Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Appunti corso di Estetica 2021/2022, Appunti di Estetica

appunti del corso di estetica della professoressa Caramelli. Argomenti principali: "La critica del giudizio" di Kant e "L'estetica" di Hegel

Tipologia: Appunti

2020/2021
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 12/05/2023

mara-savino
mara-savino 🇮🇹

4.6

(5)

2 documenti

1 / 101

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti corso di Estetica 2021/2022 e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! ESTETICA A (appunti anno 2021/22) 31/01/2022, lezione 1 ESTETICA: dal greco αἴσθησις (aistesis)= “sensazione”, “che ha a che fare con il sensibile”. Nel significato stesso il termine indica il rapporto costitutivo tra il sensibile e la conoscenza, definito problematico, poiché questo rapporto è una scoperta moderna. Il termine stesso, senso, è definito ambiguo e meraviglioso in quanto definisce organo immediato dell’apprensione sensibile, ma al tempo stesso è sensibile anche ciò che è astratto, che non si vede con i sensi, l’interno, il pensiero. (Lezioni di Estetica di Hegel) VISIONE DEL SENSIBILE NELL’ANTICO:  Eraclito, definito Eraclito lo scuro: nella raccolta di “Frammenti dei Presocratici”, a mo’ di indovinello, racconta di Omero e il suo incontro con dei pescatori ai quali chiede cosa stessero facendo; essi rispondono “le cose che abbiamo visto e preso le lasciamo dietro di noi, ciò che non abbiamo visto né preso lo portiamo con noi”. L’ indovinello di Eraclito sarà spiegato successivamente da Aristotele: i pescatori parlano dei pidocchi ma metaforicamente parlando i pidocchi sono un chiaro riferimento al sensibile. Per Eraclito gli uomini cadono in inganno nel conoscere le cose evidenti, come Omero; la conoscenza che dobbiamo tenere con noi è quella che non vediamo; Eraclito, dunque, squalifica tutta la conoscenza che deriva dai cinque sensi: se la sensibilità è apparenza, essa va lasciata. Questo ci dice che, nel pensiero antico, il sensibile è doppiamente ingannevole. Non solo perché, 1), il sensibile, essendo transitorio, non potrebbe fornire nessuna conoscenza fondata e durevole; ma anche perché 2) in tutto il suo prorompere, esso sembra al contempo la fonte della conoscenza più certa, la più disponibile, cioè quella che sembra offrirsi alla semplice registrazione dei nostri sensi.  Platone: nel libro settimo della “Repubblica” è presente “il mito della caverna”; il duplice inganno del sensibile è ben messo in evidenza nella metafora che Platone usa: se noi facciamo affidamento al sensibile, siamo come gli uomini imprigionati in una caverna che scambiano delle ombre di simulacri per realtà. (due dimensioni di distanza dal reale) Vi è però nell’antico una chiara contraddizione: proprio quell’antico che condanna il sensibile, formula la critica in forma estetica (con il mito, con la metafora e tramite il dialogo platonico). Gadamer, filosofo contemporaneo, in degli studi su Platone mette in evidenza come paradossalmente per criticare il mito e la dimensione estetica, Platone fa riferimento al mito: questo perché in questo modo con il mito Platone non si limita a ricusare quel sensibile che fa parte delle nostre vite, ma lo rende alleato del logos (nel Protagora Platone dirà che predilige il mito, per rendere più efficace e persuasiva la trama razionale del discorso). 03/02/2022, lezione 2 VISIONE DEL SENSIBILE NEL MODERNO Nel moderno, è necessario volgere lo sguardo all’etimologia della parola in tedesco “sensibilità” ritorna una sorta di ambiguità. Nel più grande vocabolario della lingua tedesca dei fratelli Grimm c’è una storia dell’evoluzione del significato del termine “sensibilità” (in tedesco Sinnlichkeit):  Nel tedesco antico è un sinonimo di “comprensibilità” e “ragionevolezza”; nella lingua tedesca veniva valorizzata l’accezione per cui sensibile non è direttamente ciò che deriva dai sensi (organi), ma ha a che fare con il senso.  Nel tedesco moderno il significato di Sinnlichkeit si restringe andando a definire ciò che ha a che fare con i sensi (intesi come i cinque sensi) -unendo la distinzione avvenuta nelle lingue neolatine-  Nelle lingue neolatine si mantiene la distinzione tra SENSIBILITAS (= ciò che ha a che fare con i sensi) e la SENSUALITAS (=ciò che ha che fare con i sensi, nella misura in cui essi sono veicolo del desiderio): in tedesco non c’è questa distinzione. Questa emancipazione del termine Sinnlichkeit dalla sua dipendenza dall’intelletto della sfera cognitiva del senso, corrisponde a un evento culturale: nell’epoca moderna il termine “sensibilità” acquisisce identità e autonomia filosofica. Questa emancipazione che si riflette nel cambiamento di significato, va di pari passo al cambiamento del lessico filosofico che diventa non più il latino ma tedesco. Leibniz, è un personaggio importante in questa progressiva emancipazione del sensibile, poiché criticando Cartesio riconosce la sensibilità come facoltà dei sensi esterni, facoltà per la conoscenza (non solo il razionale per conoscere), anche se viene considerata come facoltà inferiore rispetto all’intelletto. A riabilitare la conoscenza del sensibile sarà Baumgarten: con lui il sensibile diventa il soggetto di una vera e propria scienza; l’esperienza del sensibile dà luogo alla scienza della conoscenza sensibile, ovvero l’ESTETICA, che entra nel lessico della filosofia come neologismo. Baumgarten eredita la posizione di Leibniz: la conoscenza sensibile come inferiore rispetto alla conoscenza logica (perché la conoscenza che ci viene dalla sensibilità non è analitica -esempio nessuno sa dire perché un colore è bello o fare una distinzione tra i colori-: quello che l’intelletto riconosce in maniera chiara e distinta, la sensibilità la restituisce in maniera chiara ma confusa. Essa ci aiuta a individuare un oggetto ma non sa dirci come distinguerlo da un altro). Tuttavia sia pure in questa gerarchizzazione della conoscenza tra intellettuale e sensibile, non c’è una distinzione essenziali, c’è una continuità espressa da Leibniz (= il mondo da Leibniz è costituito da monadi (unità minime di coscienza), che sono distinte e non comunicano tra loro, ma riflettono, rispecchiano tutte le cose che succedono nell’universo; le più vicine avranno riflessi chiari, che diventeranno più sbiadite, opache man mano che diventano più lontane) -> rappresenta la transizione graduale tra le rappresentazioni chiare e distinte nell’intelletto (riflessi chiari) e le rappresentazioni chiare ma confuse del sensibile. È importante sottolineare la gradualità che ci fornisce Leibniz (potrebbe essere pensato come il vero anticipatore dell’estetica). Con Kant l’estetica non è più una regione del sapere ma una filosofia fondamentale, dà via al processo che conduce il filosofare a interpretare il sensibile per comprenderlo e per comprendere il mondo. dell’autolimitazione, ma è un cammino sicuro. Ciò differenzia il cammino della ragione da quello della logica: quest’ultima, infatti, si presenta come qualcosa di compiuto che non regge al banco di prova dell’esperienza (perché procede solo per necessità ed è in contrasto con la possibilità dell’esperienza) è limitata alla sua astrazione e non produce nessun tipo di conoscenza. La logica, per Kant, può essere al massimo un vestibolo delle scienza, ma a rigore essa non è neanche scienza, che per Kant sono la matematica (con dimostrazioni, che mettono in luce quella concettualità a priori che rende possibile l’esperienza) e la fisica, alle quali Kant vorrebbe accostare la metafisica, facendo di essa un sapere attendile. 04/02/2022 Il tema della categoria in Kant: ha un aspetto paradossale che è allo stesso tempo il centro della filosofia kantiana -> è la soggettività a porre l’oggettività dell’oggetto, l’oggettività dell’oggetto è data dalla soggettività. Questo è il nucleo teorico della RIVOLUZIONE COPERNICANA (metafora utilizzata da Kant nella seconda edizione della critica -rifacendosi alla sostituzione della visione tolemaica geocentrica a quella eliocentrica copernicana-). In filosoficis, il sole e la terra sono sostituiti al soggetto e all’oggetto. La rivoluzione copernicana non ha a che fare solo con una mera inversione di ruoli, cambia anche la tipologia di rapporto tra soggetto e oggetto: prima è l’oggetto a ruotare attorno al soggetto che è dunque passivo, mentre invertendo i ruoli la soggettività viene coinvolta in maniera diversa. Questo rovesciamento ci fa pensare a una conoscenza possibile a priori, poiché è l’oggetto che deve conformarsi alla natura della nostra facoltà intuitiva. Le intuizioni tuttavia non sono sufficienti per produrre conoscenze, dunque per ordinare l’esperienza ci vuole l’intelletto. Per Kant sono gli oggetti a regolarsi sulla nostra coscienza: qui notiamo nuovamente la convergenza in Kant tra istanza razionalistica e empiristica, dove agli opposti da una parte il dogmatismo metafisico (dove sfocia il razionalismo), dall’altra lo scetticismo (dove sfocia l’empirista). Come potremmo fondare, dire universale l’esperienza per evitare di sfociare nello scetticismo (non avere certezza di nulla)? Kant mette in discussione l’autonomia reciproca di empirismo e razionalismo, e crede che ci sia oltre alla conoscenza che deriva dall’esperienza ce n’è un'altra dal quale essa prescinde, ma che può essere tuttavia utilizzata solo contestualmente a un’esperienza sensibile. Ecco perché la teoria di Kant è anche TRASCENDENTALE. [TRASCENDENTALE in Kant = deriva da un cambiamento del significato lessicale del termine; trascendentale viene da trascendere (=fare un movimento, fare un salto volgere al sovrasensibile). Trascendente nella scolastica consiste nel fare un salto in avanti, al di là dell’esperienza.] Anche per Kant si tratta di fare un movimento, ma non al di là dell’esperienza, riprende l’aspetto dinamico che deve assumere il filosofo che deve volgere però all’indietro, guardare ciò che viene prima dall’esperienza (una serie di conoscenze che noi abbiamo a priori - le categorie differenti dai concetti (che derivano dall’esperienza), in quanto le categorie sono concetti che tuttavia non derivano dall’esperienza. Es concetto di causa, non è qualcosa che si ricava dall’esperienza, anzi è l’idea di causa che rende possibile l’esperienza, altrimenti sarebbe una serie di esperienze senza senso, una congerie di eventi che la nostra sensibilità percepirebbe senza saperli organizzare; senza le categorie il molteplice sensibile non potrebbe mai essere ricondotto a un’unità di senso -). [FENOMENO: Oggetto per come si regolano e si accordano alla regola dell’intelletto data a priori, prima degli oggetti.] La coppia fenomeno-noumeno si trova già in Platone dove il noumeno è il modo d’essere delle cose mentre il fenomeno è ciò che non produce conoscenza e noi dobbiamo conoscere il noumeno; in Kant si inverte il noumeno è inconoscibile, ciò che possiamo conoscere è il fenomeno. Dunque la rivoluzione che Kant denomina copernicana consiste nell’emancipazione dall’illusione naturalistica secondo la quale la fonte della conoscenza oggettiva sarebbero gli oggetti, per Kant la fonte dell’oggettività del sapere è il soggetto conoscente. La vera rivoluzione comporta il fatto che nella nuova prospettiva soggetto e oggetto sono protagonisti di un coinvolgimento reciproco. CATEGORIA: dal verbo categoreo letteralmente “accusa”, “imputazione”, ma anche “attributo”, “predicato”. Perché Kant utilizza questo termine? È grazie alle categorie che io posso qualificare il materiale dell’intuizione, che diventa soggetto di un predicato. L’uso legittimo di queste categorie è limitato all’esperienza: non producono conoscenza se non applicate con l’esperienza; questo fa sì che le facoltà che producono conoscenza sono:  SENSIBILITÀ: che ci rende disponibile il materiale intuitivo, disperso, frazionato e caotico;  INTELLETTO: che grazie ai concetti puri, organizza il materiale della sensibilità, lo sintetizza;  GIUDIZIO: mediatore tra intelletto e sensibilità, l’assenza del quale sarebbe la stupidità; Kant fa l’esempio di uno che doveva studiare il manuale di anatomia che non fa di noi un chirurgo -> il giudizio ci consente di scegliere il concetto