenza di un grande numero di analfabeti, ma la stima quantitativa degli italofoni nel 1861 e nei decenni successivi, prima cioè che ci fossero delle indagini statistiche mirate ad appurare specificamente questo dato è una questione che venne affrontata dai linguisti solo cento anni dopo. I dialetti italiani In innumerevoli testi e studiosi, anche lontani nel tempo, è possibile rinvenire inoltre una chiara consapevolezza della molteplicità di idiomi presenti all’interno della penisola italiana. Già Dante Alighieri nel De Vulgari Eloquentia aveva ordinato quelli che lui chiamava volgari, e che oggi si chiamano dialetti, secondo un criterio geografico. La sua descrizione geolinguistica della penisola aveva come punto di riferimento la dorsale appenninica che segnalava 14 dialetti. Per una classificazione scientifica si aspettò però la seconda metà del XIX secolo con il lavoro di Ascoli, che si servì come principio ordinatore della distanza linguistica che i diversi sistemi dialettali manifestavano rispetto al comune antenato latino, tramite un criterio genealogico. Ascoli individuò così tre gruppi dialettali: - Dialetti appartenenti a sistemi neolatini non peculiari all’Italia, perché, in gran parte, allora, fuori dai suoi confini come i dialetti provenzali e franco-provenzali, i dialetti ladini centrali e ladini orientali o friulani; - Dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, che non entrano a far parte di alcun sistema neolatino estraneo all’Italia come i dialetti gallo-italici, distinti in ligure, pedemontano, cioè il piemontese, lombardo ed emiliano, e poi i dialetti sardi; - Dialetti che si scostano dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur possono formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini come il veneziano, il corso, i dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana, i dialetti di Sicilia e delle provincie napolitane; Professoressa Maria D’Agostino - Dialetto toscano, ovvero il linguaggio letterario degli Italiani. L’italiano come punto di riferimento era presente anche in altre proposte di classificazione successive a quella ascoliana fra le quali quella di Giovan Battista Pellegrini che nel 1975 individuò cinque sistemi: l’italiano settentrionale, il friulano o ladino-friulano, il toscano o centrale, il centro- meridionale e il sardo. La sua classificazione si fondava sul concetto di italoromanzo, cioè il complesso delle varie parlate della penisola e delle isole che avevano scelto già da tempo, come lingua guida l’italiano. Nella sua Carta dei dialetti d’Italia e dei territori circostanti erano presenti anche le cosiddette parlate alloglotte, cioè gli altri idiomi che non fanno parte del sistema dell’italoromanzo e che arricchiscono ulteriormente la complessità dello spazio linguistico italiano. L’italiano e la sua diffusione Nel 1963, Tullio De Mauro pubblicò Storia linguistica dell’Italia unita, un volume di grande forza innovativa che partiva dalla distinzione fra nazionalità e capacità di usare una lingua. Il punto di partenza di De Mauro per l’assenza di un circuito della comunicazione orale in lingua nazionale, all’interno del quale si potesse apprendere la lingua naturalmente per semplice immersione, negli anni dell’Unità italofono poteva dirsi solo chi avesse avuto un’istruzione scolastica prolungata. Testimonianze concordi indicavano, infatti, che la sola istruzione elementare, impartita spesso da maestri a loro volta semianalfabeti, riusciva a trasmettere unicamente i primi rudimenti dell’alfabetizzazione. Soltanto a coloro che, dopo le scuole elementari, continuavano gli studi almeno per qualche anno era garantito un contatto duraturo con la lingua nazionale. Si trattava di un numero esiguo di individui: circa 160.000 persone disperse in una massa di 20 milioni di individui. Al polo opposto stava la stragrande maggioranza di individui totalmente analfabeti, circa l’80%, per i quali non vi era alcuna possibilità di contatto con la scrittura e quindi neanche con la lingua nazionale. Anche gli insegnanti erano dialettofoni esclusivi, in quanto sapevano scrivere ma non parlare l’italiano. De Mauro diceva che per apprendere l’italiano, non solo era necessario non essere analfabeti, ma servivano almeno 6 anni di frequentazione scolastica. Due realtà linguistiche si differenziavano dal resto d’Italia: Firenze e Roma, dove la capacità di comprendere e di esprimersi in italiano poteva ritenersi generalizzata. Le ragioni di tali anomalie sono differenti: per ciò che attiene a Firenze, la vicinanza strutturale fra fiorentino e italiano consentiva ai toscani, anche non istruiti, di comprendere l’italiano; per quanto riguarda Roma la spiegazione è più complessa. La città, divenuta sede stabile del papato dalla metà del Quattrocento, nei primi decenni del Cinquecento aveva subito una vera e propria rivoluzione demografica che aveva portato la popolazione romana a essere composta per il 75-80% da immigrati. Fra essi una parte consistente era costituita da toscani. In sinergia con questo dato demografico, e concorrente nel determinare un processo di contatto generalizzato con la lingua nazionale, andava vista inoltre la crescente diffusione dell’alfabetismo, che a partire dal Cinquecento non riguarda soltanto le categorie sociali e professionali più elevate come il clero, l’alta borghesia, i notai, gli avvocati, i medici e i funzionari pubblici, ma cominciò a raggiungere gli strati medio-bassi come la piccola borghesia impiegatizia e commerciale, i negozianti e gli artigiani, rimasti fino ad allora ai margini del mondo della scrittura. Si era in sostanza determinato a Roma un ambiente linguistico nel quale anche i meno abbienti potevano avvicinarsi all’italiano per semplice immersione. Le due realtà appena viste consentono di riconsiderare il dato relativo al numero degli italofoni. Alle 160.000 persone che avevano conseguito un’istruzione post- elementare bisognava infatti aggiungere gli abitanti della Toscana e di Roma. In conclusione, si poteva stimare circa il 3% la popolazione che, nel 1861, conosceva l’italiano; approssimativamente 600.000 individui su circa 20 milioni. A partire dalle indagini di Tullio De Mauro e dal dibattito successivo alla pubblicazione della sua opera, la storia della scuola e il numero dei bambini e dei ragazzi che vi avevano o non avevano accesso, di quelli che ne venivano espulsi dopo pochi anni, di quelli che invece raggiungono i gradi più