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Appunti completi di Traduzione e Linguistica | Lezioni + libri + slide, Appunti di Traduzione

Appunti di Traduzione e Linguistica dalla prima all'ultima lezione del professore Castrenze Nigrelli compresi di parti aggiuntive dei libri (Diadori e Faini) e delle slide del professore. Il documento verte su tutti gli aspetti della linguistica (nozioni che spiega solo lui a lezione), le dicotomie saussuriane, la classificazione tipologica, la tipologia sintattica, le correlazioni di Greenberg, la tipologia lessicale, la traduzione, le definizioni e le tipologie di traduzione, la traduzione totale, la trasposizione, l'adattamento, le tipologie di testo, la traduttologia, la fedeltà, l'equivalenza, l'intraducibilità, l'adeguatezza, la lealtà, il processo traduttivo, la negoziazione, il dialogo traduttivo e tutti i periodi della storia della traduzione dalla preistoria a oggi

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 30/06/2024

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Scarica Appunti completi di Traduzione e Linguistica | Lezioni + libri + slide e più Appunti in PDF di Traduzione solo su Docsity! Professore Castrenze Nigrelli TRADUZIONE E LINGUISTICA La linguistica La linguistica è lo studio scientifico del linguaggio umano. Si occupa dell’analisi e della descrizione dei linguaggi, dei loro elementi costitutivi e dei modelli che regolano la loro organizzazione e il loro uso. Il linguista Ferdinand de Saussure, in particolare, disse che le lingue sono più forma che sostanza. Il segno linguistico è proprio la relazione inscindibile tra il piano della forma e della sostanza, che possono essere indicati anche come piano dell’espressione e del contenuto, o ancora piano del significante e del significato. Una lingua serve per la comunicazione, che avviene tramite messaggi mediati da codici. Nella comunicazione devono necessariamente esserci un emittente e un ricevente, il primo dei quali fa una codifica del messaggio, ovvero lo trasforma nella sua versione fisica sensoriale e affida un significato a un significante, quindi un’espressione. Quest’espressione a livello verbale è formata da suoni di materiale fonico-acustico, che avvengono tramite l’articolazione dell’apparato fonatorio. Il ricevente è invece colui che fa una decodifica del suono che passa attraverso le onde sonore, per cui recupera il significato dal significante. A livello comunicativo è necessario distinguere tra la lingua, ovvero la manifestazione storica del linguaggio, e il linguaggio, il dispositivo che rende capace un individuo di acquisire la lingua che viene parlata attorno a sé naturalmente; è anche la capacità di produrre una frase inedita e di farla decodificare al ricevente. Gli studi linguistici hanno permesso di delineare alcune caratteristiche fondamentali che possiede il linguaggio: - L’articolazione, che si riferisce al processo attraverso il quale vengono prodotti i suoni del linguaggio umano. Questo processo coinvolge l’uso coordinato di organi come la lingua, le labbra, la gola e le corde vocali per creare suoni distinti che compongono le parole e le frasi di una lingua. L’articolazione è quindi quando un’espressione può essere spezzettata in piccoli segmenti singoli non ulteriormente analizzabili (es. /p/ non può essere ulteriormente divisibile) e, attraverso questo minimo sforzo, il significato può essere mutato in un’operazione economica; - La funzionalità, che è data dall’esistenza delle coppie minime; queste ultime sono coppie di parole di significato diverso che sono distinte in contesto uguale solo da un fonema (es. pane e cane). Una lingua è funzionale, quindi, quando crea distinzione di significato; - La storicità e la naturalezza, che identificano le lingue come storico-naturali perché nate da un bisogno naturale e innato di comunicare e perché sono in continua evoluzione dato che l’esperienza umana è calata nel tempo e nella storia; - La discretezza, che è l’espressione in maniera discontinua e digitale delle lingue (es. è significativo lo scarto discreto e brusco nel passaggio tra /p/ e /k/); - L’arbitrarietà, che è la non prevedibilità di un codice, che non deve necessariamente motivare la presenza di un’espressione (es. il significante sedia non rimanda nella sua composizione al suo significato). La motivazione di un codice è data quindi esclusivamente dal suo legame con una convenzione, ovvero il sistema linguistico di riferimento: in un codice arbitrario non c’è prevedibilità, bisogna conoscere il codice per capire il significato di un significante. L’arbitrarietà del linguaggio è però una caratteristica legata al linguaggio umano: le formiche, ad esempio, guidano le compagne verso il cibo attraverso il rilascio di feromoni, e utilizzano così un linguaggio non arbitrario dato dalla somiglianza tra significante e significato. Il loro linguaggio non è neanche articolato perché non è costituito da morfemi, e quindi a ogni variazione di significante varia il suo significato. Il linguaggio umano non è continuo: se lo fosse, l’unica differenza tra pena e penna sarebbe che la penna è una pena rafforzata. Mentre la formica con il suo linguaggio può veicolare solo significati concreti, l’essere umano può dare anche significati astratti. Certi tipi di linguaggi, come quelli del cinema o degli animali, esprimono infatti contenuti ma non in senso forte come il linguaggio verbale. L’espressione deve essere di materiale sensoriale, producibile e percepibile dai sensi dei due Professore Castrenze Nigrelli organismi, di qualunque natura esso sia. Il linguaggio umano è infatti altamente specializzato e possiede proprietà specifiche della specie umana e specifiche del sistema; - La ricorsività, che è il continuo potenziale ripetere di una regola all’interno di una stessa stringa (es. Castrenze entra e cade, che può essere espanso con lo stesso procedimento di aggiunta di verbi in Castrenze entra, cade, ride e si fa male); - La dipendenza dalla struttura, che distingue il linguaggio umano dai linguaggi informatici. Questi ultimi procedono accordando gli elementi messi in relazione da una sintassi, l’uno con quello linearmente più vicino e contiguo. Secondo Noam Chomsky, le operazioni grammaticali che insistono sulle frasi dei messaggi sono dipendenti da relazioni strutturali tra gli elementi al di là della posizione di essi, ed è per questo che il linguaggio umano è dipendente dalla struttura (es. il soggetto proietta i tratti di accordo sul verbo anche se si trova lontano da esso). Le dicotomie saussuriane La semiotica è la scienza che studia i sistemi di segni e proviene dal greco σημεῖον (segno). Le prime tracce di semiotica si rintracciano nell’antica Grecia, quando i medici interpretavano la malattia di un paziente come significante e ne traevano la diagnosi, quindi il significato. La lingua è un sistema di segni simbolici o un codice, ovvero una serie di corrispondenze tra il piano dell’espressione e il piano del contenuto. Nel segno linguistico, il legame tra il significante e significato è arbitrario, cioè non naturale e non necessario. Saussure diceva che il rapporto tra significato e significante è un’entità psichica a due facce, ed è per questo che venne introdotto il concetto di biplanarità del segno. Questa relazione non è stata inventata da Saussure, ma ha radici nella filosofia orientale e greca. La biplanarità tra significante e significato è stato poi approfondita dal linguista Louis Trolle Hjelmslev nel 1943, che pensò tuttavia a una doppia biplanarità del segno. Alla biplanarità tra significante e significato, e quindi tra espressione e contenuto, aggiunse la biplanarità tra forma e sostanza. Le lingue formano, segmentano e distinguono in modo diverso la sostanza e classificano l’esperienza: in tal senso, nelle lingue conta di più la forma che la sostanza secondo Saussure e Hjelmslev: Sostanza del contenuto Totalità dei significati pensabili Forma del contenuto it. bianco lat. albus lat. candidus it. nero lat. ater lat. niger In italiano, bianco presenta una sola forma, mentre il parlante latino doveva per forza specificare se si trattava di un bianco opaco o un bianco lucido, e lo stesso per quanto riguarda la parola nero; questa biplanarità ricadeva quindi sul parlante. Un traduttore, infatti, deve conoscere la differenza tra una lingua e l’altra che sono in gioco nella traduzione che sta curando. La sostanza del contenuto è la totalità dei significati pensabili, mentre la sostanza dell’espressione è la totalità dei suoni producibili e udibili dall’uomo. Di questa sostanza le lingue fanno diversa forma: Sostanza dell’espressione Totalità dei suoni producibili e udibili dall’uomo Forma dell’espressione it. [a] centrale en. [æ] anteriore en. [ɑ] posteriore Alla biplanarità del segno si riconduce inoltre l’arbitrarietà del linguaggio. Se le lingue non fossero arbitrarie sul piano dei significanti, le lingue sarebbero tutte uguali sul piano delle forme che avrebbero. Esistono due tipologie di arbitrarietà, a seconda della relazione tra espressione e contenuto: Professore Castrenze Nigrelli è possibile usare qualunque altra parola che sia un nome, così come il verbo può essere sostituito con qualsiasi altro verbo); - Asse sintagmatico o in presaentia, che è l’asse orizzontale, concreto e di combinazione in cui il parlante è ancora nella fase dell’obbligatorietà. Il parlante è libero di scegliere dall’asse paradigmatico ma poi è obbligato a usare una parola in base alla grammatica (es. se nella frase Il topo mangia il formaggio, un parlante usa questo soggetto, non potrà utilizzare i topi con il verbo mangia perché non sono accordati). La classificazione tipologica Tutte le dicotomie di Saussure sono utili non solo per la linguistica generale, ma anche per la classificazione delle lingue, che vengono divise a seconda di alcuni parametri: - Classificazione genealogica o genetica, ovvero l’insieme delle lingue che diacronicamente mostrano tratti comuni in base alla parentela, e che nacque nell’Ottocento con gli studi storico-comparativi; - Classificazione tipologica, ovvero l’insieme delle lingue che sincronicamente mostrano tratti comuni in base al tipo linguistico. Questa nacque già negli anni Sessanta del Novecento con gli studi sintattici di Joseph Greenberg, ma le prime classificazioni pioneristiche in materia vennero avanzate già nell’Ottocento; - Classificazione areale, ovvero l’insieme delle lingue che mostrano tratti comuni in base alla stessa area geografica e che sono in contatto tra di loro. Questa classificazione a volte non viene inserita perché secondo alcuni linguisti è solo una classificazione tipologica che si basa sul tipo geografico. La classificazione tipologica, in particolare, è molto trasversale perché può unire lingue tra loro molto lontane geograficamente e/o nel tempo. La tipologia viene definita come lo studio dei limiti alla variazione interlinguistica. Gli universali linguistici, in particolare, sono quelle caratteristiche che accomunano tutte le lingue, e di cui si occupa proprio questo studio. Se il tipologo nota che alcuni parametri non combaciano tra alcune lingue, allora è costretto a dividere le lingue in tipi linguistici. Alcuni tipi di universali linguistici possono essere che tutte le lingue hanno le vocali orali, e che quindi non esisterà mai una lingua che non le possiede. La formula generale per indicare un universale linguistico è del tipo Tutte le lingue del mondo hanno una caratteristica X. Anche se dovesse esistere un giorno una lingua che non rientrerà più in un universale linguistico, sarà comunque considerata statisticamente irrisoria. La tendenza è un altro modo di dire universale, solo che include le eccezioni, e quindi la sua formula è del tipo Quasi tutte le lingue del mondo hanno una caratteristica X. Un esempio di tendenza può essere che quasi tutte le lingue del mondo hanno il soggetto che precede l’oggetto. I limiti del messaggio sono gli stessi dell’essere umano, e quindi la causa dell’esistenza degli universali linguistici è di tipo funzionale. Le categorie lessicali non sono universali (es. l’articolo in russo o in latino non c’è), ma il nome e il verbo lo sono perché una frase ha l’obbligo di avere soggetto e predicato. L’aggettivo, poi, in inglese è invariabile, mentre in italiano è variabile (es. American significa in italiano americano, americana, americani e americane). Il primo parametro che è stato studiato in tipologia già dagli studi pioneristici dell’Ottocento era quello morfologico, che ha permesso alla moderna tipologia linguistica di dividere le lingue in quattro tipi morfologici. Il primo è quello isolante, ovvero l’insieme delle lingue che hanno scarsa o quasi nulla flessione come l’inglese, che è l’unica tra le lingue indoeuropee a farne parte. L’inglese e il tedesco sono imparentate genealogicamente, ma dal punto di vista della tipologia morfologica l’inglese è più simile al cinese. Nel lessico delle lingue isolanti, vi sono per lo più parole mono-morfemiche che non ricevono modifiche. L’inglese, ad esempio, non ha indicatori di persona nell’accordo del verbo, ma lo fa solo tramite il soggetto, difatti non è pro-drop come l’italiano, che può sottintendere il soggetto. Nonostante ciò, rispetto all’inglese antico, in quello moderno la flessione è estremamente ridotta. In più, i verbi, eccetto to be, hanno un’unica forma sia al tempo presente, a eccezione della terza persona singolare, sia al tempo passato. Gli ausiliari esprimono invece informazioni di tempo e modo, e quindi Professore Castrenze Nigrelli ad esempio il futuro, il condizionale e il congiuntivo sono espressi con will, would e could. L’ordine delle parole è poi molto rigido. Fanno parte del tipo isolante anche il cinese, il vietnamita e il tailandese, in cui ogni parola è invariabile e equivale a un solo morfema. Le categorie e le relazioni grammaticali sono piuttosto espresse attraverso l’ordine delle parole secondo la strategia sintattica e l’uso di particelle, secondo la strategia lessicale (es. wǒ gěi tā mǎi le shū, che in cinese significa io gli ho comprato un libro, e in cui il dativo è dato singolarmente dalla particella gěi e il passato da le). Un altro tipo morfologico è quello agglutinante, ovvero l’insieme delle lingue in cui ogni forma porta un solo significato e ad ogni morfo corrisponde uno e un solo morfema, e viceversa, secondo una corrispondenza biunivoca. A ogni morfema corrispondono invece più allomorfi (es. gli allomorfi o ed e in pane e canto corrispondono entrambi al morfema del maschile singolare). Esempi di lingue agglutinanti sono il turco, l’ungherese, il basco e il giapponese, la cui morfologia è sviluppata e lineare e i morfemi sono facilmente segmentabili: el = mano Singolare Plurale Nominativo el el-ler Accusativo el-i e-ler-i Genitivo el-in el-ler-in Dativo el-e el-ler-e Locativo el-de el-ler-de Ablativo el-den el-ler-den Successivamente, fa parte della tipologia morfologica il tipo fusivo, ovvero l’insieme delle lingue, per lo più europee, che sono caratterizzate da una morfologia flessiva ricca: il termine indica la fusione degli elementi e la scarsa capacità di individuare cosa indicano i vari morfemi, dovuta o all’utilizzo di un solo morfo o dalla presenza di più allomorfi per indicare la stessa classe flessiva. La morfologia di queste lingue è sviluppata, non lineare e opaca rendendo difficile la segmentabilità. Rientrano in questo tipo morfologico le lingue indoeuropee come il latino, il greco, l’italiano, il francese, lo spagnolo e il tedesco. Le lingue fusive hanno più classi flessive: l’italiano, ad esempio, presenta tre coniugazioni del verbo e il latino ha un sistema nominale a cinque declinazioni, e ciò evidenzia un alto grado di allomorfia. Un’altra caratteristica di queste lingue è la flessione interna o apofonia: in questo caso le categorie grammaticali sono espresse tramite alterazione fonologica della vocale radicale, ed è molto diffusa nelle lingue indoeuropee e semitiche. È quasi nulla la presenza nelle lingue agglutinanti e, nonostante sia una lingua isolante, anche l’inglese presenta l’apofonia, ad esempio nei paradigmi verbali. Nelle lingue antiche è più presente rispetto a quelle moderne, ma è comunque un tratto che permane; tuttavia, esistono delle lingue che presentano l’apofonia che non è dovuta a tracce residue da lingue antiche bensì a processi produttivi e regolari che formano un sottotipo introflessivo. Rientrano in questa sottoclasse l’arabo e l’ebraico. Nell’arabo, dalla stessa radice lessicale triconsonantica (es. k-t-b-, ovvero scrivere) si ottengono nuove parole variando le vocali. L’ultimo gruppo della classificazione morfologica è quello incorporante o polisintetico, ovvero l’insieme delle lingue caratterizzate da parole molto lunghe, in cui a una sola parola corrisponde un’intera frase, perché formate da un grande numero di morfemi. Queste lingue sono caratterizzate dalla noun incorporation, ovvero l’unione del verbo e dell’oggetto o di più verbi in un’unica parola. Un esempio sono le lingue apache, il cherokee, l’ojibwe, il kalaallisut e l’inuktitut. La tipologia sintattica Negli anni Sessanta, Greenberg pubblicò un lavoro seminale che lo rese padre della moderna tipologia, in particolare sul parametro che guarda la posizione di soggetto, oggetto e verbo. Studiò le lingue rispetto alle possibilità SOV, SVO, VSO, VOS, OSV e OVS, e scoprì che le lingue del mondo Professore Castrenze Nigrelli afferiscono solo a tre di questi sei tipi possibili: SOV per circa il 50%, SVO per circa il 40% e VSO per circa il 10%. Il tipologo sceglie un parametro che per lui è significativo in merito alle lingue del mondo, e le studia empiricamente; tipologicamente parlando sceglie poi un campione rappresentativo della varietà interlinguistica: se un campione è inficiato da elementi che lo influenzano perché si tratta di lingue vicine geograficamente o tipologiche non è possibile che quel campione rappresenti la varietà interlinguistica. Greenberg rivoluzionò la tipologia mettendo in relazione due parametri attraverso l’implicazione, che permette di far formulare le relazioni implicazionali secondo la formula del tipo Se è presente X, allora sarà presente Y. L’universale implicazionale mette quindi a confronto due parametri, mentre l’universale non implicazionale ne prende in esame uno solo. L’universale assoluto è invece quello senza eccezioni, che è diverso dalle tendenze universali che ne hanno diverse. In sintesi si possono classificare gli universali tipologici come: - Universali assoluti non implicazionali (es. Tutte le lingue hanno vocali orali); - Universali assoluti implicazionali (es. Se una lingua ha VO, allora è preposizionale); - Tendenze universali non implicazionali (es. Quasi tutte le lingue hanno consonanti nasali); - Tendenze universali implicazionali (es. Se una lingua ha SOV, allora avrà molto probabilmente posposizioni). Greenberg ha studiato anche un campione di lingue che ha permesso di stabilire che le tipologie attestate fossero le tre possibili. Dopo la pubblicazione della sua opera, altri studiosi ampliarono il campione di lingue e mostrarono che il tipo VOS, caratteristico delle lingue austronesiane, OVS, caratteristico delle lingue caraibiche, e OSV, caratteristico delle lingue australiane, sono attestati soltanto tra l’1% e il 3% delle lingue del mondo. Ciò significa che bisogna modificare il quadro senza sconvolgerlo totalmente. Le correlazioni di Greenberg Seguendo le sue correlazioni, incrociando il parametro I della posizione soggetto-oggetto-verbo nelle frasi dichiarative con il parametro II della posizione della preposizione rispetto al nome, poi con quello NG o GN per l’ordine tra nome e genitivo, con quello NA o AN per l’ordine tra nome e aggettivo, e infine con NRel o RelN per l’ordine nelle frasi relative, ci si accorge, secondo un universale implicazionale, che se il verbo precede l’oggetto, allora le frasi relative, gli aggettivi attributivi, i possessivi e i sostantivi dipendenti seguono la testa nominale che modificano, e ci saranno preposizioni piuttosto che posposizioni. Se l’oggetto precede il verbo, l’ordine invece si rovescia: SVO Prep/N NG NA NRel SOV N/Posp GN AN RelN VSO Prep/N NG NA NRel Per quanto riguarda la posizione VO o OV, il verbo è la testa della frase, senza si avrebbe solo una nominazione. Se si ha V e poi O, si ha quindi un ordine di tipo prima testa e poi modificatore, così come in ogni relazione la testa sarà l’elemento iniziale; nel caso delle lingue OV tutto ciò si rovescia. Ciò evidenzia che tutto dipende dalla posizione del verbo rispetto all’oggetto. Una tendenza universale è infatti quella del tipo In quasi tutte le lingue del mondo S precede O. Più specificatamente, il tipo SOV è attestato nel maggior numero di lingue del mondo, quasi il 50%, come il giapponese, il turco o il quechua (es. Jirō-ga inu-o mita in giapponese significa letteralmente Jiro cane ha visto). Il tipo VSO è attestato nel 10% delle lingue, come l’ebraico biblico, l’arabo classico o l’irlandese (es. D’ith Bill ceapaire in irlandese significa letteralmente mangiare Bill panino). Professore Castrenze Nigrelli Manner, mentre nelle lingue V-Framed trova il Path. Di conseguenza, le lingue V-Framed hanno più salienza nel Path. Tuttavia, parlare di gradualità nel Path o nel Manner non significa che non si possono più distinguere i V-Framed dagli S-Framed. Successivamente, nel 2003, Slobin ha proposto un Equipollently-Framed o tipo simmetrico, a cui si può sovrapporre il lavoro di William Croft del 2010, Symmetrical-Framed, cercando di andare oltre la dicotomia talmiana. Questo prese in considerazione lingue come il thailandese o il cinese, che usano i complex predicates, costrutti simmetrici a due predicati. Se si amplia il campione di lingua si osserva che ci sono dei dati che hanno bisogno di una teoria più larga: i tipi talmiani ragionano su dove si trova il Path in una frase, ma con lingue le cui frasi contengono verbi simmetrici ci si chiede a chi attribuirli. Guardando soprattutto alla lingua russa, Jürgen Bohnemeyer nel 2007 parlò di double-marking o tipi a doppia marca facendo riferimento a quelle lingue che tendono a qualificare in maniera ridondante il Path sia nel verbo che nel satellite. Ci si chiede dove ricondurre il Path in questo caso e Talmy, nel 2009, ricondusse tutto ai suoi due tipi perché i complex predicates non sono così paritetici perché uno dei due sarà testa e