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La Complessa Concezione di Cultura: Olistica, Dinamica e Selettiva, Appunti di Antropologia

SociologiaTeoria della ComunicazioneAntropologiaStudi Culturali

La concezione di cultura come insieme complesso, dinamico e olistico, con particolare attenzione alla struttura sociale e alla tradizione. Viene discusso il concetto di Habitus e la relazione tra cultura e memoria, oltre alla tensione tra oggetto e soggetto. anche il caso dell'organizzazione sociale Kula e l'interesse antropologico per la cultura materiale.

Cosa imparerai

  • Che significato ha il concetto di Habitus?
  • Che ruolo ha la tradizione nella definizione di cultura?
  • Che cos'intende la cultura secondo il testo?
  • Come viene descritta l'organizzazione sociale Kula?
  • Come viene trattata la relazione tra oggetto e soggetto nel testo?

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 17/11/2022

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4.8

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Scarica La Complessa Concezione di Cultura: Olistica, Dinamica e Selettiva e più Appunti in PDF di Antropologia solo su Docsity! Antropologia culturale e dell’arte Lezione 1 11.4.2022 La parola Antropologia deriva dal greco ‘discorso sull’uomo’ dal punto di vista sociale e culturale. Cultura intesa come: insieme complesso; pensata in modo olistico; gli elementi che la compongono (i miti, i riti, il pensiero religioso, la famiglia, il genere, ecc) sono in una relazione di reciproca interdipendenza. È una scienza sociale empirica: si fonda sulla ricerca sul campo che è il metodo di ricerca degli antropologi; comparativa: perché coglie le somiglianze e le differenze tra le culture; interpretativa: perché mira a rendere conto una traduzione linguistico-letterale dei fenomeni sociali che prende in considerazione. Le radici sono rintracciabili nel pensiero classico di Erodoto e alla sua narrazione che costruisce sulla storia greca, e anche sulla presa di coscienza dell’alterità dei popoli conquistati, i ‘barbaros’ , cioè coloro che vivono al di la del confine, che non parlano la stessa lingua. La nascita di questa discpiplina è legata all’espansionismo e alla conquista delle popolazioni selvagge, primitive che popolavano territori del pianeta che i bianchi volevano colonizzare sottomettendoli. Pesante eredità che ci consente di capire meglio le nostre forme di organizzazione sociale, categorie di genere, pratiche e ideologie sottostanti alla nostra concezione religiosa, tutti i livelli dell’esistenza umana in quanto espressione della vita sociale dell’uomo e ci aiuta a mettere in discussione le proprie categorie. Durante la Rivoluzione Francese alcuni intellettuali pongono le basi epistemologiche. Importante è infatti la Società degli osservatori dell’uomo, forte influenza del Romanticismo, la quale si poneva come obiettivo studiare l’uomo e le sue esperienze. È stata un'associazione di studiosi fondata nel 1799 a Parigi, luogo d'origine dell'antropologia francese. Ebbe vita breve e si sciolse nel 1804. Con i viaggio di espansione coloniale e con la diffusione in Europa dei manoscritti dei missionari che raccoglievano informazioni su popolazioni altre, si diffonde una prima antropologia che si appoggia sul lavoro svolto sul terreno da queste figure quali missionari o funzionari coloniali (la cosiddetta “antropologia da tavolino”), in particolare in Inghilterra vittoriana. Tra loro Tylor, nel cui testo è contenuta la definizione di cultura, 1871 in Primitive Culture: in senso antropologico è il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali. Esso è un antropologo evoluzionista e “da tavolino”, perché non raccoglie in prima persona i dati e le proprie comparazioni (mettere a confronto enorme mole di dati provenienti da ogni parte del mondo). Anche James George Fraizer, nel “Ramo d’oro” mette insieme i miti di tutte le popolazioni conosciute alla fine dell’800 e che non avrebbe potuto raccogliere in prima persona. Questa antropologia sociale non è ancora una scienza sociale empirica, non è ancora fondata sulla ricerca sul campo, e lo diventerà nel momento in cui lo stesso antropologo si recherà tra i nativi stessi a “piantare la propria tenda all’interno del villaggio”, confrontandosi quotidianamente e vivendo con quella data popolazione in tutto e per tutto, osservando quelle che sono le regole dell’osservazione partecipante (metodo codificato nell’introduzione di Argonauti del pacifico occidentale di Malinoski, padre dell’antropologia, del 1922 che prende in analisi le forme di dono tra una popolazione di un arcipelago delle Tropian. Esso studia proprio lo scambio di doni fra queste popolazioni che non hanno un valore economico: conchiglie bianche e conchiglie rosse). Esso nell’introduzione dice esplicitamente che l’antropologo deve distaccarsi agli occhi dei nativi dalla figura del funzionario coloniale, deve stare con loro e imparare a vivere come loro, osservare partecipando per un periodo lungo di tempo, generalmente almeno un anno. L’etnografia (indica l’esperienza della ricerca dell’antropologo sul campo: “vado a fare etnografia”/indica anche il metodo etnografico attraverso cui quell’esperienza tenta di produrre sapere/ indica inoltre il prodotto tipo un libro o una monografia etnografica che riporta il sapere di quella data esperienza). Quindi essa è esperienza, metodo e prodotto. C’è una differenza tra antropologia culturale e sociale: E’ una distinzione di ‘scuola’. Oggi nei contesti euro-americani si intende la stessa disciplina. Ma fino a tutta la seconda metà del 900 il peso dei paradigmi scientifici giocava un ruolo determinante in tale differenza. dinamica culturale. C’era chi poneva attenzione alle dinamiche della struttura sociale che per tradizione di collocava nel contesto britannico che aveva visto fin dalla sua fondazione radicarsi il paradigma funzionalista. In America invece nella scuola di Franz Boas ci si concentrava maggiormente sulla dinamica culturale. Lezione 2 13.05.2022 
 Oggi, per quanto riguarda la distinzione fra ‘antropologia sociale’ e ‘antropologia culturale' se ne parla indistintamente, come se fossero la stessa disciplina. Qualche decennio fa si evincevano delle differenze di approcci nel panorama internazionale e per tutta la seconda metà del Novecento il peso dei paradigmi scientifici giocava un ruolo determinante nel dibattito internazionale > differenze tra coloro che avevano approccio attento alle dinamiche della struttura sociale (per tradizione nel contesto britannico con il paradigma funzionalità); oppure negli Stati Uniti, negli stessi anni, si affermava sotto l’egemonia della scuola di Boas e dai suoi allievi, prospettiva più attenta alla dinamica culturale. 
 Il concetto di ‘cultura’ è al centro della riflessione antropologica, quasi l’ oggetto stesso dell’antropologia, ed è un concetto che è stato fortemente criticato dalle discipline antropologiche stesse.
 C’è stato un ripensamento della cultura all’interno della quale è inquadrata l’antropologia, i suoi strumenti e le sue categorie interpretative.
 
 Cultura > come opera? Quali sono le sue caratteristiche? Come l’antropologia si relaziona alla cultura? Prima definizione di cultura > complesso di conoscenze, credenze, di leggi e pratiche, che gli uomini acquisiscono e condividono in quanto membri di una società. Tutti gli uomini sono portatori di cultura.
 Tra tutte le specie animali, l’uomo ha bisogno di cure per un periodo più lungo. Questo accade, come hanno mostrato gli scienziati, perché oltre il 70 per cento delle nostre connessioni neurali si sviluppa dopo la nascita, nei primi 14 anni di vita. I bambini non posseggono geneticamente le info necessarie per sopravvivere in un ambiente ostile. Se privati delle cure non sopravviverebbero nell’ambiente naturale. L’uomo ha bisogno della cultura per sopravvivere. L’uomo è un essere biologicamente incompleto per sopravvivere. Deve acquisire competenze che gli vengono trasmesse attraverso la socializzazione. Infatti—>dopo una serie di esperimenti condotti nel corso dell’800 emerge la cosiddetta teoria dell’ ‘incompletezza biologica’ che mostra un dato di fatto: cioè che l’uomo ha bisogno della cultura, che essa è indispensabile per la sopravvivenza dell’uomo. La dimostrazione della teoria è visibile anche negli studi che lo psicologo infantile Piaget condusse sui bambini, dimostrando come lo sviluppo delle facoltà intellettuali del bambino avvenga intorno ai 15 anni. L’essere umano biologicamente incompleto ha dunque bisogno della cultura per poter sopravvivere. Per adattarsi all’ambiente all’interno del quale vive si trova ad essere esposto a tutta una serie di comportamenti e di abitudini rispetto alle quali deve acquisire competenza. necessario essere competenti nella pratica etnografica. Significa aver acquisito familiarità con una certa pratica. Oggi essa è praticata all’interno di tante discipline come la psicologia o la sociologia, anche se ci sono significative differenze. Per i sociologi è fare interviste e fare un pò di osservazione partecipante, ma non inserirsi completamente come gli antropologi. E’ necessario, da un lato mettere in pratica la prospettiva olistica e dall’altro di analizzare i fenomeni che si osserva nel quadro del contesto nel quale si realizzano, quindi cercando sempre di contestualizzare in modo precipuo e definito. Da una parte l’etnocentrismo che è la tendenza irrazionale e istintiva che ogni società ha a considerare la propria morale e le proprie pratiche come le migliori e il rischio è di sfociare nel razzismo, la prospettiva anti-etnocentrica sfocia nel relativismo e nell’universalismo. E’ necessario ricordare che l’antropologia nasce in un periodo di espansioni e di scoperta da un lato si evinsero spinte anti-etnocentriche, dall’altro la prospettiva di dominazione dei governi coloniali. Qualsiasi assunzione etnocentrica non preventivamente smontata pregiudicherebbe la possibilità si una conoscenza etnografica. Altro aspetto da tenere in considerazione è l’approccio relativista (relativismo culturale) : abbiamo visto che l’antropologia è un sapere critico fin dalle sue origini (anche se non tutti sarebbero d’accordo), è un sapere intrinsecamente relativista. Il concetto di relativismo è stato introdotto già nelle opere di Franz Boas è passato alla tradizione della disciplina a partire dalla definizione di Malville Herskovitz che in un libro del 1949 sottolinea come tutti i comportamenti umani prima ancora di poter essere valutati o giudicati sul piano etico- morale-normativo devono essere compresi essendo collocati all’interno del contesto in cui acquisiscono senso (questo è il relativismo culturale). Il relativismo presuppone che ogni cultura abbia una propria coerenza interna . Quindi non si possono formulare giudizi etici, estetici e neppure cognitivi, al di fuori di un contesto culturale poiché è il contesto culturale stesso a definirne i criteri di riferimento. Ogni tentativo di stabilire criteri sovra-culturali di riferimento è etnocentrico. Il sociologo americano Suumner definiva “il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è al centro del mondo è il campione di misura a cui si fa riferimento per giudicare gli altri nel linguaggio tecnico si chiama “etnocentrismo”. E’ un atteggiamento naturale e universale, ma porta facilmente ad accentuare i tratti che appartengono alla propria cultura e che distinguono un popolo dall’altro. Spesso si può ricadere in pratiche discriminatorie. L’etnocentrismo sarà realizzato da antropologi come Herskovits e Strauss i quali riconoscono l’universalità dell’atteggiamento etnocentrico, ma vedono un segno distintivo nel progresso culturale per tenerlo sotto controllo promuovendo la tolleranza e il dialogo tra diverse culture. L’etnocentrismo critico è un presupposto metodologico, qualcosa a cui è necessario tendere e non un fine da raggiungere (perché un etnocentrismo compiuto non è possibile), infatti