alti dell’istruzione, le scelte politiche e le innovazioni didattiche che avevano come oggetto e come protagonista la scuola, diventarono un aspetto fondamentale anche della storia dell’italiano e della sua diffusione. In assenza di dati quantitativi su Professoressa Maria D’Agostino quanti parlavano italiano come quelli forniti dalle inchieste effettuate dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) negli ultimi cinquant’anni, i dati relativi al progredire dell’istruzione degli italiani erano divenuti un punto di riferimento fondamentale per studiare la storia, non solo linguistica, dell’Italia e degli italiani. Nel 1861, con l’unità politica dell’Italia, la legge Casati, approvata nel 1859 nel Regno di Sardegna, fu estesa a tutti i territori del Regno. Essa prevedeva che l’istruzione elementare fosse articolata su due bienni, di cui il primo obbligatorio e gratuito. Un quindicennio più tardi, nel 1877, la legge Coppino elevò da due a tre gli anni di obbligo scolastico imponendo alla fine del biennio un anno di corso serale o festivo, e introdusse delle sanzioni per le famiglie che disattendevano all’obbligo. Era l’inizio del percorso che avrebbe portato alla progressiva estensione dell’istruzione obbligatoria e alla sconfitta dell’analfabetismo. Entrambe le leggi ebbero una applicazione limitata anche dal fatto che l’onere della organizzazione e del finanziamento della scuola di base veniva lasciato ai comuni le cui risorse erano estremamente differenziate e spesso insufficienti. L’interesse delle classi dirigenti dell’epoca rimase costantemente rivolto al segmento superiore dell’istruzione secondaria e universitaria più che a quella di base, tanto che il sistema scolastico nel suo complesso si configurava in quegli anni come un mostro con una testa e un tronco smisurati e due piedi incredibilmente piccoli, cioè meglio strutturato e organizzato ai piani alti rispetto a quelli inferiori. Nel 1882, la legge elettorale italiana o legge Zanardelli introdusse fra i requisiti per potere votare il sapere leggere e scrivere, ma nonostante questo e in assenza di investimenti pubblici adeguati l’obbligo all’istruzione rimase a lungo inattuato. In base a stime attendibili, nel 1870 oltre il 62% della popolazione evadeva l’obbligo scolastico. Circa trent’anni dopo, secondo la relazione predisposta dall’ispettore Camillo Corradini nel 1908, i tassi di evasione all’obbligo si attestavano ancora sul 47% e grandissima disparità vi era fra aree diverse di una nazione in cui squilibrio territoriale e squilibrio scolastico si riflettevano l’uno nell’altro e si rafforzavano. In particolare, nella relazione Corradini si sottolineava come nelle aree nelle quali era più radicato e forte il movimento operaio, più importante era la spinta affinché i comuni investissero nell’istruzione, mentre al Sud la situazione delle scuole era spesso drammatica. In generale, le traiettorie percorse dalla diffusione della scolarità di base nell’Italia unita furono per un lungo periodo ancora disomogenee. Nel 1917, negli Stati Uniti d’America fu varata una legge che vietava a tutti gli analfabeti di entrare nel Paese e per questo in Italia erano attive scuole per compensare la mancanza di chi voleva emigrare. Nel 1881, Piemonte, Lombardia e Liguria avevano percentuali di analfabeti inferiori al 50%; Calabria e Basilicata scenderanno sotto questa soglia solo cinquant’anni più tardi, nel 1931. In quello stesso anno, l’istruzione post-elementare era ancora un privilegio di meno del 15% della popolazione dell’intera Italia, distribuita questa volta in maniera omogenea nelle diverse regioni. La nascita dello Stato nazionale ha avuto come conseguenza, fra l’altro, la creazione di un apparato burocratico unitario e di un esercito composto di individui provenienti da tutte le regioni italiane. Questo elemento, che ha significato lo spostamento di una parte rilevante della popolazione, ha avuto effetti linguistici anzitutto sui burocrati stessi, che dai trasferimenti sono stati costretti ad abbandonare spesso, almeno in pubblico, il dialetto d’origine e ad usare e diffondere un tipo linguistico unitario. In particolare, nell’esercito, fino al momento dell’unificazione, l’italiano era utilizzato raramente, anche da parte degli ufficiali. Soprattutto i piemontesi sembravano restii ad abbandonare il loro dialetto dal quale deriva un’ampia serie di dialettalismi come “cicchetto”, “grana” o “ramazza”, ampiamente diffusi nel lessico militare prima e nella lingua comune poi. La stampa periodica e il suo pubblico Il legame fra lo sviluppo della stampa periodica e l’unificazione politica è sicuramente significativo. Gli elementi chiave di questo rapporto vanno individuati nella possibilità, per quanto limitata a un’élite, di un dibattito politico nelle minori restrizioni alla libertà di stampa, nell’accresciuta circolazione di persone e di idee e nel graduale avviamento di strutture industriali moderne. Tutto ciò ha consentito e stimolato una rifondazione della stampa periodica che si è affermata come luogo privilegiato della discussione politica. Aumentarono le testate, come il Giornale di Sicilia a Palermo Professoressa Maria D’Agostino regime che non aveva lo scopo utile di far comunicare ma di esaltare la nazionalizzazione del Paese e aumentare il consenso popolare nei confronti del fascismo. Nel periodo fascista, infatti, vennero estirpati tutti i toponimi e i nomi di persona stranieri, dando vita a un’italianizzazione forzosa. La politica linguistica del fascismo in Italia, sebbene non organica, era caratterizzata da una chiara linea conduttrice, l’italianizzazione forzata per l’appunto. Questa politica mirava a sopprimere i dialetti locali, le parole straniere e le minoranze linguistiche presenti nel territorio nazionale. I nemici da combattere erano quindi identificati nei dialetti italiani e nelle lingue straniere, oltre che nelle minoranze linguistiche. Nel 1923, appena un anno dopo la marcia su Roma, il filosofo Giovanni Gentile, allora ministro dell’Educazione nazionale, introdusse una riforma scolastica. I programmi scolastici redatti nello stesso anno da Giuseppe Lombardo Radice rappresentarono un superamento della dialettofobia fino a quel momento dominante nella scuola italiana. Lombardo Radice, pedagogista e direttore generale dell’istruzione primaria e popolare dal 1922 al 1924, promosse un programma di lotta all’analfabetismo basato sul metodo dal dialetto