l’altro il suo modificatore. Quindi, a seconda della testa se è Path o Manner si ricondurrà quella lingua ad uno dei suoi due tipi. Ciò che cambia è l’approccio tipologico rispetto ai tipi, e soprattutto cambia l’idea che i tipi non sono compartimenti stagni in cui si colloca una lingua che rimane lì e non muta, ma si guarda come ad una prospettiva più aperta: se si colloca una lingua in un tipo non si esclude che all’interno del sistema in una certa misura ci siano fenomeni appartenenti ad altri tipi. Alla luce di questo, quando si assegna una lingua ad un tipo non si deve escludere che quella lingua abbia dei fenomeni meno pervasivi nel sistema che sono legati ad altri tipi. Ogni lingua, parlando di tipo in maniera netta, risulta mista; quindi, sarebbe meglio parlare di tipi come tendenze, nel senso che una lingua mostra tratti comuni con altre lingue e vengono raggruppate tenendo conto che tali tratti non sono dominanti nel sistema. Molti hanno proposto un continuum anche fra il polo del V-Framed e quello dell’S-Framed, osservandoli non come contenitori ma come poli di un continuum, collocando nella linea discontinua le varie lingue a seconda della loro coerenza intra-tipologica. Si può anche parlare di costrutti S-Framed o V-Framed, e in questo caso non sarebbe la lingua V-Framed o S- Framed, bensì i costrutti utilizzati. Negli ultimi anni ciò che sitempo è capito perfettamente è che non si può parlare di tipi in maniera rigida perché i risultati porterebbero a considerare le lingue miste. Ragion per cui è meglio parlare di tendenze, o di continuum scalare, o addirittura parlare di tipi di evento o costrutti. Se si mette in campo anche la variabile del tempo, quindi la diacronia, le lingue non rimangono uguali ma mutano al punto che le loro caratteristiche strutturali possono portare una lingua a spostarsi da un tipo all’altro. La linguistica nacque in ambito sincronico ma, a partire dagli anni Novanta, alcuni studi tipologici come quelli di Croft hanno dato dinamicità all’argomento. Occorre dire anche che non esistono dei tipi puri: se si inquadrano le lingue dal punto di vista tipologico, quindi con insiemi netti, le lingue risulteranno sempre nette. L’inglese antico, ad esempio, era SOV e poi è diventato SVO, ciò spiega il residuo nella presenza dell’aggettivo prima del nome. Se si guarda ai tipi morfologici si nota che l’inglese è una lingua tendenzialmente isolante, però si trovano anche fenomeni propri di altri tipi come quello agglutinante, fusivo, introflessivo e incorporante. Non esistono inoltre dei tipi fissi: le lingue possono mutare i loro tratti strutturali al punto da configurare un tipo differente. Questo discorso si può apprezzare calando la tipologia in una dimensione diacronica, cosa che negli ultimi tempi è stata fatta. Un esempio è il caso dell’armeno, una lingua genealogicamente indoeuropea, tipologicamente fusiva dal punto di vista morfologico, che col tempo è diventata agglutinante anche per influsso del turco. Se si considera che i tipi possono mutare nel tempo, si deve valutare che una lingua quando viene classificata potrebbe mostrare degli elementi che vanno in un tipo diverso rispetto a quello valutato, e questo può essere la spia di un mutamento in corso. La traduzione La traduzione etimologicamente viene da trans (al di là, oltre) e duco (tirare, condurre) insieme al suffisso -tionis; traductio (trasferimento) è un deverbale da traducere (trasferire). Forse un passo Professore Castrenze Nigrelli delle Noctes Atticae (II secolo) di Aulio Gellio può essere stato l’origine dell’introduzione prima nel latino umanistico e poi nell’italiano di questa parola. Egli scrisse: “Vocabulum graecum vetus traductum in linguam Romanam”, dove traductum vuol dire trapiantato. Nel mondo romano, con la nascita della letteratura scritta fortemente dipendente da quella greca, si sviluppò precocemente una riflessione sul tradurre: il verbo latino exprimere verbum da verbo, cioè spremere parola per parola, lasciò presto spazio al verbo verbere, cioè volgere. Quando un autore latino diceva di aver tradotto un’opera greca intendeva dire che l’opera originale è stata ripresa e liberamente adattata alla lingua, alla metrica e alla cultura romana. Tito Maccio Plauto, ad esempio, affermò nel suo Trinummus (190 a.C. circa) che Plautus vortit barbare, e quindi che ha tradotto in una lingua straniera, una commedia dello scrittore greco Filemone. Il primo passo della traduzione è la comprensione attraverso la lettura, per cui il traduttore deve essere un lettore nel senso che deve leggere per bene e cercare poi di passare al passaggio successivo, l’interpretazione. Quando il trasferimento da una lingua all’altra riguarda esclusivamente la scrittura, si può utilizzare il verbo traslitterare, come nel caso di un testo che viene traslitterato dall’alfabeto cirillico a quello latino, così come anche il sostantivo versione come sinonimo di traduzione scritta, che si usa per esempio nell’ambito della traduzione scolastica dal latino e dal greco antico. Nel tempo, si sono date definizioni diverse alla traduzione e per questa ragione non esiste una definizione univoca: la traduzione può essere vista in modi differenti a seconda della sua ambiguità: - Nomen actionis, ovvero la traduzione come processo, il processo della traduzione che viene studiato dai neurolinguisti e dagli psicolinguisti; - Nomen rei actae, ovvero la traduzione come prodotto, il prodotto della traduzione che viene studiato dagli approcci letterari che guardano alla traduzione già svolta. La traduzione è una scienza non monolitica costituita da più teorie prescientifiche che affondano nei millenni e che sono diventate un vero e proprio metodo scientifico solo nel secolo scorso, quando si iniziò a parlare di scienza della traduzione. Il metodo utilizzato è un’osservazione di fatti guardati attraverso una cornice teorica, in cui si applicano delle teorie su dati più o meno osservabili. La riflessione sul linguaggio è veramente antica e partì già dai filosofi classici della Grecia antica come Platone e Aristotele, e dai filosofi della cultura orientale, in particolare la cultura antico-indiana. Quest’ultima era esistita prima di quella occidentale, ed era caratterizzata da una serie di grammatici che riflettevano sul sanscrito, una lingua che ipotizzavano come perfetta in quanto lingua divina, tanto da essere studiata come oggetto sacro. In India, la traduzione veniva chiamata chaya, che significa ombra in sanscrito, quindi intesa come ombra del testo originale, ovvero che la traduzione è ancorata al testo originale esattamente come un’ombra è ancorata a un oggetto, ma anche che come l’ombra può differire dall’oggetto originale a seconda dell’intensità e dell’angolo della luce, che nella metafora sarebbe l’interpretazione data dal traduttore. I grammatici indiani avevano anche classificato i tipi di composti, a seconda della relazione grammaticale tra i due membri del composto, e ancora oggi nei congressi di linguistica o negli articoli scientifici sulla composizione si usano per disambiguare le terminologie. Anche la riflessione sulla traduzione è antica, mentre se si analizza la traduzione come pratica bisogna arretrare in un’antichità di cui non si possono rintracciare i contorni e l’inizio. Gli approcci scientifici alla traduzione partirono nel XX secolo con lo strutturalismo, il generativismo, la neurolinguistica e i Translation Studies. Questi ultimi seguono un tipo di traduzione agganciata ai Cultural Studies, istanze sociolinguistiche e antropologiche che vedono la traduzione come dialogo tra culture seguendo un approccio descrittivo. Nei Translation Studies, vi è il rispetto e la valorizzazione delle diversità, la traduzione è un vero potenziamento delle singole lingue e culture e in più seguono la tendenziale idea di autonomia del testo di arrivo rispetto al testo di partenza; in generale, l’interesse è più scarso per gli aspetti linguistici in favore di quelli culturali. Lo studio scientifico è inteso come inquadramento di fatti concreti attraverso una cornice teorica con la formulazione di ipotesi e con l’astrazione di regole. La traduzione è stata storicamente legata a un approccio normativo, ovvero una prescrizione di regole e norme di comportamento, laddove la linguistica invece ha avuto un approccio descrittivo. L’apporto della tecnologia è stato anch’esso Professore Castrenze Nigrelli molto significativo nella traduzione, affiancando l’operato del traduttore umano. Il traduttore automatico lascia dei margini più o meno ampi all’operazione umana, quindi non discrimina e non rende efficace la traduzione. La complessità dell’oggetto di studio è poi estrema quando si ha a che fare con le lingue, perché le lingue sono complesse in sé: una delle ragioni è che la lingua si evolve continuamente. In termini semiotici, Saussure portò avanti l’idea che le lingue sono sistemi aperti dove tutto si tiene, o ancor meglio possono essere classificate come diasistemi o sistemi di sistemi; questo perché il sistema lingua è fatto da sotto-sistemi come la fonologia, la morfologia, la sintassi e la semantica. I singoli morfemi, ad esempio, sono combinati tra loro per formare le parole intere della lingua, e sono quindi l’unità minima che porta il significato. All’interno della sintassi, invece, la gerarchia tra le parole morfologiche è fondamentale. Il sistema linguistico è inoltre costituito dalla biplanarità del segno, ovvero ciò che afferma che in un segno ci sono due facce: il significante, che è la parte fisicamente percepibile del segno, e il significato, che è la parte non materialmente percepibile, il contenuto. Insieme a questa, il sistema linguistico è caratterizzato dall’arbitrarietà del segno, ovvero che gli elementi del segno linguistico non sono naturalmente motivati, ma dipendono da una convenzione tra i parlanti di una lingua. È difficile stabilire chi sia stato il primo a operare una traduzione nel corso della storia. L’uomo ha sempre avuto la necessità di tradurre, anche prima di avere acquisto la capacità di scrivere. Questa necessità nacque dalla necessità comunicativa tra comunità che si incontravano o si scontravano e che possedevano dei codici diversi. La traduzione è quindi nata nel settore del commercio e della guerra in comunità in cui erano stati indetti dei veri e propri addetti alla traduzione. Un mondo senza traduzione non potrebbe infatti esistere, sarebbe un passo indietro culturale sulla ricerca scientifica e porterebbe a un isolamento culturale. La traduzione dunque serve ad ampliare il pubblico di riferimento di un determinato messaggio che può appartenere all’ambito letterario, all’ambito politico, all’ambito religioso, o a ogni ambito di massa. La traduzione è sempre possibile, ma alcune strutture frasali, come le frasi idiomatiche, potrebbero perdersi a causa della non corrispondenza tra le due lingue prese in analisi. In più, la traduzione è legata a delle lingue che sono in continua evoluzione; per questa ragione, vengono spesso pubblicate nuove edizioni di opere letterarie che possedevano traduzioni con termini considerati vetusti o termini tradotti erroneamente. La necessità di tradurre nuovamente alcune opere ha origine quindi nel cambiamento dei codici e delle istanze culturali ideologiche che nella prima traduzione avevano avuto determinati esiti e che oggi hanno forme differenti. Le lingue hanno inoltre una forma differente tra di loro, caratteristica che viene definita anisomorfismo. In linguistica, è quindi l’impossibilità di far corrispondere tutti i significati di una parola in una data lingua a tutti i significati di una parola in un’altra. Il traduttore deve tenere quindi questo in conto durante il suo lavoro, perché c’è un’insormontabile differenza tra le lingue. D’altro canto, la forma ha delle ricadute sul parlante in termini di obbligatorietà, e quindi ogni atto di parola deve considerare la forma di quel codice, e sullo stile narrativo. Il testo di partenza (TP) o prototesto, da πρῶτος (primo), è il testo originale da tradurre, mentre il testo di arrivo (TA), testo target o metatesto, da μετά (dopo), è il prodotto finale della traduzione. La lingua di partenza (LP) o lingua originale è poi la lingua in cui è scritto il testo di partenza, mentre la lingua di arrivo (LA) è la lingua in cui è scritto il testo finale. A queste si affiancano rispettivamente la cultura della lingua di partenza e la cultura della lingua d’arrivo. La traduzione può indicare sia l’oralità che la scrittura, ma l’uso meta-terminologico segue la traduzione per la scrittura e l’interpretazione per l’oralità; dal punto di vista sociale la mediazione, invece, si riferisce a una traduzione orale legata alla funzione e alla società. Il mediatore è visto come iperonimo di traduttore e interprete ed è una figura di ponte non solo tra due lingue, ma anche tra due culture, che ha la funzione di intermediario tra persone che provengono da mondi diversi e che dialogano. Il termine mediazione deriva dal latino medium (mezzo), e viene usato con l’accezione dell’intermediazione di affari. Nell’odierno contesto migratorio di inizio III millennio, il mediatore ha la particolare funzione sociale di operatore per l’accoglienza con una spendibilità sociale del sapere linguistico e delle competenze traduttive secondo le nuove politiche linguistiche europee delle lingue che vengono adoperate nei nuovi corsi di laurea in mediazione linguistica e culturale. Secondo la definizione giuridica della European Translation Platform del 1998, una piattaforma gratuita di Professore Castrenze Nigrelli concorrono prestiti lessicali e strutture sintattiche vicine, quando possibile, a quelle del TP. Ancora un tipo di traduzione letterale è la traduzione parola per parola, che traspone nel TA gli elementi del TP senza modificarne l’ordine. L’aspetto pragmatico ricopre un ruolo non indifferente negli studi teorici, contribuendo a comporre un bagaglio di base e proponendo una guida alle scelte fondata sulla conoscenza dei meccanismi dei due sistemi linguistici, ma non limitata esclusivamente alla loro analisi. Proprio da questo aspetto prende le mosse la proposta del linguista Peter Newmark di ridurre a due metodi la gamma degli approcci traduttivi: - La traduzione semantica, che mira a rendere l’esatto significato contestuale del TP, restando nell’ambito della cultura originale; - La traduzione comunicativa, che mette in atto un trasferimento degli elementi stranieri nella lingua e nella cultura di arrivo, al fine di tentare di produrre sul nuovo lettore un effetto il più vicino possibile a quello che il testo originale produceva sui suoi lettori. Da questo nasce la necessità di un compromesso consapevole: mettere in atto interventi di varia natura sul testo di partenza che possono comportare un impoverimento o perdita, che può riguardare sia il livello semantico che stilistico, con conseguente abbassamento del tono testuale in traduzione, una ridondanza o acquisizione, di tipo semantico o stilistico, che introduce uno o più termini rispetto al TP, o le compensazioni, per ovviare a eventuali perdite di significato, recuperando almeno in parte l’effetto del testo originale. Per quanto si cerchi di limitare il trauma dell’intervento sul testo, esso è ineludibile e il traduttore potrà intervenire sul testo scegliendo tra soluzioni di natura diversa, sostanzialmente riconducibili a traduzione diretta come il prestito, il calco o anche la traduzione letterale che mutuano dalla LP i termini non altrimenti traducibili; le soluzioni dirette sono perlopiù applicabili ai singoli termini ed espressioni, e possono talora essere estese anche ad aspetti strutturali o stilistici. Altre soluzioni possono essere ottenute mediante una traduzione obliqua, mettendo in atto una sorta di rimodellamento del lessico e delle strutture, e consentendo di realizzare il trasferimento dell’informazione inserendo il messaggio in un lessico e in strutture tipiche e proprie della lingua di arrivo. Le soluzioni dirette appaiono opportune soprattutto qualora vi sia palese intraducibilità di un termine, che viene allora importato tale e quale come forestierismo. Esistono, tuttavia, degli accorgimenti grafici per l’utilizzazione di questi prestiti non adattati e per la formazione del loro plurale: - I termini che occupano un vuoto nel lessico italiano, oppure sostituiscono una parola ormai desueta, non sono in alcun modo evidenziati, quindi sono riportati in tondo; è il caso di termini quali sport, tennis, computer o film. Proprio perché non sono più segnalati come strani, nella formazione del plurale tali termini vanno considerati invariabili; - I termini meno diffusi come escamotage, tournée, querelle, Land o débacle sono di norma riportati in corsivo. Trattandosi di termini recepiti come estranei all’italiano, la formazione del loro plurale deve seguire le norme della lingua d’origine, dunque escamotages, tournées, querelles, Lander e débacles. Il prestito della lingua straniera è ovviamente più netto e definito del calco, nel quale il termine dell’LP è tradotto con resa letterale, mediante parole già esistenti nella LA, che vengono ad assumere un significato nuovo. Il calco adatta dunque il termine straniero, consentendo il prestito del significato più che del significante. Il termine grattacielo si modella così su skyscraper, chiaro esempio di calco in quanto prestito di un sintagma straniero con traduzione letterale dei suoi elementi. Caso estremo e difficile da realizzare in modo ottimale è la traduzione parola per parola, una sorta di calco sinonimico che si fonda sulla somiglianza di significato, come nel caso di outlaw, che viene tradotto come fuorilegge, in cui avviene una vera e propria transcodificazione. Quanto ai procedimenti di traduzione obliqua, si sono proposti come soluzioni a specifiche problematiche di traduzione: - La trasposizione, che è il procedimento mediante il quale un significato cambia categoria grammaticale, e una parte del discorso ne sostituisce un’altra. Trattandosi di un intervento su Professore Castrenze Nigrelli categorie grammaticali, è oggi utilizzato più frequentemente il termine ricategorizzazione, ovvero il procedimento traduttivo che consiste nello stabilire un’equivalenza attraverso un cambiamento di categoria grammaticale; - La modulazione, che prevede la ristrutturazione di un enunciato nel TA, resa necessaria dal cambiamento di punto di vista delle categorie di pensiero, vale a dire che la stessa idea è espressa in modo diverso nella LP e nella LA; ciò può determinare il passaggio da astratto a concreto, da attivo a passivo o da forma negativa ad affermativa; - L’equivalenza, che è il procedimento che mira a rendere con la massima corrispondenza possibile la funzione del discorso del TP. Si può a volte verificare che la situazione sia resa mediante un’espressione completamente diversa, ovvero l’enunciato in LP viene preso nella sua interezza e riproposto in LA con un equivalente che corrisponde alla stessa situazione referenziale; l’elemento interpretativo è essenziale, in quanto si deve estrarre il senso del TP per poter procedere a definire il corrispettivo equivalente in LA; - L’adattamento, che è l’uso di una forma di traduzione libera che produce nel TA cambiamenti di portata rilevante rispetto al TP. Tali cambiamenti sono funzionali alla ricezione del TA o al raggiungimento di obiettivi specifici e si applica in situazioni al limite dell’intraducibilità, ad esempio nel caso in cui un messaggio del TP è riferito a una realtà non conosciuta nella cultura di arrivo, richiedendo dunque l’introduzione di cambiamenti nel TA per avvicinare il nuovo lettore a una diversa realtà. La retroversibilità Obiezione ai tre tipi classificati da Jakobson è che una traduzione deve superare il test della retroversibilità, che è stata messa avanti da Laura Salmon nel 2017. La retroversione è una ritraduzione all’inverso dal testo di arrivo al testo di partenza (es. da cane a dog e poi di nuovo a cane). Se si tratta di elementi semplici può anche coinvolgere più lingue (es. da cane a dog a perro a hund a chien per tornare a cane). Solo la traduzione interlinguistica supera questo test della retroversibilità perché la traduzione intralinguistica risulta una quasi traduzione, mentre la traduzione intersemiotica appare come una falsa traduzione (es. certe scene di un film tornando indietro al libro possono mancare o essere cronologicamente spostate). Secondo Salmon, la retroversione è possibile in tutti i tipi di testo, anche in quelli letterari, se il traduttore è un professionista e anche in virtù dei tratti che piuttosto accomunano e non distinguono nettamente le due tipologie testuali. Secondo altri invece non è sempre possibile, alla luce dei testi letterari, in cui la traduzione è più complessa e dipende più strettamente da scelte e stile del traduttore, oltre che dalle istanze dell’autore del testo di partenza. La traduzione totale Un’altra delle classificazioni della traduzione è stata poi data da Peeter Torop nel 1995, attraverso il concetto di traduzione totale. Quest’ultimo deriva da un ampliamento dell’approccio semiotico alla traduzione da parte di Torop, nato nella scuola semiotica di Tartu in Estonia e fondata dal semiologo russo Mihhail Lotman. Le idee principali di questo concetto sono che: - Qualsiasi atto di comprensione è traduzione e tutto il sistema culturale si identifica in un processo di traducibilità totale; - Ogni testo esprime e quindi traduce la cultura in cui nasce e ogni traduzione esprime un testo in una cultura diversa, ovvero una traduzione come arricchimento. Sullo stesso ambito, secondo Edward Sapir, linguista strutturalista e antropologo, la lingua è un sistema culturale modellizzante che influenza il pensiero e la visione del mondo. È sua la teoria Sapir- Professore Castrenze Nigrelli Whorf o teoria del relativismo linguistico che afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di esprimersi determini il modo di pensare. Secondo Lotman, invece, la letteratura e l’arte sono il sistema modellizzante secondario, derivante dalla lingua, che è invece quello primario. Le traduzioni interagiscono dunque con i sistemi letterari secondo delle relazioni intertestuali, favorendo l’evoluzione dei generi e delle letterature nazionali e creando nuovi modelli nel sistema culturale ricevente, facendo da elemento vitalizzante per la formazione di una società. La società che appartiene alla cultura