Ernesto De Martino vede nell’egocentrismo critico la base della disciplina in quanto esso dice che dato che è imposi ile spogliarsi di modelli culturali di cui siamo intrisi, non possiamo illuderci di assumere una prospettiva completamente etnocentrica; possiamo però tendere a un etnocentrismo critico, una consapevolezza delle nostre posture. Dunque, la prospettiva olistica, un approccio relativista e un approccio anti-etnocentrico - o meglio di etnocentrismo critico - sono, assieme alla vocazione riflessiva dell’antropologia e all’attenzione critica, propria della disciplina, costituiscono i principi cardine sul piano epistemologico delle discipline antropologiche in generale, a discapito delle differenze. Lezione 3 18.5.2022 Oggi affrontiamo le questioni relative al concetto di ‘razza’ e come intorno ad esso si è sviluppata una critica del modello evoluzionista sul quale si fondava l’antropologia delle origini. ‘Razza’ e ‘Genere’ sono due modi in cui la ‘differenza’ viene naturalizzata a partire da un dato di tipo corporeo. Tuttavia la categoria di razza è una categoria che ha radici storiche e che quindi va considerata nel contesto specifico nel quale si è sviluppata e ha dato via alle distorsioni e alle forme di violenza istituzionalizzata, sistemica, fattasi sterminio di massa. La cosa sensata dal pdv antropologico è che essa è una costruzione di tipo storico e socio- culturale. Non esiste un principio di classificazione. Anche lo stesso parlare di ‘etnie’ (etnos-greco-aggregato di individui che hanno determinate caratteristiche) è un modo diverso per parlare di ‘razze’ prendendo a riferimento l’appartenere a una nazione anziché un’altra (quindi appartenere a lingua, cultura, abitudini, costumi eccc). Ma anche questo è un modo di classificazione derivato dalla società occidentale dopo la 2GM, la società dell’Illuminismo era molto più cosmopolita rispetto ad essa. La parola Etnia prima nei testi ebraici e poi nel N testamento serviva per distinguere i greci dai barbari (barbar-coloro che balbettano e non parlano). Nell’800 il concetto di ‘etnia’ come insieme di caratteristiche socio-culturali si afferma e questa accezione antropologica arriva a definire etnia un gruppo che condivide un’insieme di elementi (lingua, religione, tradizioni, uso e costumi), ma questo uso neutrale filtrato dalle discipline antropologiche in modo descrittivo è stato affiancato da un uso diverso con connotazione discriminante e valutativa. I gruppi etnici ad oggi sono definiti i gruppi minoritari, il gruppo dominante non è mai chiamato ‘etnico’, ma sono sempre gli altri, e viene vista come una qualità trasmessa geneticamente. Da modello imperfetto di studio delle differenze sociali e culturali questo concetto si è trovato ad essere un modo diverso per dire ‘razza’. Mentre quando parliamo di ‘differenze’ (prima avremmo usato ‘razza’), parliamo di ‘differenze culturali’, ed anche esso è diventato un altro modo per dire razza. L’unico discorso scientificamente provato sull’analisi delle razze è quello dell’analisi del DNA (in particolare cromosoma Y e i mitocondri) i quali a distanza di migliaia di anni sono ancora rintacciabili al suo interno. Dalla sua analisi si è evinto che la razza è una costruzione ideologica che si proponeva di sottomettere il ‘diverso’ in base a differenze fenotipiche (capelli, pelle) che in realtà sono sintomi di adattamento del corpo all’ambiente nel quale si viveva e che sono state trasmesse geneticamente e che noi poi lo abbiamo chiamato ‘etnia’. I genetisti hanno capito che le razze non esistono perché tutti gli esseri umani condividono 99 percento del DNA e quelle piccole differenze dipendono dalle migrazioni riscontrabili milioni di anni fa. ((In merito a questo video (TED Pisa 2015) di Guido Barbujani, divulgatore scientifico che lavora all’università di Ferrara: GUARDALO Perché non possiamo non dirci africani 
 Nel Decalogo (vallo vedere) del Manifesto del Razzismo Scientifico (le razze esistono - esistono grandi e piccole razze - il concetto di razza è un concetto puramente biologico - la popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana - è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti, ecc. ) E’ stato dettato da Mussolini, scritto da un gruppo di antropologici italiani e l’antropologia ha una pesante eredità in questo senso, sia sul piano del dominio coloniale, che sul forte contributo allo sterminio. E’ però un tentativo scadente di fare un catalogo delle razze umane. 
 E sopratutto, perché degli scienziati firmano un documento così incoerente? Risposta al punto 7. è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti. E’ importante capire come da circa 300.000 anni gli europei non ci sono più, ci sono solo gli africani.
 Qua emerge la pesante eredità che si porta dietro dal pdv storico, sia a livello coloniale, sia il contributo pesante che ha dato allo sterminio degli Indios come degli Ebrei e così via. Sono degli scienziati scadenti come tutti quelli precedenti dal 700 in poi che hanno cercato di fare ognuno di loro la propria lista. Adesso esso torna su ognuno di questi punti andando a confutarli e descrivendo le contraddizioni: La razza è del sangue e nel DNA che ereditiamo, allora è possibile studiarla scientificamente, ma noi siamo ‘ariani’ secondo questo manifesto, ma poi dice che siamo anche italiani, poi successivamente siamo ‘mediterranei’, quindi facciamo parte di più gruppi se diamo alito a questo manifesto. La risposta è al punto 7: gli italiani sono razzisti. Dal pdv biologico nel 1938 era troppo tardi che questo progetto avesse avuto successo. Si doveva partire 35000 anni prima, perché a quel punto sono rimasti solo gli africani. Il primo a fare la differenziazione delle razze fu Linneo e nel 1700 ne trovò 4 (come gli elementi). Blumenbach a 5 razze (i più belli siamo noi caucasici). QUINDI nel percorso di disperazione della specie sul pianeta, la separazione tra gruppi determina e produce una distanza dal punto di vista genetico (comunque infinitismale). Perciò alle differenze fenotipiche non corrisponde una differenza sul piano genetico.) Lui fa la differenza fra Scimpanzé e delle loro differenze fra branchi in Africa poiché sono rimasti stanziali in quel luogo; e i tonni che sono uguali fenotipicamente in tutto il mondo perché si muovono. Noi siamo come i tonni. 100.000 anni fa eravamo in Africa, i nostri antenati erano biologicamente diversi, non potevano produrre il cibo, dunque andavano in cibo sottoposti ad ogni rischio.
 70.000 anni fa cosparsi in giro per l’Africa, mutati biologicamente. Alcuni di loro sono arrivati in Palestina intorno a 60.000 anni fa. l’Asia ha più risorse dell’Africa, ed era quasi inabitata. A questo punto, quando ci sono più risorse, vi sono più bambini che avranno ancora bambini e così via. La popolazione dell’Asia conquista la terra, sottoinsiemi della variabilità biologica africana.
 Darwin non propone un catalogo razziale, parla dell’uomo il meno possibile. Siamo tonni, non siamo scimpanzé. QUINDI—>dal momento che le differenze fenotipiche, ovvero fisiche tra gruppi umani, sono il prodotto dell’adattamento all’ambiente, più è la distanza genetica tra due popolazioni, quanto maggiore sarà il tempo che è trascorso dalla separazione tra questi due gruppi (centinaia di migliaia di anni). Quando l’uomo comincia a disperdersi nel pianeta, e a popolarlo, la separazione tra i due gruppi determina e produce una distanza dal punto di vista genetico; una distanza infinitesimale, poiché la specie umana condivide il 99,9% del proprio patrimonio genetico. Attraverso la mappatura del genoma completo dei tre biologi, si è visto che alle differenze fenotipiche non corrisponde una prossimità sul piano genetico. Quando i cattivi scienziati tentavano un catalogo delle razze umane, nel campo della linguistica, ad esempio, si cercava una super lingua da cui tutte le lingue sarebbero discese. Lo studio delle lingue e quello delle razze sono stati messi insieme, assurdamente, da qualcuno, cercando una razza originaria così come la super famiglia linguistica da cui derivano tutte le lingue parlate. Sforzi che non hanno nulla di scientifico, mossi da un intento di tipo ideologico, come il tentativo di classificare e definire la razza dal punto di vista scientifico. Non esiste una definizione scientificamente fondata di razza. Ma i processi di razializzazione esistono ancora. Tuttavia, il concetto di razza è ancora usato per classificare le persone - in America e in Brasile le persone sono ancora classificate a seconda della razza; negli Stati Uniti, partendo dal colore della pelle, in Brasile dalla razza di appartenenza dei propri genitori, a prescindere dal colore della pelle. Inoltre: Come abbiamo visto prima, la parola ‘Etnia’, etimologicamente dal greco etnos, aggregato di individui che hanno determinate caratteristiche, riconosciute come proprie. In questo senso filtra nei testi ebraici, poi nel nuovo testamento, sostanzialmente usato per distinguere i greci dai barbari. I barbari erano coloro che balbettano, che non parlano la lingua dominante. hanno forme di scrittura non hanno una memoria ben salda, sono le ripetizioni, le formule fisse che consente loro di ricordare, pur senza il supporto o l’aiuto di una traccia scritta. Nelle culture fortemente orali alcuni discorsi prevedono che alla parola si accompagni il gesto. In certi casi un gesto ben definito. Michel Jouse parla di culture verbomotorie per mettere in luce come in questi popoli ci sia un ritmo tra il respiro dell’oralità e i gesti. Vige un corpus di gesti che non vogliono facilitare l’espressione orale ma tuttavia questo complesso di norme non dette alle quali tutti i parlati si conformano atteggiando il corpo in un certo modo, o impostato la voce in un certo modo a seconda dei discorsi che un soggetto deve pronunciare. I tropian su cui malinoski nel 1915 condusse ricerche, disse che per loro il linguaggio costituiva un modo dell’azione più che del pensiero. Lui dice che in certe circostanze le potere hanno un potere causativo come se il dire fosse un vero e proprio fare, basti pensare ai racconti, i miti, le morali. alcuni popoli hanno una vera a propria teoria della parola, i dogol del mali studiati da Marcel driot, vedono nella parola una proiezione sonora nello spazio della personalità dell’uomo, come il corpo umano che è costituito da 4 elementi, così anche la parola: acqua che la inumidisce, l’aria che gli consente di trasformarsi in una situazione sonora, il fuoco che gli da calore e la terra che non ho capito perchè ticca l’audio, inoltre vi è il soffio della parola stessa, il kinku,che rappresenta il tono su cui la parola si manifesta e incarna il nesso con la struttura psichica. Il kinku dicono i dognon non esistono di per se ma solo coniugandosi alla voce danno vita ad una serie di combinazioni, es voce alta, voce arrabbiata. Un esempio di quelle che gli antropologici hanno definito le teorie locali della parola. Laddove la scrittura non è presente l‘unico modo per ricordare avvalersi di modi mnemonici che consentano un rapida identificazione per far ricorso a quel proverbio, quel mito ecc. la memoria tende a produrre effetti omeostatici, elimina del tutto ciò che non ci interessa e trasmette solo ciò che ci interessa a riprova del fatto che la cultura è selettiva, non tutto ciò che entra a far parte della dinamica culturale in un determinato momento storico farà parte della cultura per sempre. Un esempio è il caso delle genealogie di alcuni popoli, che vengono modificate in base all’uso politico che se ne fa nel presente, gli antropologi hanno accertato che queste genealogie non rappresentano una memoria del passato ma le giustificazioni per determinati fatti nel presente di cui si avvalgo ad es per avvalersi di un determinato pezzo di terreo, o nella cultura samoana per avere un certo titolo, manipolare le genealogie, omettere la presenza di un certo individuo in un generazione significa privare i suoi successori