alla lingua. I principi fondamentali di questo sistema di insegnamento erano partire dal retroterra linguistico e culturale dell’alunno e pervenire all’apprendimento dell’italiano attraverso la traduzione di testi letterari. Tuttavia, negli anni Trenta, con i Programmi Ercole, il dialetto tornò ad essere visto solo come fonte di errori e fu fortemente sanzionato. Questa avversione al dialetto, portata avanti con contraddizioni dal regime fascista, era motivata dal timore che la conservazione delle tradizioni locali potesse rinforzare spinte autonomistiche, contrastando il modello centralista fascista. La politica linguistica del fascismo mirava quindi all’affermazione della lingua nazionale contro i dialetti interni e le lingue straniere. Una testimonianza della profonda dialettofobia della scuola fascista è stata fornita da Andrea Camilleri, che ricordava come il dialetto siciliano fosse proibito nelle scuole e persino nelle lezioni di catechismo negli anni Quaranta. Questa repressione dei dialetti continuò a provocare vergogna e dolore a bambini e adolescenti dialettofoni anche nei decenni successivi, nonostante alcune resistenze nel mondo educativo. In continuità con precedenti iniziative nazionalistiche e puristiche, nel 1923 fu introdotta una tassa contro le insegne in lingua straniera, seguita da raccomandazioni ufficiali di non usare forestierismi nella moda nel 1933 e nei giornali nel 1934. La lotta contro il barbaro dominio si intensificò con la conquista dell’Etiopia nel 1936, includendo tentativi di italianizzare i cognomi, come Renato Rascel che divenne Renato Rascelle o Wanda Osiris che divenne Vanda Osiri. Nel 1940, il divieto di usare parole straniere fu accompagnato da sanzioni severe, e l’Accademia d’Italia fu incaricata di compilare elenchi di barbarismi da bandire, proponendo sostituti italiani per termini stranieri. Un altro esempio significativo della politica linguistica fascista è rappresentato dalla regione del Tirolo meridionale, annessa all’Italia nel 1919 e rinominata Alto Adige. A partire dal 1923, il regime fascista avviò un programma di italianizzazione linguistica che comprendeva decreti, divieti e multe per limitare l’uso del tedesco. La politica scolastica prevedeva l’introduzione graduale dell’italiano, mentre la scuola tedesca veniva progressivamente eliminata. Nel 1924, l’italiano fu introdotto nell’amministrazione comunale e nel 1925 nel sistema giudiziario. Tutte le scritte pubbliche, comprese insegne, manifesti e orari, dovevano essere redatte esclusivamente in italiano. Dal 1927, anche le etichette dei medicinali venduti in farmacia dovevano essere in italiano, e l’italianizzazione si estese alla toponomastica e persino alle iscrizioni nei cimiteri. Nonostante questi editti, la dittatura fascista non riuscì a cambiare radicalmente il cammino delle lingue. Infatti, durante il regime fascista, si verificò una stasi nella riduzione dell’evasione scolastica, che addirittura aumentò durante gli anni della guerra. Questo fenomeno è stato sottolineato da Tullio De Mauro nel 1963, evidenziando come le iniziative del regime non fossero sufficienti a migliorare significativamente l’alfabetizzazione e l’uso della lingua italiana tra la popolazione. Strumenti di comunicazione di massa: le radio e il cinema Nei primi decenni del Novecento, assistiamo alla creazione di centri di diffusione di massa che superano le barriere della cultura scritta, rivolgendosi anche alle masse poco o nulla alfabetizzate. Radio e cinema, in particolare, assolsero allo stesso ruolo che, con ben altra forza, sarà proprio della Professoressa Maria D’Agostino televisione a partire dagli anni Sessanta. Le trasmissioni regolari della radio iniziarono nel 1924, ma ancora nel 1928 il numero degli abbonamenti era molto contenuto, con solo 61.458 abbonati. Nel 1927, il 70% della programmazione radiofonica era occupata da musica, il 7% era rivolto ai bambini, il 12% era costituito da notiziari e solo l’11% da trasmissioni informative e culturali. Il vero decollo della radio avvenne in Italia solo negli anni Trenta, pur rimanendo su dimensioni molto più ridotte rispetto ad altre realtà europee: gli abbonati erano solo l’1% della popolazione italiana, mentre erano il 15% in Gran Bretagna e il 10% in Germania. Nei primi anni Trenta, il numero degli abbonati radiofonici si moltiplicò velocemente, raggiungendo i 370.000 nel 1933, incentivato anche da un netto calo del costo degli apparecchi. In questi anni si avviò la sperimentazione della radio rurale, un progetto volto a favorire l’ascolto della radio nelle aree rurali, che fino a quel momento erano state meno raggiunte dal nuovo mezzo. Questo progetto prevedeva la diffusione gratuita di apparecchi radio costruiti a prezzi relativamente bassi dalle principali aziende italiane e collocati in punti di ascolto collettivo, come le scuole elementari. Inoltre, si svilupparono programmi destinati a specifiche fasce di pubblico, come agricoltori e scolari, e si organizzavano occasioni di ascolto collettivo. Questa politica, insieme alla nascita di un palinsesto nazionale con un mix di trasmissioni leggere e programmi giornalistici, permise al mezzo radiofonico di sfondare le barriere dell’analfabetismo e consentire alla lingua nazionale di espandersi oltre i confini di classe sociale. Tuttavia, i divari tra le diverse aree del Paese rimanevano molto forti: nel 1940, le utenze private erano concentrate nel Nord Italia, mentre solo il 23% si trovava nel Sud (la sola Lombardia e Piemonte avevano il 35% degli utenti). Negli stessi anni, il cinema emerse come un secondo mezzo di comunicazione orale che si diffuse anche al di fuori delle città e dei ceti colti. Il cinema, un settore dell’industria culturale con livelli di qualità eccellenti e caratteristiche di massa, vide le prime proiezioni in Italia nel 1896, un anno dopo la Francia. Tuttavia, è solo con l’avvento del sonoro alla fine degli anni Venti che il cinema iniziò a diffondere la lingua nazionale. Le caratteristiche di spettacolo popolare del cinema dagli anni Trenta fino alla metà degli anni Cinquanta sono evidenti dai numeri degli spettatori, degli schermi e dei guadagni. Gli spettatori raddoppiarono dal 1936 al 1950, passando da 4.100 schermi per 260.000 spettatori a 7.946 schermi per 760.000 spettatori. Questo numero rimase costante fino al 1955, per poi subire un tracollo negli anni Settanta a causa della concorrenza della televisione. Tra