di arrivo è influenzata da un modo di vedere il mondo in maniera diversa rispetto a prima che la traduzione venisse immessa, e quindi quando il testo era inedito in quella lingua. Ad esempio, la letteratura latina è nata da una traduzione della letteratura greca, e quindi la traduzione nasce per tradurre la cultura e immetterla nella cultura di arrivo. La classificazione di Torop comprende poi la traduzione testuale e la traduzione deverbalizzante, che sono sostanzialmente comparabili con quelle interlinguistica e intersemiotica di Jakobson, a cui si aggiungono traduzione metatestuale e traduzione intertestuale. La traduzione metatestuale è nel caso di trasformazioni del testo di partenza con cui lo si immette, anche parzialmente, in un’altra cultura (es. citazioni in enciclopedie, film o manuali), ma anche parti complementari o ancillari che accompagnano il testo (es. note, apparato critico o recensioni). La traduzione intertestuale tiene piuttosto conto della memoria testuale che ogni testo porta con sé, in termini di reti e di rimandi ad altri testi, che il traduttore deve ricostruire e ricreare (es. riferimento alle fonti dell’autore, alla cultura del traduttore e del lettore a cui si rivolge la traduzione). La trasposizione Il più generico termine trasposizione è stato sostituito nella terminologia più attuale dal termine ricategorizzazione. Nella ricategorizzazione l’equivalenza si intende stabilita attraverso un cambiamento di categoria grammaticale: una parte del discorso svolge una funzione diversa dalla sua originaria. Ad esempio, il nome può essere ricategorizzato in aggettivo o avere un passaggio di classe, da astratto a concreto; aggettivi e avverbi possono essere anch’essi ricategorizzati e via dicendo. La ricategorizzazione può riguardare anche la tipologia della frase: una frase avverbiale nel TP può diventare una gerundiva nel TA. A forme più generiche di trasposizione o a una vera e propria ricategorizzazione si fa ricorso nel passaggio da LP a LA, di cui si possono considerare più esempi in una traduzione in cui è coinvolta la lingua italiana: - Le locuzioni indicanti proibizione o divieto, come ad esempio la formula inglese estremamente semplice no + -ing participio con valore di nome. L’italiano, di norma, premette la locuzione vietato con verbo essere sottinteso al verbo che denota l’azione da non compiere. La locuzione vietato assorbe la marca negativa. In questa tipologia di espressioni si registra frequentemente anche l’uso della locuzione divieto di (es. no smoking tradotto come vietato fumare o no parking tradotto come vietato sostare, ma anche divieto di sosta); - Le formulazioni di una richiesta, in cui in italiano si può presentare la formula di cortesia si prega, laddove l’inglese utilizza l’imperativo attenuato dalla formula di cortesia please (es. Shut the door, please tradotto come Si prega di chiudere la porta); - Locuzioni termporali come as time goes by e at the end of the day possono trovare i loro corrispondenti in con il passare del tempo e sul finire del giorno; - Il ricorso ai suffissi espressivi per ottenere nomi alterati che in genere è ritenuto indizio di un registro informale, ma che può risultare utile per adeguare al testo tradotto il registro dell’originale (es. a little girl tradotto come una ragazzina o a nasty word tradotto come una parolaccia); - Necessità di agire sulla struttura, unificando o separando enunciati per ottenere un effetto di maggiore efficacia e naturalezza nella LA, come nel caso di un esempo tratto da un’opera di James Professore Castrenze Nigrelli adattamento diverso rispetto alle culture a contesto debole, dove la comunicazione è più esplicita. Gli ambiti che possono richiedere adattamento sono diversi, inclusi il linguaggio più o meno diretto e la gestione dei tabù. Di fronte a questi elementi culturali specifici, il traduttore ha due principali strategie tra cui scegliere: - Portare il lettore verso il testo, e quindi il traduttore modifica poco il testo originale e spiega gli elementi impliciti attraverso l’apparato paratestuale, come note, introduzioni, premesse o appendici. Questo permette al lettore di comprendere meglio il contesto culturale originale senza alterare significativamente il testo di partenza; - Portare il testo verso il lettore, e quindi il traduttore modifica il testo aggiungendo ciò che sarebbe implicito, adattando i riferimenti culturali in modo che siano più facilmente comprensibili per il lettore del TA. Questo può comportare una maggiore libertà interpretativa e creativa da parte del traduttore, che cerca di rendere il testo più accessibile e fruibile per il nuovo pubblico. Queste due strategie rappresentano i poli di un continuum e il traduttore può adottare una posizione intermedia, bilanciando la fedeltà al testo originale con l’adattamento culturale necessario per il pubblico di arrivo. L’adattamento strutturale L’adattamento strutturale è un elemento cruciale nella traduzione, poiché riguarda le differenze culturali nello stile argomentativo. Ad esempio, lo stile americano tende ad avere un’argomentazione diretta e senza fronzoli, puntando immediatamente al punto centrale. In contrasto, lo stile mediterraneo spesso utilizza un’argomentazione indiretta, introducendo il tema gradualmente o con varie digressioni. Lo stile orientale, invece, può presentare un’argomentazione a spirale, avvicinandosi all’argomento centrale in modo graduale e circolare. Ogni cultura ha le proprie abitudini stilistiche: alcune vanno dritte al punto, mentre altre preferiscono introdurre o avvicinarsi gradualmente al tema principale. Nella traduzione, è fondamentale considerare queste differenze e adattare lo stile del testo alle abitudini del lettore di arrivo. Diversi sono i motivi che possono giustificare una strategia traduttiva che avvicini il testo al lettore, come sottolineato da Bruno Osimo nel 2000. Uno dei motivi potrebbe essere la lunghezza del testo di partenza. Se il TP è troppo lungo, il committente potrebbe richiedere dei tagli per renderlo più conciso e accessibile al pubblico di arrivo. Altri argomenti potrebbero necessitare di censura, sia nell’adattamento per l’infanzia, per proteggere il giovane pubblico da contenuti inappropriati, sia in contesti di vera e propria censura dittatoriale, dove determinati contenuti potrebbero essere vietati. Le caratteristiche culturali dei lettori del testo di arrivo sono un altro fattore cruciale. Se queste caratteristiche sono molto diverse da quelle del pubblico di partenza, potrebbe essere necessario adattare il testo per assicurare che sia comprensibile ed efficace. Questo processo è noto come localizzazione, che implica l’adattamento dei riferimenti culturali, delle unità di misura, delle convenzioni stilistiche e di genere, nonché delle aspettative del mercato. Tuttavia, alcuni studiosi di approccio formale, come Salmon, sostengono che un testo così adattato non sarebbe più una vera traduzione. Questo perché non risponderebbe al test della retroversibilità, ovvero la capacità di ritornare al testo originale attraverso una traduzione inversa. Secondo questa visione, la traduzione deve mantenere una fedeltà rigorosa al testo di partenza, senza adattamenti significativi che possano alterare il significato o lo stile originale. La traduzione è sempre un compromesso, in cui il traduttore deve intervenire sul testo per gestire l’anisomorfismo linguistico, ovvero l’assenza di una equivalenza assoluta tra le lingue. Questo porta a due effetti principali: perdita o impoverimento dell’informazione a livello sintattico o semantico e aggiunta o ridondanza. Umberto Eco sosteneva che la traduzione è essenzialmente una negoziazione tra queste istanze, mentre André Lefevere sottolineava che nella traduzione, come in qualsiasi forma di comunicazione, c’è sempre una perdita inevitabile. Il processo traduttivo consiste quindi in una serie di scelte riguardanti principalmente come gestire queste perdite, sia sul piano linguistico che extralinguistico-culturale. Il traduttore deve decidere se compensare una determinata perdita e, in tal Professore Castrenze Nigrelli caso, dove e in che modo farlo. La strategia della compensazione permette di far coesistere perdite e aggiunte: gli elementi che non possono essere tradotti in un punto, le perdite, vengono recuperati altrove tramite aggiunte, sia a livello di strutture sia a livello di significati. Ad esempio, l’uso del Lei in italiano può essere compensato in inglese con l’aggiunta di un titolo prima del nome proprio dell’interlocutore. Nel doppiaggio, le perdite possono essere recuperate quando la bocca del parlante è fuori campo, permettendo aggiunte che non alterano la sincronizzazione labiale. Inoltre, l’ambiguità nel testo originale può essere mantenuta nella traduzione se è disambiguata altrove, se può suscitare ulteriori riflessioni o se è voluta dall’autore. Questo processo di negoziazione e compensazione è insito nella traduzione e riflette la complessità e la creatività del traduttore nel bilanciare le diverse esigenze del testo di partenza e del pubblico di arrivo. Nel processo di traduzione, spesso emergono difficoltà che richiedono interventi specifici per superare la mancanza di equivalenti diretti tra le lingue. In questi casi, il traduttore può scegliere tra due tipi di soluzioni: soluzioni dirette e traduzioni oblique. Le soluzioni dirette comprendono prestiti, calchi e traduzioni letterali, che mantengono una stretta aderenza al testo originale. Le traduzioni oblique, invece, comportano modifiche più radicali del testo, come l’adattamento culturale e la parafrasi, per raggiungere una maggiore comprensione e naturalezza nel testo di arrivo. Il concetto di residuo si riferisce a quella parte di informazione o testo che rimane inanalizzata e non tradotta direttamente. Questo è un processo naturale che avviene anche nella comunicazione orale o nella lettura di un testo. In traduzione, il residuo può essere gestito in vari modi, tra cui l’eliminazione o il recupero attraverso strategie di compensazione. La compensazione implica aggiungere elementi in altre parti del testo per bilanciare le perdite subite. La perdita è un fenomeno inevitabile in ogni traduzione e può derivare da vari motivi, come la mancanza di sottodivisioni culturali (es. i vari tipi di pasta in italiano rispetto ad altre culture) o le diverse associazioni culturali di concetti simili (es. il consumo di vino in Italia è trasversale e popolare, mentre negli Stati Uniti è spesso associato ai ceti abbienti). La perdita assoluta, come definita da Umberto Eco, riguarda elementi che sono totalmente intraducibili. Questi includono forme specifiche di ambiguità, giochi di parole e umorismo che non trovano corrispondenza diretta nella lingua di arrivo. In tali casi, il trattamento di questi elementi può avvenire attraverso spiegazioni nel paratesto (es. note a piè di pagina) o tramite strategie di compensazione, come cambiare il tipo di ambiguità o umorismo per mantenere l’effetto originale. In sintesi, la traduzione è un processo di compromesso che richiede al traduttore di fare scelte consapevoli riguardo alla gestione delle perdite e dei residui. Attraverso soluzioni dirette e oblique, e mediante strategie di compensazione, il traduttore cerca di preservare al meglio possibile il significato e l’effetto del testo originale, adattandolo al contesto culturale e linguistico della lingua di arrivo. L’adattamento culturale L’adattamento culturale nella traduzione è una questione complessa, poiché ogni cultura possiede specificità che influenzano la lingua e i contesti di comunicazione. Gli elementi culturali specifici sono spesso difficili da rendere nella lingua di arrivo, richiedendo una conoscenza approfondita dei parametri culturali sia della lingua di partenza che della lingua di arrivo. Questo processo è studiato dalla pragmatica interculturale, che è lo studio contrastivo e comparativo della gestione di determinati contesti da parte delle diverse culture. Il traduttore deve quindi conoscere i principali parametri culturali della LP e della LA. Secondo i Translation Studies, la traduzione è un dialogo tra culture e non è mai un processo neutrale; in più, è sempre influenzata dal contesto socio-politico in cui avviene. Il traduttore deve considerare il contesto extralinguistico dell’autore e del testo di partenza e decidere come renderlo nel testo di arrivo. Gli elementi culturali specifici principali che richiedono attenzione durante l’adattamento culturale includono: - Delimitazioni arbitrarie della realtà (es. le parole legno, legna e bosco in italiano hanno diverse corrispondenze in francese, che possono richiedere scelte traduttive precise); Professore Castrenze Nigrelli - Interiezioni e segnali discorsivi, come ahi in italiano e ouch in inglese, spesso variano da lingua a lingua. I segnali discorsivi, che possono trovarsi all’inizio delle frasi e fungere da connettori discorsivi (es. dunque... in italiano e well... in inglese), devono essere adattati per mantenere la naturalezza del discorso nella lingua di arrivo; - Elementi onomatopeici, che imitano suoni non linguistici, come i versi degli animali (es. chicchirichì in italiano e cocoricò in francese) o i rumori di oggetti (es. toc toc in italiano e knock knock in inglese). La competenza discorsiva è basata sul principio di cooperazione di Paul Grice, articolato nelle quattro massime conversazionali, qualità o verità, quantità o informazioni necessarie, modo o chiarezza e relazione o aderenza al tema, che garantiscono la comunicazione efficace. Tuttavia, queste massime non sono universali e le diverse culture le declinano in maniera diversa. Ad esempio, il valore della verità può essere considerato più importante in alcune culture rispetto al rischio di perdere la faccia. I copioni interazionali, ovvero le modalità di interazione in determinati contesti, variano significativamente tra le culture. Ad esempio, fare domande personali a persone sconosciute può essere considerato inappropriato in alcune culture, mentre in altre essere comune e accettabile. L’adattamento culturale nella traduzione è una questione di notevole complessità, poiché richiede una profonda comprensione delle specificità culturali e delle norme discorsive delle lingue coinvolte. La competenza discorsiva, ovvero la capacità di pianificare e strutturare il discorso, è fortemente influenzata dalla cultura e si manifesta in vari modi, come nella struttura delle informazioni nei testi, nell’organizzazione delle narrazioni (es. storie, fiabe o barzellette), nella costruzione delle argomentazioni (es. nei testi scientifici o nei dibattiti politici), e nella disposizione di determinati generi testuali (es. lettere formali, saggi o articoli di cronaca). È qui che rientra in gioco la distinzione significativa tra culture a contesto forte e a contesto debole. Nelle culture a contesto forte, come il Giappone, il contesto extralinguistico gioca un ruolo fondamentale e molte informazioni sono implicite, richiedendo una comprensione condivisa dei riferimenti culturali. Al contrario, nelle culture a contesto debole, come la Svizzera tedesca, quasi tutto il messaggio è esplicitamente verbalizzato, con minore dipendenza dal contesto. Questo influenza anche il dialogo, che è la componente testuale più condizionata dalla cultura, compreso il dialogo fittizio come nei messaggi pubblicitari. I realia, che in latino significano le cose reali, rappresentano oggetti specifici di una cultura e possono essere particolarmente sfidanti per i traduttori. Questi oggetti si trovano in ogni tipologia testuale, con una presenza particolarmente evidente nei testi turistici. Quando si incontrano i realia, il traduttore deve decidere se il pubblico della lingua di arrivo ha familiarità con questi oggetti o se è necessario trattarli in qualche modo per renderli comprensibili. Le decisioni su come tradurre i realia dipendono da vari fattori, tra cui il rapporto tra le due lingue, la vicinanza geografica e temporale tra le culture, la presenza o assenza di carica emotiva, la tipologia testuale e la funzione del testo di partenza e del testo di arrivo. Tra i tipi più comuni di realia si trovano cibi e bevande, arnesi, strumenti musicali, mezzi di trasporto, monete, flora e fauna ed elementi geografici. Spesso, i realia presentano una sfida aggiuntiva perché possono avere equivalenti solo apparenti nelle diverse lingue. Per esempio, caffè, pane, formaggio, vino e casa sono termini che, pur avendo una traduzione diretta, possono variare significativamente nei loro connotati culturali e nei loro usi tra le diverse lingue e culture. La lingua è espressione di una cultura, di un modo di essere e di pensare, ed è tale nella morfosintassi, nel lessico, nella dimensione socio-pragmatica e nella strutturazione del pensiero. Un ruolo particolare rivestono, nella traduzione in prospettiva pragmatica e interculturale, tutti i fenomeni di linguaggio che non possono spiegarsi solo da un punto di vista linguistico, ma rimandano a elementi del contesto in cui è stato elaborato il prototesto. Questi andranno interpretati e ricondotti poi al nuovo contesto in cui si inseriranno tramite il metatesto, come nel caso della percezione e della denominazione dei colori, che varia da cultura a cultura. Dai testi letterari greci antichi, risulta che Senofane e Anassimene citarono solo il rosso, il giallo e il viola, Aristotele e Epicuro il rosso, il giallo, il verde e il viola, mentre Lucio Anneo Seneca il porpora, il viola, il verde, l’arancione e il rosso; nessuno di loro considerava il blu fra i colori dell’iride. Come ricordò Eco, pare che i Greci non fossero in grado Professore Castrenze Nigrelli L’adattamento linguistico si confronta con aspetti sia culturali sia linguistici. Gli interventi del traduttore cercano di minimizzare la perdita di informazione. Aspetti culturali come gli elementi specifici di una cultura, quali cibi, bevande, strumenti musicali, e pratiche sociali, richiedono particolare attenzione per essere resi comprensibili nel testo di arrivo. Aspetti linguistici come le differenze sintattiche, lessicali, e semantiche possono portare a incomprensioni se non adeguatamente adattate. Secondo Geert Hofstede, le differenze culturali si basano su valori profondamente radicati che possono differire da cultura a cultura secondo diversi parametri di valutazione: - Distanza dal potere, cioè l’atteggiamento che il singolo ha verso le gerarchie e la distribuzione del potere nella società; - Collettivismo e individualismo, cioè il grado di integrazione dell’individuo all’interno dei gruppi; - Mascolinità e femminilità, cioè la percezione del ruolo della donna e dell’uomo nella società; - Timore dell’incertezza, cioè il grado di accettazione dell’incertezza e del rischio, che distingue le culture statiche da quelle che accolgono in modo favorevole i cambiamenti; - Orientamento a lungo termine o a breve termine, cioè le culture che tendono a risparmiare e perseverare contro le culture che esigono l’adempimento degli obblighi sociali e prediligono i consumi. L’adattamento metaforico Un altro problema di adattamento è analizzato da Paola Faini, ovvero quello della metafora, che viene dal greco μετά (al di là) e φέρω (porto). Faini ha ricordato anche che esistono vari tipi di metafore: - Metafore lessicalizzate, cioè espressioni fisse e banalizzate da un uso ripetuto ed eccessivo; - Metafore originali, cioè quelle che creano un forte impatto emotivo sul destinatario, essendo neoconiazioni, frutto della creatività dell’autore del messaggio; - Metafore composte da una sola parola, cioè ad esempio l’uso metaforico del nome di un colore o di un animale; - Metafore complesse, cioè le frasi ideomatiche e i proverbi. L’autrice ha suggerito inoltre al traduttore di prestare particolare attenzione all’analisi del testo prima di operare delle scelte. Il testo va dunque valutato sulla base del dato culturale in senso lato, includendo molteplici aspetti, anche di attualità, che il testo di partenza veicola attraverso la lingua di partenza. È essenziale che l’espressione figurata venga realmente compresa nella sua portata comunicativa per non rischiare di utilizzare il corrispettivo immediato lingua di arrivo, producendo così una traduzione palesemente errata. Una traduzione letterale, infatti, potrebbe non comunicare lo stesso messaggio del testo di partenza, poiché è la metafora che opera in modo diverso a seconda del contesto linguistico nel quale è inserita. Il traduttore che a che fare con una metafora ha davanti a sé varie opzioni: - Riprodurre la stessa metafora se questa ha la stessa frequenza d’uso nella cultura del prototesto e in quella del metatesto; - Sostituire con un’altra metafora, se la frequenza e la modalità d’uso sono diverse; - Ricorrere a una similitudine, conservando l’immagine introdotta nel prototesto; - Chiarire ulteriormente aggiungendo una spiegazione alla similitudine, pur mantenendo l’immagine della metafora originale; - Mantenere la metafora del prototesto con una glossa o una nota; Professore Castrenze Nigrelli - Eliminare l’immagine, recuperando però in un’altra parte del testo la funzione della metafora originale; - Tradurre solo il significato della metafora usata nel prototesto, eliminandone l’immagine. Riconducibili a metafora come uso traslato di una parola al posto di un’altra, sono anche altre espressioni retoriche come: - La metonimia, che consiste nell’usare invece del termine proprio un termine che sia esso continuo sul piano semantico, come nella causa per effetto, effetto per causa, materia per oggetto, contenente per contenuto, astratto per concreto, concreto per astratto, mezzo per persona o autore per opera (es. bere un bicchiere d’acqua, in cui è l’acqua che si beve non il bicchiere); - La sineddoche, che consiste nell’usare invece del termine proprio un suo iponimo o iperonimo, cioè il tutto per la parte o la parte per il tutto (es. vela al posto di nave). La tipologia testuale Una delle principali distinzioni tra i tipi testuali riguarda quella tra i testi non letterari, che hanno funzione informativa e pratica e che sono chiusi, denotativi e a base terminologica, e i testi letterari, che hanno funzione estetica e che sono aperti, connotativi e richiedono gusto, capacità estetiche e interpretative. Leggere un testo letterario è un’esperienza unica e individuale, e dipende dal momento e dal vissuto personale del