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Appunti Corso di Cinema dell'Estremo Oriente (6 crediti), Appunti di Storia Del Cinema

Una panoramica sul cinema giapponese e sui registi più famosi come Ozu Yasujiro. Si parla della struttura dell'industria cinematografica giapponese, dei generi principali e degli stili stilistici dei film. Inoltre, viene approfondita la figura di Ozu Yasujiro, il cui tema principale delle opere è la famiglia e il rapporto tra genitori e figli. Viene descritto il suo stile minimalista e la struttura narrativa dei suoi film.

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 25/07/2022

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Scarica Appunti Corso di Cinema dell'Estremo Oriente (6 crediti) e più Appunti in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! “Il coro di Tokyo” (1931) Ozu Yasujiro Tra tutte le industrie non-occidentali del cinema, quella giapponese ha saputo meglio imporsi ed ha acquistato tanta fama ed attenzioni. Tra i nomi che hanno reso famoso il cinema giapponese ci sono: Ozu Yasujiro, Kenji Mizoguchi, Akira Kurosawa, Nagisa Oshima, Shohei Imamura, Takeshi Kitano, Hirokazu Kore-eda. Tutti questi registi, non solo sono diventati famosi nel cinema, ma sono diventati dei veri e propri punti di riferimento per dei cineasti di “prima classe” come: Godard (Mizoguchi), Wim Wenders (Yasujiro), Spielberg e Coppola (Kurosawa). Sarebbe però un errore, pensare al cinema giapponese come un casuale fiorire di grandi talenti poiché dietro ad esso vi è una vera e propria industria basata sul modello hollywoodiano in modo molto articolato: producendo un certo numero di film, formando un personale specializzato e dividendo la produzione in generi (che poi venivano a loro volta ancora divisi). I due generi principali erano: - Jidai-geki ovvero i film ambientati nel passato (che hanno contribuito a rendere celebre la figura dei samurai) - Gendai-geki cioè quelli di ambiente contemporaneo Ozu realizzerà solo Gendai-geki per tutta la sua carriera, ad eccezione del suo primo film (“La spada della penitenza”). Le maggiori tra case di produzione cinematografica giapponese (come Shochiku, Toho, Toei e Nikkatsu) avevano dato vita ad una struttura di tipo verticale con modello hollywoodiano, che permetteva loro di essere attive non solo nella produzione ma anche nella distribuzione e nel esercizio. Quindi le case producevano i film, li distribuivano attraverso delle loro società e li mandavano in dei cinema anche essi di loro proprietà. Questo tipo di meccanismo funzionò fino alla fine della seconda guerra mondiale e aveva un totale dominio sul mercato (anche sui prodotti americani, che ovviamente venivano controllati da queste grandi aziende che lasciavano spazio alla produzione nazionale). È così inizia a crearsi un rapporto tra cinema occidentale e cinema giapponese, sopratutto nell’aspetto dello stile. David Bordwell in un saggio dedicato ad Ozu cerca di sistematizzare le principali tendenze stilistiche del cinema giapponese classico in tre diverse aree. 1. La prima è quella dello “stile calligrafico”, tipico dei Jidai-geki ed in particolare del sotto- genere Chambara. Il termine Chambara è onomatopeico perché richiama il suono di due spade che si scontrano, infatti è il genere dei film con i combattimenti di spada (il rumore somiglia ad un Cham-Cham-Bara). È un genere molto frenetico, con uno stile quasi barocco, figure dinamiche in movimento, montaggio rapido e discontinuo ed un frequente ricorso ai movimenti di macchina. In questo ambito la figura più rappresentativa è il regista di Jidai- geki, Ito Daisuke. 2. Il secondo è lo “stile pittorico” (che secondo Bordwell) associato al dramma urbano e al melodramma, quindi riconducibile ai Gendai-geki. È enfatizzata la singola inquadratura come composizione complessa, dominano i campi lunghi, è diffusa la profondità di campo, luci e scenografie tendono a rendere astratte le immagini e le figura umane sono subordinate dall’insieme che le comprende. Le inquadrature invitano lo spettatore a guardare la scena come se fosse un quadro. L’autore che incarna di più questi stile è Kenji Mizoguchi. 3. Il terzo è lo “stile analitico” tipico anche questo dei Gendai-geki e si fonda sulla frammentazione di ogni scena in inquadrature statiche e ben definite e su un attento uso del montaggio. Al contrario dello stile calligrafico, quello analitico evita un montaggio dinamico e complesse azioni; diversamente da quello pittorico invece propone delle immagini più semplici e subito accessibili. Questo stile sembra avvicinarsi molto allo stile hollywoodiano, ma in realtà compie alcune trasgressioni. Si può affermare che il cinema giapponese non è né radicale, ma neanche un prodotto venuto solo dalle tradizioni, è un cinema classico. Ozu Yasujiro Nasce a Tokyo il 12 dicembre 1903 e muore sempre a Tokyo nel giorno del sul compleanno, 60 anni dopo. È ritenuto insieme ad Akira e Kenji come uno dei più importanti registi del cinema giapponese, ma anche del cinema mondiale. La sua opera attraversa la storia e quindi dai film muti, fino al sonoro, per poi arrivare alla modernità che arriva in Giappone negli anni ’60. Il tema principale delle sue opere è la famiglia, sopratutto il rapporto tra genitori e figli e nel particolare i sentimenti di madre/padre/figlio che Ozu rende universali; anche se le sue storie sono incorate ai costumi e alle tradizioni del paese (infatti viene definito tra tutti il “più giapponese” tra i registi). I suoi film riescono comunque a parlare a tutti ed a tutte le culture. Il cinema di Ozu è considerato un’espressione del Mono No Aware ovvero di quel sentimento di melanconia che si può vivere difronte alla natura/stagioni/vicende umane. Grazie a questo, i personaggi dei suoi film riescono ad arrivare (attraverso le vicende che vivono) alla consapevolezza ultima del carattere effimero e transitorio di ogni cosa; ad una sorta di dolente e matura accettazione dell’ineluttabilità del cambiamento. Dal punto di vista narrativo i suoi film hanno spesso un andamento strutturale assai simile: che prende le mosse da una situazione di apparente armonia, destinata a rompersi attraverso un’improvvisa rivelazione che determina un momento di conflitto, che però porta all’accettazione della nuova realtà ed instaurazione di una nuova armonia accompagnata dalla consapevolezza. È questa la struttura che regola i rapporti famigliari nei diversi film di Ozu. Sul piano stilistico, il cinema di Ozu si è affermato per: - La progressiva riduzione del suo lessico cinematografico: ci sono poche e semplici figure (riduzione dei primi piani e delle dissolvenze, no movimenti di macchina); Soggetto del film: negli ani della crisi economica, Shinji perde il posto di lavoro dopo aver preso le parti di un anziano collega che è stato licenziato. Per pagare le spese mediche alla figlia, deve vendere i kimono della moglie, Sugako. Non trovando altra occupazione, l’uomo finisce col distribuire i volantini pubblicitari di una modesta tavola calda, gestita dal suo vecchio insegnante di educazione fisica. Vedendolo casualmente per starda, impegnato nella sua nuova occupazione, Sugako prova un senso di vergogna per l’umile lavoro del marito. Alla fine Shinji troverà una nuova e più dignitosa occupazione ma lui e la sua famiglia saranno costretti a lasciare Tokyo per andare a vivere nella lontana provincia. (In Giappone è molto diffuso il lavoro di distribuire i volantini, ma lo fanno i giovani; vedere un uomo adulto che fa questo lavoro è umiliante; ed è questo che crea una rottura tra moglie e marito). Il film si apre con un lungo prologo ambientato negli anni di scuola (Gakusei-mono e commedia- slapstick). Shinji è sin da subito messo in scena all’insegna della differenza (rispetto agli altri). Con la giacca o a torso nudo mentre gli altri sono in maglietta, oppure se ne sta per conto proprio mentre gli altri sono in gruppo. (Imbarazzo creato dalla differenza, isolamento del personaggio). Il prologo, quindi, ha una funzione anticipatrice di quello che sarà Shinji nella storia e degli aspetti centrali del film. A partire dalla presentazione Shinji è diverso e si comporterà in modo diverso da tutti gli altri personaggi. Sarà proprio questa diversità, che è tutt’uno con la sua umanità, a far si che, unico fra i suoi colleghi, prenderà, una volta adulto le parti dell’impiegato anziano che è stato licenziato finendo così a sua volta col perdere il lavoro. Del resto anche l’atteggiamento che il giovane Shinji instaura col suo insegnante anticipa in qualche modo quello che avrà col suo datore di lavoro (situazione di ribellione). Introduzione tra il prologo e l’inizio del film: un adulto bambino. L’ultima immagine di Shinji da studente e la prima da adulto (impiegato, marito e padre di famiglia) stabiliscono fra loro un evidente serie di relazioni: sia sul piano del contrasto (a torso nudo/ con camicia e cravatta), sia quello della similitudine (l’oggetto tenuto in bocca). Si tratta tuttavia di due oggetti a loro volta, in contrapposizione tra loro. Lo Shinji adolescente fuma una sigaretta (come un adulto), lo Shinji adulto tiene in bocca un succhiotto (come un bambino). Shinji è così sempre fuori parte, e sarà proprio la sua adulta “immaturità” e l’impulsività che ne consegue a fargli prendere, senza tener conto delle conseguenze, che pacerà in prima persona, le difese contro i più forti. Il gioco dei rimandi si rafforza, inoltre, dalla presenza di due soggettive raccordate allo sguardo dei due Shinji: da giovane le fronde degli alberi, da adulto la ciminiera di una fabbrica (con evidente invito a contrapporre la libertà della gioventù, all’oppressione dell’età adulta). Il vento è un elemento in comune, mentre Shinji guarda verso il fuoricampo-stacco-soggettiva. 