di quel pezzo di terra ad es. La lotta per il potere politico si gioca anche attraverso questi schemi. I samoani se ne resero conto e istituirono un tribunale apposito per discutere queste contese di genealogie strumentalizzate e modificate. È evidente in tutto ciò che la scolarizzazione e la scrittura hanno avuto un impatto enorme su tutto il piante, la genealogie e le tecniche mnemoniche adottate al fine di trasmettere la memoria affidandole le genealogie piuttosto che fissarle attraverso la scrittura su un supporto durevole ha consentito di manipolare i fatti, le storie, rappresentando uno spazio di agibilità per gli uomini. Gli esseri umani, hanno sempre usato strategicamente la scrittura. Il movimento N’KO è una vera forma di scrittura sviluppatosi a mali nella seconda metà del 900, nel cono d’ombra di un più ampio movimento che rivendica x gli africani la propria cultura in contrapposizione dall’occidente e agli arabi, e l’N’KO si diffonde e il suo guru si è fatto promotore di una vera e propria iniziativa politica che ha per oggetto la scrittura, con lo scopo di distinguersi dagli arabi e gli europei. Adottano un. Nuovo alfabeto, simile a quello latino, con lettere sempre uguali come avviene nella scrittura araba e con vocali scritte come avviene nella scrittura europea e che mancano dell’alfabeto arabo, si legge come l’arabo da destra a sinistra, si colloca quindi tra due forme di scrittura, prendendone distinguendosi le distanze. Nel 2022 questo discorso tra oralità e scrittura non può non prendere considerazione il ruolo dei media. Siamo soliti pensare che i media propongono modelli di comportamenti omologanti. Gli antropologi a partire dagli anni 90 si sono invece concentrati sui media come prodotti di cultura, i media indirizzano i nostri gusti, comportamenti, idee politiche ed estetiche ma questo non vuol dire che essi vengano usufruiti passivamente da noi spettatori, anche se i suoi messaggi penetrano nella cultura di chi li recepisce e produce risposte che non sono sempre prevedibili In un volume pubblicato nel 1996 di Arion Appadurai “modernità in polvere”, Appadurai sottolinea come il ruolo dei media all’interno dei processi di globalizzazione, non sia quello di garantirci una fuga dalla realtà ma anzi stimola l’immaginazione e l’immaginazione è una palestra per l’azione. Ad es oggi un num crescente di persone si sposta da un continente all’altro spinti dal desiderio di una vita migliore, una nuova forma di immaginazione che i media propongono loro e si sono costruiti attraverso i media, luoghi più ricchi, possibilità di lavoro. Appadurai dice che queste proiezioni del mondo e l’immaginazione attivata dai media non è una semplice contemplazione, ma si traduce in azione, mette in moto un percorso di mobilità nel caso specifico. L’immaginazione messa in moto dai media è stata osservata dagli antropologi come il presupposto per un unità di sentimento che travalica gli stati nazionali, e comportano anche una proliferazione delle sfere pubbliche, che oggi possiamo definire diasporiche (diaspore: percorsi di mobilità che portano certe comunità a vivere in luoghi separati e si formano comunità dal pdv numerico molto consistenti, più quasi delle stesse comunità nazionali). Sempre più i media diventano anche canali di ricerca per gli antropologi, tanto che oggi si parla di netnografia, per fare ricerca online ad es a causa del covid. La dimensione dell’esperienza non mediata dalla parola, il significato della parola va a perdersi, a questo proposito ci sono stati esperimenti condotti dallo psicologo Lurjia, negli anni 30 del 900, che partivano dalla considerazione del contesto pratico, dell’esperienza concreta a partire dalla quale si articola il pensiero. Lui era contrario agli psicologi che consideravano l’attività psichica dipendente dall’attività del soggetto e concordava maggiormente con lo psicologo russo Vigoskij che aveva sostenuto che lo sviluppo psichico non fosse un fatto naturale o biologico ma il prodotto della combinazione di processi di natura psichica e sociale. E Lurjia presentò a tre gruppi (preletterati, semi analfabeti e scolarizzati) dei quesiti di logica e geometria contribuendo a sapere come funzionano i processi mentali. Presentava figure geometriche e chiedeva ai soggetti di spiegare di cosa si trattassero: i preletterati nel caso del cerchio rispondevano che era sole luna o un piatto ecc, gli scolarizzati rispondevano correttamente con i concetti astratti assunti della geometri e non facendo riferimento all’esperienza pratica della vita. Poi propose ad altri individue oggetti che sapevano riconoscere e che dovevano suddividere in sotto insiemi sotto uno stesso termine ad es strumenti. I preletterati mettevano oggi insieme che a loro avviso costituivano un contesto pratico, lo stesso successe per i quesiti di tecnica normale e riuscì a tracciare la differenza tra i preletterati e semi alfabetizzati e individui scolarizzati. Anche nei quesiti di logica normale gli scolarizzati rispondevano correttamente al quesito proposto da Lurjia: la logica forma è un prodotto dell’alfabetizzazione. Perché le risp ottenute dai soggetti dimostrarono come la cultura orale non si adatta alle definizioni astratte che possono essere colte solo da un pensiero che ha avuto modo di confrontarsi con forme di scrittura. Un antropologo ha detto che nel momento in cui comparve la scrittura agì come strumento di domesticamento del pensiero, cioè di riflettere su parole e frasi fissate su un testo una volta per tutte. Coloro che hanno interiorizzato la scrittura pensano in modo diverso rispetto alle culture prettamente orali. Perché la scrittura consente un pensiero critico e più ampio, ti mette in contatto con altri mondi ed elaborare nuove proposizioni. Non esistono differenze quantitative e qualitative tra culture, tutti siamo dotati delle stesse strutture cognitive. Al contatto con i popoli primitivi gli europei furono attratti da sistemi di calcolo limitati in termini di unità di calcolo e questo era un esempio di dimostrazione della mentalità primitiva di cui invece non erano affatto manifestazione ma erano dovute da una scarsa conoscenza delle lingue di questi popoli e anche frutto di considerazioni errate da parte degli occidentali ad es noi usiamo una parola x la neve un popolo dell’artico ne ha una 50in a dimostrazione del fatto che le capacità descrittive di queste popolazioni fossero molto elaborate. Nel “Pensiero selvaggio” Francia anni 60 di Claude Levi-Strauss evidenzia come i popoli primitivi non fossero incapaci di capacità riflessive e teoretiche come si pensava, la differenza è che rispetto al pensiero scientifico moderno delle culture occidentali, tali capacità vengono concretizzate nell’esperienza. Tanto che in questo libro Levi-Strauss ha parlato della scienza del concreto, definendo il pensiero selvaggio come una scienza del concreto. Lo stesso VIGOSKIJ, che distingue tra processi cognitivi elementari (che sono capacità universalmente presenti e identiche in tutti, induzione deduzione, astrazione cioè la capacità di considerare un oggetto specifico in un insieme di elementi, la categorizzazione) e i sistemi cognitivi funzionali, che sono i contesti in cui si attuano i processi cognitivi elementari i quali vengono attivati differentemente in base al contesto. Per questo si parla di stili cognitivi: modo in cui i soggetti si rapportano sul piano cognitivo, non condividendo dei codici preliminarmente magari perché provengono da contesti diversi. Gli studiosi hanno fatto distinzione tra stile cognitivo globale caratterizzato da un a disposizione a procedere dal generale al particolare, mentre quello articolato procede al senso inverso, dai singoli elementi alla totalità dell’esperienza, anche in questo caso l’opposizione tra i due stili non va considerata in maniera drastica come è stato fatto identificando l’una o l’altra civiltà in uno stile cognitivo, mentre varia a seconda del contesto nel quale si sviluppa il ragionamento. L’attività schematica consiste di organizzare l’esperienza, ma si parla di un’organizzazione culturalmente orientata. Prototipi e schemi non sono la stessa cosa, gli schemi hanno una cornice di delimitazione, il prototipo si caratterizza per il fatto di produrre aspettative culturali determinate; esempio amore-prototipo, cuore-schema. E noi facciamo uguale procediamo per prototipi e sotto prototipi, schemi e sotto schemi. Tempo e spazio, sono dimensioni dell’esperienza, Kant dice che sono intuizioni a priori, universali, e ha ragione, sono universali, la percezione del tempo e dello spazio è una delle funzioni primarie del nostro cervello senza la quale non potremmo dare forma al pensiero; si tratta però di costruzioni culturali. Durkheim pensava che tempo e spazio fossero istituzioni sociali. All’inizio degli anni 20 Nilsson sostenne che i popoli primitivi avevano una concezione del tempo puntiforme perché i riferimenti temporali non corrispondevano a una porzione all’interno di un flusso omogeneo e quantificabile di ore minuti ecc ma che faceva riferimento a eventi, naturali, sociali oppure a stati ad es: due raccolti fa per dire due esteti fa, un sono fa x dire un giorno fa. E questo ci fa capire come il tempo sia misurabile anche per noi occidentali sia abbastanza recente e strettamente legata all’idea di produttività, infatti anche noi occidentali prima dell’avvento dell’industria e capitalismo 8idea del tempo come denaro) eravamo come quei popoli di cui si parlava prima.avevamo un concezione del tempo non lineare, come nelle società contadine. Il tempo visto come denaro ci fa assumere una linearità del tempo e anche lo rende segmentatile come segmentatile è il lavoro. Anche della concezione dello spazio noi abbiamo un’idea estremamente strutturata di che cosa sia lo spazio, ma la nostra concezione dello spazio non è assolutamente universale. Ad es il tempo cronometrico e lo spazio geometrico sono due modalità specifiche di quantificare lo spazio e il tempo e ci consentono di metterli in relazione, ed è la relazione tra spazio e tempo che da vita all’orologio e permette la strutturazione del tempo cronometrico, calcolata da un movimento dello spazio. Non sempre e non dovunque lo spazio viene rappresentato attraverso l’astrazione geometrica, lo spazio assume valenze qualitative che assumono un significato diverso per gli esseri umani ad es il pellegrinaggio alla mecca significa qualcosa per i musulmani ma non per altri, per molto tempo questo luogo era non raggiungibili dai fedeli per via della distanza e venivano riprodotti ad es dai quadri. I villaggi Zafimaniry, in Madagascar, con villaggi in altitudine perché devono testimoniare come sostiene Bloch, i villaggi che sono luoghi attraverso i quali tale popolo fa riferimento per le proprie storie personali, purché la successione in termini di altitudine dei villaggi è paragonabile alla discendenza generazionale, secondo un modello a discesa che prevede che i più giovani vadano a vivere più in basso. Dall’altitudine loro vedono una successione storica e genealogica che trasforma la casa in un luogo sacro, con valore religioso e affettivo. Da ciò si evince come lo spazio debba essere addomesticato, essere nello spazio significa stare tranquilli all’interno di quello spazio, es campanile di De Martino. Anche la disposizione delle cose e delle persone è cruciale all’interno dello spazio; in alcune culture le divisioni in spazi dediti ai soli uomini o alle sole donne sono molto importanti. Per Bourdieu in uno dei suoi studi pubblicati in “Per una teoria della pratica” studia la casa delle popolazioni Berbere Cabile in Algeria mostrando come alcune parti della casa sono fortemente legate alle persone della casa e come queste parti siano distinte per sesso, maschili e femminili. Ciò accade anche in alcune popolazioni in Amazzonia o Nuova Guinea in cui vengono costruite casa ad es per le ragazza con le mestruazioni perché contaminanti. Anche il potere e la religione