lettore. Tuttavia, alcuni studiosi come Salmon hanno evidenziato le difficoltà nel discriminare tra questi due grandi tipi testuali: i testi letterari possono contenere anche parti basate su terminologia particolare (es. linguaggi settoriali e varietà diafasiche specifiche di un ambito specialistico, specie tecnico-scientifico), mentre i testi non letterari contengono anche una componente stilistica, diversa a seconda dell’autore. Un’altra classificazione è la classificazione dei tipi testuali di Karl Bühler, psicologo del linguaggio vissuto a metà del Novecento che teneva conto dei focus sulla funzione: - Testi con funzione informativa, che hanno una tipologia linguistica neutrale, un focus sul contenuto e un orientamento sulla lingua d’arrivo che deve trasmettere il dato informativo del testo di partenza nel testo di arrivo (es. articoli giornalistici di tipo meramente documentario); - Testi con funzione espressiva, che hanno un focus sull’uso autoriale della lingua e un orientamento sull’autore, sul suo uso della lingua di partenza e nel rispetto del testo di partenza (es. testi letterari intesi come narrativa, poesia e saggistica); - Testi con funzione vocativa, che hanno un focus sul pubblico e sull’immediatezza e sull’efficacia comunicativa del testo e un orientamento sul lettore e sulla lingua d’arrivo, privilegiando l’immediatezza, anche a scapito di un rispetto del testo di partenza (es. manuali di istruzioni, testi pubblicitari e linguaggio dell’informazione quando caratterizzato da tratti connotativi, commenti e giudizi). La tipologia e la relativa funzione testuale portano il traduttore a focalizzarsi su determinate caratteristiche, orientando le sue scelte e le sue strategie traduttive. L’atto di mediazione del traduttore si definisce in funzione della tipologia testuale, in modo da mantenere le componenti soggettive e autoriali della lingua del testo espressivo con l’orientamento verso la LP, creare un giusto equilibrio tra accuratezza e accessibilità del testo informativo con l’orientamento sulla LA e mirare all’immediata e pronta comprensione del messaggio nel testo evocativo, esaltandone la funzione comunicativa, e dunque puntando sull’efficacia complessiva del testo stesso. Il testo è di fatto un atto di parola, indicando la parole riferendosi a Saussure. Dalle idee di Saussure si passò a quelle di Paul Ricœur, filosofo francese della seconda metà del Novecento che elaborò la priorità parola > frase > discorso, di cui quest’ultimo è l’unità superiore a enunciato e frase. Quando la scrittura sostituisce il discorso parlato, il risultato è letteratura: il discorso, pronunciato tra emittente e destinatario, può Professore Castrenze Nigrelli essere fissato in un testo scritto, diventando opera strutturata e meno effimera rispetto al discorso orale e attivando così una relazione tra scrittore e lettore. Il testo come atto di parola in forma scritta, contiene entrambe le istanze: quella della langue o lingua, che è il patrimonio virtuale e potenziale della lingua, e quella della parole o parola, che è l’uso individuale che lo scrittore fa di tale patrimonio. L’atto traduttivo ha dunque a che fare con due elementi da analizzare e trattare: le espressioni della lingua, che sono un sistema globale e facilmente riconducibili e equivalenti nella lingua d’arrivo, e gli usi personalizzati della lingua, che sono da isolare ed esaminare caso per caso con riferimento all’autore come elementi più complessi da trattare nella traduzione e quindi sono la conseguenza di scelte più difficili e attente. Non bisogna trascurare, inoltre, l’esistenza di un testo originale come espressione di una data lingua e cultura, dunque un TP il cui rapporto con il TA muta con il variare delle situazioni e potrà essere: - Sincronico per epoca e contesto culturale, ma diverso per lingua (es. un autore inglese contemporaneo tradotto per un pubblico di lingua diversa, in ambito culturale sostanzialmente simile); - Sincronico per epoca ma diverso per lingua e contesto culturale (es. un autore inglese contemporaneo tradotto per un pubblico orientale); - Diverso sia per epoca sia per sistema linguistico-culturale (es. un testo inglese del Seicento tradotto oggi in Italia). Proprio perché variabili e diverse possono essere le situazioni che definiscono questo rapporto, il testo originale rappresenta il punto certo da cui partire: a esso il traduttore applica la sua competenza linguistica e culturale, per decifrarne la struttura complessa. La traduttologia Già nel 1994, lo studioso Jean-René Ladmiral affermava che la formulazione di una teoria della traduzione non poteva non poggiare su conoscenze che investono il dominio delle scienze umane e, più nello specifico, gli studi letterari, non solo perché la letteratura comparata si fonda su traduzioni, ma soprattutto perché la traduzione, e non solo quella letteraria, è una modalità specifica della scrittura, nella misura in cui ogni traduttore è un coautore. Se nel dibattito sulla traduzione apparivano e tuttora appaiono dominanti le problematiche di natura linguistica, nondimeno quella che Ladmiral definiva traduttologia o teoria della traduzione riasserisce la sua autonomia, soprattutto oggi che il campo della stessa linguistica si è ampliato, e le scienze del linguaggio tendono a ricongiungersi con le scienze cognitive. Lo status della traduttologia è pertanto mutato: non più settore o sottodisciplina della linguistica, e neppure settore o sottodisciplina delle letterature comparate, essa può definirsi disciplina a pieno titolo delle scienze del linguaggio, pur mantenendo i suoi indispensabili collegamenti con aspetti di studio e ricerca che attingono e afferiscono a campi diversi. La molteplicità di collegamenti suggerita da Ladmiral rimanda a una visione del testo come struttura globale, e non solo come fenomeno puramente linguistico. Collocato in una situazione specifica, a sua volta inserita in un contesto socioculturale, il testo riconquista la sua funzione comunicativa, nel suo duplice aspetto di macrostruttura, in quanto testo globale, e di microstruttura, nella sua tipologia lessicale. Questo duplice approccio appare funzionale sia all’analisi dei linguaggi tecnici o comunque codificati, sia all’analisi del linguaggio letterario, essendo quest’ultimo un esempio di lingua creativa caratterizzata dall’esplorazione e dalla messa in atto di tutte le potenzialità espressive e, dunque, svincolata dalle codificazioni proprie di altre tipologie di messaggio. Un altro elemento, la creatività, si è così aggiunto a rendere più completa, ma anche più complessa, la situazione del traduttore, già combattuto tra due possibili fedeltà: alla lettera o allo spirito del testo. Il rispetto della creatività, anche linguistica, dell’autore viene a inserirsi in una problematica teorica che vede ormai come diffusamente accettato il principio dell’impossibilità di riprodurre l’unità ideale di un’opera letteraria. Proprio a partire da questo nodo apparentemente inestricabile, il linguista Walter Benjamin formulò Professore Castrenze Nigrelli appare, in questo rapporto di lingue e di culture, la presenza contemporanea di due elementi, interpretazione e comunicazione, non indipendenti, ma l’uno funzione dell’altro. L’interpretazione, che talora può essere indirizzata da un forte elemento intuitivo, mira a estrarre il senso dal testo di partenza inserendolo, ai fini della comunicazione, nel contesto di un’altra realtà culturale. Una connessione naturale, profondamente vitale, lega l’originale alla sua rappresentazione/traduzione in un nuovo ambito culturale, e ne assicura, attraverso la comunicazione, la sopravvivenza nello spazio e nel tempo. Perché tale sopravvivenza si perpetui, tuttavia, appare oggi necessario confrontarsi con una visione nuova, per la quale l’equivalenza è diventata un concetto relativo: è sufficiente, infatti, che cambi un elemento nel rapporto tra il testo di partenza e il testo di arrivo perché questo determini il cambiamento di altri elementi, con il risultato di ottenere un prodotto, ossia una traduzione, la cui caratteristica non sarà l’equivalenza, bensì l’adeguatezza. Il testo tradotto si troverà allora a funzionare non più e non tanto in rapporto al TP, quanto piuttosto in rapporto alle mutate esigenze e aspettative del pubblico di arrivo. Ciò che appare utile privilegiare, infatti, è l’aspetto funzionale del testo che dovrà risultare adeguato, poiché il fine ultimo che si mira a raggiungere è l’efficacia della comunicazione. L’idea di equivalenti testuali o porzioni di testo, invece, deve essere trovata dal traduttore tra testo di partenza e testo di arrivo secondo l’idea in connessione con i principi strutturalisti e con le esigenze dei primi tentativi di traduzione automatica. Tuttavia questo pone delle difficoltà applicative, specie se si considerano le variabili pragmatiche e interculturali (es. i rituali di deferenza o le forme di cortesia, così come le espressioni idiomatiche). Eugene Nida, un noto linguista e esperto di traduzione biblica attivo nella seconda metà del XX secolo, introdusse nel 1964 una distinzione fondamentale nel campo della traduzione: l’equivalenza formale e l’equivalenza dinamica. Questa distinzione si discostava dalla tradizionale dicotomia tra traduzione fedele e traduzione libera, spostando l’attenzione su nuovi aspetti cruciali della traduzione. L’equivalenza dinamica, secondo Nida, mira a creare una sorta di glossa traduttiva che avvicini il più possibile il lettore del testo di arrivo all’esperienza del lettore del testo di partenza. Questo tipo di equivalenza pone un’enfasi particolare sia sulla forma sia sul contenuto, con un’attenzione specifica agli aspetti linguistici. Nida propose di riprodurre il senso del TP nel TA, facilitando la comprensione e mantenendo l’effetto comunicativo originale. Un esempio illuminante fornito da Nida riguarda l’espressione idiomatica biblica scambiarsi un bacio santo, che oggi potrebbe essere tradotta come darsi una stretta di mano. Tuttavia, come osservò la professoressa Pierangela Diadori, questa traduzione potrebbe risultare bizzarra e anacronistica, poiché non riesce a marcare adeguatamente la distanza cronologica tra i due testi. L’equivalenza formale, invece, si concentra sul mantenimento nel testo di arrivo dello stesso effetto, relazione, impatto e significato che il messaggio di partenza aveva sul destinatario originale. Questo approccio pone un’accentuata attenzione agli aspetti culturali e stilistici, enfatizzando la prospettiva interculturale. L’obiettivo è preservare nel testo di arrivo gli elementi culturali e stilistici del testo di partenza, permettendo ai lettori di percepire il messaggio nello stesso modo in cui lo percepivano i lettori originali. Il concetto di equivalenza proposto da Nida ha alimentato un vivace dibattito durante gli anni Settanta e Ottanta, soprattutto in relazione alla traduzione di proverbi, metafore ed espressioni idiomatiche. Negli anni Settanta il concetto di equivalenza venne infatti affrontato anche da un altro punto di vista: quello semiotico. Partendo da questa prospettiva, lo studioso slovacco Anton Popovič propose quattro tipi di equivalenza traduttiva: - Equivalenza linguistica, quando è possibile la traduzione letterale, esistendo omogeneità fra lingua di partenza e lingua di arrivo; - Equivalenza paradigmatica, quando c’è equivalenza sull’asse espressivo paradigmatico, cioè a livello grammaticale; - Equivalenza stilistica, quando c’è equivalenza funzionale, anche se non formale degli elementi, per ottenere lo stesso effetto espressivo; - Equivalenza testuale, quando c’è un’equivalenza a livello della struttura sintagmatica del testo originale. Professore Castrenze Nigrelli Secondo Popovič, dato che ogni traduzione di uno stesso testo si discosterà anche solo parzialmente dall’originale, è necessario individuare il nucleo invariante del testo originale, rappresentato da elementi semantici stabili, basilari e costanti: l’invariante è ciò che vi è di comune a tutte le traduzioni esistenti di una singola opera. Negli anni Ottanta-Novanta del XX secolo, la questione dell’equivalenza in traduzione si sviluppò poi in due direzioni: problema dell’equivalenza dei testi letterari e problemi relativi al trasferimento del contenuto semantico. Albrecht Neubert, traduttologo tedesco fra i più rappresentativi della Scuola di Lipsia, considerava l’equivalenza una categoria semiotica, all’interno della quale è possibile rintracciare alcune componenti ordinate gerarchicamente: quella semantica, prioritaria rispetto a quella sintattica, e quella pragmatica che condiziona e modifica le altre due. In tal modo Neubert postulò l’esistenza di una equivalenza globale che risulta dalla relazione fra i segni linguistici del testo originale e di quello tradotto, e quindi la sintassi, dalla relazione fra i segni e ciò che essi significano, e quindi la semantica, e dalla relazione fra i segni, ciò che essi significano e l’utente, e quindi la pragmatica. Studiosi come Susan Bassnett hanno esaminato le diverse formule di saluto nello stile epistolare e il grado di trasgressione in insulti e imprecazioni tra le diverse culture. Ad esempio, l’espressione inglese fucking hell ha un forte impatto a causa del tabù sessuale nella cultura anglosassone, mentre in italiano una bestemmia ha lo stesso effetto altrettanto forte a causa del tabù religioso. Lo stesso trattamento equivalente viene adoperato nelle pubblicità di prodotti diversi, ma con equivalente valore simbolico nelle diverse culture (es. scotch whisky per il pubblico anglosassone e Martini per pubblico italiano). Da questo, nasce l’ipotesi di un’equivalenza lessicale nei testi tecnico-scientifici non-letterari e chiusi, data la loro monoreferenzialità, ma non l’equivalenza del testo in toto, che mette infatti in crisi i traduttori automatici. Negli anni successivi, alcune critiche sono emerse riguardo al concetto di equivalenza. La traduttrice Mary Snell-Hornby, nel 1988, ha suggerito di rigettare l’equivalenza in traduzione, considerandola un concetto troppo vago. Ha sostenuto che l’idea di simmetria interlinguistica e interculturale non tiene conto della complessità dei problemi traduttivi. Ne 2009, l’autrice Francesca Ervas ha recuperato il concetto di equivalenza, proponendolo come un’idea di sfondo comune, utile per orientarsi nel processo traduttivo. La traducibilità e l’intraducibilità Il termine portoghese saudade è spesso citato come esempio emblematico di intraducibilità. In italiano, nostalgia non riesce a catturare completamente l’essenza di saudade, che implica una presenza nell’assenza e ha connotazioni agrodolci e di ottimismo. Questo fenomeno mette in luce le sfide della traducibilità tra diverse lingue e culture. Il problema della traducibilità ha radici profonde nella riflessione logico-filosofica, e risale almeno al XVII secolo. Ad esempio, il termine italiano re corrisponde all’inglese king e al latino rex, ma mentre re e king si riferiscono principalmente al concetto di governare, rex includeva anche aspetti sacrali e religiosi, essendo l’amministratore del culto religioso. Questa sfumatura si perde nelle traduzioni inglese e italiana. Un altro esempio è la traduzione di caffè in italiano e coffee in inglese. In italiano, il caffè è legato strettamente all’espresso, mentre in inglese il termine coffee si riferisce spesso a una bevanda più lunga e diluita. Questo indica una differenza interculturale significativa. Secondo Roman Jakobson, la comunicazione stessa è una continua traduzione interlinguistica. Parlare o scrivere implica costantemente riformulare, riattualizzare e ricontestualizzare formulazioni già date. Tuttavia, non tutto si presta allo stesso modo a essere tradotto: ci sono elementi, come metafore, proverbi ed espressioni idiomatiche, che risultano più difficili o impossibili da tradurre; per Jakobson, ad esempio, il testo poetico è assolutamente intraducibile. Il linguista Catford nel 1965 ha distinto due termini a proposito dell’intraducibilità: - Intraducibilità linguistica, dove non esiste un equivalente lessicale o sintattico tra la lingua di partenza e la lingua di arrivo a causa dell’anisomorfismo delle lingue (es. cannolo in italiano o paella in spagnolo); Professore Castrenze Nigrelli - Intraducibilità culturale, dove l’equivalente lessicale esiste, ma il concetto, l’uso o l’immagine associati differiscono (es. caffè in italiano e coffee in inglese rimandano a diverse esperienze culturali). Negli approcci più recenti, come quelli dei Translation Studies, il problema dell’intraducibilità è ridimensionato: in linea di massima, tutto è traducibile, il focus è sulle diverse traduzioni possibili e sulle strategie traduttive, e la differenza interculturale è vista come una ricchezza. Quando si traduce un testo di partenza, si valuta quanto ci si avvicina ad esso. I tipi di traduzione possono essere rappresentati su un continuum che va dalla maggiore vicinanza formale con minore comprensibilità a sinistra alla minore vicinanza formale con maggiore comprensibilità a destra, costituendo i due poli della traduzione: Traduzione interlineare Traduzione letterale Traduzione libera Adattamento Minore comprensibilità e maggiore vicinanza formale Minore vicinanza formale e maggiore comprensibilità Tra i termini presenti lungo il continuum traduttivo, è essenziale mettere in evidenza alcuni specifici punti di riferimento che giocano un ruolo cruciale nel processo di traduzione. Questi rappresentano diverse strategie e approcci che i traduttori possono adottare, ciascuno con caratteristiche uniche che influenzano la vicinanza formale e la comprensibilità del testo tradotto: - Traduzione interlineare, ovvero una traduzione parola per parola, spesso usata a scopo glottodidattico. Pur avendo una maggiore vicinanza formale al TP, risulta meno comprensibile; - Traduzione letterale, ovvero una traduzione meno rigida di quella interlineare, è più libera sul piano sintattico e considera ciascun elemento formale del TP. L’adeguatezza e l’accessibilità Il concetto di adeguatezza è fondamentale nel processo traduttivo. Il traduttore, come destinatario e interprete del testo di partenza, ha il compito di veicolare il senso voluto dall’autore nella lingua di partenza e di riprodurlo nel testo di arrivo usando la lingua di arrivo. Questo processo comporta una continua oscillazione tra diverse strategie traduttive, in particolare tra l’equivalenza formale e dinamica, come delineato da Eugene Nida. Secondo quest’ultimo, il traduttore può orientarsi verso: - Polo delle traduzioni formali-funzionali, che si concentra sul riprodurre il senso del TP nel TA; - Polo delle traduzioni dinamiche, che si focalizza sull’effetto del messaggio del TP nel TA, tenendo in considerazione anche lo stile. Tullio De Mauro nel 1994 ampliò la distinzione di Nida identificando sette tipi di adeguatezza, articolati su vari aspetti semiotici, sociolinguistici, testuali, funzionali e interazionali. I primi tre riguardano l’adeguatezza formale: - Adeguatezza denotativa, che veicola un senso simile al contenuto referenziale del TP; - Adeguatezza sintattico-frasale, che rispetta la scansione in frasi del TP, cercando un equivalente per ogni frase; - Adeguatezza lessicale, che trova un equivalente per ogni parola, oltre che per ogni frase. Gli altri quattro tipi identificati da De Mauro riguardano invece l’adeguatezza dinamica: - Adeguatezza espressiva, che rende il ritmo del testo di partenza utilizzando la vocalità della lingua di arrivo; - Adeguatezza testuale, che rende le caratteristiche relative ai differenti generi e stili testuali; Professore Castrenze Nigrelli - Elaborazione, in particolare del materiale testuale considerato, cominciando a maneggiarlo; - Inserimento, in particolare di tale materiale nella struttura testuale del TA, codificata nella LA. Il processo traduttivo obbliga il traduttore a dover continuamente operare delle scelte, decidendo quale strada prendere sia in termini di progetto globale, sia in termini occasionali rispetto alle diverse soluzioni traduttive. Non esistendo una equivalenza assoluta, considerando l’anisomorfismo, il traduttore dovrà decidere quali aspetti del TP privilegiare e quali no. Le decisioni prese di volta in volta hanno ricadute sulle decisioni successive e la traduzione viene vista, in questo caso, come sistema integrato di operazioni dove tutto si tiene e una cosa ha delle ricadute su un’altra cosa. Non c’è applicazione automatica di regole, norme e principi; dall’altro lato bisogna tenere conto della tipologia testuale e la sua funzione e la varietà di contesti e situazioni di arrivo. Sicuramente si tratta di scelte che il traduttore opera di volta in volta a seconda delle situazioni. Tuttavia, ci sono dei fattori che orientano le decisioni prese dal traduttore: - Tipo testuale del TP; - Scopo e funzione della traduzione; - Destinatario del TA, inteso sia come pubblico-lettore, sia come committente; - Cultura e sensibilità linguistica del traduttore, anche etica che potrebbe essere un limite alla sua libertà. Sebbene non siano fattori normativi, sono dei criteri invalsi per operare efficacemente in traduzione. Tuttavia, esistono dei fattori di importanza basilare, che possono essere ritrovati nella traduzione di Esercizi di stile (1947) di Raymond Queneau, tradotto nel 1983 da Umberto Eco: - Notazioni, come Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice: «Dovresti far mettere un bottone in più ai soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché; Onomatopee, come A boarrrdo di un auto (bit bit, pot pot!) bus, bussante, sussultante e sgangherato della linea S, tra strusci e strisci, brusii, borbotti, borrrborigmi e pissi pissi bao bao, era quasi mezzodin-dong-ding-dong, ed eccoco, cocoricò un galletto col paltò (un Apollo col capello a palla di pollo) che frrr! piroetta come un vvortice vverso un tizio e rauco ringhia abbaiando e sputacchiando «grr grr, arf arf, harffinito di farmi ping pong?!» Poi guizza e sguazza (plaffete) su di un sedile e sooossspiiira rilassato. Al rintocco e allo scampanar della sera, ecco-co cocoricò il galletto che (bang!) s’imbatte in un tale balbettante che farfuglia del botton del paletò. Toh! Brrrr, che brrrividi!!!; Esclamazioni, come Perbacco! Mezzogiorno! Ora di prendere l’autobus! quanta gente! quanta gente! che ressa! roba da matti quei tipi! e che crapa! e che collo! settantacinque centimetri! almeno! e