giusto per l’intuizione data, formula la conoscenza. Stando alla tradizione vi sono due tipi di giudizi:  GIUDIZI ANALITICI : il significato del predicato è contenuto in quello del soggetto (il triangolo ha tre lati)  GIUDIZI SINTETICI: il significato del predicato eccede quello del soggetto (l’aula è grande) A questa coppia Kant aggiunge la coppia a priori e a posteriori, che ha a che fare con la posizione della conoscenza rispetto all’esperienza. Tipi di giudizi:  GIUDIZI ANALITICI A PRIORI: (non può essere a posteriori, poiché non necessita dell’esperienza) non produce conoscenza ma analizza un concetto il cui significato è dato a priori  GIUDIZI SINTETICI A POSTERIORI: è dato con l’esperienza e produce conoscenza (i corpi riscaldati aumentano di calore)  GIUDIZI SINTETICI A PRIORI: pur producendo conoscenza sono a priori; questi sono i giudizi della scienza e l’esempio dato da Kant è dato dalla matematica -per Kant una scienza per antonomasia- (5+7=12 il concetto di 12 -> non è compreso in quello di 5 o in quello di 7, ma produce conoscenza); questo giudizio unisce a un plus conoscitivo una validità a priori che fa questo fondamento del sapere, attribuisce al flusso conoscitivo una qualità a priori: siamo noi che applichiamo la concettualità pura (uguale per tutti gli intelletti umani) e definiamo il giudizio universalmente valido. Hume ritiene che il concetto di causa derivi solo dall’esperienza, e lo vede come una falsa necessità perché frutto di abitudine, e logicamente il concetto di causa non ha nessuna validità: per Kant “dove c’è rischio di un esito scettico entra in gioco l’intelletto puro”-> il concetto di causa è a priori; se fosse come dice Hume verrebbe distrutta ogni filosofia e anche la matematica pura che contiene enunciati sintetici ma senza dubbio anche a priori. E LA RAGIONE? La ragione è la facoltà del sovrasensibile, la facoltà della totalità, incompatibile con il carattere finito dell’esperienza dunque non può produrre il conoscibile; essa presiede l’ambito pratico, l’uso legittimo della ragione è quello morale. Essa ha una valenza regolativa, mai costitutiva, non costitutiva (l’intelletto costituisce l’oggettività degli oggetti). Kant utilizza la metafora della colomba che vola, non rendendosi conto che ciò è possibile grazie alla resistenza dell’aria: allo stesso modo la ragione che vola in alto e va al di là dell’esperienza, non ha vincoli, ma è solo grazie al limite che è possibile conoscere, dunque solo con l’esperienza -dove non c’è vincolo non c’è conoscenza-. Questo ci fa capire come noi stessi siamo considerati da Kant nel nostro aspetto fenomenico e noumenico. L’intelletto conosce noi come oggetti fenomenici; al tempo stesso, siamo soggetti noumenici, in quanto viviamo la nostra soggettività nella libertà, una libertà che non si può conoscere, non si può definire in termini conoscitivi. La libertà è qualcosa che possiamo pensare e praticare ma non conoscere. Il regno della morale e della natura che convivono in noi non si toccano mai. 07/02/2022 Come è costruita la critica della ragion pura? DOTTRINA TRASCENDENTALE DEGLI ELEMENTI (=tratta degli elementi della conoscenza il materiale per l’edificio del sapere -sensibilità, intelletto, ragione-):  Estetica trascendentale : in questo caso intesa come ciò che si riferisce esclusivamente alla sensibilità, la scienza della conoscenza sensibile (nel vecchio senso di Baumgarten); solo nella critica del giudizio, estetica (che Kant userà solo come aggettivo, giudizio estetico) avrà a che fare con l’esperienza delle rappresentazioni belle: nell’arco di meno 10 anni in Kant il termine estetica cambierà di significato. Cos’è la sensibilità? Nella critica della ragione pura Kant dice che i due tronchi della conoscenza sono la sensibilità e l’intelletto. La sensibilità è una facoltà ricettiva (che in filosofia significa “passivo”), che si contrappone alla spontaneità (=attività) dell’intelletto. L’intuizione che si riferisce a un oggetto, che registra il dato sensibile è una sensazione empirica, e da qui la specificità dell’estetica di Kant, definita dall’aggettivo trascendentale: da una parte la sensibilità, essendo una delle facoltà della conoscenza, qualifica che la nostra conoscenza è finita, perché non sono io a produrre il dato, ma mi si dà; ma, di contro all’empirismo per il quale parlare di estetica trascendentale sarebbe una contraddizioni in termini, per Kant anche la sensibilità, nell’esperienza che sembra una cosa passiva, ha una forma pura (le forme pure delle intuizioni) -> ammettendo la percezione di un corpo, e provando a togliere tutto quello che è il risultato del lavoro dell’intelletto, e anche ciò che deriva dalla sensibilità: ciò che resta è che ogni oggetto che possiamo pensare occupa uno spazio, e ciò non dipende dalla nostra sensibilità anzi è il fatto che occupa uno spazio che ci consente di organizzare l’esperienza sensibile (la definizione dello spazio in generale è che dove c’è un corpo non ce n’è un altro). Le forme pure delle intuizioni sono lo SPAZIO (dove c’è una cosa non ce n’è un’altra) e il TEMPO (ogni cosa viene dopo un’altra, ogni attimo mangia quello precedente). Kant a questo punto si pone la domanda: spazio e tempo sono dimensioni che appartengono anche agli oggetti di per sé indipendentemente dal fatto che siano o meno intuiti, o sono solo ed esclusivamente forme dell’intuizione, dunque forme della costituzione soggettiva del nostro animo: l’intuizione, operazione nel quale interviene il giudizio, il quale getta ponti tra intelletto e il molteplice intuito tramite una serie di schemi. Il giudizio è dunque la conoscenza mediata di un oggetto, denominato rappresentazione di rappresentazione (una prima mediazione, rappresentazione tramite i sensi, e poi dopo il lavoro dell’intelletto il giudizio opere un rappresentazione di rappresentazione). L’intelletto viene definito da Kant come “facoltà di giudicare” = unifica mediante concetti, e questa concettualità e la stessa che è alla base della formulazione del sapere, la quale entro un giudizio lega S (soggetto) a P(predicato). ANALITICA DEI PRINCIPI: canone per il giudizio a cui essa insegna, il modo di applicare ai fenomeni i concetti dell’intelletto, i quali contengono le condizioni per le regole a priori. Dunque tornando alla questione del fondamento e del sapere fondato, è vero che Kant pone un limite alle nostre conoscenze, ma reperisce nel limite della validità la validità del limite (questo limite che pone è effettivamente valido). C’è una differenza però tra il giudizio che compare nella critica della ragion pura e la terza critica: CRITICA DELLA RAGION PURA: esperienza come oggetto di conoscenza, dove il concetto è un elemento immancabile: il giudizio ha un ruolo di mediazione, facoltà ausiliaria e soprattutto un lavoro facilitato poiché l’universalità del concetto è sempre data -> giudizio determinante: che determina le intuizioni (“è un giudizio che si esercita nella sua modalità determinante” = l’universale è dato e si tratta di determinarlo nel modo giusto, applicare un concetto all’intuizione); non è completamente autonoma perché le regole per l’applicazione concetto-intuizione vengono fornite dall’intelletto al giudizio. Il giudizio collabora con l’intelletto producendo degli schemi che agevolano il passaggio dalla dimensione di concetto a quella di intuizione, questa dottrina dello schematismo è misteriosa e affonda nell’intimo dell’animo, non possiamo conoscerne l’origine ma ha un ruolo indispensabile anche se ausiliario. Gli schemi sono delle produzioni applicate/usate dal giudizio con la collaborazione della facoltà dell’immaginazione produttiva (originati da essa) che servono a fare da ponte tra l’intuizione e il concetto giusto. CRITICA DEL GIUDIZIO: nel caso dell’esperienza estetica, Kant scopre una nuova valenza del giudizio: non si parte da un concetto, da un universale, ma da un particolare e non esistono concetti con il quale comprendere quel particolare. L’universale, in questo caso, anziché trovarlo in un concetto dato, verrà cercato dentro di noi (questo nuovo modo di impiegare il giudizio, sarà chiamato da Kant giudizio riflettente, in quanto determina noi stessi)  DIALETTICA TRASCENDENTALE: leggi della ragione -> in questo contesto dialettica significa illusioni, apparenze, cui la ragione va necessariamente incontro nel momento in cui va al di là dell’esperienza; nell’arco di 30 anni il termine dialettica, in Hegel, la dialettica restituisce nella maniera più fedele ciò che è reale. DEFINITA “LOGICA DELL’APPARENZA”: è costitutivo della ragione che si avventura al di là del sensibile, e ciò facendo pretende di conoscere ciò che sta al di là del sensibile (non conoscibile), ed è dunque trascendentale che la ragione produca una dialettica, un sapere che è un falso sapere, un sapere apparente. Ci offre il miraggio di ampliare l’uso del nostro intelletto limitato. È un illusione trascendentale che la ragione pretende di conoscere, è una nostra tendenza, una sorta di illusione ottica costitutiva che ci sembra che la ragione possa conoscere (la metafisica necessaria ma impossibile). Il pensiero filosofico deve tematizzare questa falsa apparenza, non può sbarazzarsene, ma se lasciata a sé stessa potrebbe condurre non a deduzioni oggettive ma a PARALOGISMI (ovvero deduzioni sbagliate), prodotti dalle IDEE - le idee stanno alla ragione come i concetti all’intelletto - (l’immortalità dell’anima, la creazione del mondo, l’esistenza di Dio), non corrispondono a nessun oggetto dei sensi, di queste idee dunque non è possibile una deduzione oggettiva. Ci sono ragionamenti privi di premessa empirica, mediante i quali, muovendo da qualcosa che conosciamo, giungiamo ad altro di cui non abbiamo concetto attribuendogli una realtà oggettiva. Le idee dunque essendo costitutivamente al di là dell’esperienza sensibile, sono regolative in quanto possono sollecitare e invitare l’intelletto a estendere i limiti del conoscibile senza avere il diritto di invitare l’intelletto a superare quei limiti. DOTTRINA DEL METODO (=tratta del metodo dell'esercizio della ragione pura, ossia della costruzione del sapere):  Disciplina della ragion pura.  Canone della ragion pura.  Architettonica della ragion pura  Storia della ragion pura MORALE E LIBERTÀ -Critica della ragione pratica- C’è però un dominio in cui la ragione ha il suo uso legittimo, ovvero la morale: Kant si interroga su quali sono i moventi legittimi dell’agire. Il suo punto di partenza è: la differenza tra essere buono o cattivo non deriva dal contenuto concreto della massima che determina il mio agire ma dalla forma. Ciò che interessa la morale di Kant non è il risultato dell’azione ma l’analitica delle motivazioni dell’agire. Un’azione è morale se e solo se è unicamente determinata dalla ragione, se la motivazione di un’azione è unicamente razionale/pura. Il fondamento del mondo della conoscenza sta nella subordinazione del razionale al sensibile (in caso contrario, ad esempio, la ragione potrebbe produrre conoscenza) al contrario il fondamento del mondo morale sta nella subordinazione del sensibile al razionale: l’uso legittimo della ragione, è pratico e consiste nel disciplinare il sensibile e fare si che il movente dell’agire sia un movente razionale puro. L’autonomia della ragione significa nell’ambito pratico, sottrazione ad ogni condizionamento naturale, emancipandoci dalla necessità della natura e ritagliandoci uno spazio di autonomia: Nella natura noi siamo come una cosa tra le cose -> l’esercizio della morale che subordina l’esercizio ragione, che a sua volta subordina il sensibile alle leggi della ragione, ci sottrae da quel condizionamento a causa del quale in sede conoscitiva e come fenomeno io non sono diversa dalle cose inanimate, e solo in sede morale noi ci sottraiamo a questo condizionamento naturale, emancipandoci a questa condizione ritagliandoci uno spazio di autonomia. Dunque la libertà è condizione della morale (senza libertà non ci sarebbe esercizio della morale) e il prodotto stesso (emancipandoci dal condizionamento di natura la ragione esprime il suo margine di autonomia). L’esperienza della morale è una cosa che possiamo sperimentare