imprimono un ordine allo spazio che veicoli dei significati e dei simboli, es Noto una cittadina barocca siciliana, sulla quale c’è una bellissima etnografia di Palumbo che si chiama “l’Unesco e il campanile” la cosa interessante di questa Noto è la postazione delle strutture “intellettuali” e religiose ad es le chiese sono più in alto perché il potere spirituale è più importante del potere temporale quindi le chiese si elevano ad es rispetto ad altre strutture. Pensiero operatorio secondo Piaget mette in relazione tempo e spazio come due variabili dipendenti l’una dall’altra, fatto che sarebbe assente nel pensiero preoperatorio tipo del pensiero infantile. Hallpike invece dice che c’è un pensiero fondato sulla concretezza che non è in grado di riflettere in modo critico su dati di cui non si è fatto esperienza, diversi studiosi hanno sollevato dubbi sull’idea che popoli che non hanno una concezione lineare e misurabile dello spazio e del tempo posseggano un pensiero preoperatorio, ad es i Rindi dell'isola Sumba, Indonesia, gli indicatori temporali qualitativi non sono diversi da quelli degli altri popoli e che non possiedono consumo vistoso diviene in questo senso una pratica distintiva e la borghesia americana è l’unica che per affermare la propria posizione sociale applica queste pratiche distintive, come le camminate delle donne borghesi a Central Park, che avevano il compito di testimoniare al resto della società la ricchezza dei propri mariti. V quindi si rendeva conto che all’origine della proprietà c’era il desiderio di emulare la ricchezza dell’altro; i vestiti, gli abiti, le macchine, le case, la servitù etc. Questi possessi che avevano carattere di frivolezza, nell’emulazione dei comportamenti altrui, era possibile osservare una competizione sociale. Stesso ragionamento che riprenderà Bourdieu in un testo del 1971 “critica sociale del gusto” riprende dalle riflessione di V sui consumi della classe agiata americana alla fine del ‘800, ma prendendo una distinzione opposta da quella di V: non le classi agiate detentrici di gusti legittimi, ma dalle classi sociali che emulano le classi agiate per l’ascesa sociale e che lo fanno attraverso l’appropriazione dei gusti legittimi delle classi agiate, le quali avendo tali gusti legittimi sono esclusi dalla competizioni. Per appannaggio esclusivo della classe borghesi, le pratiche di consumo delle classi non agiate hanno a che fare o la competizione. I gusti secondo B non sono altro che una esteriorizzazione degli abitus, i gusti sono innanzi tutto disgusti secondo lui. Il consumo è l’esteriorizzazione del gusto. B individua inoltre 4/5 forme di capitale slegate dai soldi (Francia degli anni 60): - scolastico/culturale: il primo che usiamo nelle istituzioni scolastiche ecc, il secondo legato all’ambiente familiare nel quale cresciamo avendo occasione di leggere libri, andare al cinema ecc - economico: patrimonio economico del soggetto - sociale: dato dalle relazioni sociali dell’individuo - simbolico: li racchiude tutti: è a base cognitiva, fondato sul riconoscimento da parte di altri gruppi sociali. E la capacità di un gruppo sociale di distinguersi all’interno del campo e comunicando il proprio posizionamento agli altri gruppi. È possibile sulla base di questa distinzione fare un analisi dei gusti, da cui emerge un analisi del campo sociale e di competizione delle diverse classi sociali, perché dice Bourdieu a partire dal gusto, dall’esteriorizzazione di certe pratiche, dalla frequentazioni di certi luoghi, è possibile risalire da quelli che sono i codici attraverso cui qualcuno si posiziona all’interno del campo sociale, ad es il consumo artistico, delle opere d’arte. La classe popolare ad es non ama la fotografia, la considerano inutile, le altre classi sociali invece riconoscono alla fotografia uno statuto estetico (lo riprende anche nella lezione dopo per bene la cosa dei gusti vai a vedere, nella prossima lezione li spiega tutti). Questo discorso riguarda anche l’alimentazione ad es: i gusti alimentari o i gusti musicali riproducono questo stesso distanziamento tra classi che è misurabile a partire proprio dal volume dei capitali. E B arriva a dimostrare come alla distribuzione differenziale dei capitali corrisponderà una dimensione del gusto sociale diverso. Es la classe degli insegnanti: alto capitale culturale, basso capitale economico: essi differiscono quindi dai gusti ad es dei gusti delle classi borghesi che hanno alto capitale culturale e alto capitale economico. Ciò riguarderà anche le scelte di consumo ad es scegliere se comprare un libro o andare a a cena, se andare a teatro o andare al cinema. HABITUS: definito da B come quell’insieme di strutture apprese, interiorizzate e incorporate che ci consentono di agire in maniera competente nel mondo. L’habitus è un sistema di disposizioni a partire dal quale agiamo nel mondo e che ci distingue. E quindi l’abitus di classe è quello che consente alle differenti classi sociali di agire nel quadro di una serie di schemi fisici, culturali, che sono stati culturalmente acquisiti, e questa è la ragione per la quale si mostra come l’attitudine naturale di comportamenti naturali, cioè si dimostra naturalizzato qualcosa che è una costruzione storica sociale e culturale. Nel campo dell’antropologia italiana, nata a partire da due correnti principali, una interessata alla sfera della religione (nella quale si radicano le idee di Ernesto de Martino grandissimo etnografo Napoletano, che era interessato a fenomeni come il mondo magico nel sud, e allo studio del tarantismo in Lucania) ma anche in un interesse per la cultura popolare ovvero usi, costumi, cultura materiale del mondo contadino, che era rimasto escluso dalla modernizzazione, gli studi di Folklore termine coniato da Thoms nel 1849 e che sta ad indicare le “popoular antichitis” (proverbi, racconti e superstizioni del passato e delle classi popolari). Gli interessi per questi aspetti erano già nati in Epoca Romantica, che avevano interesse per lo sviluppo del soggetto, interesse che viene ripreso anche dai Nazionalismi (Nazismo e Fascismo) per la definizione del cittadino della Nazione. Folklore è un termine ambiguo che porta inscritta questa pesante genealogia e che sembrerebbe quasi voler stabilire una linea di continuità tra selvaggi oltre l’oceano che erano interesse degli antropologi e i ceti sociali subaltrerni e le comunità contadine. Gli interessi antropologici per queste forme culturali avevano ragioni estetiche, intellettuali e politiche. Il catalogo di Giuseppe Pitrè entra in quest’ottica e anche l’ottica di salvaguardia di aspetti della cultura che rischiano di andare perduti a fronte della modernizzazione. Nella seconda metà dell’800 con il positivismo l’interesse si sposta da quelle che erano state le tensioni romantiche verso il popolare che si radicavano in una ragione di tipo estetico, con il positivismo ha uno sguardo classificatorio e scientifico. Essi s'interessano, alla cultura materiale, proverbi, arte popolare ecc che vengono raccolti, analizzati e trattati divenendo l’interesse di eruditi locali che stabilivano comparazioni tra oggetti provenienti da contesti diversi per scoprirne l’origine e documentarli, spiegarne le varianti. È con quest’ottica che il positivismo guarda alla cultura popolare nelle forme di espressione non solo orale ma adottando il concetto esteso di cultura proprio dell’antropologia: rituali, superstizioni, riti, cerimonie, pratiche, credenze, i giochi dei bambini, le pratiche degli artigiani ecc. Nel corso del 700 gli studi di folklore si distaccano all’antropologia e dall’etnologia europea e extraeuropea es libro “Oltre il folklore” di Clemente Mugnaini, Carocci, 2000. Nella prima metà del 900 in campo Europeo troviamo studiosi come Van Gennep che si concentra sui riti di passaggio o le analisi morfologiche delle fiabe di Vladimir Propp, in Italia invece operano studiosi come Loria che si fa promotore nel 1911 della prima mostra di etnografia che si svolge a Roma. Tra le due guerre, dal pdv della storia degli studi, è evidente l’influenza ideologica del regime fascista che faceva ampio ricorso al Folklore e alla dimensione del popolare proprio nell’ottica di creare una cultura di massa che fosse impiantata su quelli che erano i tratti dominanti del regista: basti pensare all’importanza che avevano per il regime le feste o le manifestazioni folkloristiche, spesso anche tradizioni inventate imposte dall’altro proprio nell’ottica di questa tensione dell’immaginario popolareggiante come sottolinea Fabio Dei in diversi suoi lavori, come il caso delle feste della mietitura o le battaglie del grano. Dopo la pubblicazione dei quaderni del carcere di Antonio Gramsci, nel secondo dopo guerra, c’è un cambio di rotta del folklore, in quanto Gramsci nel quaderno 27 lo definisce come “la filosofia del popolo”, una concezione del mondo e della vita che è implicita in certi strati sociali e che è in contrapposizione alle rappresentazioni ufficiali del mondo proprie dell’egemonia, quindi nell’ottica gramsciana il folklore diventa una pratica propria e di semiribellione e indipendenza di tali classi sociali. Sempre nel quaderno 27 definisce il folklore come una serie di frammenti di pratiche che si sono succedute nella storia, un insieme disorganico di sopravvivenze che è però in grado di esprimere una concezione del mondo all’interno della quale entrano in gioco anche elementi creativi e progressisti. L’idea della filosofia del popolo è in netta continuità con la lotta all’egemonia nella quale le classi popolari sono impegnate di cui si fa promotore il partito comunista. Con Gramsci il folklore diventa espressione della coscienza delle classi popolari ed è in quest’ottica che Gramsci viene ripreso da tre studiosi che hanno un influenza determinante nell’antropologia Italia: De Martino, Bosio e Cirese. De Martino a partire dell’interesse per la religione e la magia popolari che hanno la funzione di mantenere gli esseri umani radicati nel mondo, la cultura nell’ottica De Martiniana è un sistema a partire dal quale è possibile far fronte a quella che è la minaccia costante a cui sono esposti gli esseri umani cioè “la crisi della presenza”. Questo processo di radicamento degli esseri umani nel mondo avviene per De Martino grazie alla destoricizzazione, tale per cui i riti e i miti fanno sentire gli esseri umani al sicuro. Altro padre fondatore degli studi Demologici in Italia (DEA: demo-etno-antropologia) è Cirese. La sua ottica è quella della documentazione del folklore come documentazione sulle condizioni di vita delle classi subalterne. Si basa sulla dicotomia gramsciana tra egemonia e subalternità. E l’ottica con cui guarda alla cultura popolare è l’interesse per il legame di solidarietà con il popolo in quanto distinto dall’élite. Cosa succede però quando tali culture vengono influenzate dalla cultura di massa? Perdono il legame fondamentale per i romantici con le antichities e i confini della cultura di massa sembrerebbero andare esattamente nella direzione opposta rispetto ai tratti caratteristici del popolare, e tuttavia l’antropologia mette in luce esattamente il contrario: per es la produzione culturale contemporanea vede nella cultura di massa da un lato un oggetto della critica politica propria di quelle forme distintive a cui aveva fatti riferimento Bourdieu e dall’altro studiosi della scuola Francofortese come Adorno credono che il consumismo sia un anestetizzazione delle coscienze ed è proprio dopo questa visione che si sviluppa un interesse antropologico da un lato per le pratiche del quotidiano da un lato per le pratiche di consumo all’interno delle società contemporanee. I beni vengono prodotti dall’industria e distribuiti per essere consumati, sia quelli tangibili che anche i beni intangibili come ad es la cultura di massa, veicolati dai mezzi della comunicazione o dalla riproduzione tecnica delle arti espressive. Quindi il riconoscimento delle differenze