2. Il licenziamento Ozu stabilisce coerenza e coesione dei suoi personaggi attraverso determinati gesti che li caratterizzano e che questi compiono con una certa regolarità. Per Shinji, questo gesto è quello del grattarsi (commedia). Lo fa già da studente durante l’ora di educazione fisica, nell’ospedale dove si trova la figlia, dopo essere uscito dall’ufficio di collocamento, mentre accompagna Omura a distribuire volantini pubblicitari. Ed infine, secondo il principio “Tale padre…tale figlio” tocca al piccolo Chonan grattarsi, proprio allo stesso modo del genitore. l’idea che il film giochi a stabilire una certa continuità tra padre e figlio, si nota anche nel prologo (quando Shinji ha la giacca scura in mezzo ai coetanei con la camicia) e nella scena di Chonan che cerca di unirsi ai bambini in bici (ha una canottiera scura in mezzo ai bimbi vestiti di bianco sulla bici). Ruolo degli oggetti: (scena del ventaglio con il capo e Shinji, la lettere di licenziamento con cui la figlia di Shinji fa un aereoplanino) Ozu ha spesso manifestato una certa abilità nell’usare gli oggetti in uno stretto legame con lo sviluppo del racconto. Quando Shinji farà volantinaggio per Omura, cercherà di convincerlo a smettere di fare pubblicità attraverso i volantini; nella sequenza di questa scena il senso è affidato all’uso dell’oggetto-volantino. Bambini che piangono: in tutto il cinema di Ozzu c’è sempre un solo modo di far vedere un bambino che piange, quello di mostrarlo singhiozzante con le mani che stropicciano gli occhi, un po’ come i manga (dramma e commedia: si mostra qualcosa di triste ma lo si mostra in modo buffo). Donna che piange: Ozu mostra con estrema discrezione, secondo quella pudicizia che è propria della sua cultura, il pianto femminile. Il che non si significa che le donne nei film di Ozu non piangano, ma lo fanno senza esibizione. Sugako (Yagumo Emiko) piange tre volte nel film, ma si tratta solamente di una lacrima che la donna prontamente asciuga dal suo volto. Gag e nansensu-mono: pur essendo un film eminentemente drammatico, conta un gran numero di gag che non possono non richiamare l’abito del no-sense comedy. Un esempio è il piede sporco di Chonan che lascia un importa su un catino di legno e cerca subito di ripulire; Shinji che fa la punta alla matita con il ventilatore; Chonan che pesca un pesce col cappello del padre (ruolo degli oggetti); Omura che riempie di polvere il curry-dice di Shinji battendo sul plico dei volantini, e sempre Chonan che dopo aver fatto piangere Chojo le ruba dalla bocca la pastiglia. La vena comica di Ozu è percepibile sopratutto nella nota scena del bagno, dove si rifugiano diversi impiegati per poter controllare, fuori dagli sguardi indiscreti dei colleghi, l’ammontare del loro bonus. Uno di questi, resosi conto all’improvviso che qualcuno lo sta osservando, lascia inavvertitamente cadere nell’orinatoio le banconote. Mentre si inchina per decidere il da farsi, uno sguardo indiscreto lo spia attraverso il buco della serratura. Il malcapitato tenterà di rimediare al guaio asciugando le banconote con l’aiuto del ventilatore e di un tampone (ruolo degli oggetti). Metafora e dolore paterno: dopo aver litigato in strada col figlio, che si è visto regalare un monopattino anziché la bici, Shinji rientra a casa. Giunto alla soglia, getta uno sguardo verso il cucciolo di cane che affettuosamente lecca il corpo della madre. Il sintagma soggettivo chiuso termina con una nuova immagine di Shinji che ancora si sofferma con lo sguardo sui due animali. 3. La malattia della figlia Un padre in mutande: sappiamo che l’immagine del padre in mutande come segno della crisi dell’autorità paterna è ricorrente nel cinema di Ozu. Anche qui, essa si ripete più volte. Non poteva essere altrimenti: la perdita del lavoro significa per Shinji il venir meno di quel ruolo di garante del benessere familiare che dovrebbe essere in gradi di assumere. Prefigurazioni e ritorni: Ozu e il suo sceneggiatore Noda Kogo, tendono a rendere più coese le loro storie attraverso continui giochi di prefigurazioni e ritorni, paralleli e rimandi fra una sequenza e l’altra (o situazione) e un’altra. Eccone alcuni esempi: la scena in cui Shinji dà un colpetto in testa al figlio, colpevole di aver fatto cadere i vinili, prelude alla ben più violente sequenza delle sculacciate (su cui si ritornerà). Quando il protagonista incontra Yamada ridotto a fare l’uomo-sandwich, si anticipa chiaramente il destino dello stesso Shinji; Le immagini di Sugako che prende il kimono dalla cassettiera, quando tutti si preparano per andare all’ospedale, prefigurano e preparano il momento in cui la donna scoprirà che il marito, senza dirla niente, ha venduto quegli stessi kimono per pagare le spese ospedaliere della figlia (peraltro poco prima la madre dice di aver venduto qualche vecchia stampa per comprare dei dolci al fine di far festa con i figli). Omura che nel finale del film parla ai suoi ex-studenti tenendo un ventaglio in mano rimanda alla scena del licenziamento, in cui il capoufficio parlando a Shinji teneva il ventaglio. L’arrivo in ritardo di uno dei vecchi studenti di Omura al pranzo conclusivo, richiama l’analogo episodio della scena iniziale del film. Crisi e disoccupazione: “il coro di Tokyo” è uno dei lavori di Ozu che meglio registrano la crisi economica degli anni trenta. Sono diverse le immagini che mostrano disoccupati per strada nella vana attesa di qualcosa che cambi la loro realtà. Seduti vicino all’ufficio di collocamento, passano il tempo a raccogliere mozziconi di sigaretta gettati a terra dai più fortunati. La scena del licenziamento e il ruolo degli oggetti a forma di gag: nel corso del litigio tra Shinji e il capoufficio, che costerà al protagonista il posto di lavoro, l’impiegato, impulsivo come sempre, afferra il ventaglio del capo. Questi reagisce prendendone un altro, che teneva avvolto in un panno. I due sono ora pronti a fronteggiarsi, ad “armi spianate”, prima di colpirsi ripetutamente come accade con una certa frequenza nel cinema del regista, anche le situazioni più drammatiche possono essere trattate in forma di gag. La violenza di un padre: dopo esser stato licenziato, Shinji compra il monopattino. Esasperato dalla perdita del lavoro e dalle proteste del figlio, che dopo aver strappato la carta dello shoji lo deride facendogli le boccacce (in un atteggiamento di rivolta contro l’autorità analogo a quello appena avuto dal padre in ufficio) Shinji finisce per sculacciarlo, con una particolare violenza che la successione delle immagini certamente non risparmia. Non è questa una situazione infrequente nel cinema di Ozu, dove i conflitti, talvolta fra uomo e donna, spesso tra padri e figli, passano prima di essere risolti attraverso scontri del carattere decisamente brutale. così. Il fatto che il nuovo lavoro implicherà il trasferimento nella lontana periferia e l’abbandono della capitale- città peraltro di cui il film ha dato un’immagine di assoluto squallore- finisce col prevalere nella scena un sentimento di mestizia piuttosto sorprendente, che di fatto cancella ogni sospetto di facile “happy end”. Shinji dice di aver trovato lavoro alla moglie, in un’inquadratura segnata dal ricorrente uso di un elemento visivo che ingombra il piano piano; resisi conto di dover lasciare così Tokyo i due si siedono mestamente. Sugako cerca di reagire dicendo che prima o poi riusciranno a tornare a vivere in città. Nonostante le parole di speranza della donna, il momento si chiude con un’immagine dei due in cui le pose assunte e le espressioni dei volti la dicono lunga sui loro sentimenti. L’ingombro sul primo piano: si è notato all’inizio di questa scena la tipica immagino “ingombrata” di Ozu una soluzione che si trova anche nella prima immagine del film, con un evidente effetto di restringimento del campo. Il coro finale: anche la scena di epilogo è segnata da un tono di nostalgia, determinato in parte dalla canzone sui tempi andati, intonata dall’ex insegnante di educazione fisica e dai suoi ex allievi. Più volte mentre tutti cantano, Shinji leva uno sguardo accorato verso un rabbuiato Omura. Solo alla fine i sentimenti dei due si stemperano in un reciproco sorriso di speranza con cui il film si chiude (in una certa analogia con la scena della scoperta dei kimono venduti, ancora una volta il gioco dei richiami). Prima dell’ultimo totale, dove in basso e in primo piano, dominano un gran numero di diverse bottiglie di birra (che quasi sembrano doppiare i personaggi in piedi). “Spring in a small town” (1941) Fei mu Ritenuto dagli