il 1924 e il 1927, gli incassi del cinema rappresentavano più del 50% dei guadagni di tutte le forme di intrattenimento pubblico, compreso lo sport, salendo al 70% nel 1936 e all’83% nel 1941. Dal punto di vista linguistico, almeno fino alla Seconda guerra mondiale, i film italiani e quelli stranieri doppiati, che erano maggioritari negli incassi, diffusero un italiano medio. Questo italiano non era caratterizzato né geograficamente né socialmente, ed era pressoché uguale per vecchi e giovani, uomini e donne. Era un italiano monolitico, piuttosto plasmato sulle strutture della lingua scritta che su quelle del parlato. In conclusione, radio e cinema hanno giocato un ruolo cruciale nella diffusione della lingua nazionale italiana nei primi decenni del Novecento. Questi mezzi di comunicazione di massa hanno permesso di superare le barriere dell’alfabetizzazione e di raggiungere una vasta gamma di pubblici, contribuendo a unificare linguisticamente il Paese nonostante le persistenti differenze regionali e sociali. Nel 1940 pochissimi italiani avevano la percezione di quanto la loro vita sarebbe stata sconvolta dagli avvenimenti dei mesi e degli anni seguenti. Rispetto alla guerra degli anni 1915-1918, combattuta da un esercito di massa ma su un fronte assai limitato, le esperienze degli italiani tra il 1940 e il 1945 erano molto diverse territorialmente e diffuse anche al di là degli scenari bellici. Nella guerra fascista un esercito, non meno contadino di quello della Grande guerra, aveva dovuto vestire i panni dell’invasore e, dopo dure e spesso umilianti prove militari, quella dell’oppressore in Francia, in Jugoslavia, in Grecia e nell’Unione Sovietica, per tacere dell’Africa settentrionale e orientale. Centinaia di migliaia di questi combattenti trascorsero lunghi anni di prigionia, dall’India agli Stati Uniti, all’Unione Sovietica. Al loro ritorno in patria nell’estate del 1945, reduci da esperienze radicalmente differenti da quelle della comunità nella quale avevano vissuto, la ritrovano anch’essa, almeno in parte, profondamente mutata. Il coinvolgimento nella guerra da parte della popolazione era stato, infatti, tale da superare ampiamente quello avutosi in qualsiasi altro evento bellico. Valutare cosa tutto questo abbia potuto Professoressa Maria D’Agostino significare sul piano linguistico appare assai complesso. Certamente per una parte degli italiani, fra le molte esperienze accumulate nel corso di quegli anni, vi è stata anche la necessità di servirsi di una più ampia gamma di strumenti comunicativi. Lo spazio linguistico ancora rigidamente monolingue di molti contadini e operai si amplia in direzioni differenti fra le quali compaiono, in alcuni casi, anche lingue straniere, ad esempio frammenti di angloamericano appresi a contatto con l’esercito degli Alleati e resi con straordinaria efficacia da film come Sciuscià di Vittorio De Sica. Sessismo, politica e lingua Nel dibattito tra genere e lingua, è importante sottolineare l’evoluzione delle normative italiane in materia di uguaglianza di genere, partendo dalle disposizioni della Costituzione fino alle leggi promulgate nel corso degli anni per garantire i diritti delle donne. Si evidenzia, ad esempio, l’importanza di norme come la Legge Merlin del 1958, che abolì le case chiuse, e altre disposizioni legislative che hanno progressivamente aperto nuove opportunità alle donne, consentendo loro di accedere a professioni e ruoli precedentemente riservati agli uomini. Queste misure legislative hanno rappresentato un passo significativo verso una società più inclusiva e paritaria. Un altro problema è stato quindi il sessismo linguistico, a cui sono state legate delle iniziative volte a promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana. Si discussero le raccomandazioni e le linee guida per un linguaggio inclusivo, sia a livello governativo che da parte di organizzazioni femministe e gruppi attivisti, mettendo in luce l’importanza di un dialogo aperto e collaborativo per superare gli stereotipi di genere e promuovere una rappresentazione linguistica rispettosa delle diverse identità di genere. Il fine minimo che ci si è proposto è di dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile. Fra i macrofenomeni fenomeni analizzati dall’attivista Alma Sabatini e che sono stati analizzati accuratamente anche in pubblicazioni successive sono: - L’uso del maschile non marcato (es. l’utilizzo di “uomo” e “uomini” con valore generico riferito all’umanità o alla specie umana in generale) che rende invisibili le donne; - L’uso degli agentivi (es. nomi di professioni, mestieri, titoli o cariche) esclusivamente al maschile anche quando sono esercitati da donne che rafforza i rapporti di potere fra donne e uomini. A questo sono legate le sfide alla rappresentazione delle minoranze sessuali nel linguaggio, che evidenziavano la necessità di superare il binarismo di genere e di adottare soluzioni linguistiche inclusive. È da menzionare il ruolo di gruppi come “Non Una di Meno” nel promuovere una rappresentazione linguistica rispettosa delle diverse identità di genere e sessuali, e nell’esplorare le implicazioni culturali e sociali di queste tematiche. Le complessità legate all’accessibilità linguistica per le persone con disabilità evidenziano ancora di più l’importanza di un linguaggio inclusivo che tenga conto delle diverse esigenze di comunicazione. Si propose infatti un approccio sperimentale e collaborativo per affrontare queste sfide e garantire l’inclusione di tutte le persone nella comunicazione linguistica. Altro fattore è la necessità di un impegno continuo per creare un ambiente linguistico e sociale più equo e rispettoso delle diversità di genere e sessuali, come il ruolo cruciale dell’educazione e della sensibilizzazione per promuovere una maggiore consapevolezza delle questioni di genere e una cultura del rispetto e dell’inclusione. Don Lorenzo Milani e l’ingiustizia educativa A scrivere della situazione di disagio scolastico italiana fu Don Lorenzo Milani nel 1967 nella sua opera Lettera a una professoressa. Questa pubblicazione fu scritta da alcuni dei suoi alunni nella scuola di Barbiana, situata vicino Firenze, in cui il docente aiutava alcuni dei ragazzi delle classi sociali più basse che a scuola venivano sfavoriti. Essi denunciavano infatti il sistema scolastico e il metodo didattico che favoriva l’istruzione delle classi più ricche, simboleggiate da