culturali passa oggi attraverso queste pratiche di consumo di massa. Da qui l’esigenza di affrontare la produzione culturale da una prospettiva diversa, come fa la Scuola di Francoforte. Ma anche i titoli dei libri di questi autori es Marcuse “l’uomo ha una dimensione”: l’ottica è quella di un soggetto che è completamente assoggettato al consumo. L’ottica stessa di Bauman: consumo dunque sono è ormai lontana dall’antropologia. L’antropologia si distacca da questo tipo di analisi non perché non critica il consumismo ma perché cerca di capirne le dinamiche. L’antropologia cerca di capire più che il perché, il come, di tutto ciò viene. Come gli oggetti della cultura consumistica influiscono sulle relazioni o sui soggetti. Eg è la stessa ottica del dono di cui si parlava all’inizio della lezione. L’ottica dei cittadini contemporanei che subiscono le influenze del mercato per l’antropologia ha poco senso. Non c’è distinzione tra cultura di massa e cultura normale. Contributo importante è quello di Mary Douglas la quale si dedica all’osservazione studio e analisi di purezza e impurità, uno sei suoi saggi più famosi è infatti “Purezza e pericolo”. Scrive anche “il mondo delle cose” insieme alla Isherwood, dove prendono in esame il rapporto con gli oggetti: esse si oppongono alla visione che si oppone alle pratiche di consumo utilitarie volte al soddisfacimento dei bisogni come forme di edonismo, ma si oppone anche alla visione che vede nel consumo una pratica irrazionale dalla quale i soggetti sono schiacciati dagli elementi persuasivi dei media. Per lei il consumo è un aspetto razionale della vita umana. Esso è un sistema culturale, un campo a partire dal quale possiamo osservare il modo in cui il mondo diventa per noi comprensibile e intellegibile. Per Douglas il consumo è il campo su cui viene combattuta la battaglia per definire e dare forma alla cultura. Quindi rispetto all’ottica ad es di Bourdier loro non considerano i beni come necessari alla competizione, ma sono necessari per rendere visibili la cultura stessa in un certo senso. Nel consumo c’è sempre una componete di tipo rituale ovvero convenzioni che forniscono definizioni collettive che attraverso il rito diventano visibili, evitando la contraddizione dei significati. C’è un consumo per loro è un processo rituale volto a dare un senso al flusso degli eventi. C’è un principio strutturalista sotto la sua idea, tale per cui il senso sta nelle relazioni tra oggetti diversi. Ciascun bene è portatore di significato ma nessun bene ha un significato autonomo perché il significato sta nelle relazioni. Ciò ci consente di vedere come, a partire da questa prospettiva sul consumo culturale, la riflessione sugli oggetti assume dei tratti autonomi nella riflessione antropologica. Daniel Miller nell’ ”Antropologia del consumo”, studia oggetti estremamente diversi tra loro, da telefonini a oggetti domestici a i jeans: uno sguardo sulle pratiche di consumo e sugli oggetti che attraversa terreni e materiali estremamente diversificati. Miller è un antropologo britannico che ne corso della sua carriera ha toccato oggetti diversi, tutti oggetti che però sono accumunati dal fatto di poter essere consumati nel quadro della cultura di massa. La sua prospettiva studia questi oggetti dal pdv etnografico, infatti secondo lui l’antropologia deve studiare le pratiche minute degli uomini, che spesso sono manifestazione delle relazioni. Miller resta legato ad un idea che era già stata proposta nella riflessione sul dono Tutti i beni sono portatori di un significato, significano qualcoda per chi li usa, ma nessun bene ha un significato autonomo. Il significato sta nelle relazioni (il significato delle musica sta nella relazione tra i suoni e non da un singolo suono). A questo si lega il concetto del gusto del soggetto, una prospettiva simile a quella di Bourdieau il quale definisce il consumo come un esteriorizzazione del gusto, che per B sono innanzitutto disgusti (noi siamo quel che ci piace perché ciò distacchiamo da ciò che non ci piace). Nella ricerca del 1979, ‘La distinzione’ sempre di B, si concentra sulle differenze socioculturali e differenze di classe. Il fine era capire le modalità di circolazione dei beni nella società di massa in Francia degli anni 60-70 in cui le differenze di classe erano molto evidenti. Essi riproducono i modi in cui le classi sociali utilizzano le merci come strumenti nelle loro strategie di posizionamento all’interno della società. La base delle sue riflessioni è caratterizzata dall’idea per cui i gusti si costruiscono per opposizione all’interno delle classi sociali e sono lo specchio della società. La base empirica della Distinzione è un’imponente ricerca condotta negli anni 60 a partire dall’analisi di tantissimi dati qualitativi e quantitativi. L’equipe somministra oltre 2mila questionari, analizzai i dati prodotti statisticamente e economicamente, fa interviste, interrogando i cittadini appartenenti al ceto borghese e ai ceti medi francesi sui loro consumi di vario tipo (alimentari, frequentazione di luoghi culturali, mobilia ecc..). Riprendendo l’idea che era stata già proposta da Veblen sul Consumo Vistoso come una pratica propria delle classi aristocratiche, B sostiene che il consumo orientato dai gusti rappresenti la posta in gioco nella competizione fra individui che appartengono ad una stessa società. Il gusto è naturalizzato nella società e quindi è culturalmente costruito, ma vissuto come qualcosa di ovvio, su di essi non si discute. Così introduce il concetto di CAPITALE, distinguendo diverse forme: non è solo quello economico quindi l’ammontare di beni che costituisce il patrimonio di un determinato gruppo, famiglia, sub- cultura. I capitali per B vengono acquisitivi e si manifestano nel campo sociale e attraverso essi noi apprendiamo a stare nel mondo. 4 forme diverse (che sappiamo già). C’è un surplus che è rappresentato dal capitale culturale appreso all’interno della famiglia e quindi legato all’origine sociale dell’individuo. Il gusto legittimo è quello delle classi dominanti e non ha bisogno di essere definito, la fa da solo e non entra nella competizione per acquisire una posizione sociale (per Veblen era il contrario). Il capitale economico non è nulla senza il capitale culturale (Bourdieu fa la differenza fra i nuovi ricchi , cioè borghesia e nuovi industriali, che non sono assimilabili, in questo capo fa la differenza il capitale economico/oppure i professori hanno basso cap.economico e alto cap.culturale). “Gli industriali possiedono i mezzi, ma non i gusti”. Ci sono tre tipi di gusti per Bourdieau: -Legittimo: gusto delle classi alte, naturalizzato, proprio delle classi dominanti (ad esempio la moda funziona in questo modo: l’imposizione di un certo stile al quale tutti tendono e per un periodo di tempo definisce il gusto); è prerogativa di chi dispone di mezzi e strumenti. -Medio: sono per B il risultato dell’apprezzamento per ciò che a partire da un certo capitale sociale e culturale è possibile raggiungere (esempio calzante è il ‘piacere’, del consumo del piano culturale delle pere minori degli artisti maggiori e delle opere maggiori degli artisti minori che non coincide con le classi dominanti. -Popolare: gusto dei ceti sociali più bassi che si caratterizza per il fatto che il godimento estetico è legato non tanto alla forma, ma alla funzione. Da questo punto di vista nella formazione die gusto il capitale economico può essere del tutto ininfluente, o invece può giocare un ruolo determinante. Il volume del capitale scolastico ci indica come non sia tanto la cultura ad avere un peso specifico, ma il riconoscimento sociale dato dal possesso di un certo titolo di nobiltà culturale. (i titoli scolastici definiscono un’identità di sociale, ma non è sufficiente a posizionare e riconoscere una posizione sociale del soggetto perché ciò che la legittima è la possibilità di esteriorizzare legittimamente i propri gusti, quindi il capitale culturale gioca un ruolo determinante per il riconoscimento)—> a parità di due ragazzi che hanno fatto il liceo classico (la stessa nobiltà culturale), ma diversa classe sociale, e quindi esposti diversamente alla cultura, saranno diversamente riconosciuti dalla società all’interno della quale agiscono. Per spiegare questa differenza tra capitale culturale e scolastico B fa riferimento alla figura dell’autodidatta, che per quanto possa essere esperto di una determinata materia non possiede il titolo che lo legittima in quanto tale. Esso torna a più riprese su questa figura, e ci fa comprendere bene quale sia il peso del capitale sociale che gioca nella definizione dei gusti legittimi. Voleva leggere i passaggi su questo, ma non li ritrova. Il capotale sociale si riferisce alla rete di relazioni grazie alla quale un soggetto ha la possibilità di condividere con le persone che lo circondano le proprie competenze e gusti. La differenza tra autodidatta e chi detiene un alto capitale scolastico e culturale è la possibilità di avere accesso a molte possibilità di condividere le proprie conoscenze. I capitali lavorano per far si che gli attori sociali acquisiscono competenze necessarie per operare nei processi di distinzione sociale, per posizionarsi all’interno del campo sociale distinguendosi dagli altri. Quel che a lui interessa è elaborare un teoria generale del consumo che è contemporaneamente una teoria sociale dell’estetica. E’ interessato per es. a come le nostre percezioni del tempo e dello spazio, o della capacità di azione siano condizionate socialmente. Allo stesso modo sono socialmente condizionai anche i nostri gusti (bello-brutto/volgare-elegante). Tali giudizi sono la base con la quale i gruppi sociali costruiscono e rappresentano la loro differenziazione. QUINDI Le scelte di consumo e i gusti non dipendono solo dalla dimensione economica, come lo erano per le precedenti critiche del consumo (che si muovevano lungo gli stremii dell’utilitarismo e della pratica completamente irrazionale/dissipativa). L’intreccio delle diverse forme di capitale ci consente di distinguere tra i gusti dell’alta borghesia (alto capitale culturale, scolatisco, economico) oppure delle classi popolari (basso culturale, scolastico e economico e sociale), o le classi della media borghesia tipo studenti e insegnanti (basso economico, alto scolastico e culturale, alto sociale). All’interno della società francese degli anni 60, già definibile come una società dei consumi, i gusti di distribuiscono a partire da questa partizione che B rappresenta dal punto di vista grafico attraverso una serie di sociogrammi, in cui gli assi definiscono i capitali e all’interno vengono distribuiti i gusti collocandovi beni specifici: cibo, cinema, museo, teatro e via dicendo. Si presentano come delle mappe dei sistemi di differenze che sono ancorate sul piano sociale. Questo non significa che si consumi per la volontà di mettersi in mostra (come era per Il consumo vistoso di Veblen). La sua riflessione è più complessa e strutturata. I gusti non sono soltanto scelte consapevoli per confermare uno status, ma sono profondamente incorporate dei soggetti quasi come una seconda natura, e questo avviene secondo un meccanismo di interiorizzazione ed esteriorizzazione, cioè l’HABITUS (ereditato dalla tradizione sociologia francese che a sua volta lo aveva preso dalla tradizione filosofica medievale). Sono schemi di classificazione che funzionano ancora prima di venire coscienti (un erto modo di camminare, di sedersi, comportarsi mentre si parla) e che veicolano quelli che sono i valori di valutazione di un certo ceto. Esso non è scelto dal soggetto, ma costruisce il soggetto. Esso parla di schemi incorporati che si sono costituiti nel corso della storia e a cui il soggetto accede nella propria esperienza individuale. La scelta implica un sistema id valori che si distingue negativamente da ciò che sta più in basso definendo i ceti sociali più bassi come di ‘cattivo gusto'. La contrapposizione