il cordone! il cordone! mai visto così! il cordone! bestiale! ciumbia! il cordone! intorno al cappello! Un cordone! roba da matti! da matti ti dico! e guarda come baccaglia! si, il tipo cordonato! contro un vicino! cosa non gli dice! L’altro! gli avrebbe pestato i piedi! Qui finisce a cazzotti! sicuro! ah, no! ah, si, si! forza! Dai! mena! staccagli il naso! dai di sinistro! cacchio! ma no! si sgonfia! ma guarda! con quel collo! con quel cordone! Va a buttarsi su un posto vuoto! ma sicuro! che tipo ! Ma no! giuro! no! non mi sbaglio! è proprio lui! laggiù! alla Cour de Rome! davanti alla Gare Saint- Lazare! che se ne va a spasso in lungo e in largo! con un altro tipo! e cosa gli racconta l’altro! che dovrebbe aggiungere un bottone! ma sì! un bottone al soprabito! Al suo soprabito!. Professore Castrenze Nigrelli La dominante Altro concetto da tenere in conto nel processo traduttivo è la dominante, che si lega a Jakobson e fonda le radici nell’approccio strutturalista; è quell’elemento basilare da tenere in considerazione prima di iniziare a tradurre un testo, una caratteristica formale che rappresenta l’elemento peculiarmente costitutivo, la caratteristica imprescindibile che permea e forma il TP. Questa deve essere mantenuta, ricostruendola, nel TA grazie alla LA. Se viene trascurato si snatura il testo. Jakobson la definì the focusing component of a work of art; it rules, determines, and transforms the remaining components. It is the dominant which guarantees the integrity of the structure. Quindi, quando bisogna tradurre un testo ci si deve focalizzare sull’elemento dominante proprio del TP. Ad esempio, in un testo poetico bisogna focalizzarsi sul sistema della metrica, quello delle rime e delle figure retoriche, mentre un testo letterario in prosa si focalizzerà sullo stile o sul tono dell’autore per la sua funzione estetica. Data priorità alla dominante principale, si possono considerare eventuali sottodominanti, a meno che non ci sia una dominante assoluta, che va trovata solitamente nel tono: - Caro paolo, vedo che sei davvero preoccupato per la serenità dei tuoi genitori: ti fai vivo ogni tre settimane, quando ti mandiamo dei messaggi non rispondi, e così via. Abbiamo un figlio modello! Con tuo padre ce ne congratuliamo ogni giorno, soprattutto quando andiamo alla posta per inviarti il vaglia mensile che ti permette di stare lontano da noi senza farti mancare niente. Grazie della tua sollecitudine. La tua mamma; - Paolino caro, capisco che sei impegnato molto con il tuo lavoro, ma penso che potresti fare uno sforzo per farti sentire un po’ più spesso dai tuoi vecchi genitori. Non ti chiediamo molto: basta qualche messaggio ogni tanto, e magari quando vedi sul telefonino che ti abbiamo chiamato richiamaci. Noi ti pensiamo sempre, non solo quando ti inviamo il vaglia mensile che ti aiuta a sbarcare il lunario lontano da casa. Ti mando un bacio mamma; - Paolo, tesoro, non posso nasconderti quanto siamo tristi per il tempo troppo lungo che passa da un tuo messaggio all’altro. Sai che tuo padre si preoccupa facilmente: vedo che negli ultimi tempi ha perduto davvero la serenità. Cerca di essere più presente, se non altro come segno di gratitudine per i sacrifici che facciamo per non farti mancare ogni mese quanto ti serve per vivere così lontano. Spero che capirai. Ciao mamma; - Paolo, stavolta ci siamo rotti davvero le scatole. Ti fai vivo ogni tre settimane, quando ti mandiamo dei messaggi non rispondi, e così via. Ma cosa c’hai nella testa? Guarda che noi ci facciamo un mazzo così per mandarti ogni mese quel vaglia che ti permette di vivere lontano senza pensare a niente (neppure a noi). Potremmo anche fregarcene, d’ora in poi. Mamma. A differenza del testo letterario, più aperto a diverse opzioni interpretative, il testo tecnico-scientifico, come articoli scientifici o ricette di cucina, è chiuso e permette ristrette opzioni interpretative. In particolare, si evidenziano: - Testualità tipica e prevedibile; - Linguaggi settoriali o sottocodici in cui si fa riferimento alla varietà di lingua d’uso settoriale, in cui si include il linguaggio burocratico o il linguaggio medico, in termini di lessico e tratti testuali; - Lessico specifico dell’area semantica di un dato settore; - Monoreferenzialità dei termini, inteso come indicazione di uno specifico concetto-referente; - Sinonimia tendenzialmente assente; - Preferenza verso la ripetizione, al posto di pronomi anaforici o cataforici. Nel testo tecnico-scientifico la dominante è più stabile, così come lo stile argomentativo di questo tipo testuale, e coincide con la precisione di riferimento. Tale precisione è caratterizzata da: Professore Castrenze Nigrelli - Focus sulla resa del linguaggio specialistico, dei termini specialistici, di cui si reperiscono i corrispondenti in LA, con riferimento allo stesso settore specialistico all’interno della cultura di arrivo; - Eventuale uso di glosse per i termini che mancano di referente nella cultura di arrivo e che, di conseguenza, rimangono in originale (es. la parola spagnola paella). La negoziazione dei significati Ogni comunicazione verbale lascia di norma qualche residuo, cioè qualche elemento di senso che non viene decodificato, visto che due persone non condividono mai in modo totale la corrispondenza tra segno, senso e immagine mentale. Le lingue si differenziano non solo perché usano parole diverse, ma perché categorizzano la realtà in modo diverso e tuttavia è possibile sempre la traduzione perché, come affermò Jakobson, ogni esperienza conoscitiva può essere espressamente classificata in qualsiasi lingua esistente: si tratta solo di cercare l’equivalenza nella differenza a livello lessicale, sintattico, semantico, pragmatico e funzionale. Solo in seguito si potrà decidere il trattamento da riservare al residuo, eliminandolo o recuperandolo in altra forma nel metatesto. Eugene Nida citò invece una serie di esempi di casi di perdita, che si verificano nella traduzione quando un termine o un concetto del testo di partenza non esiste nella lingua di arrivo, o quando dei termini in una lingua coprono aree semantiche diverse. Nida citò per esempio i tre dimostrativi questo, codesto e quello che si riducono a due in altre lingue (es. this e that in inglese o celui-ci e celui-là in francese) perdendo così la possibilità di scrivere il concetto di vicino all’ascoltatore, espresso dall’aggettivo o pronome dimostrativo italiano codesto. Se nel passaggio dal prototesto al metatesto si forma un residuo, il traduttore può recuperarlo reinserendolo in altro modo nel metatesto. Si parla in questo caso di compensazione, tecnica che Jean-Paul Vinay e Jean Darbelnet considerarono come quel tipo di traduzione che permette di nascondere una perdita senza ricorrere a note o glosse. Si tratta per esempio di introdurre un epiteto formale (es. Madame o Sir in inglese) per rendere l’uso delle forme verbali di cortesia quando si traduce da una lingua che distingue fra il tu e il Lei come l’italiano. Se si ammette che ogni passaggio di informazioni comporta un qualche residuo di significato, la negoziazione consisterà nella scelta fra la rinuncia e la conseguente omissione di elementi presenti nel prototesto, la perdita, e l’adozione di una strategia traduttiva capace di riequilibrare il residuo inserendo altri elementi nel metatesto, la compensazione. Il problema dell’intraducibilità viene così aggirato grazie alle opzioni che il traduttore saprà sfruttare nel suo lavoro di rielaborazione creativa. La semiotica interpretativa Umberto Eco parlò di semiotica interpretativa, in narratologia oltre che in traduzione, nel suo lavoro Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi (1979). In quest’opera si sviluppa la teoria della cooperazione del lettore all’attualizzazione del senso che un testo contiene come potenziale. Il testo viene visto come elemento incompleto o una macchina pigra, in quanto non può esprimere tutto ciò che è essenziale sapere; infatti è importante l’intervento di un lettore e della sua attività inferenziale-interpretativa che ne compie la funzione comunicativa. Viene definito anche come intessuto di non detto di elementi impliciti, inespressi, che il lettore deve ipotizzare rispetto alla volontà dell’autore, facendo come un percorso a ritroso sul testo. Quest’ultimo non può esplicitare tutto perché sarebbe ridondante e noioso, e l’equilibrio tra elementi espliciti e impliciti dipende dall’idea che si ha del lettore e della sua enciclopedia, ovvero ciò che sa. Per Eco il senso di tutto si trova solo nella collaborazione fra testo e lettore. Il traduttore, in quanto autore, deve orientare la strategia traduttiva al lettore del TA: l’atto creativo del traduttore-autore del TA deve tener conto di un lettore tipo, o meglio dell’idea che si è fatto di un lettore tipo, che nel 1984 Eco intese: “In grado di affrontare interpretativamente le espressioni nello stesso modo in cui l’autore le affronta generativamente”; nel 1979, precedentemente, disse invece: “Il lettore modello è un insieme di Professore Castrenze Nigrelli per iscritto, oltre che per il sistema di leggi. Secondo la classificazione genetica, il sumero, una lingua isolata senza legami con le famiglie linguistiche indoeuropee o semitiche, presentava una morfologia agglutinante, caratteristica che influenzò profondamente lo sviluppo della traduzione in questa regione. Alla fine del III millennio a.C., gli Accadi conquistarono l’area sumerica, appropriandosi del sistema di scrittura cuneiforme e delle tavolette, ma mantenendo il sumerico come lingua amministrativa accanto all’accadico, una lingua semitica destinata a evolversi nelle varietà assira e babilonese. La traduzione giocò un ruolo cruciale come mezzo di accesso alla cultura sumerica, facilitando l’acculturazione e contribuendo all’avanzamento delle civiltà nella regione. La figura dello scriba, esperto bilingue in sumerico e accadico, rivestiva un’importanza fondamentale nel processo di traduzione e nella diffusione della conoscenza attraverso le tavolette nel Vicino Oriente Antico. Le tavolette sumeriche, contenenti una vasta gamma di testi che spaziavano dalla letteratura alla legge, si diffusero ampiamente nel corso dei millenni, confermando il sumero come lingua di cultura predominante nella regione per lungo tempo. La Grecia antica Durante il periodo della Grecia antica, che si estendeva principalmente nel I millennio a.C., le città- stato greche svilupparono un forte legame tra lingua e identità culturale, che sostanzia ancora oggi buona parte della cultura occidentale e che ha fatto fiorire il primato della cultura ateniese. Nonostante l’esistenza di diversi dialetti, la lingua greca rappresentava un carattere identitario fondamentale per i Greci. Questo glottocentrismo, particolarmente evidente nel periodo classico tra il V e il IV secolo a.C., rifletteva la convinzione nella superiorità culturale di Atene e del mondo greco in generale. Il termine barbari, derivato dal balbettio bar-bar indistinto che i Greci attribuivano a coloro che non parlavano la loro lingua, indicava una netta divisione tra i Greci e gli stranieri. Nel contesto del prestigio del greco, si manifestava uno scarso interesse verso le altre lingue e culture e un’inferiorità culturale delle altre popolazioni, come nel caso del latino. Le traduzioni si limitavano principalmente a esigenze pratiche, come negli affari geopolitici, nelle trattative, nei contratti e nelle lettere ufficiali. Tuttavia, esistono indizi di un interesse più ampio verso la traduzione nell’Accademia di Atene o Accademia platonica, dove sembra che vi fosse una curiosità per la traduzione di opere culturali e letterarie, sebbene queste non siano giunte fino a noi. Per questa ragione venivano chiamate traduzioni taciute, che si riferivano a traduzioni non esplicite o non ufficiali che avvenivano in determinati contesti senza essere riconosciute o documentate come tali. Nonostante il limitato interesse ufficiale per le traduzioni, gli interpreti e i traduttori avevano comunque un ruolo significativo nella società greca. Il termine interprete, derivato del greco hermenéus, ha un etimo incerto, ma è per certo strettamente legato al nome del dio Ermes: egli era il dio del commercio, e quindi un mediatore, era il messaggero degli dei, e quindi di fatto un traduttore in termini di traduzione intralinguistica, ma era anche il dio che accompagnava le anime nel regno dei morti dell’Ade ed era quindi un ponte, un tramite, o ancor meglio un traduttore. L’età ellenistica Durante l’età ellenistica, si assistette a una svolta significativa nella pratica della traduzione all’interno dell’ambiente greco-ellenistico. Questo cambiamento fu favorito da un atteggiamento propizio verso la traduzione che si protrasse anche nella cultura latina, caratterizzata da un’élite bilingue. La morte di Alessandro Magno di Macedonia nel 323 a.C. segnò l’inizio di una nuova era: egli era un allievo di Aristotele e il suo vasto impero, che si estendeva in Asia e comprendeva territori greci e persiani compreso l’Egitto, fu diviso tra i suoi luogotenenti in una serie di regni. Con la battaglia di Azio nel 31 a.C., i Romani conquistarono poi l’ultimo regno ellenistico, l’Egitto. Questi luogotenenti e le loro élite, come Alessandro stesso, erano di lingua greca. L’impero di Alessandro svolse un ruolo cruciale nell’esportare la cultura greca nel mondo antico. La lingua greca, in particolare la varietà comune conosciuta come koinè, dal greco κοινὴ διάλεκτος (lingua comune), Professore Castrenze Nigrelli venne a contatto con altre lingue e culture al di fuori dello spazio geografico tradizionale della Grecia. Un esempio emblematico di questa interazione è rappresentato dalla Stele di Rosetta. Questa, risalente al 196 a.C., presenta un frammento di decreto sacerdotale in onore del faraone Tolomeo V in tre lingue diverse: l’egiziano antico, l’egiziano demotico, che costituì la penultima fase della scrittura egizia usata per i documenti comuni, e il greco antico. Questo documento plurilingue, uno dei più antichi esempi di traduzione, giocò un ruolo fondamentale nel processo di decifrazione dei geroglifici egizi, aprendo la strada alla comprensione di questa antica forma di scrittura. La Biblioteca di Alessandria La Biblioteca di Alessandria, fondata nel III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto dal faraone Tolomeo II Filadelfo, rappresentò un importante polo culturale nell’antichità. Situata intorno al Museo, dedicato alle Muse, ovvero le figlie di Zeus, la Biblioteca aveva l’ambizione di raccogliere e mettere a disposizione degli studiosi grecofoni tutti i testi del sapere umano dell’epoca, svolgendo anche un’attività di grecizzazione del sapere. La Biblioteca di Alessandria divenne rapidamente il centro culturale più importante del mondo antico-ellenistico dopo l’Accademia platonica; tra le attività principali svolte vi era la traduzione in greco e la revisione dei testi, che contribuirono a dare vita alla filologia come disciplina. Nel Museo potevano pervenire utenti di diversi Paesi che avevano a disposizione testi originali o tradotti in greco e, di conseguenza, potevano avere accesso a tutti i campi del sapere, come quello scientifico, quello medico, quello letterario o quello legale. In questo contesto, si sviluppò anche una riflessione linguistica approfondita sul greco e un’attività della grammaticografia che contribuirono alla standardizzazione e alla diffusione della lingua. La Biblioteca rappresentò quindi un importante centro di apertura culturale e di scambio di conoscenze tra diverse tradizioni e culture. La cura nei confronti dei testi era legata alla difficoltà di interpretare la scrittura greca, una scrittura senza spazi vuoti in scriptio continua, che implicava uno sforzo in più nella lettura. Tra le opere più celebri tradotte in questo contesto vi era la Bibbia dei Settanta, una leggendaria traduzione dell’Antico Testamento dall’ebraico al greco. Questa traduzione ebbe un impatto duraturo sulla cultura e sulla religione, influenzando profondamente il mondo greco e il successivo cristianesimo. La Roma delle origini Nell’VIII secolo a.C., e in particolare con la fondazione di Roma nel 753 a.C., la città era un centro piccolo e periferico nel Lazio, caratterizzato da una comunità non molto estesa, principalmente dedita all’agricoltura e alla pastorizia, e che aveva un’idea conservatrice per natura, il Mōs maiōrum. Il latino, la lingua parlata a Roma, non godeva ancora di un grande prestigio culturale nel panorama dell’Italia antica. Le notizie di questa prima epoca sono scarse e incerte a causa della mancanza di fonti, ma si sa che Roma era immersa in un contesto plurilingue, con contatti con gli Etruschi, una civiltà molto più vasta e civilizzata da cui provenivano gli ultimi re di Roma e che parlava una lingua non indoeuropea, e i Sabini, da cui proviene il mito del ratto delle Sabine che narra il rapimento delle donne Sabine dai Romani poco dopo la fondazione di Roma, culminando in un atto di violenza seguito dall’unione pacifica delle due popolazioni; questo episodio mitologico simboleggia la nascita di Roma e la sua capacità di assimilazione culturale, diventando un tema ricorrente nell’arte e nella letteratura: I Romani ebbero inoltre molti contatti con le altre popolazioni italiche come gli Umbri e gli Osci, così come i Greci e i Fenici, soprattutto attraverso le colonie nel Sud della penisola italiana. La letteratura arcaica di questo periodo era abbozzata, occasionale e anonima, comprendente iscrizioni, leggi, orazioni, annali, carmi e forme teatrali embrionali come il fescennino, la satura e l’atellana. A causa della scarsa diffusione del latino e del contesto plurilingue, l’importanza dell’oralità data dall’interpres aumentava nei vari ambiti, come nel commercio, nell’amministrazione, nelle attività belliche e negli scambi. Gli interpreti e i traduttori giocavano un ruolo sempre più importante con l’aumentare del prestigio del greco sulle élite romane. A partire dal Professore Castrenze Nigrelli III secolo a.C., Roma iniziò a espandere il suo controllo sulle colonie greche del Sud Italia, aprendo la strada alla diffusione della cultura greco-ellenistica nell’orbita romana, con le élite romane che prendevano la cultura greca come modello, secondo un’opera di ellenizzazione. I traduttori e gli interpreti, inizialmente figure bilingui a vario titolo, divennero sempre più importanti nel tempo. Nel III secolo a.C., molti di loro erano schiavi provenienti dalla Magna Grecia, che a Roma si specializzavano nell’insegnamento della lingua greca. L’importanza della traduzione nella didattica della lingua divenne sempre più evidente, con l’uso diffuso di versioni e tavole bilingui contenenti lessici e frasari. La Roma arcaica Nella Roma arcaica, il prestigio culturale del greco e della sua civilizzazione si perpetuò attraverso i secoli, anche durante il periodo tra il I secolo a.C. e il V secolo d.C., storicamente l’età imperiale. La società romana, e il suo vasto impero, si caratterizzava per essere bilingue: i Romani di buona famiglia dovevano necessariamente acquisire una solida formazione in greco e nella cultura greca. In particolare, nell’area orientale dell’impero romano, il latino non veniva imposto come lingua ufficiale, determinando così un graduale distacco tra il latino scritto e quello parlato. Tuttavia, nelle operazioni geopolitiche e militari, i Romani mantenevano un forte interesse nella conoscenza della lingua e della cultura dei popoli sottomessi, permettendo una proficua osmosi con i modelli culturali dei territori conquistati, come la cultura egizia, presupposto fondamentale per l’attività traduttiva. I Romani si consideravano gli eredi culturali dei Greci e questa eredità si manifestava attraverso una fusione programmatica di elementi greci e latini, operata con cura da loro stessi. La civiltà romana, una volta consolidata sul piano politico, iniziò a sviluppare forme letterarie e linguistiche già codificate dal mondo greco, al fine di ottenere lustro, credito, prestigio e autorevolezza culturale. Le prime opere storiografiche del mondo romano furono scritte in greco, come dimostrano gli esempi di Timeo di Tauromenio nel III secolo, e Quinto Fabio Pittore e Polibio, nel II secolo, che avevano un taglio annalistico, scelta linguistica forse dovuta all’autorevolezza degli storiografici greci. Tuttavia, la prima opera storiografica in lingua latina risale al II secolo con Marco Porcio Catone. Nel campo della traduzione, prevalsero due tipi traduttivi: la traduzione letterale per testi scientifici e pratici, e la traduzione libera per i testi letterari greci. Nell’età ellenistica, intorno al III secolo a.C., la traduzione divenne un elemento fondamentale per lo sviluppo della storia linguistica e letteraria di Roma. Con l’adozione del modello culturale greco, su cui si modellava quello latino, la letteratura latina ebbe inizio con un atto di traduzione libera, una deliberata trasposizione dei modelli della cultura greca. Una fusione voluta e programmatica di elementi greci con elementi latini caratterizzò questo periodo. Un esempio significativo è stato rappresentato da Quinto Ennio, autore degli Annales (III-II secolo a.C.), poema epico in cui l’autore si presentava come una sorta di reincarnazione di Omero. Mentre in Oriente è rimasto il greco come lingua comune per secoli, i Romani si intersecavano con la storia greco-ellenistica e ne acquisivano l’eredità, diventandone portatori. Tuttavia, il contributo romano non fu semplicemente passivo: attraverso un’operazione di traduzione artistica, gli elementi greci con la loro eleganza riconosciuta venivano trasformati in qualcosa di distintamente latino, permettendo alla cultura latina di identificarsi con il proprio patrimonio culturale. Una testimonianza del primo fine della traduzione in epoca romana è un testo di un autore ignoto della fine del III secolo d.C., dal titolo Hermeneumata pseudodositheana, contenente dei dialoghi greco-latini scritti. Tre principi guidarono il modello della letteratura latina di questo periodo: - Imitatio, l’imitazione degli stilemi greci sia nella traduzione sia nella creazione; - Aemulatio, l’emulazione e la conseguente competizione con l’autore greco con l’obiettivo di superare l’originale tramite la traduzione; Professore Castrenze Nigrelli come semplice interprete di un testo, con le frasi stesse, con le stesse forme