Pierino, il figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari, mentre permaneva la piaga Professoressa Maria D’Agostino profondamente la nuova sinistra transnazionale negli anni a venire, avevano già trovato una prima significativa esperienza nel particolare ambiente politico, culturale e umano da lui creato. In particolare la pratica dell’autoanalisi popolare, un laborioso processo preliminare alla presa di decisioni collettive così come alla costruzione di volontà politiche condivise, e l’inchiesta, volta a trasformare l’oggetto dell’intervento conoscitivo in soggetto consapevole della propria condizione e artefice del cambiamento, furono esperienze cruciali che avrebbero segnato in maniera determinante il lavoro politico futuro. L’interesse e il riconoscimento della particolare rilevanza dell’impegno di Dolci esorbitò inoltre dai confini nazionali: ne sono prova non solo le numerose traduzioni dei suoi scritti in diverse lingue, ma anche l’attribuzione di una serie di importanti premi e titoli onorari. Tra questi è stato fondamentale il premio Lenin per la pace (1958), grazie al quale fondò il Centro studi e iniziative per la piena occupazione a Partinico. Dolci colse il senso del lavoro come dimensione cruciale per il riscatto sociale e il superamento di rapporti di prevaricazione sin dai primi mesi del suo arrivo a Trappeto e su tale consapevolezza continuò a lungo a orientare gran parte del suo impegno. Nel particolare tessuto politico e sociale siciliano il lavoro si caricava infatti di un valore particolare di liberazione da un dominio di matrice feudale che continuava a condannare vasti strati di popolazione all’indigenza, all’ignoranza e alla subordinazione passiva su basi di violenza intimidatrice. Tutto ciò era in buona parte riconducibile al fenomeno mafioso, un problema enorme di fronte al quale Dolci, intraprendendo inchieste in grado di rendere noti nomi e modalità di un sistema che lui definì clientelare-mafioso e che gli costò, come pure ad Alasia, un processo per diffamazione e una condanna poi condonata. Per Dolci la mafia era il potere politico, e lui la conobbe da vicino perché abitava a pochi passi dalla casa di Peppino Impastato. Altro problema nell’area in cui abitava Dolci fu il terremoto del Belice del 1968, in quanto il territorio si svuotò completamente e il governo stesso consegnava i passaporti ai cittadini per trasferirsi. Il terremoto mise drammaticamente a nudo lo stato di arretratezza in cui vivevano quelle zone della Sicilia occidentale, in primo luogo nella stessa fatiscenza costruttiva delle abitazioni in tufo, crollate senza scampo sotto i colpi del sisma. Le popolazioni di quei paesi erano composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, visto che i giovani e gli uomini erano già da tempo emigrati in cerca di lavoro. Questo dato rappresentava il disagio sociale che lo Stato conosceva e trascurava, così come trascurò le conseguenze del sisma, che hanno rappresentato, in fatto di calamità naturali, uno dei primi, e tristemente celebri, casi italiani nella storia del dopoguerra: l’impreparazione logistica, l’iniziale inerzia dello Stato, i ritardi nella ricostruzione, le popolazioni costrette all’emigrazione, lo squallore delle baracche per coloro che restavano. Tornando alla questione del lavoro, emerge quanto le azioni di Dolci fossero in sintonia, nonostante le diverse modalità, con le lotte portate avanti dalla sinistra italiana in quello stesso periodo. Un raccordo particolarmente significativo tra l’intervento di Dolci in Sicilia e l’impegno civile e politico della sinistra italiana si ebbe in occasione dello sciopero a rovescia, organizzato da Dolci nei primi mesi del 1956 per richiamare l’attenzione sull’assenza di infrastrutture elementari, come le strade, e le effettive possibilità occupazionali nella provincia palermitana. Non si trattava di una forma di lotta inedita nell’Italia di quel periodo, inedita fu tuttavia la rete di solidarietà nazionale che si sviluppò a seguito dell’arresto di Dolci e di quattro sindacalisti coinvolti nello sciopero. Il processo a Dolci fu tramutato dal suo illustre difensore Piero Calamandrei in un atto d’accusa contro una classe dirigente che non si premurava di onorare il diritto costituzionale al lavoro sancito dall’articolo 4. Grazie alla vasta solidarietà sviluppatasi numerosi intellettuali, politici, e scrittori si presentarono al processo per deporre in favore degli accusati, testimonianze che vennero pubblicate prontamente nel volume Processo all’articolo 4 (1956) e che a distanza di sessant’anni testimoniano della centralità ascritta a una certa concezione del lavoro per la costruzione della democrazia nell’Italia postfascista. Il libro scritto inizia proprio con il testo dell’articolo 4 della Costituzione, seguito immediatamente dalla storia di Vincenzo, un ragazzo conosciuto nei giorni passati in carcere, e da tutti gli atti del processo compresa l’arringa del giurista Calamandrei. La parte finale è invece una considerazione del sociologo Pasquale Beneduce agli argomenti trattati da Dolci. Il linguaggio del testo è caratterizzato da un sostrato dialettale siciliano e una patina di italiano. Le frasi utilizzate sono molto brevi e non sono in una lingua neutra, ma piuttosto in una lingua che ha Professoressa Maria D’Agostino dietro una storia. Sia nei testi di Dolci che di Don Milani c’era dietro un’omogeneità linguistica che voleva racchiudere chiunque, così come un’attenzione verso il mantenimento della cultura. Una concezione che Dolci e i suoi compagni di lotta espressero come segue in una lettera indirizzata alle più alte cariche istituzionali per spiegare le ragioni dello sciopero a rovescia e il relativo digiuno intrapreso. Il lavoro espressione di vita: questa l’idea che avrebbe guidato lunghe e difficili lotte, ma coronate dal successo, per interventi sul territorio atti a favorire l’occupazione e una vita dignitosa alla popolazione. Dolci alternò progetti concreti, come la realizzazione delle dighe dello Jato e delle dighe di Roccamena, a iniziative di ricerca, approfondimento e raccolta di fondi per promuovere il lavoro. La nonviolenza è stata poi per Dolci non solo un metodo d’azione, ma un valore fondante, una filosofia di vita che ha permeato ogni sua iniziativa e in tutto il suo percorso di attivismo. Egli ha praticato la nonviolenza come strumento per aprire il mondo alla trasformazione e alla giustizia