tra i gusti di lusso (appannaggio delle classi agiate) e del necessario (popolare) si precisa in tutte le differenti maniere per distinguersi dalla classe operaia, quindi per tenere a distanza la ‘necessità’. C’è l’alimentazione, la cultura e le spese di rappresentanza. ESEMPIO: i professori hanno spese alimentari basse, inferiori a quelle degli operaie, rappresentanza contenute e culturali relativamente elevate/ i liberi professionisti uguale ai professori, ma con spesa più alta, ma di rappresentanza più alta tipo la salute e quelle culturali basse. Nei consumi alimentari i commercianti si differenziano dai liberi professionisti comprano più carne in scatola, i professori quasi uguale, ma hanno spese maggiori per il pane, latticini, marmellate, ma minore ai vini e agli alcolici, i liberi professionisti acquistano molti prodotti cari in carne, vitello, pesci e aperitivi. Classi dominanti prodotti leggeri, raffinati, snelli, vedono negli acquisti delle classi operaie prodotti grassi, rudi, grossolani. Diversa rappresentazione del corpo bello, quali sono le categorie che si usano per valutare l’effetto estetico di certe pratiche. Lo stesso discorso si potrebbe fare per i consumi culturali: l’opera e la musica da un lato e il rap e la trap sull’altro estremo. Entrambi mostrano disgusto per l’altra bollandola come poco godibile. Tali scelte sono culturalmente costudite, ma sono naturalizzate, ci appaiono come le uniche possibili e diventano naturali. Uno degli aspetti più interessati dell’analisi di Bourdieau è il carattere riflessivo. Gli HABITUS, cioè quest’insieme di disposizioni consente di includere all’interno degli oggetti d’analisi anche le forme di conoscenza che i soggetti sociali producono. L’idea è quella di una non separazione tra oggetto e soggetto, sulla quale rifletteva anche in opere precedenti. La loro distinzione è fortemente costruita sulla filosofia occidentale, sul binarismo cartesiano mente corpo (noi/loro, io, l’altro—>proprie dello strutturalismo); mentre B dice che c’è una mutua costruzione. Quindi l’antropologo deve rifiutare tale separazione e oggettivare le condizioni che producono il soggetto come soggetto oggettivante. Soggetto conoscente e oggetto della conoscenza (senza specificare chi produce la conoscenza) e siccome la separazione è del tutto occidentale, per lui è necessario oggettivare il soggetto per poterlo studiare (ad esempio studiare i femminielli napoletani—>si oggettivizza un soggetto A PARTIRE DALLE CONDIZIONI CHE LO RENDONO UN SOGGETTO OGGETTIVIZZANTE). Quali sono le condizioni che fanno si che si scelga quel soggetto e renderlo un oggetto di ricerca? Si tratta di capire quali sono le condizioni sociali, culturali, economiche che il ricercatore decide di studiare rendendo così un soggetto—>qualcosa da studiare (un oggetto). Quindi—>Soggetto che produce una conoscenza tramite un’oggettivizzazione. Perciò non c’è più una separazione tra io e l’altro, il soggetto e l’oggetto e così via, quella divisione binaria tipica della antropologia fino a quel momento. HO CERCATO DI FARE DEL MIO MEGLIO TI GIURO, PERDONAMI SE NON SI CAPISCE QUEST’ULTIMA PARTE. Lezione 8 Questioni affrontate dall’antropologia dell’arte.
 Nel momento in cui abbiamo introdotto il concetto di cultura, abbiamo appurato come una delle sue caratteristiche sia di essere creativa. Le forme della creatività culturale erano già presenti nella definizione di Edward Barnett Taylor - arte, morale, leggi, e tutto ciò che gli uomini apprendono in quanto membri di una determinata società. Approccio alle forme della creatività culturale nel loro insieme. La creatività culturale non è intesa solo come espressione artistica, estetica, ma anche come capacità di produrre innovazione, novità, attraverso la manipolazione delle pratiche culturali esistenti in una certa società. La creatività culturale così considerata è universale, è presente in tutte le società e culture, in campi molto differenti tra loro - tecnologia, scienza, dimensione rituale, festiva. La prima cosa che è necessario considerare è che la creatività culturale dipende dal linguaggio, ovvero dalla capacità di produrre sequenze comunicative che in parte sono prevedibili, seppur frutto dell’inedita combinazione di elementi. Questa capacità coincide con quella di produrre nuovi significati, partendo da quelli che sono i modelli culturali di cui disponiamo. Da questo punto di vista, anche l’espressione festiva delle società, così come il gioco e le attività ludiche, rientrano all’interno di una riflessione sulle forme di creatività culturale. La maggior parte delle feste mette in moto una serie di comportamenti sociali - noi non festeggiamo da soli - il cui ipotizzato che quei luoghi, e quelle pitture, fossero legati a funzioni o momenti rituali - ad esempio, la cattura di animali o l’eliminazione di altri animali come tigri e leoni. O ancora, la celebrazione di culti in onore di qualche divinità, di un animale particolarmente importante per quei gruppi di umani. Oppure, che si celebrassero in quegli spazi dei rituali a fini iniziatici, per cui agli iniziandi venivano rivelati i misteri, come accade per alcune popolazioni aborigene australiane. Alla luce di queste considerazioni, ci si è chiesti se fosse possibile considerare queste espressioni come estetiche: risposta senza dubbio affermativa. Curve e linee sono state qui tracciate dalla volontà di produrre una reazione estetica, e questa è la grandezza di queste pitture. La pratica artistica dei nostri antenati comportava anche capacità plastiche, in quanto produssero statuine, strumenti in pietra o in osso, che rivelano un grande senso del realismo ed estetico. Se per noi le pitture parietali risultano più spettacolari è perché noi assegnamo alla pittura un valore maggiore rispetto al materiale: ciò non vale per tutte le culture. Né tutte le culture sviluppano nello stesso modo quelle che noi definiamo arti. Le loro forme di espressione estetica possono concentrarsi su una certa forma di espressione e ignorarne altre, come accade per l’arte africana; per quanto sia estremamente difficile delineare cosa sia l’arte africana, e con questa etichetta si sono volute categorizzare in maniera eurocentrica e riduttiva, semplificative. Noi guardiamo l’arte con i nostri valori, secondo la nostra cultura - anche tutte le altre società, ma siamo noi ad aver riempito i nostri musei antropologici e etnologici, che nel diciannovesimo secolo si sono moltiplicati, di oggetti di società soggette al dominio coloniale, opere che arricchivano i salotti della borghesia europea, così come le gallerie d’arte - basti pensare al potere coloniale della Francia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino a seconda metà del Novecento. Ancora oggi, è un tema molto sentito quello della restituzione. Oggetti non con un semplice valore estetico, ma anche sociale. Tutt’oggi, Francia e Stati Uniti posseggono amministrativamente domini d’oltremare - ad esempio la Nuova Caledonia della Francia, dove vi è un acceso dibattito per quanto riguarda la repatracion. Questi oggetti continuano ad essere esposti nei nostri musei, come nel Pigorini di Roma fondato dall’antropologo italiano Loria, che riporta una grande quantità di oggetti da suoi viaggi; oggetti esposti ricalcando, in linea con le teorie del tempo - principi dell’evoluzionismo ottocentesco - venivano spesso raggruppati in categorie rigide, omogenee, esposte secondo criteri nostri, in ordine spesso di complessità - ad es. dalla clava alle balestre. Da un certo momento in poi, si raggruppano gli oggetti per aree culturali, per avvalorare i principi del diffusionismo, secondo l’idea che gli oggetti fossero tratti tipici delle culture del pianeta. In alcune occasioni, questi oggetti si spostavano e ancora oggi si spostano in contesti differenti - ad esempio mostra a Londra sull’Oceania nel 2019.
 In certi musei, ad esempio, si privilegia il criterio documentaristico, in altri quello estetico, oppure si inglobano gli oggetti esposti nel campo dell’arte. È possibile rintracciare ragioni storiche nella tendenza dell’inglobamento delle forme espressive delle altre società del pianeta, delle altre culture, e delle culture del passato all’interno del campo dell’arte. Ad esempio, tra fine Ottocento e primi Novecento la pittura e le scultura europea sviluppano le avanguardie, che prestano particolare attenzione alle forme espressive e agli oggetti provenienti da Africa, Oceania, Americhe; l’attenzione per questi manufatti aveva ragioni complesse, ad esempio l’idea che il recupero di queste forme d’arte fosse una risposta al bisogno che era sentito dagli artisti di opporsi alla frantumazione sociale imposta nella quotidianità, prodotta dalla modernità industriale, recuperando quei modelli armonici che venivano sottratti al flusso della modernità - ad esempio la corrente primitivista, di cui Gauguin fu il maggior esponente. Volontà di una produzione grafica che potesse superare la politica, la storia stessa, e l’idea che le forme d’espressione estetica provenienti dalle culture altre fossero espressione di un’estetica originaria, libere dalle costrizioni del tempo presente, come un prototipo artistico allo stato puro. Questa non è, ovviamente, l’unica ragione, poiché un ruolo decisivo è stato giocato dal mercato dell’arte, che tra fine Ottocento e inizio Novecento si interessa a questi oggetti selvaggi, che spesso costavano pochissimo, raggiungendo però in pochi anni prezzi ben più elevati, poiché l’arte tribale e etnica iniziò ad avere un proprio mercato, il cui sviluppo rappresenta appunto il secondo motivo dell’inglobamento di questi oggetti nel campo dell’arte. Si sviluppa parallelamente un mercato privato, che comincia ad affermarsi attraverso proprie mostre e riviste specializzate; questi pezzi vengono considerati artistici perché circolano in un mercato dell’arte, hanno un valore, e dunque entrano in gioco questioni relative, ad esempio, alla rarità, che concorrono nello stabilire se si possa o meno parlare di un’opera d’arte, secondo questioni che stimolano ragionamenti che hanno a che fare con l’antropologia. Qual è il ruolo che l’antropologia e la museografia assumono nella strutturazione di una certa mostra? Dalla cooperazione tra il mondo dell’arte e dell’antropologia emergono riflessioni che, di volta in volta, chiamano in causa numerose competenze. Gli studi di patrimonializzazione L’origine dell’idea di patrimonio risale all’Ottocento, in Inghilterra, in cui il Cultural Heritage era il complesso dell’eredità culturale - intesa come l’insieme dei monumenti, delle opere, dei paesaggi, ecc - a cui gli inglesi del tempo erano legati, in cui si riconoscevano in un momento di profonde mutazioni. Il significato antropologico di patrimonio culturale è differente: tutto ciò che appartiene alla cultura materiale, artistica, culturale e storica, a cui un certo gruppo sociale guarda rispetto alla propria identità, al proprio passato e storia. L’idea di patrimonio è al centro di una serie di dibattiti, ed ha monopolizzato i vecchi studi di demologia e di cultura materiale, poiché oggetto dell’intervento dei governi - accesso a fondi, finanziamenti, restauro, per beni materiali e immateriali iscritti nel Word Heritage List dell’UNESCO. Dalla seconda metà del Novecento vi è stata una corsa alla patrimonializzazione. Dunque gli antropologi italiani si sono dedicati a studiare le forme, le pratiche di costruzione del patrimonio culturale, la loro spendibilità nei diversi universi sociali, locali, globali, economici e morali. In Italia, Palumbo ha affrontato in modo critico questi temi, intrecciando le politiche del patrimonio e una riflessione sui poteri locali, oltre all’UNESCO e il campanile e Politiche dell’inquietudine, Palumbo ha scritto anche un testo in cui analizza le pratiche rituali nel corso delle feste rituali all’intreccio tra politiche del festivo e la convivenza con le organizzazioni mafiose dei celebranti - Piegare i santi.