Hong Kong Awards e dal Busan International Film Festival il miglior film della storia del cinema cinese, è stato edito in DVD dal British Film Institute nel febbraio 2015. Il 1948 è anche un anno fondamentale, perché precede la salita al potere di Mao Tse-tung e del partito comunista, che porta radicali cambiamenti nella popolazione ma anche nel cinema. Cinema che diventa di propaganda e che promuove i valori del partito comunista che riprende- in parte- dal realismo socialista sovietico; composto da eroi positivi ma anche da contadini/ operai/donne che incarnano gli ideali di paese fondato sull’uguaglianza e sui valori del comunismo. Questo film rimane un po’ la dimostrazione di ciò che era il cinema cinese prima dell’avvento di Mao. Fei Mu Considerato uno dei maggiori registi del cinema cinese prima di Mao, Fei Mu si appassiona fin da giovane all’opera tradizionale. Impara da autodidatta francese, inglese, tedesco ed italiano. Diplomatosi a 18 anni in un liceo francese, entra, contro la volontà paterna, nella Huabei Film (1930) dove si occupa dell’attività promozionale, intraprendendo anche la carriera di critico, che lo spinge a studiare la teoria del cinema. Il suo primo film è del 1933, per la Lianhua, una delle maggiori case di produzione cinesi, Night in the City ora andato perduto. Il successivo Song of China è una dramma dai toni confuciani, sulla corruzione della città e dei valori occidentali. Il film, in parte rimontato, sarà anche distribuito negli USA. Dal 1936 è Blood on Wolf Mountain, un’allegria dell’invasione giapponese. Nello stesso anno del suo capolavoro Spring in a small Town, dirigerà anche il primo film a colori cinese, Remorse of Death (1948), da un testo dell’opera di Pechino. Dopo il dramma storico Confucio (1940), Fei rifiuta di collaborare coi giapponesi e si dedica alla messinscena di opere tradizionali. A seguito della vittoria della rivoluzione, Fei Mu tenterà inutilmente un rapporto coi comunisti al potere, ma verrà da questi considerato un regista di destra. Morirà ad Hong Kong, dove aveva finito col rifugiarsi nel 1951 a causa di una crisi cardiaca (aveva 45 anni). Fei Mu è stato considerato il più grande regista cinese per molti motivi, innanzitutto poiché è il primo regista della Cina a fare un film a colori, ma anche perché mettere in scena i temi dell’alienazione e del desiderio femminili rappresentano una vera e propria novità nel panorama cinese nazionale, spostando il discorso sulla donna da un piano sociale ad uno più esistenziale. In fin dei conti, con questo film Fei Mu lavora su temi che ritroveremo più tardi nell’opera di Rossellini, Antonioni o del Naruse di Meshi (Il pasto, 1951). La donna nel cinema cinese, prima di Fei Mu, non aveva mai ricoperto un ruolo centrale ed era vista più come una vittima della società/prostituta. In questo film la donna viene messa al centro da un punto di vista esistenziale che parla di alienazione e desiderio. Il soggetto Dopo la guerra sino-giapponese, Yu-wen vive col marito Li-yan, di salute assai cagionevole, nella loro grande casa in rovina. Mentre l’uomo rimpiange i fasti passati della sua altolocata famiglia, Yu-wen lamenta l’oramai estraniato rapporto col marito- che tuttavia accudisce con dovere-. Poco rimedio pone all’infelicità della donna il legame con la sorella più giovane del marito, Xiu, che al contrario degli altri due sembra condurre una vita spensierata. Un giorno giunge l’inaspettata visita di Zhi-chen, un medico amico d’infanzia di Li-yan, e un tempo amante di Yu- wen, prima che questa sposasse l’attuale marito. La storia si sviluppa descrivendo i combattuti sentimenti dei quattro personaggi in un sottile gioco tra la consapevolezza dei propri desideri e delle proprie paure, da una parte, e le regole dei legami famigliari e del vivere sociale dall’altra. Alla fine Zhi-chen partirà, promettendo di fare ritorno entro un anno. 1. Dall’incipit al primo incontro Voce narrante e soggettività: tra le caratteristiche che segnano sul piano stilistico e sul piano dell’organizzazione narrativa è fondamentale la voce narrante della protagonista. Sin dalle prime battute del film si affida alla voce narrante di Yu-wen, ancorandosi così alla sua soggettività e facendo emergere con evidenza il senso di alienazione, la noia del quotidiano, la mancanza di prospettive che segnano la vita della donna. Come accorda qualche anno più tardi per l’Hara Setsuko del già citato Messi (Il pasto, Naruse Mikio, 1951). Quando si parla di voce narrante, inoltre, bisogna precisare che c’è una divisione tra: voce narrante del protagonista e del personaggio secondario (che può parlare anche dei sentimenti degli altri); nel caso di questo film la voce narrante è della protagonista. Dare la voce narrante determina la soggettività del film, piegandola a quello che vive il personaggio narrante; già dalle prime immagini della donna che cammina sulle mura diroccate della città ci dà un senso di alienazione e di stanchezza. Presentazione dei personaggi: l’incipit di un film ha il compito di introdurre alcuni dei personaggi principali della vicenda, e l’introduzione di questo film riprende un po’ le tecniche del film muto presentando i personaggi con l’ausilio di didascalie sovrimpresse alle immagini (ruolo+ interprete). L’arte del gesto: ovviamente le parole da sole non possono costruire un personaggio, ma sono importanti anche i gesti ed i modi in cui i gesti vengono presentati allo spettatore. Diventa qui importante l’enunciazione dell’immagine propria di Yu-wen (Wei Wei) che passa attraverso uno studiato movimento del capo che offre allo spettatore il suo volto da ogni lato. L’angolazione dal basso è naturalmente tesa a dar maggior enfasi al personaggio e al suo movimento che si staglia su uno sfondo quasi del tutto neutro. Rovine: la cattiva salute di Li-yan è, come dice lui stesso, simile allo stato di distruzione in cui si trova la casa: sia l’una che l’altra sembrano non poter essere risanate. Entrambe, inoltre, non sono che la metafora di una Cina devastata: dall’occupazione delle potenze occidentali, dal conflitto coi giapponesi e dalla guerra civile tra comunisti e nazionalisti. Le rovine fanno anche riferimento alla realtà coniugale, quindi sono tre le funzioni semantiche di carattere metaforico che hanno queste rovine. Una coppia: dopo aver espresso la frustrazione di Yu-wen attraverso la sua voce narrante, il film nel corso del primo incontro tra marito e moglie, affida soprattutto alle parole di Li-yan il compito di rappresentare il carattere alienato del rapporto tra marito e moglie. Tra di loro non c’è astio, ma una semplice constatazione di una separazione di fatto avvenuta da tempo che niente sembra aver la possibilità di colmare (le rovine della casa, così, stanno anche per la crisi coniugale). Nella prima scena di dialogo appunto, si capisce come il sentimento di alienazione non venga solo percepito dalla moglie ma anche dal marito, che infatti si chiede come fa Yu-wen ad accettare una vita così prendendosi cura di un fallimento/uomo malato. Fare luce: l’inaspettato arrivo di Zhi-chen, il solo uomo che potrà forse portare un po’ di luce nell’alienata esistenza della protagonista, è preceduto dalle immagini di quest’ultima che apre una finestra per far entrare il sole nella sua stanza da cucito. Un momento che prepare n chiave metaforico l’arrivo del suo vecchio amore. Dubbi: uno degli aspetti dominanti del film è l’ambiguità, l’atmosfera di incertezza, l’impalpabilità che dominano il film, sono già tutte espresse nel domandarsi della protagonista se l’uomo venuto a far visita al marito sia o non sia lo stesso suo amante di un tempo. Questo tipo di ambiguità arriva quasi a sfiorare la cupezza di un film noir. determinano il passaggio da un piano a due a un piano a uno. In questo frangente il film diventa davvero l’Ossessione del cinema cinese. Luci e ombre: ancora luci e ombre a modulare visivamente il gioco tra gli impulsi del desiderio e gli obblighi morali. Come all’opera: nel teatro d’opera cinese i personaggi femminili si affidano spesso ai ventagli e alle lunghe maniche di seta per rappresentare un’ampia gamma di sentimenti e situazioni. Nella scena in cui la moglie esprime la gelosia nei confronti della cognata, l’attrice fa un’identica cosa col foulard che tiene al collo (cinema e oggetti). L’ombra e il doppio: quando Li-yan chiede alla moglie di fare da mediatrice per un possibile matrimonio fra il tinello e la cognata, l’ombra che insistentemente si proietta sul muro sembra rinviare al motivo del doppio che lega fra loro le due donne o comunque a tutto il “non-detto” e quindi ad “altro”. Sguardi e conversazione: le diverse conversazioni tra i due amanti sono spesso drammaticamente modulate da un attento gioco di sguardi che, in questo caso, comprende tutte le sue diverse combinazioni: 1) Yu-wen guarda Zhi-chen senza che lui la guardi 2-3) i due non si guardano 4) i due si guardano 5) Zhi-chen guarda Yu-wen senza che lei lo guardi. Il cielo grigio e uniforme conferisce alle immagini un tono quasi astratto. 