ma che non potremo mai conoscere a fondo poiché la ragione non costituisce oggettività. In queto caso la ragione pura e la ragione pratica sono la stessa cosa e sarebbe quindi più appropriato parlare di ragione puro-pratica. L’uso speculativo della ragione è scorretto mentre è corretto invece il suo uso pratico. La ragione non ha il potere di eliminare il dualismo tra inclinazione sensibile e legge razionale ma tuttavia SOSPENDE LA SENSIBILITÀ COME MOTIVO NECESSITANTE DELL’AGIRE, SOTTRAENDOCI COSÌ AL DOMINIO DELLA NATURA. La realtà della libertà è una legge apodittica (= autoevidente, che non ha bisogno di dimostrazione), è un fatto, in quanto condizione della morale e dunque un dato di fatto che noi sperimentiamo. L’imperativo categorico è il principio grazie al quale la ragione ci consente di essere liberi perché è l’imperativo della ragione e dunque seguendo l’imperativo categorico sospendiamo quella causalità naturale che è la necessità e facendo così esercitiamo la nostra libertà. La terza critica spiega il passaggio dal modo di pensare del condizionato al modo di pensare dell’incondizionato, dal dominio della natura a quello della libertà. Passaggio anche tra le idee della ragione che non possiedono verità nella ragione speculativa, nel dominio della natura ma hanno invece una consistenza e realtà oggettiva nel dominio/nella realtà della libertà. Rimane aperto però un interrogativo dalla critica alla ragion pratica: la libertà può essere anche una causa attiva/efficiente nella natura? Abbiamo visto che nella natura non c’è spazio per la libertà e che tutto avviene per necessità, ma la libertà che abbiamo visto essere condizione e prodotto della nostra moralità può condizionare la natura? Come si passa dal modo di essere del condizionato al modo di essere dell’incondizionato? La libertà non è naturale in quanto appartiene esclusivamente all’essere umano ma non è nemmeno un artificio artificiale poiché è un dato di fatto della nostra esperienza noumenica, non c’è nemmeno bisogno di dimostrarlo. Critica del giudizio La terza critica si interroga sul rapporto, su come si passa dal modo di essere condizionato della natura al modo di essere della libertà. Nelle prime pagine (3,4 capoverso della prefazione) la terza critica si interroga sull’opportunità di frenare le pretese dell’intelletto (fino ad adesso era la ragione a dover essere frenata e rimarginarla all’uso pratico): la pretesa pericolosa dell’intelletto è quella di rischiare di ridurre ogni cosa sensata al dominio del conoscibile, rischia di essere troppo radicale e sostenuta che nulla abbia senso oltre ciò che è conoscibile. Ci sono una serie di qualità secondarie, che pur non essendo oggetto di conoscenza, sono per l’uomo altrettanto importanti. A partire da Leibniz (1646-1716), riformatore in tal senso del razionalismo moderno, si distinguono le conoscenze chiare e distinte da quelle chiare e confuse.  CONOSCENZA CHIARA VS OSCURA CRITERIO: riconoscibilità (mi ricordo di un fiore che saprei individuare o di un fiore ma senza poterlo individuare)  CONOSCENZA DISTINTA è la comprensione degli elementi costitutivi dell'oggetto, quindi una conoscenza analitica. Si tratta della conoscenza scientifico-razionale.  CONOSCENZA CONFUSA , ove gli elementi sono fusi e impenetrabili 14/02/2022 Cos’è che esibisce il giudizio come giudizio riflettente? Il rapporto delle facoltà delle superiori dell’animo con un sentimento di piacere o dispiacere. Il sentimento di piacere che noi proviamo difronte a una cosa bella viene da un accordo che sembra trovato tra la forma di quella cosa e la nostra costituzione. Pg. 5 della Prefazione: Si tratta di stabilire se il giudizio nella sua autonomia ha un valenza costitutiva o semplicemente regolativa, e se il collegamento tra l’esercizio del giudizio e sentimento di piacere o dispiacere è un collegamento a priori. Pg 7: È difficile però stabilire il principio a priori del giudizio che non può derivare dai concetti a priori che appartengono all’intelletto, e dei quali il giudizio visto fino ad adesso ne fornisce la sola applicazione. È necessario ricavare dal giudizio stesso dunque una regola, con la quale nessuna cosa è conosciuta (compito dei concetti e dell’intelletto) ma che serva a regolare il giudizio stesso. La difficoltà dunque è data:  dall’impossibilità di ricorrere ai concetti dell’intelletto, che servono a conoscere e dunque il giudizio ha un’azione esclusivamente ausiliaria in ambito conoscitivo;  dall’impossibilità dell’utilizzo delle idee della ragione. Il giudizio è un termine medio, e il principio deve essere ricercato nel giudizio stesso. L’introduzione di Kant dunque partirà da una divisione della filosofia partendo dalla divisione di due specie di concetti:  CONCETTI DELLA NATURA: rendono possibile la conoscenza teoretica, tramite i concetti a priori → FILOSOFIA DELLA NATURA  CONCETTO DELLA LIBERTÀ: alla base della FILOSOFIA DELLA MORALE, pratica Kant si domanderà subito dopo se la causalità che si trova nel dominio della natura e analoga a quella del dominio della libertà, il modo d’essere della causa è lo stesso in entrambi i domini. La specificità della volontà, in quanto facoltà del desiderare, è che da una parte fa parte della natura e dunque è anche essa disciplinata dalla necessità della natura, eppure partecipa anche all’ordine della libertà. Le regole cui la natura obbedisce sono fondate su condizioni sensibili, mentre il regno etico pratico delle leggi morali si basa sul sovrasensibile. La nostra facoltà conoscitiva è legislatrice per la natura grazie all’intelletto, mentre la ragione è legislatrice per l’ambito morale esercitando la libertà. Ma questi due domini si escludono a vicenda, delimitandosi: il dominio dei concetti della natura è quello dei fenomeni, sensibile; quello della ragione è quello dei noumeni, sovrasensibile. Diverso sarà dunque anche il concetto che determina la causalità: da una parte il concetto della natura che determina principi tecnico-pratici; dall’altra il concetto di libertà che determina principi etico-pratici. Nessuno dei due concetti (natura e libertà) può dare però una conoscenza teoretica del suo oggetto come cosa in sé, cioè del soprasensibile: c’è dunque un campo illimitato, oltre quello che è il dominio dell’intelletto (ecco perché bisogna frenare la pretesa dell’intelletto nel pensare che non vi è altro oltre il suo dominio del conoscibile). Frase più celebre e drammatica dell’introduzione: vi è un immensurabile abisso tra il dominio del concetto di natura, o il sensibile, e il dominio del concetto di libertà, il soprasensibile; ma è contradditorio, anche al pensiero, che l’intelletto possa determinare il soprasensibile, in quanto esso costitutivamente legato al sensibile; non è invece contraddittorio pensare il contrario ovvero che il soprasensibile possa determinare il sensibile → come la libertà possa essere una causa che si realizza nella natura, secondo una causalità che non porta a conoscenza, poiché la causalità efficiente è un principio dell’intelletto alla base della natura. Il giudizio ci permette di PENSARE ciò che non è possibile conoscere, pensare la possibilità che la libertà sia una causa che si realizza nella natura. Questa URTEILSKRAFT, che non ha un dominio proprio ed è per definizione la facoltà della mobilità. COME IL GIUDIZIO CI PERMETTE DI FORMULARE QUESTO PENSIERO? I concetti della natura sono ciò su cui legifera l’intelletto, il cui principio a priori è la conformità a leggi; il concetto della libertà su cui legifera la ragione è volto alla realizzazione di uno scopo finale. Dunque il principio a priori del giudizio, la conformità a scopi, ci permette di passare dal modo d’essere della natura secondo leggi necessarie di causa e effetto, al modo d’essere della libertà che si realizza in uno scopo finale. Dunque l’esigenza di reperire questo fondamento del sensibile e soprasensibile, che tuttavia noi non possiamo conoscere, risponde di un bisogno costitutivo trascendentale del nostro modo di essere. E questo bisogno, che ci induce a cercare un fondamento dell’unità tra sensibile e soprasensibile che non possiamo conoscere, è presieduto dalla facoltà di giudizio nella sua autonomia che ci consente di pensare la libertà come se fosse una causa della natura e in questa formulazione di pensiero ci consente di transitare dal modo di pensare secondo leggi al modo di pensare della libertà. A questa facoltà è legato il sentimento di piacere e dispiacere. Il sentimento di piacere si trova compreso tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ovvero la ragione. Il piacere o il dispiacere si manifestano nel momento in cui il giudizio può o non può giudicare la forma delle cose secondo la conformità a scopi. Il giudizio, nella terza critica è un giudizio puro, nella sua completa autonomia rispetto alle altre facoltà. Nel quarto paragrafo dell’introduzione, Kant spiegherà la differenza tra giudizio determinante e riflettente. Il giudizio, in generale, è la facoltà di pensare il particolare come contenuto dell’universale (il giudizio sta nella congiunzione tra soggetto (particolare) e predicato (universale)). GIUDIZIO DETERMINANTE: giudizio conoscitivo, ciò che è dato è l’universale, la regola; il giudizio è un alleato dell’intelletto, operando una sussunzione del particolare; vi è un concetto dato (essere nera), un’intuizione (quella sedia), l’intelletto raccoglie l’intuizione particolare sotto un’universale aiutato dal giudizio determinante (quella sedia è nera). Esso è sussuntivo: a rigor di logica non può fallire nel suo lavoro, la legge gli è prescritta a priori. Però, non solo il dominio dell’intelletto è ristretto, ma nella natura medesima, nonostante l’intelletto sia il legislatore, egli lascia nel suo stesso dominio modificazioni indeterminate. Le leggi dell’intelletto riguardano una natura in generale, ma la natura è empirica e presenta infinite singolarità, modificazioni, casualità che l’intelletto non può attingere. Si crea dunque un bisogno delle leggi che, non ci consentono di conoscerle, ma almeno di pensarle. GIUDIZIO RIFLETTENTE: il giudizio nella sua autonomia, il giudizio come facoltà che presiede a un’esperienza non conoscitiva, si trova in una situazione opposta: è dato solo il particolare, e non vi sono concetti universali. Il giudizio riflettente dunque deve risalire a un universale che non è dato, e lo fa ricavandosi il suo principio da sé. E alla domanda dunque il giudizio sarà costitutivo o regolativo? La risposta è ovviamente regolativo, poiché il principio lo ricava da sé stesso e non può prescrivere il modo d’essere degli oggetti, altrimenti sarebbe determinante. Questo principio risponde a una determinata esigenza: le leggi universali della natura le prescrive l’intelletto, che lascia molte cose indeterminate; ci sono delle leggi particolari che però non sono unificabili sotto la legge delle leggi che è a noi sconosciuta; noi però abbiamo esigenza che le leggi particolari possano essere sussunte sotto un’unificazione che è un’ipotesi di pensiero, perché questa unità che noi non possiamo conoscere, è l’unità che avrebbe potuto stabilire un intelletto (magari il nostro, magari no) a vantaggio della nostra facoltà di conoscere, per unificare la nostra esperienza. Non si ammette però la reale esistenza di questo intelletto, ma è una sola ipotesi. PERCHÉ QUESTO PRINCIPIO, CHE CI CONSENTE DI PENSARE QUESTA UNITÀ, È UNA CONFORMITÀ A SCOPI? Il concetto di un oggetto si chiama scopo (Kant fa riferimento alla categoria della filosofia antica, ovvero la CAUSA FINALE, che tiene insieme due direzioni della spiegazione, dalla causa all’effetto, e dall’effetto alla causa, è il modo in cui un oggetto deve essere per realizzare la propria potenzialità, rispetto a quella causale che è unidirezionale -una determinata causa, produrrà un certo scopo-). Stando al giudizio, dunque, la natura può essere pensata secondo la sua causa finale, secondo il modo in cui dovrebbe essere se essa fosse determinata da una causa come la libertà. Ipotesi non possibile in termini logici, ma non contraddittorio pensarla. Il giudizio ci consente di pensare la natura come se fosse effetto della libertà, una causa