quanto con le figure, con parole appropriate agli usi correnti della nostra lingua. Non ho creduto di rendere parola con parola, ma ho mantenuto ogni carattere e ogni efficacia delle parole stesse. Non ho ritenuto infatti fosse necessario al lettore che io le contassi ma piuttosto che le soppesassi”. Cicerone distinse inoltre tra due approcci alla traduzione: ut interpres (come interprete) e ut orator (come oratore). L’interpres è un traduttore fedele alla lettera del testo originale, mentre l’orator mira a ricreare il senso e lo stile, e quindi l’effetto, del testo originale attraverso le consuetudini della lingua del traduttore, tenendo conto del pubblico destinatario. Egli sottolineò l’importanza di adattare le parole alle usanze correnti della lingua latina, verbis ad nostram consuetudinem aptis (con parole appropriate agli usi correnti della nostra lingua). Cicerone era consapevole dei diversi tipi e scopi delle traduzioni: l’interpres agisce come intermediario pratico nelle comunicazioni e trattative, mentre l’orator, esperto di eloquenza, mira a informare, dilettare e commuovere. Egli si propose come traduttore-oratore, sottolineando l’importanza di soppesare le parole piuttosto che contarle, per mantenere l’efficacia e l’impatto del discorso originale. La Roma imperiale Orazio, vissuto nel I secolo a.C., è stato un altro importante teorico della traduzione che ha riflettuto sull’importanza della traduzione artistica, seguendo il solco tracciato da Cicerone. Nella sua opera Ars Poetica, Orazio consigliava di evitare la traduzione letterale rigida e di interpretare il testo di partenza per adattarlo al contesto culturale del testo di arrivo. Questo approccio ha influenzato profondamente gli autori successivi, ponendo l’accento sulla creatività e l’adattamento culturale nella traduzione. Nell’Ars Poetica, Orazio sottolineava inoltre che la traduzione deve andare oltre la mera trasposizione delle parole, mirando invece a ricreare il senso e l’effetto dell’opera originale in modo che sia rilevante e comprensibile per il nuovo pubblico. Questo metodo implica una profonda comprensione sia del contenuto del testo originale che delle peculiarità culturali e linguistiche del pubblico di destinazione. L’approccio di Orazio alla traduzione artistica esorta i traduttori a essere creativi e a privilegiare l’efficacia comunicativa rispetto alla fedeltà verbale. L’impero romano, dal punto di vista sociolinguistico, presentava però una biforcazione linguistica: - Parte occidentale dell’impero, dove il latino era la lingua ufficiale e gradualmente soppiantò tutte le altre lingue locali, e la cui letteratura è andata persa. Il latino divenne la lingua d’arrivo in cui venivano tradotte le opere di altre lingue; - Parte orientale dell’impero, dove, specialmente quella ellenistica, manteneva il greco come lingua dell’amministrazione e della comunicazione. Le opere latine venivano spesso tradotte in greco, e il greco continuava a essere una lingua di prestigio culturale e letterario. L’impero romano mostrava un atteggiamento di apertura e rispetto verso il greco, riconoscendone l’importanza culturale e permettendo la continuazione della sua tradizione letteraria. Tuttavia, per quanto riguarda le altre lingue orientali, l’impero manifestava un atteggiamento di disinteresse e superiorità. Questo disinteresse e la mancanza di supporto portarono alla graduale scomparsa delle altre lingue orientali e delle loro tradizioni letterarie. La traduzione dei testi sacri La traduzione dei testi sacri ha presentato problematiche specifiche che hanno stimolato una riflessione approfondita sulla traduzione nel corso dei secoli. Si può distinguere tra due categorie principali di testi sacri: - I testi dottrinali, che sono considerati rivelazioni divine o ispirati da Dio e contengono verità rivelate e precetti fondamentali per la fede dei fedeli. Esempi di testi dottrinali includono la Bibbia e il Corano. La traduzione di questi testi pone vari problemi: il culto dell’originale, perché gli originali sono spesso Professore Castrenze Nigrelli considerati fissi e immutabili, con un valore sacro che rende la traduzione un’operazione estremamente delicata, la fedeltà traduttiva, che è cruciale per mantenere il più possibile il contenuto e il senso dell’originale, con una grande attenzione ai dettagli linguistici e semantici, la responsabilità morale-religiosa, che è una grande responsabilità per il traduttore verso la comunità dei fedeli, poiché qualsiasi errore o interpretazione errata può avere conseguenze significative per la comprensione e la pratica della fede, ma anche il controllo e la censura, in quanto le traduzioni di testi dottrinali sono state spesso sottoposte a un rigoroso controllo da parte delle autorità religiose per garantire la correttezza e l’ortodossia della traduzione; - I testi liturgici, che sono quelli utilizzati nelle cerimonie e nei riti religiosi, come le preghiere e i testi recitati durante la messa. Questi testi presentano caratteristiche linguistiche specifiche che li rendono particolarmente difficili da tradurre: il linguaggio formulaico, dato che i testi liturgici contengono formule che devono essere mantenute inalterate per garantire la validità e l’efficacia del rito, il lessico non comune, che è più formale e specialistico, lontano dal registro della comunicazione quotidiana, le forme arcaiche, sia morfologiche che sintattiche e che richiedono una conoscenza approfondita della lingua liturgica originale, così come il carattere conservativo e stratificato, perché questi testi spesso presentano stratificazioni diacroniche, riflettendo diverse epoche e stadi di sviluppo linguistico e religioso. Tra i problemi specifici della traduzione liturgica c’è anche la validità e l’efficacia delle formule: nei riti religiosi, la correttezza delle formule recitate è determinante. Fino al Concilio Vaticano II del 1965, per esempio, la messa cattolica era recitata esclusivamente in latino, una lingua considerata sacra, anche se i fedeli spesso non comprendevano il significato delle formule recitate. Il Concilio ha segnato una svolta significativa nella traduzione dei testi liturgici, autorizzando l’uso delle lingue vernacolari nella liturgia cattolica. Questo cambiamento ha sollevato nuove sfide per i traduttori, che dovevano trovare modi per rendere i testi liturgici comprensibili ai fedeli mantenendo al contempo la sacralità e l’integrità delle formule tradizionali. La traduzione dei testi liturgici deve inoltre tenere conto della tradizione e della conservazione delle forme storiche, bilanciando la comprensibilità contemporanea con il rispetto per la tradizione. La traducibilità dei testi sacri è quindi un problema complesso, che coinvolge questioni di legittimità e di approccio differenziato tra religioni favorevoli alla traduzione e religioni sfavorevoli alla traduzione. Il cristianesimo, ad esempio, ha una forte inclinazione al proselitismo e quindi alla traduzione dei suoi testi sacri. La diffusione del messaggio cristiano a un pubblico più ampio ha reso necessaria la traduzione della Bibbia in varie lingue per raggiungere i fedeli di diverse culture e lingue. La traduzione è vista come uno strumento essenziale per la diffusione della fede e l’istruzione religiosa. D’altro canto, l’ebraismo è tradizionalmente meno favorevole alla traduzione dei suoi testi sacri. La Bibbia ebraica è considerata intoccabile e la traduzione viene scoraggiata. La conoscenza e l’interpretazione dei testi sacri sono affidate alla casta sacerdotale e agli studiosi, e il testo originale viene studiato e glosso, ma non tradotto. La traduzione orale e la preservazione del testo in ebraico sono cruciali per mantenere la purezza e l’integrità della Scrittura. La Bibbia, comprendente l’Antico Testamento per l’ebraismo e l’Antico e il Nuovo Testamento per il cristianesimo, ha una storia complessa di trasmissione e traduzione. Per secoli, la Bibbia fu tramandata oralmente in ebraico, una lingua semitica. La traduzione orale era comune per i testi religiosi, ma la necessità di preservare il patrimonio religioso del popolo ebraico durante le sue peregrinazioni, come la cattività babilonese, portò alla fissazione scritta dell’Antico Testamento. La cattività babilonese è stato un periodo storico significativo nella storia del popolo ebraico, avvenuto tra il 586 e il 538 a.C. Durante questo periodo, gli ebrei del Regno di Giuda furono deportati a Babilonia, a seguito della conquista di Gerusalemme da parte del re babilonese Nabucodonosor II. L’ebraico era parlato e scritto nel I millennio a.C. nel Regno di Giuda. Dopo l’esilio a Babilonia, fu gradualmente sostituito dall’aramaico e successivamente dal greco. L’aramaico, lingua del popolo nomade degli Armeni, divenne una lingua importante nell’impero assiro e persiano. Con l’ellenizzazione del Vicino Oriente, il greco divenne la lingua comune per molti ebrei della diaspora, portando alla necessità di tradurre la Bibbia in greco. Nonostante la dispersione geografica degli ebrei Professore Castrenze Nigrelli e la conseguente diversità linguistica, la religione ha svolto un ruolo fondamentale nel mantenere l’identità ebraica, ancora più della lingua data la dispersione dei suoi parlanti. Nonostante ciò, l’ebraico è sopravvissuto fino ad oggi come lingua sacra e di cultura, simbolo di coesione religiosa e identitaria. Il termine Bibbia deriva dal greco βιβλία (libri), e la sua etimologia riflette la natura composita di questo testo sacro. La Bibbia è una raccolta di scritti eterogenei, comprendente diversi generi letterari, periodi storici e autori. Questa eterogeneità ha posto ulteriori sfide alla traduzione, richiedendo una sensibilità particolare alle variazioni di stile, contenuto e contesto storico. La Bibbia dei Settanta ha rappresentato la traduzione più antica conosciuta della Bibbia dall’ebraico al greco. Oltre a questa traduzione, esistono anche versioni in siriaco e aramaico, anch’esse provenienti dall’ebraico. Queste traduzioni sono particolarmente importanti per la loro antichità, poiché si basano su esemplari in ebraico più antichi di quelli attualmente disponibili. La traduzione della Bibbia dei Settanta fu realizzata nella Biblioteca di Alessandria nel III secolo a.C., partendo da un prototesto in ebraico, che era esso stesso una copia di copie, non l’originale. Questa versione in greco diventerà poi sacra scrittura per i cristiani. La traduzione è ammantata da notizie leggendarie: si narra che 72 eruditi ebrei avrebbero tradotto autonomamente i primi cinque libri, il Pentateuco o Leggi, dati da Dio a Mosè, contenenti la storia del popolo ebraico dalla creazione all’insediamento in Palestina, e che miracolosamente tutte le traduzioni sarebbero risultate identiche, interpretate come un segno divino. In realtà, il lavoro fu molto più lungo e arduo, svolto a più riprese. Le difficoltà traduttive erano molteplici e non limitate solo a quella versione. La scriptio continua, ovvero la scrittura senza spazi tra le parole, la mancanza di vocali, la necessità di disambiguare polisemia, la distanza temporale e culturale tra i testi originali e i traduttori, e l’influenza delle credenze e delle ideologie dei traduttori stessi, oltre a possibili errori di lettura, rendevano il compito estremamente complesso. La traduzione risultante era eterogenea. Alcune sezioni erano molto vicine al TP, mostrando un’alta fedeltà, mentre altre si distaccavano notevolmente, adottando una maggiore libertà interpretativa. Questa traduzione presentava riduzioni, parafrasi, attenuazioni o eliminazioni di immagini crude o violente, adattandosi così alla sensibilità ellenistica del tempo. La ricezione della Bibbia dei Settanta fu controversa. Ebbe una vasta fortuna e importanza, specialmente tra i non ebrei, diventando un punto di riferimento imprescindibile per le successive traduzioni. Tuttavia, suscitò critiche, specialmente dall’ortodossia ebraica, che la considerava troppo libera e lontana dal prototesto, interpretandola come una reinterpretazione influenzata dalla sensibilità ellenistica, e quindi pagana. Dopo l’editto di Costantino del 313 d.C., che riconosceva la libertà di culto al cristianesimo, e con la presenza dei barbari nella penisola italiana, il V secolo d.C. vide la caduta dell’impero d’Occidente nel 476, dando luogo alla formazione dei regni romano-barbarici. In questa prospettiva, il Nuovo Testamento, scritto in greco e incentrato sulla vita di Gesù e delle prime comunità cristiane, assumeva un ruolo cruciale nell’ambito del proselitismo cristiano. La traduzione della Bibbia divenne quindi uno strumento essenziale per diffondere la parola divina, tanto che fu Gesù stesso ad affermare: “Andate in tutto il mondo e predicate”. Questa necessità di diffusione si rifletteva anche nella richiesta di una Bibbia in latino per la parte occidentale dell’impero romano, mentre quella orientale leggeva i testi in greco. Tuttavia, le prime traduzioni latine non ufficiali non soddisfacevano appieno le esigenze della comunità cristiana: - La Itala presentava problemi di uniformità stilistica e contenutistica, accompagnati da parecchie imprecisioni; - La Afra tendeva a essere così letterale da risultare incomprensibile in molte parti. Entrambe queste versioni erano anche caratterizzate da uno stile umile, adattato al pubblico popolare a cui erano rivolte e ai traduttori che le avevano prodotte. La soluzione a questa sfida fu trovata dal Papa, che incaricò San Girolamo, un esperto traduttore di testi sacri del IV-V secolo, di realizzare una nuova traduzione. Il risultato fu la famosa Vulgata, una traduzione in latino direttamente dall’ebraico, che divenne presto la versione standard della Bibbia per la Chiesa cattolica occidentale. La Vulgata rappresentò un importante punto di riferimento per le successive traduzioni e un contributo significativo alla diffusione e alla comprensione della Bibbia nel mondo latino cristiano. Professore Castrenze Nigrelli la Francia, che portarono alla diffusione di nuovi modelli letterari fondamentali per la nascente letteratura italiana. L’Italia si distinse per il suo primato traduttivo, specialmente per quanto riguarda i testi non letterari come quelli giuridici e medici, mentre la Francia deteneva il primato letterario grazie alle sue esperienze poetico-letterarie precedenti. La tradizione poetica italiana, infatti, era ancora in fase embrionale, mentre l’attenzione maggiore era rivolta alla produzione in prosa e alla traduzione, soprattutto di testi giuridico-civili e opere d’arte. La nascita della letteratura italiana ebbe inizio intorno al 1200 con Jacopo da Lentini, notaio e poeta siciliano alla corte di Federico II. Jacopo fu autore della prima canzone in siciliano, Madonna, dir vo voglio, che rappresentava una traduzione artistica di una canzone provenzale di Folquet de Marseille. Inoltre, fu l’inventore del sonetto, una forma poetica che forse ebbe origine in Italia o derivò dalle forme provenzali. Dante Alighieri, nel XIV secolo, con opere come De vulgari eloquentia (1304-1307) e il Convivio (1304-1307), elogiò il volgare dei poeti siciliani come una forma di espressione naturale e contrastò la traduzione letterale che avrebbe compromesso la bellezza della lingua. Dante sottolineò anche l’irripetibilità della poesia nella sua forma originale, poiché essa risiedeva nell’intreccio inscindibile tra metro e testo. Il Quattrocento L’Italia dell’Umanesimo, nel Quattrocento, rappresentò un importante momento culturale caratterizzato dal recupero dei classici e dalla diffusione di una nuova sensibilità linguistico- filologica. L’Umanesimo segnò la riscoperta del greco in Occidente, favorita dai contatti con i Greci fuggiti dalle conquiste orientali dell’impero Ottomano e dagli scambi commerciali e culturali durante le crociate. Questo periodo è stato contrassegnato dall’attività traduttiva, con un’enfasi particolare sul volgarizzamento dei classici della letteratura latina, attraverso il quale si diffusero nuovi valori laici e una coscienza civile. Le lingue volgari, già a partire dal tardo Trecento, assunsero un ruolo sempre più importante come lingue nazionali. Le università diventarono centri culturali fondamentali e le nuove scoperte geografiche e la diffusione dell’invenzione della stampa a caratteri mobili nel 1467 contribuì a accelerare la circolazione delle opere tradotte e la diffusione del sapere. Tra i principali umanisti che si distinsero nell’attività traduttiva, spiccarono: - Francesco Petrarca, precursore della filologia moderna, che ricercò e scoprì diverse opere classiche e curò le edizioni di storici come Tito Livio e di autori come Virgilio; - Giovanni Boccaccio, autore del celebre Decameron (1349-1353), che volgarizzò opere latine come quelle di Livio, sostenendo un modello di traduzione libera che non si attenesse strettamente alla lettera dell’autore; su questo dichiarò: “Né è mio interesse […] seguire strettamente in tutto la lettera dell’Autore”; - Leonardo Bruni, filologo e traduttore di classici, che si distinse come uno dei maggiori teorici umanisti della traduzione. Egli tradusse per la prima volta interamente l’Iliade in latino e nel suo trattato De interpretatione recta (1420), offrì una visione prescrittiva e normativa della traduzione, basata sulla sua vasta esperienza pratica nel tradurre opere classiche. Quest’opera, sebbene incompiuta, rappresentava il primo trattato moderno sulla traduzione e riflesse l’approccio filologico di Bruni. Egli promosse l’importanza di una profonda conoscenza bilingue per garantire un’aderenza accurata al testo e allo stile dell’opera originale. Bruni introdusse anche il termine traducere, che sottolineava l’aspetto dinamico e attivo del processo di traduzione, superando il precedente concetto di translatare. Nel trattato, Bruni propose tre tipi di traduzione: la conversio ad verbum o traduzione letterale, ovvero la traduzione parola per parola, la transferre ad sententiam o oratoria fedele, ovvero la traduzione frase per frase, seguendo lo stile di autori come Cicerone, e l’immutare o oratoria libera, ovvero il mantenimento del senso ed effetto, con cambiamenti nella sintassi. Bruni sottolineò l’importanza di aderire al testo originale, considerando sia gli aspetti formali come ritmo, musicalità e metrica sia gli elementi stilistici caratteristici dell’autore. Tra le problematiche traduttive identificate da Bruni vi erano il pericolo di tradurre le figure retoriche a senso anziché in modo letterale e la necessità di evitare forestierismi, in particolare grecismi, nella traduzione nella lingua Professore Castrenze Nigrelli d’arrivo. Queste linee guida mostrano l’attenzione di Bruni per una traduzione accurata e aderente al testo originale, pur lasciando spazio alla creatività e alla libertà interpretativa del traduttore. Anche il greco venne tradotto in latino e in volgare, con opere significative come la traduzione integrale dell’Iliade ad opera di Leonzio Pilato, che fu maestro di Boccaccio. Figure di spicco come lo storico, maestro di retorica e filologo di testi greci e latini Lorenzo Valla svolsero poi un ruolo importante nella critica e nella filologia dei testi greci e latini, dimostrando, ad esempio, la non autenticità del testo della Donazione di Costantino. Questo testo avrebbe dovuto essere stato scritto da Costantino I alla Chiesa, dando ai Papi il diritto del potere temporale sulle terre dell’Impero d’Occidente, ma Valla si accorse che la lingua usata era anacronistica: era una varietà dell’VIII secolo e non del III secolo, ovvero l’epoca in cui visse Costantino I. Questi intellettuali contribuirono in modo significativo alla rinascita culturale dell’Italia e alla diffusione della conoscenza attraverso la traduzione. Il Cinquecento Durante il Cinquecento, l’Umanesimo italiano esercitò una significativa influenza in tutta Europa, diffondendosi in Paesi come Olanda, Germania e Francia. In questo periodo, nell’Europa settentrionale, si assistette anche allo sviluppo di movimenti riformatori, con importanti implicazioni sia religiose che politiche. In ambito religioso, si registrarono studi e traduzioni dei testi biblici, spesso associati a movimenti pauperistici e comunità cristiane ispirate agli ideali di povertà, come gli ordini mendicanti francescani e domenicani, e gruppi come i lollardi e i valdesi. In Inghilterra, sin dal XIII secolo, si assistette a una fioritura di traduzioni della Bibbia in inglese, con particolare rilevanza nel XIV secolo grazie a figure come John Wycliffe. Quest’ultimo, professore di teologia a Oxford, realizzò una traduzione completa della Bibbia in inglese per i suoi seguaci lollardi, i quali sostenevano l’importanza della Bibbia come unico fondamento di fede, criticando la ricchezza e la corruzione del clero e del papato. Le loro posizioni, considerate eretiche, portarono a una condanna postuma di Wycliffe e all’ulteriore sviluppo di tesi dottrinali anticlericali da parte dei suoi successori nel XV secolo. Durante il Rinascimento, che si estese approssimativamente tra il XIV e il XVI secolo, si sviluppò un approccio umanista al recupero dell’antico e della classicità, con un’imitazione dei modelli classici che permeò non solo il campo letterario, consapevolmente a una distanza storico- culturale. Tale distanza era in parte subita: si guardava al passato classico in termini idealizzati, come un’epoca di coesione e unità politica, linguistica e religiosa che si vuole ricreare, in contrapposizione a un presente di disgregazione, fatto di Stati nazionali, lingue nazionali e contrapposizioni religiose. L’imitatio dell’antico era quindi il criterio fondante del Rinascimento a livello sia estetico che etico- morale, e quindi sia in traduzione che nella creazione di opere inedite. Questo approccio si rifletteva anche nella pratica della traduzione rinascimentale. Le traduzioni rispondevano a un bisogno di rinnovamento culturale, sfruttando l’antico come fonte di ispirazione. La dottrina platonica giocava un ruolo significativo: si credeva nella possibilità di ricreare lo spirito dell’originale, l’ispirazione divina della poesia, anche in un contesto culturale diverso. Le traduzioni, dal greco al latino ma spesso anche dal greco e latino al volgare o italiano, venivano concepite come imitazioni, liberi adattamenti o rimaneggiamenti dei testi antichi, con l’intento di portare alla luce il loro spirito attraverso l’inventiva dell’autore. Il traduttore