 Importante introduzione alla seconda edizione de L’UNESCO e il Campanile. Vi è una fetta patrimoniale per ciascun sapere, e per quanto riguarda l’antropologia, c’è una fetta di lavoro di patrimonializzazione per mansioni specifiche - protezione, conservazione, esposizione, ecc. Il presupposto comune a tutti gli approcci interni è un'attitudine realista. I beni sono cose del mondo, depositatesi in esso in maniera disomogenea - in Italia un tot di patrimonio, Giappone un altro, ecc. Palumbo afferma come la prospettiva interna sia una prospettiva asservita al potere. Le gerarchie disciplinari stanno sotto al discorso istituzionale sul patrimonio.
 Chi adotta un approccio critico al patrimonio, non da per scontato che il patrimonio sia esattamente ciò che le istituzioni e le stesse comunità patrimoniali - portatori di interesse in un mercato globale del patrimonio che si sviluppa a livello locale, nazionale e transnazionale. Bisogna prestare attenzione sia alla concezione di quello specifico gruppo sociale, alla sua identità - cosa significa appartenere a quel gruppo -, all’idea di storia di cui quel patrimonio è portatore, alle teorie dell’agency - alla capacità del patrimonio stesso di costruire la località che patrimonializza. I processi di patrimonializzazione, afferma Kirshenblatt-Gimblett, si definiscono per il fatto che valorizzano prodotti locali, trasformandoli in produttori di località, e dunque costruiscono una certa identità e un certo gruppo sociale. Patrimonializzazione e governance neoliberista - Bernardino Palumbo Un’antropologia critica del patrimonio culturale
 Nell’ultimo decennio gli studi antropologici sul patrimonio culturale e sui processi sociali, economici e culturali ad esso connessi hanno visto una crescita esponenziale. Senza entrare nel merito di un scenario di tali studi, è possibile qui individuare tre sue diverse articolazioni che, per pura comodità espositiva, possiamo chiamare organica, partecipativa e critica. La prospettiva organica tende a far proprie le retoriche e, con queste, le partizioni e le gerarchie disciplinari, la geografia politica, l’immaginazione storiografica e le più generali politiche del segno che soggiacciono al discorso istituzionale sul patrimonio. Una simile prospettiva, egemonica nel senso comune, immagina un campo di studi e di azione sul patrimonio culturale sezionato sulla base di dati” del mondo reale, cui corrispondono specifiche competenze tecnico-disciplinari: i “beni storico-artistici”, studiati e conservati dagli storici dell’arte, i “beni archeologici”, dei quali si occupano gli archeologi, “i beni architettonici e urbanistici”, appannaggio degli architetti, quelli “librari” con i loro esperti e infine i “beni demo-etno-antropologici”, affidati appunto agli antropologi. Per chi assume questo punto divista, quello patrimoniale è un mondo fatto di “cose culturali” da proteggere, conservare e studiare: pale d’altare, chiese barocche, tombe etrusche, messali cinquecenteschi e aratri contadini (insieme ai contesti storici nei quali sono inseriti) sono tutti oggetti-beni dotati di valore patrimoniale. Un simile immaginario si accompagna ad un sistema di rappresentazioni che fa dei beni culturali degli indici, retoricamente attivi, di specifiche identità collettive: il “nostro patrimonio culturale”, “L’Italia possiede l’ x % del patrimonio culturale mondiale”, sono espressioni che sostanziano il discorso patrimoniale, affermazioni di senso comune, appunto, che tendono a presentarsi come verità di fatto. In aperto contrasto con l’immaginario “organico”, la prospettiva “critica”, si propone come obiettivo conoscitivo lo studio dei processi di classificazione e costruzione del patrimonio culturale (processi di “patrimonializzazione”) all’interno di una più generale antropologia (politica) della contemporaneità. Per gli studiosi che adottano una simile postura, tutto ciò che dal punto di vista “organico” veniva dato per garantito diviene invece oggetto di indagine. Le “cose” patrimoniali, i diversi “beni” che nel senso comune patrimoniale costituiscono il focus quasi esclusivo dell’analisi, sono visti in primo luogo, anche se non esclusivamente, come dei prodotti storico-politico-intellettuali di specifiche e complesse pratiche e politiche di patrimonializzazione messe in atto da concrete agenzie istituzionali. I beni culturali, da un simile punto di vista, sono delle “oggettivazioni”, ossia delle costruzioni politiche interne ad un preciso sistema di classificazioni. Compito primario (anche se non esclusivo) di un’antropologia critico-politica del patrimonio non è dunque l’analisi disciplinata dei particolari “beni” che le vengono assegnati all’interno delle partizioni di un simile sistema tassonomico. Piuttosto la sua agenda prevede, da un lato, un’analisi critica e genealogica dello stesso sistema tassonomico, con i suoi presupposti ideologici, le sue assunzioni culturalmente modulate e le sue implicazioni di potere; dall’altro un’indisciplinata e intrusiva lettura etnografica dei processi di costruzione delle “cose patrimoniali”, dei modi in cui esse operano negli scenari politico- intellettuali della contemporaneità, degli effetti che simili processi producono nelle e sulle diverse scene sociali che ad essa danno forma. I soggetti di una simile attenzione etnografica, insieme ai “beni” e ai processi che li producono, sono dunque i molteplici actants, individuali e collettivi, singolari e istituzionali che agiscono nelle diverse scene patrimoniali (da quelle micro-locali a quelle transnazionali): giornalisti, tecnici, Sovrintendenti, burocrati, storici dell’arte e storici, accademici ed eruditi locali, architetti e urbanisti, politici ed esperti di agenzie come l’UNESCO, insieme, ovviamente ad antropologi, sociologi, e alla cosiddetta “gente comune”. La prospettiva engaged , infine, più che una specifica strategia conoscitiva sembra essere una postura intellettuale capace di muoversi tra abitudini “organiche” e propensioni “critiche”. Gli studiosi che assumono un’attitudine “partecipativa” rispetto al campo del patrimonio (fatto di “cose” culturali e di processi di “cosificazione”) sono di solito consapevoli (e dunque potenzialmente, anche se non necessariamente critici) del carattere “politico” della propria partecipazione, cosa che un’attitudine incorporata e “organica” ha difficoltà a riconoscere. La scelta partecipativa comporta quindi, da un lato, la necessità di operare con e attraverso le “cose” del campo patrimoniale, dall’altro l’obbligo di oggettivare i processi di produzione/costruzione di tali “beni”, il proprio coinvolgimento in tali processi e, infine, i più ampi scenari all’interno dei quali operano la logica patrimoniale e i suoi attori. Diversamente da quanto avviene per gli approcci“critici”, nei quali la ricerca etnografica è un aspetto costitutivo della prospettiva, in questo caso l’etnografia agisce piuttosto come antidoto al rischio di essere più o meno consapevolmente trascinati verso il versante abitudinario e istituzionalmente “organico” dell’azione patrimoniale. Analisi critica e analisi partecipativa, unite dalla consapevolezza, dalla profondità e dalla densità propria dell’etnografia, possono offrire uno sguardo lucido sui processi di patrimonializzazione, che aprono scenari che consentono di accedere ad un’analisi antropologica delle politiche contemporanee. Alcuni parlano di un vero e proprio continuum “urbany folk”, laddove gli antropologi si occupavano del folk e i sociologi dell’urbana. La distinzione in una prima fase è netta. La critica a questa impostazione divergente viene da studiosi che dagli anni 50 cominciano a mettere in discussione l’idea che l’urbanizzazione massificata abbia dissolto i legami comunitari caratteristici dei contesti folk. Quindi la dicotomia comincia a cadere e emerge l’idea del continuum, di spazi porosi che si compenetrano e che all’interno dei quali i processi non sono differenziati (noi lo vediamo benissimo nel mondo globalizzato all’interno del quale la dimensione locale non si dissolve). Non c’è un omologazione, ma una IPER specializzazione delle differenze, cifra distintiva del globale. L’antropologia urbana studia i fenomeni connessi con l’organizzazione dello spazio urbano, partendo da un approccio dall’alto verso il basso (partendo quindi dalle classificazioni emerse da chi detiene il potere); OPPURE dal basso verso l’alto (es. metodo della network analisys: analisi delle reti; che produce una mappizzazione della città dalle relazioni delle persone). Combinando i due sguardi si è prodotto l’interesse delle politiche di patrimonializzazione che si innestano nello spazio e nei luoghi (culturale o simbolici) a cui le comunità conferiscono un significato. Il patrimonio culturale (materiale che occupa uno spazio fisico denso di significato) e quello immateriale (simbolico, che assume significato lo stesso e parte da qualcosa di amministrativo e politico). L’entità sovranazionale per affermare che esista un diritto universale (es. UNESCO), ha bisogno di ancorarsi sul livello locale, sulle singole partizioni di territorio a partire da un’idea di appartenenza dei soggetti ad uno stato, città, cultura ecc.. all’interno della quale quel sapere, rito, credenza si consuma. IL PUNTO è che l’analisi morfologica di per se non basta, perché ci interessa lo spazio come luogo delle relazioni, lo spazio che diviene luogo, non possiamo limitarci ad una descrizione solo formale e morfologica (a vedere come sono costruite le case o le capanne). Il territorio che si fa museo si inserisce in questa riflessione qua (riflettendo sulle traiettoria e le reti che costruiscono quel territorio come museo). Es: i lavori di Valentina Porcellana in collab con architetti e designer su come ripensare gli spazi notturni per gli homeless, riconoscendo a loro qualcosa di più di uno spazio per soddisfare questa necessità, organizzando degli incontri. Questo entra nella ricostruzione dello spazio all’interno del quale le relazioni si praticano e si costruiscono—>arrivando a costruire altri spazi innovativi. VISIONE DOCUMENTARIO A SAN PIETROBURGO CHE FA DA RACCORDO TRA LE COSE CHE CI SIAMO DETTI OGGI SUL RAPPORTO TRA SPAZI E SUL RAPPORTO TRA OGGETTI. SI INTITOLA ‘DOMA’’, DI MICHELE MALLARA E ALESSANDRO ROSSI, CHE SONO DUE VIDEOMAKER BOLOGNESI CHE RAGIONANO SU ARCHITETTURA E PROGETTAZIONE URBANA DI QUESTA CITTA’ CHE HA UNA STORIA PARTICOLARE (fondata da Pietro il Grande nel 1703, pianta urbanistica che conferisce una conformazione difesa dalle altre città russe. Ricalca il modello delle città occidentali e che attraversa profonde trasformazioni durante la storia della