finale. La finalità della natura è un concetto a priori del giudizio riflettente e ci consente di pensare quei particolari (di cui non abbiamo concetti per determinarli) come parte di una natura fatta dalla libertà per la libertà, quella natura che nel suo modo di essere meccanico e necessario ci è estranea, ma grazie al giudizio possiamo rispecchiarci. Ed è questo che produce piacere → quando vediamo forme degli oggetti che sembrano conformarsi alla natura come se fosse causata dalla libertà in vista della realizzazione della nostra libertà, proviamo piacere; cioè ci figuriamo un intelletto (magari il nostro, magari no) che abbia predisposto la natura liberamente in vista della realizzazione della nostra libertà. È solo in ragione della conformità a scopi della natura che riusciamo a reperire un’unità della natura, e di noi con essa, che resta tuttavia apparente. Nell’introduzione alla prima edizione di questa critica Kant scriverà: “la finalità della natura è una legalità del contingente”; ciò che è contingente non dovrebbe avere legalità, tuttavia il giudizio che trae da sé il proprio principio, ci consente di pensare una legalità del contingente. La natura procede secondo meccanismi, ma se consideriamo la natura come “formazioni cristalline, la varietà dei fiori”, tutto ciò che consideriamo bello, la natura sembra procedere tecnicamente, come prodotto dell’arte. RIFLETTENTE: da una parte riflette, nel senso del pensiero, sulla forma delle singolarità, dall’altra riflettendo sulla forma delle cose che la forma delle cose sembra riflettere, rispecchiare la nostra soggettività. Del resto la metaforica che è alla base del verbo reflektieren è la riflessione di un raggio. Grazie a questo principio a priori della possibilità della natura, come unità in sé che non esclude anche l'accordo, l'unità tra l'uomo e la natura, prescrive una legge non alla natura, ma a sé stesso. In questo senso, la dimensione del giudizio è autonoma, cioè un'autonomia che, se vogliamo, è ancora più radicale dell'autonomia, perché si tratta della soggettività più radicale, nonché la genesi tutta soggettiva di questa autonomia. Eautonomia da autonomos, al genitivo, una sorta di auto-autonomia, che legifera da sé (autonomia) solo su di sé (eautonomia). Questa finalità dunque non appartiene alla natura ma è un L’esperienza estetica costituisce, dunque, una prospettiva privilegiata stando alla quale noi troviamo le condizioni della conoscenza ma allo stato ineffettuale (prima che l’intelletto possa obbligare le altre facoltà a collaborare con lui); possiamo vedere le condizioni della conoscenza, prima che essa si determini e perda la libertà, dunque la conoscenza nella sua libera potenzialità emancipata da ogni costrizione e da ogni obiettivo conoscitivo.  RELAZIONE → il giudizio di gusto ha una finalità senza scopo: non possiamo rappresentarci la forma di certi oggetti senza presupporre che siano l’effetto di una causalità che opera secondo fini. PERCHÉ UNA FINALITÀ SENZA SCOPO: la dimensione estetica vivifica le nostre facoltà senza essere ridotta a nessuna conoscenza determinata. In questo momento Kant spiegherà anche la distinzione tra: (pag. 125)  BELLEZZA LIBERA → (correlativo di un giudizio di gusto puro) interamente senza concetto. Kant utilizza l’esempio “la rosa è bella”: è una bellezza completamente libera, non c’è un concetto rispetto al quale possiamo dire che la rosa è bella. Le bellezze libere sono tali, proprio in quanto non significano nulla.  BELLEZZA ADERENTE → (correlativo del giudizio di gusto non è interamente puro). Kant utilizza l’esempio “un cavallo è bello”: tendiamo a mescolare il giudizio estetico con il nostro concetto di cavallo (un bel cavallo è anche quando è forte, veloce) risponde dunque di un’utilità e di una qualche concettualità, che vale anche per la bellezza del corpo umano. Proprio in base a questa distinzione dunque non potremmo dire che la bellezza NON coincide con la perfezione perché per dire di una cosa perfetta bisogna presuppore uno scopo determinato per il quale essa sarebbe perfetta. Con questo Kant ci dice che l’arte è costitutivamente apparenza e non bisogna cercare un significato che tale apparenza avrebbe perché dismetteremmo l’atteggiamento puramente contemplativo, con il paradosso che sembra che per Kant se noi guardassimo un quadro sarebbe più importante la cornice con il fogliame di cui parla lo stesso Kant del contenuto stesso. Il senso di delimitazione così rigorosa dea purezza dell’esperienza estetica serve a sottolineare come questa esperienza sia priva di sottomissione al dominio del logos (cioè della significazione, del voler dire qualcosa). → a sottolineare dunque la libertà che è tanto radicale da essere libera dall’ordine della concettualità.  MODALITÀ →il bello è necessario, sia pure senza concetto. SENSO COMUNE → Qui introduce il tema del senso comune (sensus communis, Gemeinsinn): Se la formulazione del giudizio di gusto è necessaria senza potersi basare su un determinato concetto, ed è universalmente comunicabile e esige il consenso degli altri, allora deve esserci un senso che giustifichi come mai il giudizio di gusto è necessario, universale. Questo senso comune denuncia dunque un ulteriore aspetto del bello→ rimanda al legame tra bellezza e socievolezza, ovvero a ciò per cui nel giudicare la rappresentazione di una cosa come bella, mostriamo il carattere costitutivamente intersoggettivo di ogni soggetto, presupponiamo una comunità. Solo attraverso questo senso comune, può essere pronunciato il giudizio di gusto. A questo è anche legata la comunicabilità e l’universalità del giudizio di gusto. Questo senso comune estetico va di contro a un senso comune logico (→ quello che noi chiamiamo buon senso, un uso approssimativo dell’intelletto). Sul tema del senso comune Kant ci ritornerà nel paragrafo 40, quando formulerà le massime del senso comune (non leggi, perché è un termine che indica solo ciò che ha a che fare con la conoscenza o formulazione di leggi morali; la massima è il correlativo in ambito soggettivo della legge). Queste massime definiscono anche l’umanità dell’essere umano E corrispondono a una delle tre facoltà superiori: o Pensare da sé → revoca della superstizione (massima dell’intelletto: perché pensare da sé significa per Kant, pensare tenendo presente che la natura agisce secondo leggi poste dall’intelletto, in altre parole abbandonare la superstizione) o Pensare largo → pensare mettendosi al posto degli altri (massima del senso comune estetico). Questa massima illumina il valore pluralistico del giudizio estetico. Hannah Arendt ne “La vita della mente”: divisa in tre parti pensare, volere e giudicare. Ella valorizza che la comunità prodotta dal senso comune non è reale, ma ideale, regolativa. Dunque la comunità estetica è la promessa di non uscire dai limiti dell’umano nel momento in cui giudichiamo. Il modo di pensare ampio, scrive Arendt, è un’apertura mentale e si realizza paragonando i nostri giudizi con i POSSIBILI giudizi degli altri, non i loro giudizi influenzati da particolarismi. Da qui è possibile valorizzare il valore politico dell’estetico: diventare cittadino del mondo. o Pensare in conseguenza con sé stessi (massima della ragione) L’esercizio del giudizio di gusto ci permette di non uscire dall’umanità dell’essere umano: ogni volta che si formula un giudizio di gusto si presuppone una comunità, ci si mette al posto degli altri. 18/02/2022 PICCOLA ANTICIPAZIONE DI HEGEL IN CONFRONTO A KANT Quella di Kant è un estetica della forma, di contro all’estetica del contenuto per eccellenza di Hegel. La prospettiva trascendentale kantiana ignora completamente il contesto storico e sociale del bello (sia esso naturale o artistico). Nell’età post-kantiana si va verso una storicizzazione dell’estetica: primo fra tutti Schiller (opere quasi contemporanee alla critica del giudizio: “Sulla poesia ingenua e sentimentale” dove ingenuo e sentimentale fa riferimento alla soggettività greca ingenua e quella moderna sentimentale). Hegel nelle lezioni di estetica mette in discussione la validità del termine estetica, risignificando il termine: in Hegel l’estetica diventa “filosofia della storia dell’arte”, dove compaiono due termini “arte” e “storia” delimitando l’estetica all’ambito dell’arte. Con Hegel il bello di natura è una contraddizione in termini, non c’è una bellezza naturale che non sia tale soltanto in maniera mediata (non è la natura la cui bellezza ci piace, ma la natura nel momento in cui ci fa venire in mente dei significati). Per Hegel dunque la bellezza ideale è una compenetrazione tra forma e contenuto: quanto più il contenuto trova una forma che esprime tutte le sue qualità tanto più quell’opera d’arte è un’opera d’arte ideale, che è a sua volta storicamente determinata: il momento ideale dell’arte, il suo contenuto, è la verità di una determinata configurazione storico-culturale. Non tutte le verità storiche si prestano ad essere espresse sensibilmente, per questo per Hegel, l’opera d’arte ideale ha una precisa esistenza storica e una precaria esistenza storica, perché al cambiamento delle condizioni storico-culturali che producono un cambiamento della verità ideale, l’arte non è più ideale. La statuaria greca è il massimo esempio, di compenetrazione tra forma e contenuto. Nel moderno l’arte perde centralità perché il contenuto spirituale del moderno eccede le capacità espressive del sensibile: la verità del moderno è sempre più qualcosa di interno, di trasparente, riflessivo, e trova migliore espressione nella filosofia. Pag. 153-155 come ultima osservazione, Kant distingue la bellezza dalla regolarità. Ciò per cui una cosa è bella non deriva dalla sua regolarità: questo perché la regolarità consente di prevedere come sarà il resto di una cosa (es. se vedessimo una parte di un volto, la regolarità permetterebbe di sapere com’è l’altra parte del volto) → questo toglie l’aspetto dell’unicità dell’esperienza cui è legata il giudizio di gusto puro. Esempio di Kant: il canto degli uccelli non sarà mai noioso proprio perché non lo si può riportare a regole musicali e ci risulterà più piacevole dello stesso canto umano, eseguito secondo regole. E nel momento in cui verrebbe riprodotto con un fischietto il medesimo canto degli uccelli, ne resteremmo delusi perché capiremmo l’inganno e verrebbe meno l’unicità dell’esperienza data la ripetibilità e previsione del suono.  