rinascimentale non si limitava a una semplice trasposizione, ma competeva con l’autore originale, praticando l’aemulatio. Molte volte, si traducevano brani classici per inserirli all’interno delle proprie opere, in un processo di contaminatio. Le traduzioni diventavano così un dialogo tra il moderno e l’antico, conferendo nuova vita ai classici con un’impronta autoriale moderna, che venivano quindi petrarchizzati o ariostizzati. Nel XVI secolo, la pratica della traduzione subì una profonda revisione critica, con una minore differenza tra l’approccio traduttivo ai testi sacri e quello ai testi profani: - Ambito sacro, dove si mise in discussione la traduzione letterale dei testi sacri, secondo il principio di adeguatezza; - Ambito profano, dove si ridimensionò la libertà nell’approccio traduttivo dei testi letterari. Professore Castrenze Nigrelli La traduzione dei testi sacri, in particolare della Bibbia, ebbe enormi ricadute nel XVI secolo in Europa settentrionale e contribuì allo sviluppo dei movimenti riformatori delle chiese del Nord. Un esempio emblematico è la Bibbia tedesca di Martin Lutero, apparsa nel 1534 e rielaborata fino al 1545. Questa fu la prima traduzione tedesca in versione integrale dopo una traduzione della Vulgata nel 1466, realizzata con l’assistenza di diversi studiosi e basata su versioni latine, greche ed ebraiche. L’idea di Lutero era quella di germanizzare il testo sacro affinché fosse alla portata di tutti, senza l’intermediazione di teologi o della parola del Papa. La lingua utilizzata era vicina al parlato delle classi basse, per renderla comprensibile a tutti, anche agli analfabeti o scarsamente scolarizzati, e si nota in termini come madre in casa, ragazzi nella strada o popolano al mercato. Lutero evitò una traduzione troppo letterale e troppo ricalcata sul latino, preferendo mirare alla comprensione del senso profondo del TP secondo un atteggiamento umanista ma, a differenza di San Girolamo, l’ordine delle parole non racchiudeva un mistero di fede. Questa Bibbia ebbe un forte influsso sullo sviluppo della lingua tedesca, utilizzando una varietà sovradialettale, e sulla riforma della Chiesa protestante. Inoltre, influenzò le successive traduzioni bibliche, come quella di Giovanni Calvino a Ginevra, la Bibbia di Kralice (1579-1593) dei seguaci di Johann Huss che è diventata poi il riferimento per la prosa classica in ceco, e la Bibbia di re Giacomo I (1611), primo esempio di testo scritto in inglese moderno. La reazione della Chiesa di Roma a questo problema fu il Concilio di Trento (1545-1563), che confermò la Vulgata di San Girolamo come unico testo ufficiale della Chiesa, vietando le traduzioni della Bibbia in volgare. Nonostante ciò, alcune versioni circolarono clandestinamente, mentre aumentava il controllo e la censura sulle pubblicazioni a stampa. Questo atteggiamento restrittivo perdurò per diversi secoli, fino al Concilio Vaticano II. Nel XVI secolo, la pratica traduttiva raggiunse anche un alto grado di sviluppo e contribuì in modo significativo all’innovazione culturale nell’Europa rinascimentale. Oltre alle traduzioni della Bibbia e all’uso di versioni parallele nell’insegnamento delle lingue antiche e moderne, la traduzione nel contesto profano si affiancava a riflessioni teoriche e opere dedicate alla traduzione stessa. Ad esempio, in Spagna, Juan Luis Vives si occupò nel suo saggio De ratione decidendi (1532) del problema dell’anisomorfismo interlinguistico, soprattutto nella traduzione di poesie. Egli classificò le traduzioni in base all’orientamento verso la forma, il contenuto o entrambi, e sottolineò l’importanza della retorica e delle conoscenze extralinguistiche, specialmente per la traduzione di testi scientifici: - Sola phrasis et dictio, la traduzione che considera solo la forma; - Solus spectatur sensus, la traduzione che considera solo il contenuto, in cui si può omettere ciò che non serve e aggiungere ciò che è utile; - Et res et verba ponderatur, la traduzione che considera la forma e il contenuto, in cui si conservano anche le figure retoriche e le altre ornamentazioni. In Francia, Étienne Dolet scrisse il primo libro interamente dedicato alla traduzione, La maniére de bien traduire d’une langue a une autre (1540). Le sue cinque regole fondamentali per il traduttore includevano: - Capire il senso e la materia dell’originale, con la libertà di chiarire le parti oscure, il cui scopo è di renderlo comprensibile a chi leggerà il testo in traduzione; - Padroneggiare perfettamente le due lingue, quella di partenza e quella di arrivo; - Non seguire l’originale parola per parola, in quanto bisogna tradurre l’intenzione dell’autore, senza attenersi all’ordine delle prole dell’originale, visto che le lingue diverse hanno sintassi diverse; - Non farsi sedurre dalla ricchezza del linguaggio ma utilizzare la lingua comune; - Seguire le norme oratorie, cioè mirare all’equilibrio e all’armonia dell’insieme. In Inghilterra, George Chapman fu un grande traduttore di Omero. Egli raccomandava nella sua Epistole to the Reader, premessa alla sua traduzione dell’Iliade, di evitare traduzioni troppo letterali, cercando piuttosto di cogliere lo spirito dell’originale senza rimanere legati alla sua forma letterale, Professore Castrenze Nigrelli termini di estrazione sociale e il prezzo dei libri diminuì. Questa combinazione di fattori portò a un innalzamento della domanda di testi per la lettura, con la traduzione che divenne un mezzo fondamentale per soddisfare tale richiesta. L’attività traduttiva accelerò, portando con sé aspetti ambivalenti: da un lato, si diffusero traduzioni di scarsa qualità, come già denunciato da Tytler alla fine del Settecento; dall’altro, la frequente attività di traduzione favorì lo sviluppo di nuove e originali riflessioni sul processo traduttivo, cariche di ulteriori implicazioni filosofiche. Queste riflessioni riguardavano la traducibilità dei testi, il ruolo del traduttore come autore e il valore delle traduzioni come arricchimento per la cultura di arrivo. Nel contesto dell’Ottocento, la traduzione si intrecciò con alcuni aspetti caratteristici del Romanticismo. Tra questi, vi era la curiosità e la rivalutazione delle lingue, delle letterature e dei valori nazionali europei, con un focus minore sui classici e maggiore sui contemporanei. Le traduzioni si concentrarono principalmente sulle lingue europee di cultura come l’italiano, il francese, l’inglese, il tedesco e lo spagnolo. Si sviluppò un relativismo estetico nella cultura, opponendosi all’universalità e all’assolutismo del gusto francese che avevano predominato tra il Seicento e il Settecento. Le belles infidèles erano ormai fuori moda e apertamente condannate. All’inizio dell’Ottocento, apparve il primo studio sistematico sulle tecniche di traduzione, ad opera del letterato di origine italiana Giovanni Ferri De Saint Constant che in Rudiment de la traduction ou: L’art de traduire le latin en français (1808), partendo dallo studio delle traduzioni di autori latini in francese, illustrò quattro tipi di traduzione: - La traduzione interlineare, utile per chi non conosce il latino, basata sulla sostituzione delle parole latine con quelle francesi equivalenti; - La traduzione letterale, utile per la comprensione degli autori, che evidenzia la differenza fra le due lingue; - La traduzione grezza, utile per chi impara il latino e non persegue l’eleganza; - La traduzione, utile per rendere fedelmente il pensiero dell’autore e si avvicina alla parafrasi e all’imitazione. In questo contesto, si cercava di catturare lo spirito dell’autore, opponendosi al razionalismo e all’armonia formale delle correnti neoclassiche. L’enfasi era posta sulla forza creativa dell’autore, considerato un genio capace di creare nuovi mondi nell’immaginazione. Questa concezione sollevava domande sul ruolo del traduttore rispetto a un autore-creatore dai contorni quasi divini o mistici, ovvero come bisognava inquadrare la traduzione, come si poneva il traduttore rispetto a un autore- creatore dai contorni divini e mistici, e soprattutto se la traduzione poteva essere vista anch’essa come un atto di creazione o no. I romantici si divisero su quest’ultimo punto, dando vita a due approcci di base alla traduzione nell’Ottocento. Da un lato, vi era chi vedeva la traduzione come atto creativo, conferendo autonomia al testo tradotto e considerando il traduttore come un ricreatore dell’originale. Il genio creativo del traduttore si metteva così in contatto con il genio creativo dell’autore. Dall’altro lato, alcuni consideravano la traduzione come puro mezzo, sebbene unico, per far conoscere un testo o un autore di un’altra lingua o cultura, legato alla ricerca dello spirito dell’autore del testo originale. L’atteggiamento ambivalente verso la traduzione nel periodo romantico si declinò anche in un’altra prospettiva significativa. Emerse l’idea di intraducibilità, estesa non solo alla poesia, ma anche ad altri generi. Questa concezione derivava dalla convinzione che le lingue influenzino e determinino il pensiero e il modo di concepire la realtà. Questa prospettiva è stata sostenuta da studiosi come Friedrich Schleiermacher e Wilhelm von Humboldt e si collegava all’ipotesi Sapir-Whorf del relativismo linguistico, secondo la quale a lingue diverse corrispondono diverse visioni del mondo. Poiché le lingue cambiano nel tempo, la traduzione incontra la difficoltà di riportare intatto il significato da una lingua all’altra. Da questa sfida nasce lo spunto per cercare una lingua specifica per le traduzioni, un’idea condivisa da diversi autori dell’Ottocento tedesco e inglese. Dall’altro lato, si sviluppò l’idea dell’arricchimento delle culture attraverso la traduzione. La diversificazione linguistico-culturale del mondo offre la possibilità di arricchire sia la lingua e la cultura di arrivo sia di dare nuova luce a quelle di partenza, attraverso il dialogo tra culture nazionali. Il contatto con Professore Castrenze Nigrelli l’estraneo è visto come rigeneratore, secondo Johann Wolfgang von Goethe, che affermò: “Il traduttore non lavora solo per la sua nazione, ma anche per quelle delle lingue da cui ha tradotto l’opera”. L’idea di fondo sostenuta da Goethe, Humboldt e Schleiermacher era quella di una Weltliteratur (letteratura universale), che enfatizzasse l’interazione tra i popoli e le culture. Questo concetto era particolarmente sentito dallo spirito del popolo tedesco. Nel Romanticismo, la Germania ricoprì un ruolo centrale nella cultura europea, traducendo una grande quantità di opere: due terzi delle opere tedesche ogni anno erano traduzioni. Questo affinò la poliedricità intellettuale dei tedeschi, come sottolineato da Johann Gottfried Herder. Goethe riteneva inoltre che la lingua e lo spirito tedeschi avessero un ruolo privilegiato nella traduzione. I tedeschi erano visti come particolarmente aperti ad accogliere l’elemento straniero, un atteggiamento che si rifletteva nel concetto di Weltliteratur, e forniti di una lingua elastica. Goethe su questo disse: “È proprio della natura tedesca apprezzare a suo modo tutto ciò che è straniero e adattarsi alle peculiarità straniere. Questo, insieme alla grande docilità della nostra lingua, rende le traduzioni tedesche assolutamente fedeli e perfette”. In ambito traduttologico, Goethe, Schleiermacher, Humboldt, insieme a Schlegel e Herder, sono stati quindi gli esponenti di spicco del Romanticismo tedesco. Goethe, nel ciclo di poesie West-östlicher Divan (1819), inquadrò la storia della traduzione secondo una periodizzazione tripartita, legata a tre diversi metodi traduttivi: - La fase storica, in cui il testo entrava in una diversa cultura e si adattava ai canoni di questa, come avveniva nelle traduzioni di testi storici e didascalici; - La fase intermedia, in cui le traduzioni erano palesi alterazioni del testo originale e lo soppiantavano, come accadeva con le belles infidèles del Seicento francese, prendendo il posto dell’originale ed escludendolo definitivamente; - La fase finale, in cui si vede un’identità perfetta tra testo di partenza e testo di arrivo, dove la traduzione è integrale e rende non solo il senso, ma anche gli aspetti formali, retorici, metrici e ritmici, naturalizzandoli nella lingua di arrivo. La novità risiedeva nell’accento posto sulla traduzione letterale, in antitesi con le belles infidèles ormai superate, considerata il punto di arrivo dell’evoluzione della traduzione. L’obiettivo era una traduzione letterale che unisse fedeltà scrupolosa ed eleganza, traducendo con una lingua moderna in maniera precisa ed elegante anche testi di lingue diverse, sia classiche sia moderne. Questo implicò il primato del testo di partenza sul testo di arrivo: il testo di arrivo non esiste al posto del testo di partenza, ma accanto ad esso. Schleiermacher offrì invece una fondamentale riflessione sui diversi modi del tradurre nel suo scritto del 1813. Egli distinse due tipi di traduzione: - La traduzione naturalizzante, tipica dei classicisti, che avvicina l’autore del testo di partenza al lettore e alla sua lingua, adattando nella lingua di arrivo l’elemento straniero del testo di partenza. Questo processo depotenziava il testo originale adattando le differenze; - La traduzione estraniante, propria dei romantici, che avvicina il lettore al testo di partenza attraverso un complesso processo linguistico di straniamento, che porta al reale arricchimento del lettore e della sua cultura di arrivo. Questa cultura viene in parte risemantizzata e rifondata sulla base dell’elemento estraneo del testo di partenza. Questo metodo prevede l’uso di una lingua che restituisca il sapore del tempo e la distanza del testo di partenza, come l’uso di arcaismi, un approccio condiviso da diversi autori romantici inglesi. Humboldt presentò idee simili e sottolineò l’importanza della prima felice ispirazione, vista come irrazionale e spontanea, nella traduzione. Questa visione attribuisce un ruolo centrale all’intuizione e alla creatività del traduttore nel processo traduttivo. Il Romanticismo in Europa, al di fuori della Germania, si caratterizzò per un diverso approccio alla traduzione, con Francia e Inghilterra che adottarono e adattarono in modo distinto le idee provenienti dal movimento tedesco. Anche in Francia, si assistette a un abbandono delle belles infidèles e all’adozione del paradigma anglo-tedesco delle traduzioni letterali. Questo approccio si applicò sia ai classici sia alle opere moderne. Un Professore Castrenze Nigrelli esempio emblematico è la traduzione delle opere di Edgar Allan Poe ad opera di Stéphane Mallarmé, che si distinse per la fedeltà al testo originale. In Inghilterra, già nel Seicento e nel Settecento, si evidenziava un atteggiamento di maggior rispetto verso il testo di partenza, moderando la libertà traduttiva, come dimostrarono le riflessioni di Pope e Tytler. Durante il Romanticismo, i poeti inglesi fornirono infatti alcune delle riflessioni più significative sulla traduzione. Nel primo periodo, Samuel Taylor Coleridge propose un equilibrio tra fedeltà e naturalizzazione o adattamento, sebbene tendesse a preferire quest’ultimo. William Wordsworth, nel tradurre l’Eneide, rimaneggiò considerevolmente il testo originale, tagliando, ampliando e adattando. Percy Bysshe Shelley tradusse numerosi testi dai classici antichi e dall’italiano antico, come quelli di Brunetto Latini, sottolineando l’intraducibilità della poesia. Nel secondo periodo, emerse la questione di rendere la distanza spazio-temporale senza attualizzare il testo. William Morris, nel tradurre l’Odissea e l’Eneide, utilizzò arcaismi, un ordine sintattico marcato e costrutti insoliti per creare un effetto straniante che rimandasse il lettore a un tempo antico, un metodo interessante ma che rendeva la lettura più impegnativa. Thomas Carlyle, invece, si concentrò sulla distanza spaziale traducendo testi tedeschi e utilizzando l’inglese con strutture tipiche del tedesco, creando un effetto di straniamento che evidenziava la differenza culturale e linguistica tra i testi di partenza e quelli di arrivo. L’atteggiamento dei poeti inglesi del secondo periodo del Romanticismo, rappresentati da Morris e Carlyle, nei confronti della traduzione ha portato a diverse conseguenze significative. Il focus principale di questi poeti era marcare la distanza con il testo di partenza, rendendo evidente l’estraneità rispetto alla cultura di arrivo. Questo si traduceva in soluzioni traduttive estremamente originali, volte a sottolineare la distanza spazio-temporale, ma che di conseguenza rendevano le traduzioni accessibili solo a un pubblico ristretto di intellettuali in grado di apprezzarle e comprenderle pienamente. Questo approccio portava anche a una visione del traduttore come servitore del testo di partenza, con un ruolo ancillare e tecnico. Il traduttore era visto come un mero tecnico della traduzione, il cui compito era quello di rimanere fedele al testo originale senza introdurre elementi che potessero avvicinarlo eccessivamente alla cultura di arrivo. Verso la fine dell’Ottocento, gli sviluppi storici portarono a trasformazioni significative nei rapporti tra le culture. Da un lato, l’epoca dei grandi viaggiatori aumentò l’interesse per l’apprendimento delle lingue, favorendo la richiesta di frasari bilingui da viaggio. Dall’altro lato, il radicarsi dei nazionalismi e gli sviluppi coloniali e imperialisti, pur mettendo in contatto diverse culture, crearono gerarchie tra le culture colonizzatrici e quelle colonizzate. Inoltre, nella seconda metà dell’Ottocento si consolidò l’approccio scientifico alla linguistica, che nacque con uno stampo diacronico, come la grammatica storico-comparativa. L’approccio produsse una rivoluzione nell’ambito della teoria globale della linguistica, ponendo le basi per gli approcci scientifici alla traduzione nella prima metà del secolo successivo. Nel 1916, infatti, venne pubblicato postumo il Cours de Linguistique générale di Ferdinand de Saussure, che introdusse un approccio sincronico alla linguistica e concepì la lingua come un sistema. Questo influenzò profondamente gli studi sulla traduzione, promuovendo una visione più sistematica e strutturata del processo traduttivo. Tutto ciò si notava anche nelle teorie di Matthew Arnold, espresse nel suo saggio On Translating Homer (1861), e in quelle di Henry Wadsworth Longfellow, secondo il quale il compito del traduttore è riportare ciò che lo scrittore dice, non spiegare ciò che intende: questo è il lavoro del commentatore; il traduttore deve occuparsi solo di ciò che l’autore dice e di come lo esprime, per cui viene retrocesso a tecnico, con compiti molto ristretti. Un’opinione contraria è quella del letterato e traduttore inglese Edward Fitzgerald, che intendeva la traduzione come l’impresa di chi ha a che fare con un’entità viva, il testo di partenza, e deve trasportarlo in un’altra lingua e cultura: attraverso la traduzione libera, si può perfino nobilitare il testo di partenza, quando questo sia inferiore rispetto alla cultura di arrivo. Il Novecento Nel Novecento, l’interesse e l’apertura verso la traduzione crebbero notevolmente, coinvolgendo diversi ambiti; questo secolo espresse studi fondamentali in ambito linguistico e traduttologico. Professore Castrenze Nigrelli La trasformazione applica una regola che porta l’oggetto in prima posizione nella struttura superficiale. In francese, però, la stessa domanda può avere diverse forme superficiali: Tu as appelé qui?, senza trasformazione, Qui as-tu appelé?, con risalita del qui e dell’ausiliare, e Qui est-ce que tu as appelé?, con risalita del qui e con l’inserimento di est-ce que. L’approccio generativista assumeva che, poiché esistono strutture profonde universali, dovessero esistere anche criteri e norme universali per passare da un sistema linguistico all’altro, che la scienza deve individuare e formulare. Questo si traduce in uno studio prescritto della traduzione, i Prescriptive Translation Studies. Tuttavia, uno dei principali problemi dell’approccio generativista è che si concentrava solo sulla linguistica interna, in particolare sulla sintassi, adottando un approccio puramente formale. Questo limite implica la difficoltà di tenere conto della dimensione testuale, del contesto e del registro/stile. Le tre frasi francesi esempio hanno infatti la stessa semantica ma differiscono in sintassi e pragmatica, con variazioni che vanno dal molto formale al colloquiale/familiare. Questo problema diventa ancora più evidente e radicale quando si tratta di testi letterari, dove il contesto, lo stile e le sfumature linguistiche giocano un ruolo cruciale nella traduzione e non possono essere adeguatamente trattati da un approccio che si limita alla pura sintassi e alle regole trasformazionali. Negli anni Quaranta, sotto l’influenza delle teorie linguistiche dei formalisti russi e degli strutturalisti, iniziarono i primi tentativi sperimentali di traduzione interlinguistica tramite il calcolatore. Tuttavia, è solo negli anni Cinquanta e Sessanta che si sviluppò un forte ottimismo verso la possibilità di realizzare una traduzione automatica. Tuttavia, questa fase ottimistica venne seguita da una delusione e da una perdita di fiducia quando si scoprì che la traduzione automatica presentava gravi limiti nella decodifica del contesto e nell’interpretazione degli aspetti pragmatici. Ad esempio, la traduzione automatica si basa ancora oggi principalmente su corrispondenze lessicali basate sulla frequenza, senza tener conto del contesto e delle sfumature di significato. Questo porta al crollo del mito della traduzione come scienza e degli studi prescrittivi dipendenti dalla linguistica. Iniziò così un movimento verso l’autonomia della disciplina, intesa come teoria anziché come scienza. Dagli anni Settanta e Ottanta, con la svolta testuale della teoria della traduzione o traduttologia, la traduzione automatica venne quasi del tutto abbandonata e si cominciò a guardare alla traduzione in modo descrittivo, come autonoma e affrancata dalla linguistica. Questa prospettiva, nota come Descriptive Translation Studies, si concentra sulla traduzione in sé e sugli aspetti di interazione con la cultura di arrivo, anziché sulle regole per una traduzione automatica perfetta. Gli sviluppi successivi riguardo alla traduzione automatica si concentrano principalmente sull’ingegneria informatica, con un sempre minore coinvolgimento e centralità dei linguisti. Tuttavia, negli