4. La festa di compleanno al finale Lo sguardo degli altri: durante la festa per i 16 anni di Xiu, prima gli sguardi di Li-yan, poi quelli della stessa giovane, rivelano i loro dubbi sul legame tra i due amanti. Tutto però si muove sempre sul piano della possibilità e dell’incertezza. Sull’arte del porgersi: in alcuni momenti del film, il volgersi di Wei Wei sembra sopratutto uno darsi allo sguardo dello spettatore. Ebbrezze: lo stato di ebbrezza che segue la festa di compleanno di Xiu, rende i due amanti più audaci. Nel corso dell’ultimo incontro notturno, Yu-wen e Zhi-chen raggiungeranno il punto erotico più alto della loro relazione- almeno per ciò che il film dedica di rappresentare- quando l’uomo bacerà la mano ferita della donna. Uscendo dalla stanza di Zhi-chen, Yu-wen non mancherà di ringraziarlo. Sensualità e ferite: dopo il più intenso e ultimo incontro con Zhi-chan, stesa sul suo letto, Yu-wen è colta a gambe scoperte della sua posa forse eroticamente più audace del film. L’inquadratura è chiusa da un lento movimento di macchina che le si avvicina metadone in rilievo la mano fasciata, poco prima baciata dall’uomo. Le ombre dell’Id: il balletto di ombre sulle tende del letto di Li-yan traduce visivamente nei termini di un film noir e/o espressionista, l’inconfessato desiderio dei due amanti a riguardo della morte di colui che impedisce, senza averne alcuna colpa, il loro amore. Le rovine come paesaggio interiore: l’immagine di Yu-wen che medita il suicidio è forse quella che di più di ogni altra esprime lo stretto legame posto dal film fra le mura della città in rovina e i sentimenti della protagonista (devastazione interiore- devastazione esteriore). Neanche uno sguardo: Yu-wen passa davanti al marito senza neanche degnarlo di uno sguardo se non un attimo prima di chiudere la porta che unisce lo loro due stanze. La scena- che testimonia l’impossibilità della donna di riavvicinarsi al marito- precede di poco il tentato suicidio dell’uomo. Ricami: le scene di Yu-wen al ricamo sono uno dei modi attraverso cui il film ne esprime- sopratutto attraverso l’iterazione del gesto- i sentimenti d’alienazione, noia e frustrazione. Inoltre l’immagine dell’ago che continuamente perfora il tessuto e tutt’uno con i tormenti interiori della donna. Vedere quello che non dovresti vedere: un’ulteriore spinta al tentato suicidio di Li-yan è dato dal momento in cui, ancora una volta davanti a un muro in rovina, vede da lontano la moglie piangere a fianco dell’amico. Il passaggio è risolto dal regista con un classico sintagma successivo chiuso. Anche qui la casa in rovina- il paesaggio antropico- assume una chiara valenza esistenziale. Ambiguità: quando Yu-wen ancora ignara del tentato suicidio di LI-yan rientra nella stanza passando a fianco di quella del marito, per ben due volte di ferma a guardare se qualcosa è accaduto al suo interno. Fei Mu filma gli incerti movimenti della donna con continuità senza interromperli con delle soggettive. Solo quando lei se n’è andata, un’immagine della stanza del marito mostra la mano di questi fuoriuscire dal letto; Che cosa ha visto Yu-wen? Non si è accorta di nulla? O al contrario ha intuito che qualcosa è accaduto ma ha preferito, più o meno consapevolmente, far finta di niente? La sottile ambiguità che attraversa il film è una delle principali ragioni del suo fascino. A confucian résurrection: ormai dato per morto, Li-yan ritorna inaspettatamente in vita in una resurrezione dal sapore dreyeriano (Ordet, 1954), liberando così i due amanti dal loro senso di colpa e permettendo una cionfuciana riconciliazione finale che salvaguarda l’unità famigliare. Un abbraccio: dopo la resurrezione del marito, invece di un ultimo incontro fra Yu-wen e Zhi- chen. Il film propone quello fra la protagonista e la sorellina Xiu. Nel corso della scena, su sollecito della stessa Xiu, Yu-wen confesserà finalmente e per la prima volta in modo esplicito il suo amore per Zhi-chen. L’abbraccio finale sancisce la riconciliazione di Yu-wen con Xiu, la propria famiglia e in qualche modo con se stessa. What’s price Confucio: la scena finale del film, dopo la partenza di Zhi-chen, mostra moglie e marito insieme vicino alle mura delle città. Un’immagine di riconciliazione, cui i protagonisti approdano dopo un lungo e periglioso viaggio è una vera e propria resurrezione. La morale confuciana è salva, ma a che prezzo? Il gesto finale della donna, con il braccio proteso verso l’orizzonte, potrebbe essere quello di un film comunista, con il personaggio principale che indica il sole all’avvenire, una curiosa somiglianza. “Rashomon” (1950) Kurosawa Akira Akira Kurosawa Regista e sceneggiatore cinematografico giapponese, nato a Tokyo il 23 marzo 1910 e morto ivi il 6 settembre 1998. A K. spetta innanzi tutto il merito di aver aperto al cinema giapponese le porte dell'Occidente, grazie all'inatteso Leone d'oro che il suo Rashōmon (1950; Rashomon) ottenne alla Mostra del cinema di Venezia del 1951, inaugurando così una stagione di importanti riconoscimenti attribuiti ad altri film giapponesi in diversi festival internazionali. Appartenente alla generazione dei registi del secondo dopoguerra più impregnati di spirito umanistico. Concentrò la sua opera sul personaggio, spesso un uomo in caparbia lotta contro i mali e le ingiustizie della società (che non vale per Rashomon). Gli eroi del regista, tuttavia, non sono mai dei personaggi piatti o manichei, al contrario si caratterizzano per la loro complessità e contraddittorietà, per l'impulso quasi irrazionale che li spinge ad agire e che talvolta si confonde con una dimensione oscura e ambigua (questo vale per Rashomon). Regista di uomini, più che di donne ‒ come invece fu per molti altri maestri del cinema giapponese ‒realizzò sia gendai-geki (drammi contemporanei) sia jidai-geki (drammi storici), anche se la sua fama internazionale è soprattutto dovuta a questi ultimi. A differenziarlo dai suoi colleghi è anche il carattere spesso spettacolare, il ritmo sostenuto, il dinamismo quasi esasperato che caratterizza molti suoi film (vicino allo stile calligrafico). L'influenza del cinema americano e dei modelli occidentali è chiara, così come lo è, nello stesso tempo, la capacità di guardare alle forme della tradizionale estetica giapponese. Si pensi, per es., e solo in ambito teatrale, al nō, da cui riprende certi effetti di ieraticità, stilizzazione, recitazione e narrazione ellittica, e al teatro kabuki, cui s'ispira per i toni picareschi, gli effetti comico-burleschi, le atmosfere espressionistiche. Questa varietà di fonti e forme non è, del resto, che uno dei tanti elementi che determinano la forte tensione del cinema di Kurosawa e che dà vita a quel dinamismo che è, forse, il marchio di stile e poetica più importante del regista. Ed è proprio attraverso il suo ruvido e diseguale montaggio, le frequenti e costanti giustapposizioni di primi piani e campi lunghi, l'alternanza di inquadrature statiche e altre piene di movimento, i raccordi che giocano su conflitti di linee e direzione, che K. riesce a dar vita a uno stile assai peculiare pari, per intensità espressiva e originalità di risultati, a quello dei grandi maestri della tradizione, come Ozu Yasujirō e Mizoguchi Kenji. Sogni), un film a episodi che il regista costruisce intorno alle proprie personali ossessioni: dalla paura dell'ignoto a quella della bomba atomica. Dopo questi film di ampio respiro spettacolare, K. chiuse la propria carriera con due opere più intimiste: Hachigatsu no kyōshikyoku (1991; Rapsodia in agosto), ancora una riflessione sul tema dell'atomica, e Maada da yo (1993; Madadayo ‒ Il compleanno), che rievoca la vita di un anziano professore vicino ormai alla fine dei suoi giorni. Ha lasciato un libro di memorie, Gama no abura: jiden no yō na mono (Olio di rospo: qualcosa come un'autobiografia, 1983; trad. it. dall'ingl. L'ultimo samurai: quasi un'autobiografia, 1995). Rashomon (introduzione al film) Il film (1950) vivendi nel 1951 la Mostra di Venezia, fece conoscere in Europa la filmografia di Kurosawa-già famoso in patria- che a sua volta aprì le porte dell’occidente al cinema giapponese. Una delle particolarità del film è il suo intreccio, o meglio, l’ambiguità del suo intreccio. Il film è ambientato nel Giappone del 12° secolo, presso la porta di Rasho (all’ingesso della città di Kyoto); infatti Rashomon significa “porta d’entrata”. Un monaco buddhista e un taglialegna raccontano sgomenti a un passante, che si rivelerà poi essere un ladro, l’assassinio di un samurai, su cui sono state deposte in tribunale versioni contrastanti. Un bandito, il samurai (che, morto, parla attraverso un medium), la moglie di questi e, in veste di un testimone, il boscaiolo ricostruiscono in modo differente gli eventi accaduti. Finita la pioggia, i tre uomini sentono piangere un bambino di cui, dopo che il ladro gli ha rubato i vestiti, si prenderà cura il taglialegna, già padre di sei figli, facendo così ricredere il monaco sulla cattiveria degli uomini. Il soggetto originale del film è tratto da due racconti di Akutagawa Ryunosuke. Rashomon per quel che riguarda la storia che fa da cornice, quella che si svolge sotto l’omonima porta e nel bosco, per ciò che concerne la morte del samurai e le sue diverse versioni. Nel film la struttura narrativa è decisiva: ritorna più volte su uno stesso evento ma da punti di vista differenti e con interpretazioni/soggettività/sguardi diversi. Il film infatti è una riflessione sull’impossibilità di approdare a un’unica verità nelle questioni umane e relazionali, una parabola sulla relatività del vero, quando questo passa attraverso ricostruzioni soggettive. L’assassino del samurai, che percorre il bosco insieme alla moglie, è infatti narrato più volte, e in versioni discordanti, attraverso il punto di vista dei personaggi- la moglie del samurai, il bandito che li ha assaliti, il taglialegna che ha ritrovato le tracce dell’aggressione, lo stesso samurai morto evocato da una sciamana- quasi a voler mostrare che sui fatti, hanno sempre la meglio le interpretazioni scaturite dall’interesse e dalla soggettività dell’individuo. Rashomon è organizzato in tre spazi ed in tre tempi. Ognuno di questi spazi è un’emblema di qualcos’altro: la civiltà in decadenza, la natura selvaggia e la legge). 