ANALITICA DEL SUBLIME SUBLIME → origine del concetto di sublime è GRECA: sublime è “ipsos” (=alto, elevato), eredità semantica etimologica che troviamo anche in tedesco Erhabenen (=elevato). Questo ipsos ha a che fare con l’entusiasmo dell’animo suscitato dalla poesia: il dominio del termine sublime è la retorica. Nella latinità, Cicerone parla dello stile sublime (stile poetico oratorio) come quello di “far movere”, far commuovere. Tutto questo fino allo Pseudo-Longino, nel suo trattato sul sublime, dove con sublime si indica la letteratura (come quella di Omero o dell’antico testamento) che produce la commozione dell’animo: con Pseudo-Longino la riflessione non è più esclusivamente retorica, ma sugli effetti provocati sull’animo, sulle passioni dell’animo. La fortuna di questo trattato si avrà in età moderna, nel 600, quando verrà tradotto in inglese successivamente in francese da Boileau. Fondamentale sarà quest’ultima traduzione, poiché Boileau aggiungerà alla traduzione una prefazione dove distingue sublime, come aggettivo, e il sublime come sostantivo. La distinzione è che il sublime come concetto retorico è lo stile ampolloso che vuole smuovere l’animo, il Sublime è qualcosa che si può trovare anche in un solo pensiero, in una sola figura, in un solo giro di parole. Una cosa, infatti, può essere scritta in uno stile sublime, ma non essere di fatto Sublime, può non avere nulla che ci rapisca. Il Sublime più che fatto stilistico, diventa una condizione psicologica peculiare, che si produce nel momento in cui qualcosa ci spossessa di noi stessi (Boileau dirà qualcosa che ci “enleve”). Si passa dunque dall’ambito retorico a quell’antropologico, un’antropologia delle passioni. In Inghilterra c’è un ulteriore contributo alla definizione moderna del concetto di sublime: da una parte in seguito alla ripresa del concetto di sublime in ambito religioso, dove Robert Lowth, riflettendo sulla poesia dell’Antico Testamento, unisce il sublime in termini retorici al sublime in termini patetici -contenuto e condizione d’animo vanno di pari passo. Altro collegamento moderno sarà quello tra sublime e natura: chi si occuperà di questo tema saranno Addison e Burke. In particolare quest’ultimo nella sua indagine filosofica sul bello e sul sublime, dove la natura viene pensata nella sua sublimità quando è grande, informe e quando nel medesimo tempo suscita in noi “delight and horror” (=piacere e orrore). Questo tema sarà ripreso anche da Kant dove dunque se nel giudizio estetico legato al bello vi è un piacere puro, nel caso del sublime ci è un piacere misto a dispiacere. Mentre nell’antico il sublime è una categoria libresca (che si ponga attenzione sugli effetti dell’animo o sullo stile della poesia), nel moderno il sublime è ciò che espone l’uomo alla natura in tutta la sua infinità. Dunque il sublime, è la natura, ma non nel suo carattere pittoresco e rassicurante, ma nel suo aspetto più selvaggio e nel suo rapporto polemico con noi. nell’essere umano c’è qualcosa che ci permette di accedere a noi come noumeni: un qualcosa che si sottrae alla percezione illusiva fenomenica, ovvero il nostro corpo. Il corpo veicola la nostra VOLONTÀ, che è per Schopenhauer la cosa in sé, la vera realtà aldilà dell’apparenza fenomenica (che lui chiama “velo di Maya”). La nostra stessa conoscenza, per Schopenhauer, è una strategia usata della volontà per auto conservarsi. Una volontà della natura che si declina nella volontà individuale. Fin dal titolo dunque è esplicita l’idea di Schopenhauer: il mondo come volontà, il mondo nella sua dimensione noumenica, il mondo come rappresentazione, l’illusione dei fenomeni. Non tutte le oggettivazioni della volontà sono in rapporto diretto con la volontà. Le idee (influenza platonica) sono per Schopenhauer OGGETTITÀ adeguate della volontà: il termine distingue l’oggettivazione (della volontà fenomenica, l’apparenza) e le oggettità (le idee nella loro diretta espressione della volontà). Questo perché, come la volontà della natura è una e eterna, così le idee riflettono questo modo d’essere della volontà, eterne e sempre uguali a loro stesse. Le idee, dunque non sono sottoposte all’inganno del principio individuationis (espressione delle nostre forme individuali di conoscenza, secondo cui ogni cosa che osserviamo è una cosa singola, cioè distinta da tutte le altre) e lega con il principio di ragione che riguarda la forma che l’idea assume quando ricade nel fenomeno, principio ultimo di ogni finitezza. L’idea invece non sottostà a questi principi, ed è al di fuori della sfera conoscitiva dell’individuo, perché la nostra conoscenza è conoscenza dei fenomeni, vincolata dal principio di ragione. L’idea potrebbe diventare oggetto dell’esperienza ed essere conosciuta dal soggetto, solo attraverso la rimozione e il superamento dell’individualità. Identifica in Platone e Kant dei paradossi:  in Kant il paradosso della cosa in sé. -> Ha introdotto in maniera sbagliata la cosa in sé, che nella sua filosofia invece di essere il fulcro -lettura schopenhaueriana- ne era “la pietra di inciampo”. Proprio per questo, insistendo sull’inconoscibilità della cosa in sé, ha aperto le porte allo scetticismo. Per Schopenhauer bisogna riconoscere la volontà, superando la nostra individualità.  in Platone il paradosso dell’idea. -> il paradosso sta nel fatto che le cose individuali oggetto di esperienza, secondo lui, non hanno un vero essere e non sono soggette a vera conoscenza (propria solo di ciò che non muta, ovvero le idee), ma anche l’idea sta al di fuori della sfera conoscitiva dell’individuo in quanto “noumeno”. Delle idee dunque non c’è un vero sapere ma un semplice credere.  Kant e Platone la pensano ugualmente per Schopenhauer: entrambi ritengono che il mondo visibile una mera apparenza. Non ce ne siamo accorti perché hanno uno stile filosofico molto diverso: Kant è diretto (→per negare alla cosa in sé le forme dell’apparenza fenomenica le riduce a cose astratte come spazio, tempo e causalità). Alla domanda “che cos’è un cavallo?” Platone direbbe che esiste solo l’idea del cavallo che è oggetto di una conoscenza effettiva; Kant direbbe che è un fenomeno nel tempo, nello spazio, fenomeno valido in relazione alla nostra conoscenza e se volessimo conoscere le cose al di fuori di tempo, spazio e causalità ci vorrebbe un modo diverso dal nostro unico tramite sensi e intelletto. Tra le forme dell’oggetto, quest’ultimo deve essere annoverato come oggetto per un soggetto, ogni fenomeno è caratterizzato dal fatto che è per un soggetto. Per Schopenhauer, dunque, l’errore filosofico di Kant sta -anche ammettendo (da kantiani conseguenti) che la cosa in sé sia la soglia che delimita la nostra conoscenza- sta nel chiamare la cosa in sé “cosa”, l’averlo pensato come un’oggetto e dunque esteso le categorie del fenomeno anche nel noumeno. La cosa in sé non va pensata come oggetto. L’idea, al contempo, non è come gli oggetti, è un’oggettità della volontà perché viene prima della sua declinazione nelle cose. In quanto individui, non possiamo andare al di là della nostra conoscenza sottoposta al principio di ragione che esclude la possibilità di conoscere l’idea, la cosa in sé. Bisogna dunque che si verifichi una trasformazione della soggettività a cui corrisponderà un cambiamento radicale anche dell’oggetto visto, dove il soggetto non è più individuo ma soggetto puro del conoscere. COME? La nostra conoscenza è a servizio della volontà, e conosce ciò in virtù di cui ogni oggetto è relativo ad altri singoli, nelle sue relazioni: ogni oggetto è inserito in circostanze, a un luogo, a un tempo. Se tutte queste relazioni venissero levate, scomparirebbero anche gli oggetti, perché non ci sarebbe più nulla da conoscere. Le scienze prendono in considerazione questi rapporti spazio-temporali-causali, e nel suo costante evolversi producono una conoscenza che si può definire fugace. La conoscenza dell’idea è possibile, ma è un passaggio temporaneo e improvviso, quando la conoscenza si affranca del suo assoggettamento alla volontà, il soggetto diventa soggetto puro emancipandosi dalla volontà e di conseguenza sollevandosi dal tormento del vivere. Una volta elevatoci al di sopra della nostra individualità, il soggetto può contemplare l’oggetto in maniera disinteressata e trovare una quiete, esce al di fuori della propria individualità. Questa contemplazione è l’intuizione estetica delle cose. L’arte diventa una forma di conoscenza più completa di quella filosofica (tendenza del post-kantismo come anche nell’idealismo Fichte o Schelling); anche per il primo Hegel, l’arte è l’organo che ci consente di superare i dualismi del reale che declinano il dualismo fondamentale tra fenomeno e noumeno. Quando noi fruiamo in un’opera d’arte, per Schopenhauer, noi guardiamo solo il “CHE”: se nella vita noi tendiamo a oscillare tra il dolore (che ci viene dall’insaziabilità della nostra volontà) e la noia (che si verifica nel momento in cui abbiamo saziato dei bisogni e aspettiamo che se ne presentino di nuovi), l’arte ci consente anche di liberarci dalla pena costante dell’esistere. IL GENIO L’arte si produce dalla genialità. L’idea viene colta tramite la contemplazione e la facoltà di disporsi a questo atteggiamento è il genio. Il genio è colui che dispone di una forza spirituale tale che riesce a consegnarsi interamente all’oggetto, con uno stato d’animo rivolto all’oggetto, spossessandosi di sé, contemplando l’oggetto per com’è e riprodurlo artisticamente. Genialità dunque, è la capacità di spossessarsi della propria soggettività singolare e immergersi nell’oggetto. Con l’arte dunque, sottraiamo la conoscenza al dominio della volontà, è un esperienza di affrancamento da noi stessi, dalla volontà e affrancamento della conoscenza dalla sua schiavitù alla volontà. In Schopenhauer, così come in Kant, tra arte e scienza c’è una differenza qualitativa: il modo d’essere del genio è fatto in un modo che non si può spiegare o individuare, rispetto finanche alle dottrine di un Newton, che possono essere comunque spiegate ed essere comprese. In Kant così come in Schopenhauer l’arte è bella quando è libera. D’altra parte l’esperienza estetica essendo temporanea, rende il genio strano nel momento in cui non esercita la sua genialità: ha uno sguardo vitale e solido, meditabondo. Il grado di liberta dipende anche dal contenuto scelto da genio: il migliore è l’uomo, l’unico tra gli esseri schiavi della volontà a potersi sottrarre ad essa. Anche Hegel nella Fenomenologia scrive che l’arte vera e propria coincide con la centralità dell’uomo, tant’è che l’opera d’arte ideale è quella greca che rappresentano i loro dei in maniera umana. Tra le opere di genio più riuscite per Schopenhauer è la pittura storica, la scultura. Data la conoscenza geniale opposta alla conoscenza quotidiana o scientifica, all’individuo geniale ci sono mancanze che derivano dall’oblio del principio di ragione che sfoceranno nella follia (Platone nel Fedro dice che non può esserci un vero poeta senza un certo grado di follia). DOMANDA ESTETICA: Ammettendo che ci sia una storicità del bello, come mai ci sono dei classici dell’arte, che piacciono sempre nel solito modo? Hume dal suo empirismo, direbbe che è abitudine e convenzione. Schopenhauer dirà che l’arte di genio è l’arte che riproduce le idee e le idee sono sottratte al nascere, divenire e perire, dunque necessariamente la grande arte di genio piace in tutti i tempi. SCALA DELLE FORME D’ARTI DALLA MENO AFFRANCANTE ALLA PIÙ AFFRANCANTE ED ESPRESSIVA:  ARCHITETTURA: può lavorare solo con la materia vincolata a determinate leggi  L’ARTE DEL GIARDINO  LA SCULTURA  LA PITTURA  LA POESIA: forma più elevata e universalizzante dell’oggettivazione della volontà, perché mette al centro l’uomo: ma la poesia passa attraverso una mediazione, ovvero la parola; specialmente nel romanzo e nel dramma, dove l’arte di genio sta nell’esprimere attraverso il personaggio l’idea di tutta l’umanità. Questo talento è stato acquisito dal genio guardando molto, con l’occhio del mondo, che guarda gli altri.  MUSICA: la musica è volontà, fa a meno di ogni mediazione e ci affranca dal mondo della rappresentazioni. La musica dunque non è immagine di qualche cosa, non riproduce idea ed è espressione diretta e immediata della volontà. L’effetto affrancante della musica è rapido, necessario, infallibile. 