sociale, combattendo in maniera decisa contro l’oppressione e l’ingiustizia, senza ricorrere alla violenza. Questo approccio è stato evidente fin dai suoi primi giorni di attivismo, come aveva dimostrato il suo primo sciopero della fame, che aveva attirato l’attenzione di Aldo Capitini, uno dei precursori della nonviolenza in Italia. La relazione tra Dolci e Capitini non è stata solo di reciproca ammirazione, ma anche di profondo scambio intellettuale. Capitini ha riconosciuto in Dolci l’incarnazione pratica dei suoi stessi ideali nonviolenti e ha sostenuto attivamente il suo lavoro. Tuttavia, nel corso degli anni, il pensiero e l’azione di Dolci sembravano aver subito una trasformazione, passando dall’accento sulla nonviolenza a una maggiore enfasi sulla partecipazione democratica e sul miglioramento della comunità. Pur continuando a credere fermamente nei principi della nonviolenza, Dolci ha cominciato a concentrarsi sempre più sulla promozione della democrazia di base e sull’importanza della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica e sociale. Questo si è manifestato attraverso varie iniziative, come la creazione di spazi di autoanalisi popolare e l’adozione di pratiche educative innovative. In particolare, il lavoro educativo di Dolci ha giocato un ruolo fondamentale nel suo impegno per il cambiamento sociale. Ha cercato di trasformare le scuole in luoghi di emancipazione e di crescita personale, dove gli studenti potessero sviluppare un senso di responsabilità civica e una consapevolezza critica del mondo che li circonda. Questo approccio, basato sulla partecipazione degli studenti, ha rappresentato una forma concreta di democrazia di base. La sua vita fu in effetti un moto intenso e continuo che si concluse nella sua amata Partinico il 30 dicembre 1997. La disuguaglianza sociale, educativa e linguistica Dagli anni Sessanta nel mondo iniziò la scolarizzazione di massa, un qualcosa di recente che è partito durante la Seconda guerra mondiale. Il problema che è emerso è che una parte di coloro che andava a scuola aveva dei problemi: vi erano degli squilibri nella classe operaia dove migliaia di studenti erano soggetti a ripetenze, abbandoni o espulsioni. Negli Stati Uniti era apparso invece il tema dei cittadini di serie B, ovvero i cittadini afroamericani; questo problema non si era ancora posto prima perché le scuole erano esclusivamente risvolte alla società elitaria, ma con la scolarizzazione di massa nuovi tipi di studenti si iscrivevano nelle scuole americane. Negli anni Settanta, la sociolinguistica ha avuto un grande ruolo per cercare di definire questo tema e capirne le motivazioni. È una disciplina nuova nata negli anni Sessanta che ha come obiettivo quello di affrontare le differenze e disuguaglianze linguistiche. Nello stesso periodo, emersero due teorie sociolinguistiche sullo studio di queste problematiche: - La teoria del deficit o teoria della deprivazione verbale del pedagogista e sociologo inglese Basil Bernstein, che fondò il suo approccio su dati linguistici. Bernstein fece una serie di indagini sui bambini della classe operaia, a cui partecipano pedagogisti e linguisti, definendo la teoria dell’esistenza di un codice ristretto, sulla base di test di laboratorio. Il sociologo costruì i propri dati sui bambini della classe operaia, così come a bambini della classe media e alta inglese che non avevano problemi di varietà dialettali o migratorie, facendo vedere film e immagini e poi lasciandoli descrivere le situazioni. Fra le produzioni linguistiche dei bambini della classe operaia e le produzioni Professoressa Maria D’Agostino della classe media e alta inglese notò che i bambini della classe operaia presentavano una produzione linguistica diversa dagli altri, ovvero continue ripetizioni, false partenze e difficoltà ad organizzare il pensiero, dunque si trovavano una situazione linguistica di grande difficoltà. I bambini delle classi media e alta possedevano per cui un codice elaborato, ovvero articolato, mentre quelli della classe operaia un codice ristretto, ovvero il prodotto delle interazioni madre-bambino con produzioni linguistiche povere e di poche espressioni. Le loro madri parlavano poco con i loro bambini perché all’epoca impartivano solo ordini e il bambino costruiva questo linguaggio povero a partire dalla famiglia. Un gruppo di linguisti invece affermò che in questo modo i bambini venivano intervistati in un ambiente per loro considerato ostile, dunque le false partenze e i balbettii riguardavano il fatto che il contesto non era naturale. Bernstein si sentì sotto accusa perché i bambini della classe media e alta sanno che saper parlare bene è un punto di forza, dunque questo primo attacco riguarda la questione metodologica, e i dati raccolti sono inutilizzabili. Inoltre molti rilevavano che le caratteristiche dei bambini della classe bassa erano caratteristiche del parlato spontaneo, testi tipici dell’orale; - La teoria della differenza del sociolinguista statunitense William Labov, che attaccò la teoria del deficit affermando che si basava su dati linguistici improvvisati. Labov disse che la teoria del codice ristretto ed elaborato non era efficace. In America il tema della diversità si intrecciava a quello della diversità razziale, e la diversità delle lingue avevano a che fare con il Black English o African- American English, che ha caratteristiche strutturali diverse come il verbo essere che viene omesso in determinate situazioni, costruendo quindi una varietà diversa; queste caratteristiche del Black English venivano interpretate dalla scuola come un inglese pieno di errori. Labov scrisse una serie di saggi sulle regole del Black English per dimostrare che è una lingua a tutti gli effetti con una grammatica interna perfettamente funzionante. Inoltre fece in modo che alcuni studenti afroamericani dei suoi corsi si inserissero nei gruppi di adolescenti afroamericani e raccogliessero dati dopo che si era stabilito un rapporto di amicizia e collaborazione con gli adolescenti. Da questo, si evinse che non c’era un problema di povertà linguistica, dunque è anche il contesto che dà vita a delle produzioni linguistiche disorganizzate. Il contesto è dunque fondamentale per la raccolta di dati linguistici. Negli anni Novanta, due psicolinguisti, Betty Hart e Todd Risley, intervistarono dei bambini di classi sociali inferiori e di classi alte americane, a casa delle famiglie, provando che un