1. Il primo è rappresentato dalla porta in rovina (la civiltà in decadenza) dove si apre e si chiude il film e che ogni tanto vi riappare. Qui inizia la narrazione sulla base di una forte sollecitazione al taglialegna da parte del ladro dietro il quale si cela la figura dello spettatore che non conosce ancora nulla. È uno spazio morale dove ci si interroga sulla fallacia degli esseri umani. Temporalmente corrisponde al “presente” del film. 2. Nel momento in cui viene chiesto che cosa sia successo veramente - interrogativo, questo, che ricorre più volte -, si passa allo spazio dell’azione, il bosco. In questo luogo “naturale” (che è proprio del selvaggio, rappresentato anche dal bandito) prendono forma le diverse versioni del delitto. Opponendosi idealmente allo spazio “culturale” della civiltà, esso rappresenta il luogo in cui si manifestano le pulsioni nascoste degli esseri umani e dove si crea il mistero. Temporalmente corrisponde al “passato remoto” del film. 3. Fra questi due ambienti c’è il cortile (cortile del magistrato), che ricorda il Ryoanji, giardino zen di Kyoto. Davanti al muro sullo sfondo, stanno i testimoni silenziosi, mentre colui che sta deponendo occupa una posizione più bassa in prossimità del porticato presso il quale si suppone ci sia il signore feudale, il giudice o un’altra figura incaricata di stabilire la verità. Si tratta dello spazio della “legge”, dove si cerca di risolvere il mistero. Temporalmente è il “passato prossimo” del film. 1. L’inizio L’arte della pioggia: a far capire che la pioggia sia una componente essenziale del cinema di Kurosawa, sarebbero sufficienti le immagini dei titoli di testa Rashomon. L’acqua scrociante -segno evidente di una natura “non indifferente” - è tutt’uno con lo sconforto e la mestizia del monaco e del taglialegna. La natura è una componente importante nel cinema di Kurosawa, determina il senso di una situazione e lo stato d’animo dei personaggi. Il giusto raccordo: terminati i titoli di testa, quattro raccordi (non propriamente sull’asse) e cinque diverse inquadrature - le prime delle quali evidenziano lo stato di distribuzione della porta - ci portano vicino al boscaiolo e al monaco che di qui a poco inizieranno a raccontare la loro storia. Questi raccordi iterati si possono ritrovare in diversi altri film del regista. In pratica ci sono 5 inquadrature sul edificio che va a pezzi, sul taglialegna e il prete prima un po’ più lontano e poi più vicino, creando quindi 4 raccordi. “Io non capisco”: la prima battuta che si sente dire è la frase del taglialegna, proprio per introdurre il tema principale del film che è l’impossibilità di definire e di comprendere la realtà. Un film sul cinema? Un’isotopia del film è una dimensione meta-cinematografica, questo è un film sul racconto, un film metà-narrativo. Ci sono anche delle immagini che rimandano al cinema, come la prima immagine del boscaiolo e del prete (su campo lungo) seduti al riparo dalla pioggia, che sembrano collocati in uno schermo/quadro luminoso all’interno di un9inquadratura più scura. Un cinema dinamico: il dinamismo è un aspetto importante del cinema di Kurosawa. Il carattere dinamico del cinema Kurosawa è testimoniato anche dal modo brusco e improvviso con cui è strutturata l’entrata in campo del ladro. Un’entrata sul davanti dell’inquadratura che modifica inspattatamnte il quadro iniziale, seguita dall’uomo che corre verso il riparo con spruzzi d’acqua. Rovine: la distruzione/la rovina è evidenziato dai campi lunghi che mostrano il tempio, ma anche attraverso delle inquadrature più vicine (colonne della porta abbattute per terra). Senso di decadenza. Dimensione grafica delle immagini: si può notare come in tutto il film - ma già dall’inizio - i personaggi sono disposti a scalare, in modo da creare una sorta di immaginaria diagonale obliqua che dà un’immagine una certa tensione visiva mentre si parla di qualcosa di molto strano che è accaduto. In una seconda scena (sempre con prete e boscaiolo) la trave che si trova dietro i due è in diagonale per sottolineare l’obliquità generale del piano. Montaggio: un altro dei principi dinamici su cui si regge il mosso cinema di Kurosawa è quello dei bruschi stacchi da piani ravvicinati a piani molto più distanziati (o viceversa) come qui accade per il passaggio da un mezzo primo piano a un campo lungo - scena con inquadratura del ladro + inquadratura sulle scalinate su piano lungo della porta-. Continua a piovere: Nei film di Kurosawa non solo piove, ma piove anche a lungo come lo stesso ladro si premura di far notare. La presenza della pioggia così rafforza, non è solo mostrata ma anche “parlata”. Da lontano a vicino: Un altro esempio del montaggio alla Kurosawa e dei bruschi stacchi da campi lunghi a primi piani che dinamizzano visivamente il film (Sergio Leone ne farà tesoro). Fra luci e ombre nel bosco: Il racconto ha inizio e si passa dal primo ambiente (porta di Rasho) al secondo (il bosco), così come si passa dal tipo presente al passato remoto. La prima inquadratura del bosco, che mostra il sol fra le fronde degli alberi, introduce quel gioco di luci e ombre che sarà visivamente tutt’uno con la fitta trama di misteri che di qui a poco prenderanno forma. Il passaggio dalla porta al bosco è segnato anche dal cambio pioggia-sole. Inoltre l’immagine prelude, in qualche modo alla scena dello stupro. In movimento: le prime 18 inquadrature della scena del bosco sono tutte dinamiche e giocate sull’uso di ampi “travelling”. Tale soluzione si contrappone alla fissità quasi imperante nella pretendete scena della porta. Inoltre, è solo nel bosco che viene introdotto il motivo del Bolero (che a suo modo prende il posto del rumore della pioggia). Le 18 inquadrature dinamiche danno forza, per contesto, alla 19° che invece è statica. Qui il boscaiolo trova il cappello della donna abbandonato: il mistery può avere inizio. (Alcune inquadrature rimandano sempre all’obliquità e alle diagonali). Come un horror: il genere a cui sembra avvicinarsi il film è l’horror. Alcune immagini ce precedono e accompagnano il ritrovamento del cadavere del samurai hanno lo stile del genere: inquadratura sull’ascia, mani del cadavere-parziale protese in avanti con le mani chiuse/serrate, l’espressione di sgomento del boscaiolo. Veloce come il vento: dopo aver visto il cadavere, il boscaiolo se la dà a gambe. Per accentua il sentimento d’orrore il regista ricorre, per la prima volta nel film, a dei movimenti di macchina La frenesia delle immagini: ad accentuare visivamente la tensione narrativa, anche le corse di Tajomaru nel bosco sono riprese, come quella del boscaiolo tramite rapide panoramiche e/o carrellate legate fra loro da raccordi in avanti e indietro. Luci, ombre e Tajomaru: nel momento in cui il bandito si appresta a tendere il suo tranello anche alla donna, un mezzo primo piano ne mostra il volto segnato da minacciose ombre. Il maschio e la femmina: l’angolazione dall’alto disegna visivamente un esplicito rapporto fra il cacciatore e la sua preda. La contrapposizione fra i due ruoli è anche evidenziata dal gioco delle luci: il chiaro della donna e lo scuro dell’uomo. Apparizioni progressive: come per la prima apparizione, anche qui, sotto lo sguardo di Tajomaru, il volto di Masako è preceduto dall’immagine delle sue estremità, lì i piedi qui una mano. Come una maschera: la prima immagine del volto di Masako senza cappello si ha quando Tajomaru le comunica che il marito ha avuto un incidente. Notevole la somiglianza del volto Kyo Machiko con una maschera del No (teatro in Giappone). 