24/02/2022 LEZIONE DEL PROFESSOR FAZIO: SCHOPENHAUER, WAGNER E LA MUSICA Nella storia della scuola di Schopenhauer (dimostrata l’esistenza dalle recenti ricerche), egli ha esercitato grande influsso nell’ambito anche dell’arte e della musica, e proprio in quest’ambito si colloca Richard Wagner, che si definì suo grande seguace. Wagner ha raccontato la sua scoperta di Schopenhauer come un’illuminazione e una conversione: 1854, esule a Zurigo -unica università d’Europa che accettava le donne, la prima donna laureata in filosofia Helene von Druskowitz, seguace di Schopenhauer, proto femminista, che interpreterà il pensiero di Schopenhauer in chiave femminista: nel capitolo dei supplementi de’ “Il mondo come volontà e rappresentazione” dove si parla dell’ereditarietà → i figli ereditano dal padre la volontà che è un male e dalla madre l’intelletto, che se ben usato è lo strumento dalla liberazione dal dolore- dopo la sconfitta della rivoluzione del 48 a Dresda con Bakunin. Prima di scoprire Schopenhauer, Wagner era un musicista affermato e teorizzò la sua arte in una sua opera “Opera e dramma”, dove espose la sua di come doveva rinascere l’opera, dopo la decadenza dell’opera stessa a causa di alcuni autori e di una prevalenza che la musica aveva preso nei confronti del testo poetico Tutta questa seconda parte è dedicata alle problematica di una deduzione (=giustificazione) del giudizio di gusto, derivante da una necessità di giustificare due aspetti paradossali del giudizio di gusto: la sua universalità e necessità del giudizio di gusto pur non basandosi su nessun concetto. In questa parte si trovano anche paragrafi dedicati all’arte: come mai si trova nella deduzione? Stando alla purezza del giudizio di gusto c’è una preminenza del bello naturale, quelle bellezze che sono senza un perché: spiegando la distinzioni tra bellezza libera e aderente si era notato il paradosso della cornice più bella del quadro. Stando all’analitica dei giudizi di gusto, sembra il giudizio di gusto puro faccia riferimento ad ambiti molto ristretti che sembrano escludere l’arte. Proprio nella deduzione cercherà di tenere insieme bello di natura e bello artistico. IL BELLO PRIMA DI KANT → È importante ricordare che prima di Kant l’armonia è sempre stata una qualità fondamentale del bello, un segno ontologico del mondo, costitutiva del bello. Ecco perché anche in questo caso Kant attua una rivoluzione copernicana (non solo ontologicamente parlando come visto nella prima critica) che vale anche in termini estetici, in quanto tutto l’antico e la modernità cristiana che pensano il bello come una qualità dell’essere, Kant radicalizzerà l’idea che il bello non ha a che fare con l’essere ma con il rapporto tra la rappresentazione degli oggetti e il soggetto. Non potremmo tuttavia mai parlare di un’estetica antica, anche se il bello è una delle nozioni più antiche del filosofare, poiché il qualifica il cosmo (da qui il termine cosmetica, dall’idea per cui la bellezza è un segno dell’essere come cosmo ordinato e armonioso), il tutto. Questa idea del bello come ordine e misura passa anche in Sant’Agostino, nella modernità, dove la centralità del bello è legata alla tradizione cristiana: la bellezza del cosmo, delle cose, che appartiene alle cose è segno dell’affiliazione bello divina del mondo, non ha nulla a che fare con l’uomo, anzi questo ordine testimonia che è stato creato da Dio. Sant’Agostino si domanderà perché ci piacciono le cose che ci piacciono, e non perché sono belle a noi ma perché sono belle in sé stesse. Il bello in questa tradizione precede il sentimento di piacere e l’apprezzamento che noi possiamo dare, il bello è oggettivo. Il brutto esiste perché siamo noi a non poterlo vedere, in quanto limitati. Questa idea per cui il bello precede il piacere e l’apprezzamento si protrae fino all’inizio del settecento: Shaftesbury, allievo della scuola platonica di Cambridge, ha una concezione simile del cosmo come ordine dove la bellezza appartiene alle cose. Questo panorama viene già rotto dall’ “Estetica” di Baumgarten, dove scriverà che le cose belle possono essere pensate in modo brutto e viceversa: si inizia a scindere la bellezza dall’oggetto. Con Kant si avrà il netto rovesciamento dei termini, si rivendica che nel bello la rappresentazione dell’oggetto non è riferita all’oggetto ma solo al soggetto: il bello ci dice solo di noi e nulla sull’oggetto. Dire di una cosa ordinata, armoniosa non sono giudizi di gusto ma sono informazioni dell’oggetto ricavate dai cinque sensi di cui si può discutere ma non ha a che fare con la bellezza. Quando di una cosa diciamo di una cosa che è bella, si esprime un giudizio (fatta di S e P) e non si distingue in nulla da altri tipi di giudizio: ed è qui che naturalisticamente tendiamo a sovrapporre un giudizio di gusto a un giudizio logico o conoscitivo; in quest’ultimo caso si esprime uno stato di fatto che si può sempre verificare (es. “la coperta è rossa e qualcuno dice di no”, si può discutere, disputarne fino ad arrivare a un’unica consapevolezza; così come “il quadrato a quattro lati” che per dimostrarlo si ricorre a una logica che va a priori). Dire che “una rosa è bella” non aggiunge nulla, è legato al sentimento e riguarda noi, non ha nulla a che fare con la forma dell’oggetto. Il giudizio determinante per Kant, non ha bisogno di essere dedotto perché non avanza nessuna pretesa speciale; applica semplicemente una regola in cui il concetto è associato all’intuizione. Nel giudizio estetico non c’è nessun concetto a cui fare riferimento: questo è collegato al fatto che nel giudizio di gusto non facciamo riferimento all’oggetto. Se si tratta di giustificare il giudizio di gusto, quest’ultimo avanza delle pretese senza concetto che noi possiamo giustificare perché non esige di dire nulla sull’oggetto: la sua pretesa diventa la sua stessa giustificazione, il giudizio di gusto ha a che fare con una finalità formale soggettiva (sembra fatta apposta perché io la contempli ma solo per essere contemplata ecco perché la finalità è solo formale). La bellezza della rappresentazione della cosa non è una qualità della cosa: dire che quella rosa è bella perché è rossa non è un giudizio estetica perché: 1. Non è universalmente comunicabile in quanto discutibile la preferenza del colore 2. Si lega la rappresentazione della cosa a una qualità oggettiva 3. Si andrebbe nell’ambito di un giudizio falsificabile (posso dire che questa rosa è bella perché rossa, ma magari e in penombra dunque potrebbe non essere realmente rossa) Questa è la ragione per cui del giudizio di gusto non si può disputare (una disputa dove si potrebbe giungere a una conclusione), ma proprio questo porta la discussione estetica inesauribile, del giudizio di gusto si può costitutivamente discutere. Non solo queste discussioni sono inesauribili, ma di contro alle dispute dove due soggetti in disaccordo finirà con uno che ha ragione e uno che ha torto, in ambito estetico il disaccordo può essere apparente, in quanto il giudizio estetico essendo universalmente comunicabile si potrebbe arrivare a un accordo pur non giungendo mai alla fine di una discussione. In questo senso, quindi, coloro che discutono in termini estetici, non sono contendenti ma in potenza ai membri di una comunità, dove sconosciuti potrebbero diventare membri di una comunità ideale (rivedi le massime). Fatalmente, però, si viene a creare un’illusione ottica: tendendo a scambiare questa un’universalità, che è soggettiva, per un giudizio oggettivo. Bisogna dunque tener presente alla comunità dell’estetico, che potenzialmente potrebbe essere tutta l’umanità, non si può pretendere di imporro il nostro giudizio di gusto. Questo consente a Kant di recuperare il bello da un assoluto relativismo (almeno in potenza è lecito supporre che la discussione produca un accordo) che convive con l’esigenza di differenziare il giudizio di gusto dall’unanimità cogente del giudizio logico. La dimensione dell’estetico è caratterizzata da una potenzialità, la potenzialità di trovare un accordo, ma non sempre: l’esperienza estetica non vincola la nostra mente ma valorizza la comunanza della nostra mente con quella degli altri, in modo che tende a relegare ai margini l’arbitrio, dove l’intelletto viene sollevato dalla legge particolare che di volta in volta deve seguire e diventa libero, in un gioco libero con l’immaginazione. La rivoluzione copernicana in ambito estetico presenta la potenzialità dell’accordo che è una potenzialità fallibile, ma proprio questa fallibilità salvaguarda la libertà. Kant comunque tiene presente della conformità del giudizio estetico, che può diventare una moda, nonostante ciò mantiene autonomia e la non omologazione. In arte ciò che viene esibito sono le idee estetiche, che sono l’uguale ma il contrario delle idee di ragione (idee delle quali nessuna esibizione sensibile è possibile -dio, anima e mondo-): le idee estetiche sono figure sensibilmente qualificate che eccedono ogni concetto determinato. 03/03/2022 ANTINOMIA DEI GIUDIZI DI GUSTO: paragrafi 55-57 Un’antinomia è andare contro la legge due proposizioni di significato opposto che sembrano tutte e due vere. Quest’antinomia è costitutiva del giudizio di gusto e non del giudizio determinate, in quanto quest’ultimo aiutante dell’intelletto. Nel caso del giudizio di gusto, questo ha delle pretese tutte sue. Le posizioni incarnate da questa antinomia sono:  i RAZIONALISTI → il bello legato all’oggetto; sul gusto non si può disputare perché non possiamo fare affidamento su nessun concetto determinato, ciò non significa che non si può discutere: non c’è nessuna dimostrazione per provare il proprio giudizio di gusto.  gli EMPIRISTI → soggettività particolare dell’atteggiamento estetico; ognuno ha il suo gusto, legato a ciò che è gradevole o sgradevole legato ai sensi. Chiunque è privo di gusto, dice Kant fa riferimento a questa posizione. La soluzione di questa antinomia passa attraverso un processo: Kant afferma che entrambe le parti hanno un po’ di ragione. È vero che del giudizio di gusto non si può disputare, ma si può discutere. In generale anche in virtù del fatto che nel giudizio di gusto vi è un gioco tra immaginazione e intelletto, nel giudizio di gusto vi è un concetto ma che resta indeterminato. → proprio questo aiuterà Kant nella giustificazione del bello artistico. Paragrafo 43 A partire dalla distinzione tra bellezza libera e aderente il bello artistico sembra escluso: sarà nella deduzione che verrà reintegrato il bello artistico. 1. L’arte si distingue dalla natura come la dimensione del fare da quella dell’agire (il termine tedesco che indica l’agire è Wirken, il correlativo della causa, l’effetto nei termini di causa effetto) → la dimensione dell’arte è estranea alla natura come causa effetto, per come la spiega la scienza. Nel dominio dell’arte come conseguenza di un fare creativo abbiamo le opere. Nella natura ci sono rapporti di causa-effetto necessitanti, nell’arte c’è una produzione libera che hanno come conseguenza delle opere. Tra il fare dell’arte e le opere c’è libertà, non c’è un nesso di causa- effetto. LA VERA E PROPRIA ARTE È QUELLA CHE HA A FONDAMENTO LA LIBERTÀ. (per questo anche l’opera delle api non può essere considerata arte in quanto rispondono di una coazione a ripetere, a un istinto necessitante che esula dal dominio dell’arte) 2. L’arte si distingue anche dalla scienza sa→ l’arte è un poter fare (ha un dominio pratico), la scienza è un mero sapere (ha un dominio teoretico). L’arte è quell’abilità di produrre qualcosa che si aggiunge al sapere come la si fa. 3. L’arte si distingue dal mestiere → il fare artistico è libero quindi non ha prezzo, mentre il mestiere è costitutivamente è a fini di lucro. Non a caso nel giudizio di gusto immaginazione e intelletto sono in libero gioco, quindi l’arte si colloca in ambito ludico: ciò non significa che l’arte sia un gioco privo di confronto con il reale. Ogni arte deve confrontarsi con la legalità peculiare del materiale che forgia (Michelangelo per scolpire la pietà si è dovuto confrontare con la resistenza della roccia; la poesia sottostà alle sillabe, alla musicalità della parola; la pittura deve confrontarsi con le regole dei colori). Kant distingue tre tipi di arte  ARTI BELLE → è libera in quanto produce un sentimento di piacere non finalizzato a nessuno scopo. Nella comunicabilità universale, l’esercizio del giudizio di gusto favorisce la nostra socievolezza. L’arte estetica, in quanto arte bella ha per criterio il giudizio riflettente e non sensazioni.  ARTI MECCANICHE → la tecnica, dove è necessario seguire delle istruzioni.  ARTI DEL PIACERE→ mirano a suscitare il piacere dei sensi; rappresentazioni che ci dilettano (all’epoca di Kant, paragonato al talento di chi dopo cena sa intrattenere -riferimento alla cultura dei salotti-) kantiana nella prima critica, lo spirito è l’unità dell’appercezione, e ritorna nella terza critica dove lo Spirito è il principio vivificante dell’animo. È impressionante notare che quel significato teologico dello spirito nell’antico (soffio vitale), trovi nuovamente cittadinanza filosofica in termini estetici: ma nel contesto teologico è esterno, viene da Dio, mentre in ambito estetico la sua fonte di produzione è nell’animo dell’uomo, è un principio costitutivo dell’animo. Il genio dimostra di avere spirito, vivificando il nostro animo quando dà rappresentazione alle idee estetiche. IDEE ESTETICHE → è l’uguale ma contrario dell’idea di ragione (un concetto che eccede le intuizioni), l’idea estetica è una rappresentazione sensibile che eccede ogni concetto: una rappresentazione che fa pensare molto senza che nessun concetto possa adeguarsi ad essa. Gli attributi estetici danno uno slancio all’immaginazione che ci dà da pensare molto di più di quanto sia racchiuso in un concetto determinato: ciò che non è esprimibile nel concetto trova espressione estetica che eccede ogni concettualità, vivificando il nostro animo. Nella sua capacità di esibire idee estetiche, il genio produce arte che sembra essere più vero del vero: l’invidia, i vizi, l’amore, la fama, in un modo che nella realtà ordinaria non si trova alcun esempio. Ed è propriamente la poesia quella in cui la facoltà delle idee estetiche si mostra in tutta la sua misura (la poesia nella gerarchia delle arti si colloca nel posto superiore). L’unico esempio che Kant fa di poesia citando una poesia del gran Re (Federico). 