ultimi anni si è osservato un aumento dell’interesse e dell’impennata nello sviluppo della traduzione automatica, anche se il ruolo dei linguisti rimane in parte marginale rispetto agli ingegneri informatici. Nonostante le delusioni riscontrate negli approcci formali e prescrittivi, come lo strutturalismo e il generativismo, permase sempre viva un’orientazione scientifica e linguistica nella traduzione, che caratterizza gli studiosi della prima fase, come ad esempio Catford e Nida. Un concetto centrale è quello di equivalenza, che venne declinato in modi diversi poiché non esiste un’equivalenza assoluta tra i testi da sostituire. Catford, ad esempio, distinse tra equivalenza formale, forma più contenuto, ed equivalenza dinamica, determinazione dell’effetto, con particolare attenzione agli aspetti interculturali. Il metodo source- oriented, o orientato al testo di partenza, sottolinea che la traduzione è legata al testo di partenza e ne è ancillare. Una prospettiva innovativa è quella della Scuola di Praga, soprattutto con Jakobson negli anni Sessanta, che tuttavia rivelerà tutto il suo valore solo negli anni Settanta e Ottanta. Questa corrente si concentrava su elementi esterni alla grammatica, come la pragmatica e la semiotica, in una prospettiva testuale. Jakobson considerava la traduzione come un momento centrale della teoria linguistica e del processo semiotico, sottolineando che non esiste una sola traduzione corretta ma ogni traduzione è solo uno dei testi possibili. L’idea di equivalenza nella differenza sottolinea che l’interpretazione è un atto comunicativo soggettivo, e in traduzione è importante preservare il nucleo invariante del messaggio. Jakobson distingue tre tipi di traduzione: interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica. La dominante, o componente formale caratterizzante, determina quali altri elementi si possono tradurre e quali devono essere affrontati nel paratesto o tralasciati. Nonostante ciò, ancora Professore Castrenze Nigrelli oggi esistono studiosi della traduzione di stampo formale, come Laura Salmon, che si occupano ad esempio di retroversione. Gli anni Settanta e Ottanta La svolta degli anni Settanta e degli anni Ottanta nella storia della traduzione segnò un cambiamento significativo nei paradigmi e negli approcci alla disciplina. In questo periodo, inizialmente nei Paesi Bassi e poi in tutta Europa, si assistette al superamento degli approcci scientifico-prescrittivi precedenti, che vedevano la traduzione come una pratica normativa e basata su regole fisse. Invece, emerse un nuovo paradigma che pose l’attenzione su problemi legati alle teorie della traduzione, in particolare letteraria, e ai Cultural Studies, portando alla nascita dei Translation Studies. Questo nuovo approccio si concentra sul contesto, sulla pragmatica e sulla cultura di arrivo che accoglie il testo, adottando una prospettiva target-oriented anziché source-oriented. Si considera la lingua come strumento di comunicazione e si include lo studio della ricezione culturale del testo. Le teorie emergenti sono di stampo testuale e pragmatico, e si orientano verso un’analisi descrittiva anziché prescrittiva. Si indagano i problemi specifici della traduzione prima di estenderli eventualmente alla letteratura o alla linguistica. La traduttologia venne definita da Antoine Berman come la riflessione della traduzione su se stessa a partire dalla sua natura di esperienza, con un focus sul processo traduttivo. Questa teoria non è separata dalla pratica traduttiva: è necessario definire teoricamente i fattori che fanno di una traduzione una traduzione. Si abbandona l’approccio dicotomico sulla fedeltà, riconoscendo che forma e contenuto sono interdipendenti. Si evidenzia l’importanza dell’intertestualità e si valorizzano le differenze culturali in un’ottica comparativa, ridimensionando il problema dell’intraducibilità. Popovič concepiva la traduzione come una fusione tra due sistemi culturali e letterari, riconoscendo l’autonomia della traduzione rispetto al testo di partenza e l’influenza della traduzione sui sistemi culturali. Alla base vi era quindi l’idea dell’autonomia della traduzione rispetto al TP e l’idea dell’influenza della traduzione sui sistemi culturali. In questo periodo, gli approcci prettamente linguistici alla traduzione erano sotto accusa. Secondo Henri Meschonnic, la traduzione è un’operazione trasnlinguistica che non può essere spiegata dalla semantica strutturale o dalla grammatica trasformazionale, dato che non si può separare forma e significato. Si può solo riconoscere al traduttore il ruolo di colui che, consapevole della contraddizione intrinseca di ogni operazione traduttiva, si adopera per assolvere il suo duplice ruolo, scegliendo, caso per caso, quando adottare la tecnica del decentramento, che sottolinea i rapporti interlinguistici e interculturali fra prototesto e metatesto, e quando invece quella dell’annessione, la realizzazione di un testo tradotto come se fosse scritto nella lingua e cultura di arrivo. Anche Jean- René Ladmiral, partendo dalla sua esperienza di traduttore, rifiutò come Meschonnic la dicotomia forma-senso: per lui il traduttore è un co-autore, libero di operare delle scelte non arbitrarie nei confronti del destinatario. Nel suo Traduire : théorèmes pour la traduction (1979), Ladrmiral mise l’accento sull’importanza del pubblico della traduzione, spostando il problema sulla ricezione del testo tradotto e anticipando così le teorie sulla funzione del testo che si affermeranno nel decennio successivo. Gli anni Ottanta e gli anni Novanta Negli anni Ottanta e negli anni Novanta, la traduzione venne sempre più considerata da una prospettiva letteraria e semiotica, ma si evolveva integrandosi con approcci sociolinguistici e antropologici dei Cultural Studies, delineando così i Translation Studies, un campo interdisciplinare che analizza in modo descrittivo e integrato i problemi della traduzione. Questi studi nacquero come dialogo tra culture e come un approccio analitico-descrittivo ed empirico, non come una scienza normativo-prescrittiva. Questo sviluppo ha radici nel 1976 con un convegno a Lovanio, in Belgio, su letteratura e traduzione, dove André Lefevere propose il termine Translation Studies, che successivamente diventò un ambito disciplinare autonomo. In verità, il termine venne usato in origine Professore Castrenze Nigrelli da James Stratton Holmes nel 1972, e venne affrontato in modo sistematico per la prima volta da Susan Bassnett all’interno di Translation Studies (1980). L’articolazione dei Translation Studies comprendeva campi di indagine puri, teorici e descrittivi, oltre a quelli applicativi, che includono anche gli studi sui processi mentali della traduzione e sull’acquisizione delle seconde lingue, da una prospettiva neurolinguistica e psicolinguistica. All’interno dei Translation Studies, esistono diverse correnti e approcci, spesso anche isolamento tra teorie come nel caso di Rosemary Arrojo e la sua visione cannibalistica, ma vi è una linea comune che si orienta verso la ricezione culturale e l’idea della traduzione come un atto di rewriting e dell’autore come co-autore che agisce creativamente. Viene anche sottolineato che la traduzione non è un atto neutrale, ma dipende dall’ambiente culturale e dalla prospettiva del traduttore. Gli studi sulla traduzione si estendono anche a generi non-letterari e a canali non scritti, includendo testi tecnico-scientifici e trascrizioni orali. Inoltre, vi è un cambio di focus dall’analisi del testo alla comprensione della cultura di arrivo e alla ricezione della traduzione stessa. In questo contesto, la traduzione è considerata rilevante solo per la cultura di destinazione, e viene vista come un atto di reinterpretazione che riflette le influenze culturali del traduttore. Le linee principali di ricerca dei Translation Studies possono essere sintetizzate attraverso diverse prospettive chiave elaborate da Margherita Ulrych: - Prospettiva storica, che si concentra sul ruolo della traduzione letteraria nei sistemi letterari occidentali, esaminandone l’evoluzione nel tempo; - Prospettiva interculturale, che mette in luce gli elementi linguistici e testuali, interpretandoli in base al loro funzionamento all’interno di un più ampio contesto culturale e intertestuale; - Prospettiva ideologica, che è focalizzata sul ruolo del traduttore come mediatore tra due realtà culturali, soggetto a pressioni ideologiche legate a fattori economici, politici e sociali; - Prospettiva del potere del lettore e del traduttore, che analizza il ruolo della traduzione nella diffusione e nella sopravvivenza del testo di partenza, oltre al ruolo del lettore che può interpretare il testo in modi diversi. Si osserva una perdita di autorità del testo di partenza e un focus sull’opera tradotta; - Prospettiva dell’invisibilità, che considera l’intervento del traduttore come un filtro trasparente, dove il traduttore deve soddisfare il pubblico ma anche essere in grado di modulare il testo in modo tale da renderlo visibile o invisibile, a seconda del contesto; - Prospettiva postcoloniale, che studia il ruolo predominante della traduzione nelle grandi lingue di colonizzazione nell’importazione di opere e autori appartenenti a culture colonizzate, esaminando le dinamiche di potere e di rappresentazione che ne derivano. La Polysystem Theory, sviluppata da Itamar Even-Zohar e altri studiosi come Toury presso l’Università di Tel Aviv, rappresentò una componente significativa all’interno dei Translation Studies. Questa teoria si concentra sulle condizioni storico-culturali in cui avviene la traduzione e su come viene recepita nella cultura di arrivo, oltre ad esaminare le interazioni tra diversi sistemi culturali. Alcuni principi fondamentali della Polysystem Theory di Even-Zohar includono il polisistema letterario, ovvero un sistema globale della letteratura composto da diversi sottosistemi, ognuno dei quali rappresenta una cultura letteraria specifica. Questi sottosistemi interagiscono tra loro, influenzandosi reciprocamente. Anche la letteratura tradotta viene considerata un sottosistema all’interno del polisistema letterario. Le traduzioni sono considerate opere autonome rispetto al testo di partenza e interagiscono con la cultura di arrivo. È la cultura di arrivo che decide quali testi tradotti accogliere nel proprio sistema letterario. Questa scelta è influenzata da vari fattori, tra cui il contesto culturale e le preferenze del pubblico. I sistemi culturali centrali, che sono più stabili e conservativi, tendono a esercitare un’influenza maggiore e a imporre i loro modelli e cercano meno traduzioni. Al contrario, i sistemi culturali periferici, più dinamici e meno stabili, sono più inclini alle istanze nuove, inclusi i testi tradotti. Nei Translation Studies, a partire dagli anni Novanta, si sono verificati ulteriori sviluppi significativi che hanno arricchito la disciplina e ampliato il suo campo di studio. Gideon Professore Castrenze Nigrelli portato alla creazione di corpora bilingui e al loro uso per la traduzione assistita dal computer, la Machine-Aided Translation (MAT), con cambiamenti epocali nel modo di lavorare degli attuali traduttori rispetto a quelli del passato. Sulla possibilità di creare corpora bilingui e sulla loro gestione mediante il computer si basa quindi la traduzione assistita, oggi sempre più alla portata di tutti grazie alla proliferazione di software che ne rendono possibile l’accesso e l’uso online. Il nuovo rapporto tra tempo e spazio all’interno della rete di comunicazione globale e la circolazione pressoché istantanea di un’enorme quantità di informazioni hanno reso la traduzione scritto l’elemento indispensabile della localizzazione: si pensi a siti plurilingui che necessitano di un costante aggiornamento, all’e-commerce, alle documentazioni cartacee online e che accompagnano il marketing di qualsiasi prodotto diffuso a livello mondiale. Secondo Michael Cronin, l’industria delle traduzioni è dominata da grandi compagnie: l’uso di strumenti come i dizionari elettronici, i corporali bilingui e i software online permette di accelerare i tempi e ridurre i costi, pur mantenendo l’elemento umano in quanto in qualità di revisore e correttori dei testi realizzati con l’ausilio dei traduttori automatici. Chi traduce per la rete o per il cinema deve in primo luogo adattare il testo ai destinatari, spesso lavorando in équipe, visto che di solito la paternità dei traduttori non emerge nel prodotto finito. In seguito alla diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione e informazione che si sono affermati dalla fine del XX secolo dopo il libro, il cinema e la radio, si può parlare oggi di un settore di studi sulla traduzione che riguarda in particolare l’ambito multimediale: dalla traduzione audiovisiva, con i sottotitoli, sopratitoli e il doppiaggio, a quella dei testi che raggiungono i destinatari attraverso varie tecnologie digitali, come i siti web, i software, i videogiochi, gli e-book, i tablet, i cellulari o i lettori MP3. Dal punto di vista pratico, si nota che le traduzioni in questi settori sono sempre più polarizzate sull’inglese: non è raro, per esempio, scoprire che i comandi di un software sono tradotti mediante calchi dall’inglese o addirittura hanno delle parti lasciate in lingua originale, così come la localizzazione di siti web vede nella versione inglese il testo più completo, che viene poi ridotto o adattato nelle versioni tradotte, come nel caso di Wikipedia. Negli ultimi dieci anni, la crescente importanza dell’inglese come lingua veicolare si è unita alla diffusione di internet con effetti positivi su alcune economie marginali; tuttavia, secondo alcuni studiosi il predominio dell’inglese a livello mondiale rappresenta un pericolo per la configurazione geopolitica mondiale, per l’integrazione e il progresso armonioso dei popoli, ma anche e soprattutto per l’affermazione delle nazioni che parlano lingue considerate minoritarie. Queste comportano una serie di rischi: - Monopolio dell’inglese ed esclusione in ambito tecnico-scientifico, perché uno degli elementi più preoccupanti dell’attuale processo di globalizzazione linguistica è che tende a ridurre la circolazione della produzione scientifica, letteraria e artistica di alcuni popoli, intaccando la diversità linguistica; - Monopolio dell’inglese e omologazione culturale, perché nel ridurre il ventaglio delle possibili lingue straniere da studiare nelle scuole, si tende a ostacolare uno dei principali obiettivi dell’apprendimento delle lingue straniere, che è appunto la presa di coscienza dell’esistenza di numerosi modi di vivere, di comunicare, di interagire, di affrontare e risolvere i problemi sociali e di divertirsi; - Monopolio dell’inglese e influsso sulle altre lingue, perché l’inglese sta modificando dall’interno molte lingue con cui viene in contatto, che tendono ad assorbire parole e modi di dire e talvolta adattano perfino all’inglese il proprio ordine dei costituenti della frase; - Monopolio dell’inglese e monolinguismo dei parlanti anglofoni, perché nei Paesi anglofoni lo studio di una seconda lingua in età precoce è poco diffuso. In realtà lo sviluppo del bilinguismo ha una serie di vantaggi cognitivo-affettivi nella costruzione dell’identità di una persona e dovrebbe essere favorito indipendentemente dall’utilità della lingua appresa. Nonostante la sua palese diffusione, l’inglese non sembra destinato a soppiantare il multilinguismo mondiale, come dimostra la politica linguistica dell’Unione Europea, che si esprime attraverso vari documenti ufficiali come il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER). Nel suo saggio La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (1993), Umberto Eco Professore Castrenze Nigrelli si espresse sull’argomento: “Una Europa di poliglotti non è una Europa di persone che parlano correntemente molte lingue, ma nel migliore dei casi di persone che possono incontrarsi parlando ciascuno la propria lingua e intendendo quella dell’altro, che pure non saprebbero parlare in modo fluente, e intendendola, sia pure a fatica, intendessero il ‘genio’, l’universo culturale che ciascuno esprime parlando la lingua dei propri avi e della propria tradizione”. Lo stesso pensiero aleggiava due anni prima al convegno tenutosi nel novembre 1991 a Rüschlinkon, in Svizzera, su Trasparenza e coerenza nell’apprendimento delle lingue in Europa: obiettivi, valutazione e certificazione, in cui furono messe le basi di quello che sarebbe diventato il documento europeo più importante del decennio seguente, cioè il Common European Framework of Reference: Learning, Teaching, Assessment. Realizzato da un team di esperti del Consiglio d’Europa e diffuso in rete nel 1996, questo documento di politica linguistica relativo all’apprendimento e all’insegnamento delle lingue straniere in Europa è stato poi pubblicato in inglese nel 2001 e tradotto in italiano. Il QCER è un documento del Consiglio d’Europa elaborato allo scopo di favorire una convergenza fra le politiche linguistiche degli Stati europei nel campo della didattica delle lingue moderne. Attraverso la definizione di sei livelli di competenza in L2, ovvero A1, A2, B1, B2, C1 e C2, e la descrizione esplicita di obiettivi, contenuti e metodi di insegnamento e apprendimento, l’opera ha lo scopo di aumentare la trasparenza e l’efficacia dei corsi, dei curricoli e delle prove di certificazione linguistica in Europa. I nuovi presupposti introdotti dal QCER per promuovere un’Europa unita anche sul piano linguistico- culturale possono essere riassunti in tre punti principali: le diversità linguistiche e culturali devono arricchire e non separare, la conoscenza di nuove lingue fa superare i pregiudizi e gli stereotipi e allo stesso tempo favorisce la mobilità, e ci deve essere una convergenza di politiche nel campo della didattica delle lingue all’interno di un progetto educativo globale che va dall’età prescolare all’età adulta. La decisione di ricondurre la traduzione e l’interpretariato sotto il comune denominatore della mediazione venne resa poi esplicita alla fine del QCER, nel paragrafo 4.4.4, intitolato appunto Mediating Activities: “Nelle attività di mediazione chi usa la lingua non intende esprimere il proprio pensiero, ma semplicemente agire da intermediario tra due locutori che non riescono a comprendersi direttamente, normalmente (ma non obbligatoriamente) persone che usano lingue diverse. Tra le attività di mediazione troviamo ad esempio l’interpretariato (orale) e la traduzione (scritta) ma anche il riassumere e il parafrasare testi nella medesima lingua, quando la lingua del testo originale non risulta comprensibile al destinatario”. Nel paragrafo 4.6.4, invece, viene data la definizione delle attività di mediazione interlinguistica indicate come traduzione e interpretariato: “La mediazione copre due attività: 1) Traduzione. Chi usa/apprende la lingua riceve un testo da un parlante o scrivente che non è presente, in una lingua o codice (Lx) e produce un testo parallelo in una lingua o codice diverso (Ly); il testo ha come destinatario un’altra persona, che può essere un ascoltatore o un lettore a distanza. 2) Interpretariato. Chi usa/apprende la lingua agisce da intermediario in un’interazione faccia a faccia tra due interlocutori che non condividono la medesima lingua o il medesimo codice; riceve un testo in una lingua (Lx) e produce il testo corrispondente in un’altra (Ly)”. Il più recente documento di politica linguistica europea intitolato A Rewarding Challenge, ovvero Una sfida salutare. Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l’Europa (2008). Si tratta di un documento realizzato in occasione dell’Anno europeo del dialogo interculturale 2008, da un gruppo di intellettuali di un istituito dalla Commissione Europea e presieduto da Amin Maalouf per definire il contributo del multilinguismo all’UE. Importanti in merito le parole con cui inizia il documento: “La diversità linguistica costituisce per l’Europa una sfida, ma una sfida che noi consideriamo salutare. Per poter gestire efficacemente questa diversità, l’Unione europea deve affrontare questioni che, nel mondo d’oggi, sono diventate prioritarie e non possono più essere eluse senza compromettere il futuro. Come far vivere insieme in modo armonioso tante popolazioni diverse? Come dar loro il senso di un destino comune, di un’appartenenza comune? Dobbiamo cercare di definire un’identità europea? Questa identità potrà conciliare tutte le nostre differenze? Potrà integrare le componenti d’origine non europea? Il rispetto delle differenze culturali è compatibile con il rispetto il valori fondamentali? […] Se per l’Europa è indispensabile incoraggiare la diversità delle espressioni culturali, altrettanto indispensabile è affermare l’universalità dei valori essenziali. Sono due aspetti Professore Castrenze Nigrelli di uno stesso credo senza il quale l’idea europea perderebbe il suo senso”. La soluzione proposta si articola intorno a due concetti fondamentali: nelle relazioni bilaterali tra i popoli dell’UE l’uso delle lingue dei due popoli dovrebbe prevalere su quello di una terza lingua. Questo implica che per ciascuna lingue europea esista, in ogni Paese dell’Unione, un gruppo significativo di locutori competenti e fortemente motivati. Il numero di tali locutori sarebbe naturalmente molto variabile secondo le lingue, ma dovrebbe essere comunque sufficientemente consistente per consentire loro di occuparsi di tutti gli aspetti, economici, politici, culturali, delle relazioni binarie tra i Paesi interessati. Perché questi contingenti di locutori possano essere formati, l’UE dovrebbe farsi promotrice dell’idea di lingua personale adottiva. L’idea è quella di incoraggiare di cittadino europeo a scegliere liberamente la lingua distintiva, diversa dalla sua lingua e anche dalla sua lingua di comunicazione internazionale. Il cittadino europeo del futuro dovrebbe essere dunque perlomeno trilingue e soprattutto dovrebbe evitare di appiattirsi sulla sola conoscenza dell’inglese come L2. L’Unione Europea decise di intervenire con forza per mantenere la diversità e la ricchezza linguistica al suo interno. Questa prospettiva è molto diversa da quella che all’inizio del Novecento caratterizzava la temperies culturale dell’Occidente, orientata al nazionalismo e alla diffidenza verso i soggetti bilingui.
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