3. Il racconto di Tajomaru (parte 2) La vittima ed il carnefice: il racconto del bandito è quello più interessante poiché diviso in due parti: l’incontro con la donna e il samurai, lo stupro e l’uccisione del samurai. L’immagine del samurai-vittima legato all’albero stabilisce un certo rapporto visivo con quella del bandito-carnefice anche egli legato davanti al giudice. Quasi a sottolineare l’intercambiabilità dei reciproci ruoli (in particolare per quel che riguarda il rapporto con la donna). Triangolo e profondità: per tornare alla dimensione grafica del film, una della tante immagini “triangolari” - la cui profondità è determinata sia dalla disposizione sfalsata dei personaggi su diversi piani, sia dalla presenza sul davanti di rami, arbusti e tronchi che, da una parte creano una sorta di effetto mascherino (La posizione da macchina da presa nel bosco in queste scene, restringe il campo visivo e la fa sembrare quasi la soggettiva di un quarto personaggio che spia da dietro un albero; anche qui ci sono delle analogie con il genere horror) e dall’altra sembrano rinviare all’idea della soggettiva (del boscaiolo, si scoprirà alla fine). Giochi di sguardo: un segmento formato da sei inquadrature (e dodici quadri) è interrante composto da giochi di sguardo che coinvolgono ogni volta i tre personaggi, tenendone due in campo e uno fuori campo. Si tratta di sguardi interrogativi e pieni di tensione che preludono a un da farsi ancora molto incerto. Ogni immagine mostra A e B che si guardano, sino al momento in cui B rivolge il suo sguardo verso C, che si trova fuori campo. L’inquadratura successiva mostra a sua volta B e C che si osservano, sino al momento in cui C non si volge verso A…e così via per tutta la serie. Anche di questo particolare montaggio Sergio Leone farà tesoro. Conflitti di profondità e di linee: ogni passaggio di inquadratura, a sua volta, implica anche un rovesciamento di prospettiva, il personaggio che si trovava sul davanti nella prima immagine, occupa invece la posizione di sfondo nella seconda (es. se il bandito è in primo piano e guarda la donna, nella scena dopo la donna è in primo piano e il bandito nello sfondo). Inoltre la diagonale dominante ogni inquadratura - quella che unisce le due teste dei personaggi ripresi - è graficamente contrapposta a quella del piano successivo: se in un’immagine essa va dall’alto a destra al basso a sinistra, in quella successiva andrà dall’alto a sinistra in basso a destra. (Samurai che guarda la moglie, il bandito che guarda il marito, la moglie che guarda il bandito; tutto questo intervallato dagli sguardi in fuori campo) Girare intorno: la circolarità narrativa di Rashomon che ritorna su di uno stesso evento attraverso diverse versioni che di esso ne vengono date e si apre e si chiude in uno stesso luogo è - a volte - ripresa visivamente da movimenti di macchina anch’essi circolari che girano intorno ad un personaggio, come qui accade per Masako, passando dalla nuca al volto. C’è anche un gioco con il numero tre: come i personaggi in alcune scene e il titolo stesso. C’è una circolarità narrativa dello stesso evento anche per spazio (il film si apre e si chiude nello stesso posto) e nel tempo; si trova anche nei movimenti di macchina che ruota attorno al personaggio (Masako che aspetta di combattere contro Tajomaru: movimento semicircolare della macchina intorno alla figura della donna). Dalla geometria al caos visivo: la rigida geometria dei sei piani appena analizzati e la loro stasi è interrotta bruscamente - di nuovo nella logica del contrasto - dall’improvvisa azione di Masako e dai frenetici movimenti di macchina che la mettono in scena - la quale cerca di colpire il bandito con un pugnale -. Ancora come un animale: l’isotopia dell’animalità del bandito continua durante in film, questa volta Tojomaru si lecca la ferita inferitagli col pugnale da Masako. Ancora un’immagine spezzata: il tronco dell’albero divide nettamente l’immagine in due collocando da una parte la donna e dall’altra l’uomo. Il rincorrersi intorno all’albero è un altro degli elementi che rinvia al motivo della circolarità. Importante anche l’ambiguità dei ruoli di preda e cacciatore. Il piacere dell’eros: arriva la scena dello stupro. La scena in cui Masako si lascia andare al desiderio di Tojomaru è ancora tradotta in termini di luci e ombre, dove le prime possono rappresentare la cultura (che frena la moglie di un samurai dal congiungersi ad un bandito o comunque ad un uomo appena incontrato) e le seconde la natura (riferita al destarsi dal desiderio). Di qui le immagini del sole fra le fitte fronde degli alberi, viste in soggettiva da Masako o alle spalle del volto dell’uomo premuto su quello della donna, delle ombre dinamiche che attraversano il viso di Masako, e poi, quando il desiderio ha la meglio, dell’immagine che sfoca, del coltello che cade a terra, della mano della donna che si stende sulla schiena dell’uomo. Un’insolita posizione a scalare: quando la donna chiede al bandito di battersi a duello con il marito, Kurosawa ricorre a una delle sue tante inquadrature a tre, coi personaggi ad altezze sfalsate (il bandito in alto, il samurai dietro ma in mezzo e la donna in basso). Qui, tuttavia, la linea che unisce le loro teste anziché disegnare la solita diagonale, è tracciata in verticale. Sempre come un’animale: ance durante il duello, Tajomaru si esibisce in una serie di movenze, pose ed espressioni sopra le righe che ne accentuano la sua animalità. Se il samurai è “cultura”, il bandito è “natura”. (Ancora) chi vince e chi perde: ancora un’angolazione dall’alto che costruisce un rapporto di dominio dove Tajomaru sovrasta il samurai. Nel racconto del bandito quest’immagine ha una chiara funzione predittiva. Na notare la posizione del braccio del bandito che funge quasi da mascherino intra-diegetico del samurai (isola ed evidenza lo spazio del samurai). Fuori campo: un movimento di macchina in avanti mette fuori il campo il corpo del samurai prima che questo sia colpito dalla spada del bandito. Tutto accade attraverso il gioco di luci e ombre dinamiche (raggi che filtrano il sole tra le foglie mosse dal vento). “Ho ucciso con onore”: il bandito attribuisce la colpa dell’uccisione del samurai affermando però di averlo ucciso con onore in un regolare duello con le spade, in cui il suo rivale ha dimostrato tutto il suo valore - sebbene le immagini del combattimento non avessero proprio un carattere epico). Dal punto di vista etico e morale, quella che ne esce peggio dal quadretto raccontato da Tajomaru è Masako che innanzitutto porta gli uomini a fare un duello per poi fuggire nel bosco. 4. Il racconto di Masako Il ladro come spettatore: ogni testimonianza nel film ha una circolarità nel tempo e nello spazio, tutte che partono dai tre (monaco, boscaiolo e il ladro) che parlano sotto la porta di Rasho. Il ladro con le sue ipotesi e le sue domande, che spingono gli altri personaggi a proseguire il racconto, si pone come un doppio dello spettatore. Ancora immagini triangolari e conflitti grafici: Anche la parte sul tempio è evidenziata da alcuni elementi grafici. Lo sconcerto del boscaiolo - che ritiene tanto le parole di Tajomaru quanto quelle di Masako, nient’altro che bugie - passa ancora una volta attraverso immagini triangolari. Il raccordo fra le due immagini crea, inoltre, un evidente conflitto grafico (triangolo con la punta rivolta verso l’alto vs. Triangolo con la punta rivolta verso il basso). That’s entertainment: il ladro afferma “Non mi importa che sia una menzogna, purché sia avvincente” sembra rimandare all’idea di uno spettatore che al cinema chiede non tanto la verità quanto lo spettacolo. Testimoni e narratori: il ruolo di testimone e narratore del bonzo e del boscaiolo è visivamente ribadito dalla loro frequente inclusione nelle immagini del “processo” alle spalle di colei o colui che depone. Per quanto riguarda l’intervento meta-narrativo, i due nel “presente” e nel tempio sono i narratori; mentre nelle scene del “passato prossimo” nel cortile del magistrato loro sono testimoni delle storie altrui. Dalle spalle al profilo: anche il samurai può essere oggetto di un movimento di macchina semi circolare - che rinvia alla complessa circolarità del film, al suo eterno ritornare su uno stesso evento - come questo che passa da una sua immagine di spalle ad una di profilo. Sadismi: il corpo di Masako, schiacciato ed immobilizzato, dal piede di Tajomaru ha un’indubbia componente sadica. La “visione con”: pur essendo un film costruito sul racconto in prima persona, Rashomon fa un uso molto parco delle soggettive, preferendo una “visione attraverso” (lo sguardo attraverso) la “visione con” (il personaggio che guarda). Anche quando il samurai vede il coltello con cui si toglierà la vita, Kurosawa ricorre a un’immagine che tiene in campo, con un effetto di profondità, sia il personaggio e sia l’oggetto del suo sguardo - di fatto una semi-soggettiva -. Il suicidio mostrato e la figurazione: contrariamente alle versioni di Tajomaru e Masako, come sarà anche per quella successiva del boscaiolo, in quella del samurai il momento in cui la lama trafigge il corpo è mostrato. Con una certa efficacia espressiva, poi, Kurosawa invece di mostrarci il corpo dell’uomo che cade a terra, stacca sulla medium che compirà per lui il gesto eluso, in una sorta di figurazione traslata. 