04/03/2022 Suddivisione delle arti belle in Kant legato a conformismi della trattatistica Settecentesca. CLASSICISMO DI WINCKELMANN PAG 25-26 MANUALE DI ESTETICA. → Winckelmann considera il gruppo marmoreo del Laocoonte come ideale di bellezza perché la considera espressione massima di bellezza perché nonostante il momento rappresentato sia terribile la scultura mantiene quella quieta grandezza e semplicità propria dell’arte greca. Lessing, rileva la costitutiva differenza di espressività tra scultura e poesia: Winckelmann considera il Laocoonte tale poiché non è nelle possibilità espressive del marmo di veicolare la lacerazione dell’animo, di esprimere dolore. Il punto di vista di Winckelmann deriva dall’illusione ottica della uguale capacità espressiva tra marmo e poesia. Già a partire da Lessing è evidente nella cultura tedesca la frattura drammatica tra le arti della parola e arti visive che trova una riconciliazione in Hegel. CRITICA DEL GIUDIZIO TELEOLOGICO Analitica del giudizio teleologico Giudizio teleologico e estetico sono accumunati dal medesimo principio a priori, la conformità a scopi. C’è però una differenza:  nel caso del giudizio estetico colleghiamo la rappresentazione al soggetto, che diventa soggettivamente valida, si tratta di una finalità formale (ha a che fare con la forma, gli oggetti potrebbero anche non esistere);  nel caso del giudizio teleologico la finalità è reale e oggettiva: non significa che ha a che fare con una finalità come qualità dell’oggetto, siamo sempre nell’ambito del giudizio riflettente. Significa che ci sono oggetti nella natura per pensare i quali, ho bisogno di pensarli come conformi a un fine. Come sappiamo l’intelletto lascia anche nel sensibile molte cose indeterminate, qui interviene il giudizio teleologico che ci permette di pensare ciò che è indeterminato dall’intelletto. Il termine teleologia (=da telos e logos, discorso sul fine) nonostante la riflessione sulla finalità ha radici antichissime, è un termine moderno, coniato da Christian Wolff per indicare quella parte della conoscenza della natura che indaga sullo scopo finale delle cose. Wolff parte da una considerazione: le discipline della filosofia naturale sono fondate su nessi causa-effetto, ma questo nesso non è sufficiente a rispondere a tuti gli interrogativi che sorgono osservando la natura; dunque tutta quella riflessione su elementi della natura non spiegabili secondo il nesso causa-effetto è chiamata teleologia. Una spiegazione finalistica del reale che può anche essere chiamata ARCHITETTONICA, individuare dei nessi, non sempre di causa-effetto, che costituiscono le varie membra del reale, l’architettura della natura che rispecchia una sistematicità e architettonica della ragione. Aristotele nel De Anima scriverà tutte le cose naturali esistono in vista di una cosa, questa finalità non è esterna poiché le cose si approssimano al loro fine quanto più realizzano la loro essenza (immanentismo). Non è casuale se il discorso sui fini delle cose trova un nome nella modernità, dove è proprio la modernità ad adulterare il discorso sui fini proprio dell’antico, acquisendo una piega ottimistica (come se le cose della natura fossero fatte nella logica del rapporto mezzo-fine). Per la teleologia antica il telos corrisponde alla capacità dell’individuo di mantenersi entro la manifestazione naturale della sua regolarità, laddove è solo la teleologia moderna a inserire un aspetto estrinseco, ovvero l’intervento di Dio che indirizza lo sviluppo degli esseri e delle cose verso un fine fuori di loro: questa Kant la chiama teleologia esteriore che va di passo con il provvidenzialismo, di cui non se ne occuperà, ma parlerà di teleologia interiore, come la natura si organizza da sé, un’autorganizzazione che siamo noi a porre. In questo senso possiamo reperire un’unità tra noi e la natura, la ragione si riconosce nella natura senza determinarla. Il rispecchiamento ci consente di stabilire un’analogia tra noi e la natura senza chetale operazione sia un’imposizione della natura da fuori. Per riconoscere questa analogia, c’è una presupposizione di una coappartenenza tra natura e il nostro modo riflettente di giudicarla, esiste una qualche regolarità in essa in cui non si può fornire la regola. La finalità formale soggettiva giudica con il gusto complice il sentimento; nel caso della finalità reale e oggettiva c’è una conoscenza non determinante, in altri termini è una conoscenza che più che prodursi in una conoscenza determina con concetti e intuizioni, è una conoscenza che funge da principio guida. In altri termini, il punto di vista finalistico, il giudizio teleologico, è un principio euristico, che ci consente di pensare la natura ipotizzando che essa sia finalistica permettendoci la conoscenza. Questa è la ragione per cui sono diverse le facoltà implicate nel giudizio teleologico: INTELLETTO (in vista di una conoscenza possibile) e RAGIONE (come principio regolativo). Nel caso del giudizio teleologico, al contrario di quello estetico (disinteressato all’esistenza dell’oggetto), noi riflettiamo sulla forma di oggetti realmente esistenti. Il punto di vista teleologico ci offre una prospettiva ipotetica con la quale pensare gli aspetti della natura che sfuggono alla spiegazione meccanica, ovvero la spiegazione della natura data dall’intelletto basata su causa-effetto. Questa è una finalità interna, non esterna, legata al fenomeno della vita in tutte le sue espressioni (il modo in cui sono fatte le membra di un bruco, come fa un uccello a volare). La finalità del giudizio teleologico è oggettiva e materiale, nella misura in cui ha a che fare con la riflessione su oggetti realmente esistenti peculiari (quelli che il meccanicismo non spiega); ciò però non toglie che l’accordo che noi possiamo trovare tra il modo d’essere dei fenomeni della vita e la nostra riflessione su di essi è pur sempre un accordo soggettivo contingente e apparente. DISTINZIONE TRA  MERA UTILITÀ : i fiumi quando esondando, rilasciano sul terreno un tipo di fango che lo rende più fecondo non dobbiamo pensare che l’aumento di fruttuosità dei camp possa essere il fine del fiume perché questa è mera utilità non si tratta di una finalità.  FINALITÀ INTERNA: al paragrafo 64, per riconoscere che una cosa è possibile solo come fine, ovvero che la causalità della sua ragione non va cercata nel meccanismo della natura di causa-effetto. Questa finalità ci consente di legare il dominio della natura a quello della ragione. Nel paragrafo 65 Kant parlerà di nesso effettivo e nesso finale:  NESSO EFFETTIVO: il nesso causale, in quanto pensato solo dall’intelletto, è un legame che dà luogo a una serie di causa-effetti sempre in senso discendente, procedendo in un’unica direzione. Nella logica della spiegazione causale ogni cosa o è causa o è effetto di una causa, nessun x può essere al contempo causa e effetto. LEGAME DELLE CAUSE REALI  NESSO FINALE: il nesso finale ci consente di andare avanti e indietro nel tempo e nella ricostruzione logica del rapporto di causa-effetto, e ci consente di vedere come ogni cosa è causa di qualcosa ma anche l’effetto di qualcos’altro, c’è una reciprocità di rapporti. (esempio di Kant: comprare una casa è la causa del fatto che avrò un affitto, ma stando al nesso finale viceversa si potrebbe dire che l’avere un affitto è la causa del fatto che ho comprato una casa). LEGAME DELLE CAUSE IDEALI Questo nesso finale, non è un fine qualunque, ma il fine della natura. Perché una cosa sia il fine della natura: 1. si richiede che le sue parti siano possibili solo in relazione con il tutto → nella logica finalistica un X lo consideriamo al contempo causa e effetto, dunque bisogna che le sue parti possano esistere in ragione del tutto, ma questo tutto deve esistere solo in ragione delle parti. Questa cosa non può essere opera dell’arte (pensando al rapporto orologio-orologiaio: non ogni elemento del processo è al contempo causa e effetto, perché l’orologiaio è la causa dell’orologio ma non viceversa, c’è una creazione da fuori, è un rapporto estrinseco) 2. si richiede che le parti siano reciprocamente causa e effetto della loro forma → qual è questa cosa? È l’ORGANISMO: solo nell’organismo ogni parte è funzionale e produttiva rispetto alle altre; organo vuol dire strumento, ma l’organo in quanto strumento ma dentro il corpo fisiologico si distingue dallo strumento: in un organo propriamente detto, vige la reciprocità del rapporto degli organi tra di loro (il disfunzionamento di una parte comporta il disfunzionamento delle altre). Non Gadamer dirà che pensando l’antico come un modello che si può riprodurre, mette sullo stesso piano antico e moderno come un unicum, si verifica il concetto di storia moderno. Ed è per questo che secondo Gadamer questa storia dell’arte dell’antichità può essere concepita come la prima storia dell’arte in senso moderno (al contrario delle storie di pittori, cronachistica, legata al concetto di Historia del Vasari). Nel concetto di Geschichte, il piano descrittivo-narrativo e quello degli eventi concreti, delle res factae, fondono l’uno nell’altro. La prestazione narrativa è costitutiva della storicità degli eventi, che sono pensabili in quanto tali solo all’interno di un orizzonte discorsivo. E questo comporta un avvicinamento della storia con la poesia promuovendo il suo aspetto veritativo. Questa nuova consapevolezza del rapporto stretto tra poesia e storicità torna alla fonte aristotelica per cui la poesia sarebbe più filosofica della storia. LESSING, in tal senso, sostiene che la verosimiglianza interna della poesia possa talvolta essere più significativa della fedeltà letterale alla storia. Questa nuova esperienza del tempo trova una sua espressione con un genere che si afferma fortemente in quest’epoca, ovvero il romanzo, dove vi è la storia di un soggetto autonomo che riflette su sé stesso. Molto importante sotto questo punto di vista sarà SCHLEGEL, contemporaneo di Hegel, che tiene lezioni di storia universale a Colonia. Egli dirà “Ogni scienza è genetica e la storia è la più universale e alta tra tutte le scienze” → la storia che diventa la più scientifica tra le scienze. Per Schlegel bisogna filosofare in maniera storica e non critica (riferimento di critica a Kant). In questo contesto anche la poetica si pone domande storicamente determinate: se c’è una nuova esperienza del tempo che si relaziona a una nuova teoria della storia ci sarà anche una nuova poetica. SCHILLER si domanda come debba essere la poesia moderna, ed è già di per sé una domanda moderna → in ciò emerge ancora una volta il carattere riflessivo del moderno. Come fa Schiller a trovare questa poetica? Egli fa un confronto tra la poesia degli antichi e quella dei moderni, facendolo diventare un saggio (“saggio sulla poesia ingenua e sentimentale”):  Gli antichi → erano NATURA; in loro non c’era contraddizione e neanche unità (perché l’unità viene dal superamento di una contraddizione, è qualcosa di conquistato). L’antico è riflesso.  I moderni → hanno perso la natura, conosciamo la scissione. Il moderno è costitutivamente riflessivo. La distinzione tra ingenuo e sentimentale è una dialettica, l’antico non pensava a sé come ingenui, essi sono tali per noi: questo risente ancora una volta della storicità (Schiller per pensare una poetica moderna contemporanea si rivolge all’antico, ma con ciò facendo dell’antico non una cosa in sé ma qualcosa che è per noi). Gli antichi in questa riflessione dell’Ottocento tedesco parlano a noi ed è qui che si radicalizza la storicità perché passato, presente e futuro diventano un unicum. Nella poetica dell’epoca, quindi, si afferma il carattere produttivo del nostro rapporto con il passato (riflettere e confrontarsi con l’antico per pensare una nuova poetica del moderno), nonostante la consapevolezza propria della prospettiva storica dell’obsolescenza dei canoni (un modello valido per Atene del V secolo non risulta valido nella Berlino dell’800). 