bambino delle classi inferiori è soggetto al cosiddetto gap delle 300 milioni parole, ovvero una differenza di parole conosciute, ascoltando le interazioni con la madre, rispetto a un bambino delle classi medie e alte. Si tratta di interazioni dirette con il bambino, ad esempio domande fatte al bambino che fa sì che dica parole nuove, sollecitando lo sviluppo linguistico dei bambini piccoli, sui 2-3 anni. Prima di mostrare il gap linguistico a scuola, i bambini delle classi inferiori avevano già questo gap. Questa ricerca è stata fatta dalla classe media bianca americana, infatti non teneva in considerazione balli o canzoni, ma venivano prese in analisi solo le interazioni dirette che sono tipiche di una cultura e sono anche molto scolastiche. Questa ricerca è stata citata più volte, ininfluente dal punto di vista scientifico, e con i media è diventata molto importante ed individuata come soluzione alla differenza linguistica di classe. L’educazione compensativa poteva rimediare al problema, ovvero un tipo di educazione basata sul bombardare di parole un bambino per fargliele imparare, ma i risultati furono opposti a quelli sperati: i bambini tenuti sotto quest’educazione erano costretti a stare a scuola, mentre gli altri facevano attività motorie e fisiche che erano a loro precluse perché dovevano concentrarsi nel recupero del gap di parole con risultati negativi, dati anche dalla frustrazione per non poter svolgere le altre attività come i loro compagni. In cinquant’anni si sono fatti pochi passi in avanti, perché le due teorie di Bernstein e Labov sono rimaste tali. Nell’articolo Academic Ignorance and Black Intelligence (1972) di Labov, l’autore parla dei contesti in cui vi è ostilità negli psicologi americani che devono fare dei test ai bambini per vedere se il bambino ha dei deficit cognitivi. Si parla di ignoranza accademica perché vi sono pregiudizi senza pretese di scientificità, discorsi che vengono spacciati per ricerca scientifica da persone che lavorano, studiano e vengono pagate per fare questo mestiere, quando in realtà la ricerca scientifica non può essere razzista. Essi non si accorgono che il Professoressa Maria D’Agostino dall’infanzia attraverso le interazioni con i genitori, gli altri membri della famiglia, i vicini e i coetanei. I giovani, in particolare, sono esposti a un’ampia varietà di lingue e dialetti, il che contribuisce allo sviluppo di competenze multilingui e alla flessibilità nell’apprendimento delle lingue straniere. La coesistenza di più lingue, sia nello spazio che nella mente individuale, porta spesso a un alto grado di adattabilità nelle interazioni multilingui e a un costante processo di apprendimento linguistico. I giovani migranti si impegnano attivamente nell’apprendimento delle lingue dei paesi ospitanti, integrando nuovi idiomi nel loro repertorio linguistico. Tale processo è spesso facilitato dalle relazioni di vicinato e dalla natura fluida delle interazioni multilingui, dove i parlanti manipolano le risorse linguistiche disponibili per raggiungere i propri obiettivi comunicativi. Tuttavia, una serie di sfide legate alla standardizzazione delle lingue e alla percezione delle competenze linguistiche nascono da questi temi. Molte lingue presentano una debole standardizzazione, mentre le competenze linguistiche dei migranti possono essere composite e frammentarie. Inoltre, l’istruzione spesso non tiene adeguatamente conto della complessità linguistica dei giovani migranti, utilizzando modelli didattici ancora radicati nel monolinguismo. Bisogna proporre quindi di adottare modelli educativi che valorizzino e tengano conto dei repertori poliglotti dei giovani migranti, riconoscendo la loro ricchezza linguistica come una risorsa preziosa. Tuttavia, c’è anche la necessità di affrontare il fenomeno dell’analfabetismo tra i giovani migranti, adattando i percorsi formativi alle loro esigenze specifiche. In particolare, l’occultamento strutturale dell’analfabetismo all’interno del sistema educativo per adulti è ancora deleterio e mancante di riconoscimento e supporto per i migranti analfabeti. È necessario quindi partire dai punti di forza e dai bisogni dei giovani migranti, fornendo loro un sostegno adeguato per affrontare le sfide legate all’apprendimento linguistico e alla reintegrazione sociale. Infine, si deve richiamare l’attenzione sull’importanza di considerare le esperienze migratorie passate dei giovani migranti e di fornire loro un ambiente educativo inclusivo e rispettoso delle loro identità linguistiche e culturali. Il multilinguismo in Africa Il multilinguismo in Africa è caratterizzato dalla compresenza delle lingue in vari contesti: in uno spazio geo-sociale, nella mente individuale e nelle interazioni comunicative. È possibile esplorare la diversità linguistica, evidenziando come questa varia da regione a regione. Ad esempio, in molte nazioni dell’Africa subsahariana si trovano numerosi idiomi, con parlanti che padroneggiano più lingue e le utilizzano quotidianamente in contesti diversi. Tuttavia, la diversità linguistica in uno spazio non sempre si riflette nella competenza multilingue individuale, né viceversa. Il concetto di multilinguismo può indicare quindi la diversità linguistica in un territorio o la competenza multilingue di un individuo. In particolare, il multilinguismo africano si differenzia da quello occidentale per la mancanza di gerarchie di prestigio tra le lingue e per il mescolamento linguistico nelle interazioni comunicative. Questa compresenza e mescolanza linguistica sono fondamentali per comprendere i modelli linguistici di una comunità o di un individuo. Il termine multilinguismo viene utilizzato per descrivere la presenza di più lingue in un dato territorio, mentre il plurilinguismo è la capacità di un individuo di parlare più lingue. In Africa, queste due realtà sono spesso intrecciate, con comunità che convivono con molteplici idiomi e individui che padroneggiano diverse lingue per scopi diversi, come comunicazioni quotidiane, commerci e riti culturali. La storia di Mohamed, un giovane gambiano, illustra come il multilinguismo sia parte integrante della vita comunitaria in un villaggio africano. Cresciuto in un ambiente rurale vicino al confine con il Senegal, Mohamed ha acquisito competenze in varie lingue attraverso l’interazione quotidiana, la scolarizzazione formale e coranica, e le relazioni familiari ed economiche. Questo ambiente linguistico ricco