6. Il racconto del boscaiolo Un nervoso camminare: certamente Kurosawa è uno dei registi che più muovono i suoi personaggi nelle scene di conversazione (o di silenzi), che è un modo per rendere più dinamiche le sue immagini. Spesso, agitarsi è anche un segno di un’inquietudine, di un disagio interiore, come accade qui per il ripetuto andare avanti e indietro del boscaiolo, in procinto di essere scoperto. Narratore e narratario: è ancora una volta il personaggio del ladro a spingere qualcuno a proseguire con la narrazione e a incarnare così il desiderio dello spettatore che la storia possa proseguire. Dar forza alle parole: un improvviso rovesciamento di campo e prospettiva, dà forza alle parole del monaco quando afferma di non voler sentire altre orrende storie. L’altra faccia del bandito: nel racconto del boscaiolo, l’immagine di Tajomaru che si inginocchia davanti alla donna, implorandola, è un attacco alla sua dignità di guerriero e seduttore. L’altra faccia del samurai: nel racconto del boscaiolo, l’immagine del samurai che si rifiuta di battersi per la moglie è un attacco alla sua dignità di guerriero e di marito. Sotto le gambe di un uomo: l’inquadratura di Masako ripresa sotto le gambe del bandito e della sovrastante figura del samurai è assai esplicita della condizione di impotenza della donna in una società patriarcale. Si tratta per altro di una delle immagini più imitate della storia del cinema. Estasi e pathos: se, come dice Eisenstein, l’estasi che genera il pathos è sopratutto un uscire da sé e un trasformarsi in qualcosa/qualcun d’altro, il passaggio di Masako da una condizione di oppressione ad una di attacco nei confronti dei due uomini, accompagnato da quello che dal pianto la porta al riso, è un ottimo esempio di estasi e pathos. Sottomessi: le pose e le espressioni del bandito e del samurai sono un chiaro segno della loro incapacità di reagire all’esplosione di Masako. Il triangolo e il duello: anche l’avviarsi del duello nella versione del boscaiolo è aperto da un’immagine triangolare. Eccessi: che Kurosawa sia un regista che punta ad un’estetica dell’eccesso lo dimostra anche quest’immagine di Masako, dove il suo sguardo si sposta ripetutamente, nell’ambito di uno stesso piano, verso l’uno e verso l’altro dei due contendenti. Grafie: ancora un esempio del gusto di Kurosawa per gli effetti grafici, le geometrie e le linee diagonali. Come due pavidi: nel racconto del boscaiolo il combattimento fra il samurai e il bandito rappresenta come due pavidi e inetti - più propensi a fuggire che attaccare - più spesso a strisciare a terra che in piedi quasi come due vermi. 7. Epilogo Sotto la trave: il ritorno alla porta di Rasho è segnato ancora una volta da un’immagine fortemente grafica dove un’opprimente diagonale si impone in tutta la sua evidenza. Poche immagini dopo ne troviamo un’altra. Un’altra diagonale: ancora un’efficace inquadratura a tre coi personaggi disposti a scalare lungo una perfetta linea diagonale. Pianti, immagini e geometrie: il pianto del bambino è visivamente enfatizzato da questo stacco con effetto di capovolgimento che passa da un triangolo col vertice centrale verso il basso, ad uno, invece verso l’alto. In questo modo le due inquadrature evidenziano anche il personaggio del ladro di lì a poco si impossesserà delle vesti del neonato. Segmentazioni: anche senza il ricorso a diagonali, Kurosawa rende tese le sue inquadrature attraverso accentuati effetti di segmentazione visiva. Volti bagnati: per accentuare visivamente il litigio fra il ladro e il boscaiolo, che quasi vengono alle mani, Kurosawa li sposta sotto la pioggia, in modo che questa infradici violentemente i loro volti. Raccordi e dissolvenze: ancora un gioco di tre raccordi in avanti a unire quattro diverse inquadrature. Questa volta, però, caso unico nel film, al posto degli stacchi Kurosawa ricorre a delle dissolvenze incrociate. Una diversa soluzione discorsiva che prepara un finale che darà del boscaiolo un’immagine altrettanto diversa (adotterà il trovatello) da quella appena emersa di mentitore. Del resto, lo stesso finire della pioggia si muove in un’analoga direzione di speranza. Un finale umanista: nella tradizione del cinema umanista giapponese, il film si chiude con un gesto di speranza: quello del boscaiolo che decide di adottare il bambino abbandonato ricevendolo dalle braccia del monaco. Come su di uno schermo: campo e controcampo sulla partenza del boscaiolo davanti alla porta di RAsho che ricorda ancora una volta uno schermo cinematografico. Un finale in profondità: l’allontanarsi finale del boscaiolo è rappresentato da Kurosawa attraverso un ultimo effetto di profondità di campo. “The Housemaid” KIM KI-young (1960) KIM KI-young Acclamato dalla critica e premiato dal pubblico negli anni 60, KIM KI-young è travolto dalla crisi del cinema coreano nel corso del decennio successivo e poi quasi dimenticato negli anni 80. Regista a suo modo unico per il carattere eccentrico dei suoi film, è nato nel 1919 e lascia presto la sua carriera da dentista per entrare - contro il volere del padre - nel mondo del cinema, esordendo alla regia con The box of Death (1955). Dopo un paio di film contrassegnati da un certo realismo sociale, attenti ai temi della povertà e della condizione femminile, realizza nel 1960 The Housemaid che è tutt’oggi il suo lavoro più apprezzato. Il film esplicita l’aspetto dominante dell’opera del regista: l’attenzione al mondo del desiderio e degli istinti e a quella personalità nascosta che si cela in ogni essere umano e che quando si libera, lo spinge verso la catastrofe. Quello di KIM KI-young è considerato un cinema estremo - per il canoni della Corea degli anni 60 - come i sentimenti e le conseguenti azioni dei suoi personaggi, che li inducono ad una vera e propria “discesa verso gli inferi”. La separazione fra natura e civiltà - come quella fra desiderio ed etica - è spesso nei suoi lavori resa assai labile. La molla che spinge i suoi personaggi ad agire è spesso l’istinto - incontrollato e dettato dagli impulsi del momento, dagli stimoli del desiderio sessuale e dalla volontà di sopraffazione - che fa degli esseri umani qualcosa di molto vicino agli animali (e dello stesso regista una sorta di entomologo). Definiti all’epoca bizzarri, volgari, estremi e sadici; oggi i suoi film sono considerati “cult” (film con degli elementi di particolare originalità e che raccolgono intorno a se, degli estimatori che li considerano film di grande valore proprio per i loro caratteri estremi). I suoi film sono pieni di scompensi narrativi, inverosimiglianze, incoerenze e comportamenti poco motivati, i suoi lavori vedono privilegiare la parte sul tutto - soprattutto grazie alle sue invenzioni visive spesso legate alla rappresentazione della sessualità - e sono anche l’esempio di un cinema che rifiuta le tradizionali convenzioni narrative, così come le scontate distinzioni fra il bene e il male. Anche il rapporto coi generi e il cinema popolare è assai particolare: i suoi lavori contengono elementi del melodramma, dell’horror, del mistery e del thriller; senza mai del tutto di Dong-sik. Quel che è comunque certo che è l’arrivo della donna è la prima invasione proletaria dello spazio borghese dei Kim. Un cinema della crudeltà: l’ingresso della proletaria Kyung-hee nell’universo borghese dei Kim - che si apprestano a ristrutturare nuovi locali che rendano più degna la loro dimora - rivela anche la crepa nella famiglia Dong-sik. Non solo e non tanto l’handicap della figlia - costretta a camminare con le stampelle a causa della poliomielite - ma sopratutto l’atteggiamento del fratellino verso questa, che la deride e la insulta dandole dell’idiota e della storpia. Non tutto è oro nel mondo della famiglia Kim. Il film inizia a rivelare sempre la propria crudeltà, un po’ alla maniera di Stroheim. Quando il fratellino grida di aver visto un ratto, si avvia l’isotopia dei topi, che associata a quella del veleno, sarà una delle più importanti del film. La seconda volta: la seconda vista di Kyung-hee a Dong-sik - dopo la fine dei lavori - è immediatamente associata al ricorrente tema visivo dell’imprigionamento. Mano su mano: sempre nel corso della seconda vista si registra il primo contatto fisico - mano su mano - fra l’uomo e la donna. Lo sguardo di questa, fa si che lo spettatore non lo possa leggere come un momento accidentale. In fin dei conti è presente qui una certa ambiguità sulle intenzioni di Kyung-hee, perché non si capisce se è innamorata di Dong-sik o vuole prendersi gioco di lui o anela una sistemazione o vuole vendicare l’amica. (Il cinema dell’ambiguità e il cinema che fa propria l’ambiguità della vita). Attenti al topo: diverse sequenze del film vedono attribuire un ruolo fondamentale al montaggio che determina frequentemente il passaggio e l’intrecciarsi di ciò che accade in una stanza di casa Kim con quel che invece accade in un’altra. Nel corso della seconda visita di Kyung-hee, mentre il marito impartisce la sua prima lezione alla donna, si passa alla moglie - prima con i figli - e poi da sola in cucina. Qui la donna, riponendo degli oggetti negli armadietti, è spaventata dalla vista di un topo. Si avvia così (anche visivamente) l’isotopia che dal topo, attraverso la nuova domestica Myung-sook porterà al veleno e a tutto quel che ne conseguirà. Dai notare il punto di vista piuttosto ardito, ma assai efficace dall’interno dell’armadietto. Myung-sook: come abbiamo visto la presentazione di Myung-sook è una presentazione differita, che ritarda il momento dell’enunciazione della sua immagine propria. Ed è anche una presentazione