Russia. Mette in luce l’intersezione tra la conformazione urbanista e il potere; l’impero di Stalin e le sue tardive emulazioni e come la dimensione storica/politica ci aiuti a leggere i vissuti urbani. E’ un documentario sugli interni delle case e la storia e la politica, la dimensione del consumo di intreccia con l’architettura. Approccio simile di chi scava e che ritrova all’interno di queste case elementi che consentono di leggere fra le righe il passato e i processi politici/storici e sociali. Lezione 10 - 10.06.2022 - prendere appunti da rors Valentina Lusini in Ombre corte del 2013 vi sono le sue riflessioni degli anni precedenti: riflessione tra arte e antropologia e come esse interagiscono nei mondi contemporanei intrecciando riflessioni e pratiche. Luisini riporta esempi di artisti che si confrontano con questioni come gli artisti si muovono, alla mobilità transnazionale in relazione ai processi di decolonizzazione. Il tema delle immigrazioni solleva una serie di questioni che hanno a che fare con la contemporaneità e anche con la produzione culturale nella contemporaneità, non solo a livello sociale e politico. Anche in Italia che per lungo tempo è stata considerata un paese di Migrazione e non Immigrazione, l’Italia non era una destinazione, ma gli Italiani se ne andavano. La migrazione avveniva da persone delle colonie a partire dalla schiavitù che poi venivano chiamate le comunità diasporiche (che pur vivendo a centinaia di km dal luogo di provenienza, per cultura, etnia e senso identitaria, mantengono dei legami con i propri modelli culturali). John OBBU ? intorno agli anni 60 introduce la distinzione tra minoranze volontarie e involontarie: involontarie sono minoranze per assimilazione a seguito della conquista, per schiavitù, quelle volontarie invece compiono la scelta della migrazione. (Es: indiani americani, o popolazioni afro americani che vivevano nei sobborghi degli stati uniti degli anni 40 e 50 - niente a che fare con i rifugiati che migrano per ragioni economiche o che sono costretti a migrare). Dunque da un lato c’è l’influenza che il colonialismo produce sulle reti che esistono fin da principio, ad es i lavori di Nikolas Thomas che fa una ricerca nelle società dell’oceano pacifico, in cui ci fa vedere nel momento dell’incontro tra le due culture c’era interesse nei confronti degli oggi da parte di entrambi, come agli indigeni interessavano gli oggetti degli europei, così viceversa, e da qui si evince anche la manie del collezionismo occidentale degli oggetti indigeni per i musei etnografici (traccia che proviene dritta dal positivismo). In Italia ad es i lavori di Cirese, o Lamberto Loria, in merito ai viaggi che hanno permesso di raccogliere oggetti che hanno fatto parte di musei. Ad un certo punto con la messa in discussione dell’attività/autorità etnografica il punto della questione si sposta e si complessifica. Anche la questione dell’Archivio per cui l’interesse per il collezionismo si carica di significati profondamente politici. Le cornici entro le quali costruiamo rappresentazioni dell’altro, e la questione dell’altro corre su tutta l’antropologia dell’arte. La tensione che si stabilisce tra i processi e i modi di trovare spazio ed esporre artisti e artiste che operano all’interno di questi contesti, nel mercato dell’arte, pone questioni ulteriori: la questione di identità e alterità è al centro delle questioni dell’antropologia in generale. Ma non si tratta soltanto di interrogarsi sulle arti indigene, sui criteri di classificazione, le pratiche espositive, ma interrogarsi sulle questioni che emergono dalla relazione con questi artisti e dal confronto con questi artisti. Sono diversi gli artisti che trovano spazio nel libro della Lusini, provengono da contesti diversi, hanno esposto in contesti di espositivi di prestigio es Biennale o istituzioni importanti in Europa, Giappone etc che sono uniti dal fatto di essere pienamente inseriti nel mercato dell’arte, che si conformano e adottano pratiche e modalità espressive adeguate alle aspettative estetiche e anche commerciali del mercato dell’arte. La questione della diversità sta al centro delle riflessioni che Lusini ci propone in questo libro, mettendo insieme autori disparati come Ansel antropologo francese che ha dedicato molta attenzione all’arte africana e al modo in cui essa filtra nei contesti occidentali. Una delle cose interessanti del lavoro di Lusini è il fatto che tutti gli artisti a cui fa riferimento cercano di interrogare con le loro opere la questione dell’identità, che sia religiosa, etnica, culturale, e mette in discussione l’idea che si possa far finta che quell’opera di classificazione dei corpi e dei forme dell’umano che aveva prodotto una gerarchia di soggetti più o meno neri, melanesiani e polinesiani, le isole nere che fanno riferimento al colore della pelle degli abitanti, perché la bianchezza non viene nominata, è l’egemonia, tutte queste questioni entrano nella riflessione di Lusini, che però non schiaccia la propria analisi sulla dimensione della subalternità a tutti i costi. Le istanze dei subalterni che si affermano nel campo dell’arte, non sfociano nel subalternismo, in un eccessivo accento retorico proprio sulla posizione subalterna che questi artisti assumono nel campo dell’arte, come nel loro contesto di provenienza o nella geografia globale. Perché c’è anche una sorta di moda che valorizza il meticciato, e lo vede come delle parole chiave che garantiscono l’accesso a chi le usa nel mercato dell’arte contemporanea, che in questa questione dell’alterità vede delle opportunità: una specie di slogan. La svolta etnografica che consente e da avvio a questi processi critico riflessivi nel campo stesso dell’antropologia anche artistica consente di smentire quello che diceva un altro antropologo che si è molto occupato dell’arte che si chiama Alfred Gel, il quale sosteneva che da un certo momento nell’antropologia sociale l’interesse per l’arte fosse andato scemando in particolare con Malinovski e il funzionalismo britannico, cosa che non era avvenuta per altri elementi della cultura. Perché secondo lui il nostro sistema di valori riconosce più importante ad es la religione, la dimensione del potere, la politica, rispetto agli oggetti d’arte. Questo interesse ritorna con la svolta etnografica e con i processi di decolonizzazione, quando si ripensa alla pratica dell’inventario, le forme del collezionismo e via dicendo. La questione della migrazione svolge un ruolo centrale, Lusini fa vedere come alcuni di questi artisti ci permettano di vedere e di riesperire l’esperienza della migrazione, l’esperienza stessa del colonialismo, di quel tentativo di applicare al governo delle popolazioni un principio di selezione, di progresso, nell’ottica retorica di progresso. Araeen muove una critica serrata nei confronti della cultura britannica. E’ un discorso politico che si articola attorno ad una pluralità di temi: l’identità, l’ibridazione, l’autenticità, l’alterità, una visione cosmopolita e certamente di lotta che questi artisti vogliono fare per affermare nuovi capitali simbolici come avrebbe detto Bordieu, in un contesto che è globale dal punto di vista sociale e del mercato dell’arte, che però ha bisogno di produrre località e quel gioco tra locale e globale, tra tradizione e modernità. Sono operatori della cultura, operai della messa in comunicazione di tradizioni, saperi, che si incontrano all’interno di questi scenari globali. Quindi non si tratta solo di guardare alla figura dell’artista come una figura da replicare o alla quale tendere partendo dalla posizione di etnografo. C’è un libro di Francesco Marano “l’etnografo come artista” . per Luisini si tratta di invertire invece lo sguardo e guardare all’artista come antropologo, che non si appiattisce sulla moda instagrammabile del meticciato e dell’ibridazione ma guarda a nuovi linguaggi e nuovi modi per raccontare quelle che sono le implicazioni sociali legate alle nuove ricerche che anche gli antropologi conducono. È questa dimensione della ricerca che sta dietro le pratiche e i discorsi di questi artisti che costituisce un terreno fertile non solo per l’antrpologia dell’arte ma all’antropologia in generale, per guardare a nuovi linguaggi possibili. Yuki Kihara - artista che ha esposto alla Biennale e critica chi gerarchizza le razze a partiredalle misure del corpo con la sua opera. (Immagine mostrata a lezione). Giudica chi crede che ci sia una relazione tra le misure del corpo degli stranieri e la loro cultura, valori ecc.. forma del cranio, altezza, naso aquilino. L’idea alla base del lavoro è quella di muovere una critica all’idea stessa di selvaggio. In questo caso il selvaggio samoano che sta danzando come gli veniva chiesto di fare dai colonizzatori dell’800, esibiti come in degli zoo umani portati in giro a danzare per tutto l’800. Gioca poi anche sugli stereotipi contemporanei sulle popolazioni pacifiche e samoane, rugbisti, atleti, figuri che incorporano una certa idea di maschilità. Altro lavoro dell’artista oltre a Paradise Camp che sta esibendo alla Biennale, che ha avuto una copertura mediatica pazzesca perché interseca i temi della razza, della colonizzazione ecc, nell’altro lavoro associa fotografie dell’epoca coloniale a opere occidentali classiche, è il lavoro che l’ha portata alla fama e si chiama Trip Tich, sono fotografie riprodotte in studio come lo erano quelle del periodo coloniale, e una delle cose interessanti è che per la critica ai modelli di genere questa serie oltre a riprodurre l’immaginario occidentale coloniale, per produrre queste immagini lei ha rimaschilizzato il proprio corpo, quindi è come se ci fosse una doppia transizione di genere che va a intaccare quelle che sono le rappresentazione egemoniche sul genere, sui processi di trasformazione del corpo. Un’altra delle questioni importanti che viene ampiamente trattata oltre la migrazione è quella del cambiamento climatico… sono tantissimi gli artisti che lavorano su quei temi e connettono il tema dell’ecologia alle ecologie indigene, quindi alle rappresentazioni locali del cosmo. Che cos’è questa una narrazione minoritaria? O è un altro sguardo con il quale è utile confrontarsi? L’antropologia deve essere uno strumento di critica sociale non solo di conoscenza dell’altro, altrimenti leggeremo un romanzo, e così deve essere per l’arte, per il lavoro curatoriale. Il mercato stesso va in questa direzione, adottando i linguaggi dell’alterità, della diversità. Hackerare quei discorsi complessificandoli è una via che mette in relazione discipline e professionalità diverse.
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