ha contribuito a formare una visione fluida delle lingue e delle identità. Mohamed è un ragazzo di 21 anni che offre uno spaccato dettagliato della sua vita prima della partenza, del suo viaggio migratorio e del suo processo di integrazione in Italia. La sua esperienza è caratterizzata da un forte multilinguismo e da una molteplicità di interazioni culturali e linguistiche. Mohamed è cresciuto in un villaggio di circa 3000 abitanti vicino al confine con il Senegal, nella regione di Casamance. La sua vita è immersa in un Professoressa Maria D’Agostino contesto di grande multilinguismo, dove vengono parlate diverse lingue come il mandinka, il wolof, il jola, il manjako, il balanta, il karoninka, il serer, il fula, il kasinko, il kasangko, il manojo, il soninke, il sarahule e l’aku. La sua comunità è caratterizzata da continue pratiche di mescolamento e scambio di codici linguistici, che contribuiscono all’ampliamento delle risorse linguistiche individuali e comunitarie. Mohamed ha frequentato sia la scuola formale di modello occidentale che la scuola coranica, vivendo in un ambiente dove le nuove lingue vengono apprese spontaneamente attraverso le interazioni quotidiane. Le diverse forme di scolarizzazione, l’arrivo di nuovi vicini, gli scambi economici e familiari, come i matrimoni tra membri di diversi villaggi, hanno arricchito il panorama linguistico di Mohamed, rendendolo capace di gestire una molteplicità di relazioni multilingui. Dopo aver lasciato il Gambia, Mohamed è arrivato a Pozzallo, in provincia di Ragusa, ed è stato poi trasferito in varie comunità isolate nelle montagne attorno a Palermo. Durante i suoi primi mesi in Italia, ha mantenuto un quaderno in cui ha annotato i modi di dire e i proverbi italiani, con traduzioni e spiegazioni in inglese, come metodo per imparare la lingua in profondità. Questo approccio lo ha aiutato a costruire nuove interazioni comunicative e a integrarsi meglio nel nuovo contesto. Mohamed proviene da una grande famiglia di contadini, con nove figli in totale. Suo padre e le sue due mogli sono originari di Casamance. La famiglia mantiene strette connessioni con il Senegal, dove alcuni membri risiedono per motivi educativi o lavorativi. Le pratiche culturali e le tradizioni, come la festa del Futampaf, svolgono un ruolo centrale nella loro vita. Questa festa, che coinvolge la comunità in rituali e celebrazioni, è un esempio della ricchezza culturale del loro contesto. Il ragazzo è alfabetizzato in alfabeto latino e conosce bene l’arabo grazie agli studi coranici di uno dei suoi fratelli in Mauritania. Parla fluentemente jola, mandinka, e altre lingue locali, riflettendo il multilinguismo del suo ambiente di crescita. Le sue interazioni con la famiglia e la comunità sono spesso caratterizzate da scherzi linguistici e scambi interculturali, che rafforzano il suo senso di identità e appartenenza. Le donne della famiglia di Mohamed, come sua madre e le sue sorelle, giocano un ruolo attivo nella vita economica e sociale del villaggio. Vendono prodotti agricoli al mercato e apprendono nuove lingue attraverso il lavoro e le interazioni quotidiane. La mobilità, sia interna al villaggio che verso altre località, contribuisce ulteriormente alla diversificazione delle competenze linguistiche e culturali. Durante il viaggio migratorio e il soggiorno in Italia, Mohamed ha affrontato varie sfide, tra cui la discriminazione e l’isolamento. Tuttavia, il suo bagaglio linguistico e culturale gli ha permesso di adattarsi e trovare modi per costruire nuove connessioni e opportunità. La sua capacità di apprendere rapidamente nuove lingue e di navigare attraverso diverse culture si è rivelata essenziale per il suo processo di integrazione. La storia di Mohamed è un esempio emblematico del potere del multilinguismo e della diversità culturale nell’arricchire le esperienze individuali e comunitarie. La sua vita testimonia come l’immersione in contesti multilingui e multiculturali possa fornire strumenti preziosi per affrontare le sfide della migrazione e dell’integrazione in nuovi paesi. Il plurilinguismo è particolarmente evidente nelle regioni di frontiera e in aree ad alta mobilità migratoria. Le persone in queste zone spesso parlano numerose lingue per facilitare la comunicazione e l’integrazione sociale. Ad esempio, nella regione della Casamance in Senegal, gli individui possiedono repertori linguistici ampi e flessibili, adattandosi ai diversi contesti sociali e culturali. L’istruzione gioca un ruolo cruciale nel mantenere e promuovere il multilinguismo in Africa. Le scuole formali e non formali spesso fungono da spazi di apprendimento linguistico dove i bambini possono acquisire nuove lingue oltre a quelle parlate nelle loro famiglie e comunità. Questo processo è supportato da politiche educative che riconoscono l’importanza delle lingue locali e incoraggiano l’uso del multilinguismo nelle pratiche educative. Il multigrafismo, o la coesistenza di più sistemi di scrittura, è un altro aspetto significativo della realtà linguistica africana. In molte comunità, diversi sistemi di scrittura vengono utilizzati contemporaneamente per rappresentare lingue diverse. Questo fenomeno è particolarmente rilevante nelle aree urbane dove l’influenza delle lingue europee, attraverso l’alfabetizzazione coloniale, si mescola con le scritture tradizionali locali. Ad esempio, in Nigeria, è comune vedere l’uso dell’alfabeto latino accanto ai sistemi di scrittura nativi come l’Ajami, arabo adattato per le lingue africane). Le politiche linguistiche in Africa si stanno evolvendo per riconoscere e sostenere il multilinguismo. L’African Academy of Languages (ACALAN) Professoressa Maria D’Agostino dell’Unione Africana ha lavorato per armonizzare le lingue transfrontaliere, facilitando l’uso di queste lingue anche come lingue scritte. Questo sforzo è volto a superare le divisioni coloniali e a promuovere una maggiore integrazione linguistica e culturale. Il multilinguismo e il multigrafismo in Africa non sono solo fenomeni linguistici, ma anche sociali e culturali. Essi riflettono la ricca diversità del continente e la complessità delle sue interazioni sociali. Comprendere queste dinamiche è essenziale per promuovere politiche educative e linguistiche che rispettino e valorizzino la diversità linguistica, contribuendo così alla coesione sociale e allo sviluppo sostenibile in Africa.
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