surrettizia che, cioè, pur introducendola nella scena e mettendola in quadro no ne rimarca l’importanza, trattandola - sia sul piano visivo, sia sul piano narrativo - in modo anonimo. La sua immagine propria enunciata tardivamente e solo nel momento in cui Kyung-hee, trovandosela in camera, le propone un lavoro di domestica preso i Kim. Momento culminante e definitivo della presentazione di Myung-sook, la scena presenta un forte carattere indiziario almeno sotto tre punti di vista. A. Myung-sook ci appare nascosta dentro un armadio: è una donna che si cela ovvero che nasconde il suo vero essere (è colei che non si dà a vedere) B. Myung-sook si è nascosta per fare una cosa che le è proibita: fumare una sigaretta (è colei che trasgredisce le norme) C. Myung-sook è mostrata mentre esce da un armadio, cosa che la associa al topo che nella scena pretendete spaventava la signora Kim (è colei che rappresenta una minaccia) A casa dei Kim: la scena successiva alla presentazione di Myung-sook è quella in cui questa è introdotta da Kyung-hee nella casa dei Kim. La sequenza è divisa, come al solito, in una successione di: scena, situazioni, gruppi e personaggi, ambienti interni (questi a uno spazio più ampio che li comprende tutti). Un posto vacante: la sequenza si apre con la scena di Dong-sik che cucina vicino ai figli mentre la mare malata è al piano di sopra. Sebbene di lì a poco la famiglia si riunirà nella stanza della donna, l’assenza di questa in tale frangente sembra voler dar corpo a un posto vacante che qualcuno (Myung-sook) potrebbe a suo modo occupare. Il veleno per topi: la scena ha il compito fondamentale per lo sviluppo del racconto, di introdurre il veleno per topi (che sviluppa l’isotopia del topo) col conseguente monito del padre ai due figli di farvi molta attenzione. Al veleno, il film dedica un piano ravvicinato. Questo, inoltre, passa fra le mani dei tre personaggi presenti nella cucina, quasi a voler fare di tutti delle possibili e potenziali sue vittime. Una famiglia unita: la seconda scena della sequenza mostra tutta la famiglia mangiare intorno al letto della madre indisposta. Un momento di serenità che sembra fondarsi su di una famiglia unita. Una serenità e un’unità che vengono stabilite nel momento in cui l’imminente arrivo di Myung-sook ne sancirà la fine. 2. La seduzione L’arrivo di Myung-sook: la terza scena ci riporta al piano terra, con l’arrivo di Kyung-hee e Myung-sook. Quest’ultima è ancora una volta defilata, sta sempre in secondo piano, riconfermandosi così come un personaggio surrettizio. Una certa tensione visiva è costruita dal ricorso alla posizione bassa della macchina da presa, leggermente angolata verso l’alto, in modo da mettere in campo wallesianamente (Orson Welles) i soffitti e creare così uno spazio di per sé claustrofobico e opprimente (effetto che respinge l’inquadratura). Un’immagine doppiamente predittiva: rimasta sola, la domestica va in cucina e incuriosita, apre gli armadietti. Un’inquadratura del tutto simile a quella precedente della moglie, dall’insolito punto di vista all’interno del armadietto, la associa immediatamente al flacone del veleno. La funzione predittiva dell’immagine è più che evidente: Myung-sook sarà colei che avvelenerà, rischierà di essere avvelenata e si avvelenerà. Inoltre, da un punto di vista prettamente visivo, in queste immagini la domenica prende letteralmente già il posto della moglie: la sostituisce. Il cinema della crudeltà: la funzione predittiva del veleno è ripresa dal topo e dal suo avvelenamento che anticipano anch’essi molti degli eventi a venire. Se la moglie reagiva alla visione del topo con un grido di orrore, la domestica appare al contrario quasi divertita. Il diverso comportamento delle due donne ne attesta la dimensione oppositiva, che non può non implicare anche la differenza della dona (borghese) di città e la ragazza (proletaria) di campagna oltre a quella - ancora a venire - di due donne che si contenderanno lo stesso uomo. L’immagine conclusiva dell’agonia dei due topi - che a sua volta prelude agli sviluppi del film - è un altro esempio della crudeltà alla Stroheim (marcare eventi crudeli) del cinema di KIM KI-young. Voyeurismi (atto dello spiare): la lunga e articolata sequenza dell’arrivo di Myung-sook a casa Kim, comprende anche il momento in cui la domestica spia dalla finestra Dong-sik e l’amica Kyung-hee nella loro intimità (la mano di lui sulla spalla di lei). Il voyeurismo di Myung-sook sarà ripreso in altri momenti del film, che confermano la natura surrettizia - di chi agisce di nascosto - della ragazza. Sul piano della focalizzazione narrativa, questo moemetn ora sì che lo spettatore incominci a conoscere meglio la vera natura della donna, vedendola fare qualcosa di cui gli altri personaggi del film sono, invece, ignari. L’incubo: l’incubo di cui è vittima la moglie - la notte stessa dell’arrivo di Myung-sook - potrebbe essere letto come una sorta di segno (o di inconscia consapevolezza) degli orrori che la domestica la costringerà a vivere. La breve scena ha il compito di introdurre la decisone di dare alla luce un terso figlio. Uno scoiattolo in gabbia: la prima sequenza del film, successiva alla sistemazione di Myung-sook nella casa dei Kim, si articola ancora una volta in diverse scena che svolgono nelle differenti camere dell’abitazione - coinvolgendovi di volta in volta - tutti i personaggi principali. La sequenza si apre con il rientro di Dong-sik che reca con sé un piccolo scoiattolo in una gabbia. La gabbia riprende il motivo dell’imprigionamento già introdotto, attraverso le sbarre alle finestre nella prima immagine del film. Veleno si, veleno no: dopo quella della prigione, una seconda isotopia che viene qui ripresa è quella concernente il veleno, nel momento in cui la diffidente sorella invita il fratello a non bere l’acqua datale da Myung-sook perché potrebbe essere avvelenata. Per dimostrare il contrario, la domestica beve lei l’acqua offerta al bambino. La scena - oltre a legare il motivo del veleno a quello dell’ambiguità, e ad anticipare una ben più drammatica scena successiva - esplicita anche il rapporto sin da subito conflittuale tra la sorella e fratello, da una parte, e domestica dall’altra. Smoking: dopo la prigione e il veleno è la volta della sigaretta e del fumo, che nelle loro valenze negative, erano già associati a Myung-sook nel corso della sua vera e propria presentazione. L’isotopia della sigaretta è introdotta dall’arrivo di Kyung-hee, da cui subito la domestica si fa dare il pacchetto che le aveva chiesto di portarle. In questa sequenza il motivo si sviluppa nel passaggio, per coì dire, da una dimensione privata ad una pubblica. Se fino ad ora il fatto che la domestica fumasse era cosa che sapevamo solo noi spettatori (insieme all’amica) ora invece è cosa che gli stessi Kim verranno a sapere, sopratutto grazie al figlio che sottrarrà le sigarette alla donna per mostrarle - denunciandola - sia alla madre che al padre. Il vizio del fumo diventa così il primo tratto negativo associato alla domestica di cui i Kim si fanno consapevoli. Anche a loro immagine di Myung-sook inizia a presentare qualche piccola crepa. La denuncia del figlio esplicita a sua volta, il motivo subitaneo e aperto conflitto fra la domenica ed i giovani Kim (scontro accentuato dal rapporto al contrario amichevole che questi instaurano con Kyung-hee, la quale porta sempre loro dei dolci) conflitto già introdotto dall’episodio dell’acqua “avvelenata”. Infine, quando il padre va in cucina, restituisce le sigarette alla domestica con la forza ai propri desideri. La mossa successiva è quella di trascinarlo, facendolo passare sul balcone sotto una pioggia torrenziale, nella propria camera da letto. Il momento di seduzione vero e proprio, avviene con Myung-sook - che di spalle alla finestra davanti alla pioggia scrosciante - si sfila la camicetta. Un piano ravvicinato del suo braccio sollevato, la mano di lui che si poggia sotto l’ascella, il braccio che si chiude, il viso di lei che di volge verso di lui… Erotismo fra campo e fuori campo: e a chiudere, prima l’immagine metonimica (e fortemente erotica) dei piedi nudi di lei sulle scarpe di lui e poi il tronco di un albero colpito da un fulmine. “Sono la tua amante”: dopo una breve scena nell’aula di musica del dormitorio che allenta la claustrofobia di casa Kim, ritornano però al suicidio dell’operaia e in qualche modo alla rivolta di classe, il film ci riporta al serrato confronto fra i due protagonisti. La donna manifesta di nuovo la sua duplicità. Prima lo chiama confidenzialmente “caro”, si definisce la sua mante e pretende di essere trattata come tale e con una certa sfrontatezza, gli prende una sigaretta e se l’accende; poi vista la reazione negativa dell’uomo, si getta ai suoi piedi lo implora di tenerla a servizio, anche senza salario e dice che, gettando via la sigaretta, smetterà di fumare. Maschere e specchi: oltre alla sigaretta, due ulteriori oggetti hanno una certa importanza sulla scena. La maschera, che il film mostra sopratutto alle spalle della donna (rinviando così ancora una volta alla sua duplicità
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