24/04/2022 SCHILLER Verrà menzionato nelle prime pagine dell’introduzione alle lezioni di Estetica di Hegel, da ciò l’importanza che ha Schiller per Hegel. Schiller, prima di essere pensatore e filosofo, è un drammaturgo e poeta, anche se di formazione era medico. La sua vita sarà segnata profondamente dall’amicizia con Goethe. Nel 1784 Schiller scrive il suo primo saggio teorico “Sul teatro come istituzione morale”: le sue idee estetiche prendono come punto di riferimento la sua stessa esperienza di poeta e drammaturgo. Egli vede nel dramma la più alta forma di mediazione tra sensibilità e intelletto (problema kantiano -Schiller gran lettore di Kant-). Schiller pensa l’arte come il luogo della mediazione tra sensibilità e intelletto: non casualmente l’arte è pensata da Schiller come gioco, Spiel (nel giudizio estetico kantiano, rapporto tra immaginazione e intelletto è in libero gioco). In tedesco, così come in inglese, spielen è un verbo utilizzato per l’esercizio delle arti, dunque l’arte come gioco deriva anche da questo uso linguistico. Schiller in questo si discosta da Kant: in Kant l’abisso tra natura e libertà è un abisso incolmabile. Ora, è vero che il giudizio costituisce un termine medio tra la ragione e l’intelletto, ma è anche vero che questa conciliazione tra noi e la natura resta tuttavia una conciliazione apparente e contingente e su un terreno esclusivamente soggettivo (e in questo lo rimprovererà anche Hegel biasimando Kant che abbia inteso la validità del giudizio riflettente solo su terreno soggettivo). Per Schiller è l’arte il terreno per mediare tra razionalità e sensibilità: la mediazione operata dall’arte è effettiva ed efficace, radicata nel reale. Secondo Schiller la divisione kantiana risiede solo nell’uomo stesso: Schiller antropologizza quella divisione che per Kant passa sia nell’esistenza umana ma eccede l’uomo. Proprio perché dunque questa scissione è all’interno esclusivamente dell’uomo, è una scissione passibile di essere riconciliata nella dimensione della realtà e non solo dell’apparenza. A questo proposito Hegel commenta nelle lezioni di Estetica. Secondo Hegel l’astrazione in cui è rimasto incastrato Kant è quella di aver pensato questa soggettività come contrapposta all’oggettività (da un lato radicalizzando e semplificando il concetto di Kant, anche se comunque anche per Kant questa mediazione resta contingente). È proprio ragione di questo intreccio che Schiller può pensare questo ruolo trasformativo e performativo dell’arte nel reale: è uno spazio di trasformazione reciproca tra soggetto e oggetto ed il terreno in cui l’uomo si approssima all’ideale di umanità. L’uomo noumenico e fenomenico non sono più due lati separati in Schiller: l’esperienza dell’arte è ciò che li concilia. 1789. GLI ARTISTI di Schiller I suoi componimenti sono raccolti sotto il titolo di “Poesie filosofiche”: stando all’estetica di Hegel, l’arte dal punto di vista storico tende ad approssimarsi sempre di più alla filosofia. Agli artisti è affidato il compito di guidare l’umanità verso il conseguimento dell’ideale. - Ritter, studioso e storico della filosofia e dell’estetica, in una serie di lezioni di estetica ricorda che nella modernità post-kantiana la ragione assume l’arte non come organo ausiliario ma come alleato insostituibile. Vi è dunque un primato dell’arte sulla filosofia. - Ritornando alla poesia, si può apprezzare in Schiller un riferimento a Kant: nella critica del giudizio distingue ciò che fa il carattere dell’arte richiamando il lavoro delle api che sembra arte ma in realtà è spinta solo dall’istinto, mentre l’arte è bella perché libera. E anche Schiller in questi versi scrive che l’arte ce l’ha solo l’uomo. Nel componimento viene anche risaltato il bello artistico e la sua superiorità sul bello di natura Nei saggi poi “Sul sublime e sul patetico” il bello sta nell’accordo tra ragione e sensibilità e il sublime e nel loro disaccordo. Pur muovendo dunque da istanze kantiane, per Schiller la volontà buona, in quanto autonomia della ragione, non può realizzarsi imponendosi alla sensibilità. Affinché la ragione possa compiersi è necessaria una conciliazione con il sensibile: quando la sensibilità si conforma alla ragione l’essere umano con grazia assurge a questa condizione di conformazione spontanea alla ragione. Chi non è naturalmente dotato di questa sensibilità potrà affinarla grazie all’arte. Ora però, questa divisione tra sensibilità e ragione (secondo Kant trascendentale e risolvibile con un’imposizione della ragione alla sensibilità) per Schiller è il FRUTTO DELLA MODERNITÀ. 1795. “LA PASSEGGIATA” di Schiller Da questo punto di vista un altro componimento di Schiller è “La passeggiata”: qui Schiller immagina un soggetto moderno che fa una passeggiata, è qualcuno che abita in città (significativo del fatto che la modernità è lontana dalla natura); noi possiamo apprezzare la bellezza della natura proprio perché l’abbiamo perduta: quel valore estetico della natura, per Kant costitutivo della nostra esperienza, per Schiller è il frutto di una frattura storica nell’uomo moderno e recupera la natura proprio conferendole un valore estetico.  Questa perdita della natura è la condizione della sua estetizzazione;  La perdita della natura è anche la condizione della nostra libertà. Ritter scrive: «L’unità con la natura è tramontata, ma l’artista la restituisce “poeticamente”. La consapevolezza del presente si esprime nella modalità della perdita». Schiller non ambisce a un ritorno alla natura perché sarebbe illiberale: il passaggio della perdita è ciò che procura la libertà, grazie alla quale ci riconciliamo alla natura in termini estetici. Nella città (che rappresenta la modernità) matura la libertà non nella vita agreste che rappresenta il passato (retta dalla legge angusta delle stagioni, dell’eterno ripetersi dell’uguale); è nella vita urbana, nella “lotta ardente delle forze in contesa” che la libertà dei “coloni del genere umano” produce qualcosa di più grandioso. Finché l’uomo, nel suo primo stato fisico com’è nell’antico, accoglie in sé solo passivamente il mondo sensibile, lo sente soltanto, egli è ancora affatto una cosa sola con esso, e proprio perché è semplicemente mondo, per lui non c’è ancora un mondo. Da schiavo della natura l’uomo diventa suo legislatore appena la pensa. Quello che prima lo dominava soltanto come potenza, sta ora come oggetto di fronte al suo sguardo di giudice. Ciò che per lui è oggetto non ha su di lui alcun potere, poiché per essere oggetto dovrebbe subire il suo potere. Per Schiller la perdita della natura è ciò dunque che aumenta la liberta dell’uomo. Su questo Goethe ha una grossa riflessione: si confronta con Shakespeare, considerato da lui il grande autore della tragedia moderna. PERCHÉ? Nell’antico e nella tragedia antica, i conflitti cui il protagonista va in contro sono di natura oggettiva, che riguardano questioni esterne; nel moderno la tragedia è innescata da questioni esclusivamente soggettive (esempio: Otello va in contro a sventure per via di essere geloso). Goethe vede in Shakespeare vede un antidoto alla estrema soggettivazione della tragedia (considerata un veleno, colpevole della morte della tragedia → anche Hegel ammette solo con fatica la possibilità nella modernità si possa dare la tragedia; secondo Hegel nell’antico la tragedia è data dall’opposizione di due potenze etiche oggettive, due universali che si scontrano e che si destituiscono a vicenda, lasciando come macerie la soggettività, ogni attore del conflitto ha una parte di ragione e di torto; nel moderno le potenze sono del tutto soggettive che albergano nel cuore dell’uomo e ciò toglie la struttura della tragedia, rendendolo un dramma luttuoso). “Scritti sull’arte e la letteratura” di Goethe: parte da un’invettiva nei confronti del Neoclassicismo, del teatro francese che tenta di imitare il teatro greco. Per Goethe in Shakespeare c’è un bilanciamento tra aspetto oggettivo e soggettivo che lo rende genio moderno. “Shakespeare senza fine” di Goethe: distinzioni tra antico e moderno per Goethe  ANTICO → ingenuo, pagano, eroico, reale, necessita sotto cui sta, dovere  MODERNO→ sentimentale, cristiano, romantico, ideale, libertà, volere Goethe stesso identifica un’incompatibilità tra soggettivismo del moderno e tragedia perché il volere rende il dramma debole e meschino. In Shakespeare volere e dovere sono in conflitto: quel volere che padroneggia nel dramma allontanandosi dalla tragedia, nel caso di Shakespeare è tratto fuori dai personaggi a partire da personaggi esterni. Egli lega mondo antico e moderno. Per Hegel invece, Shakespeare è sicuramente un grande autore ponendosi però sempre il dubbio che quelle di Shakespeare siano davvero tragedie o drammi luttuosi. Per Hegel non è possibile avere una tragedia nel moderno perché:  Mentre nella poetica antica ci sono soggettività immediatamente decise ad agire, nel moderno le soggettività sono guidate dalla riflessione e dal dubbio: per questo secondo Hegel la tragedia moderna per eccellenza è “Amleto”, che è un anti-tragedia. L’azione della tragedia è in contrapposizione con l’inazione della tragedia moderna;  La tragedia antica è scontro tra potenze universali (esempio: nella tragedia di Antigone, dove Antigone rappresenta la legge della famiglia e Creonte la legge della polis), quella moderna è uno scontro tra istanze diverse. Queste diversità dipendono da una diversità storica: nell’antico queste leggi universali possono scontrarsi per via di rappresentati individuali; nel moderno ci sono infiniti istituti di mediazione nessun individuo rappresenta direttamente una potenza etica universale (ci sono stati, esercito, sindacati). Hegel infatti sottolinea la differenza tra l’Ifigenia di Euripide e quella di Goethe: in quest’ultima nonostante l’intento di riprodurre un dramma antico, Ifigenia diventa un personaggio estremamente romantico. 28/03/2022 IFIGENIA IN TAURIDE, Euripide e Goethe esempio letterario per identificare la distinzione tra soggettività antica e moderna versione di Euripide: tra 414-409 a.C. versione di Goethe: in prosa 1779, in versi 1787 ANTEFATTO: Raccontato nella tragedia “Ifigenia in Aulide” → siamo durante la guerra di Troia, nell’accampamento greco in Aulide, le navi dirette verso troia sono ferme a causa del vento. Nel prologo si racconta che l’indovino Calcante ha affermato che solo sacrificando alla dea Artemide una figlia di Agamennone i venti torneranno a spirare. Ifigenia non è presente e Agamennone, persuaso da Ulisse, scrive una lettera a Ifigenia scrivendole di tornare in Aulide per un matrimonio con Achille. Agamennone pentito, subito dopo, cerca di riscrivere alla figlia per dirle di non andare, ma il messaggio sarà intercettato. Arrivano dunque Ifigenia, Clitennestra e il piccolo Oreste: la verità viene a galla; Ifigenia esprime dolore ma vedendo l’importanza della cosa decide di sacrificarsi. La dea Artemide decide di salvare la fanciulla, la sostituisce con un cervo e porta la principessa in Tauride, regione barbarica che corrisponde all’attuale Crimea. TRAMA: Ifigenia in Tauride diventa sacerdotessa del tempio di Artemide. Deve svolgere il sacrificio rituale di ogni straniero che sbarcasse in Tauride. Nel frattempo, passati degli anni, suo fratello Oreste ha ucciso Clitennestra per vendicare il padre ucciso da lei. Tormentato dall’ Erinni (le divinità che difendono il sangue della famiglia) Oreste non sa che fare e Apollo gli suggerisce di andare in Tauride per rubare la statua di Artemide per ottenere il bene delle Erinni. Oreste giunge in Tauride ma viene catturato con il suo amico Pilade per il sacrificio degli stranieri, non sapendo della presenza di Ifigenia. I tre una volta riconosciuti, architettano uno stratagemma per fuggire e fuggono. Mentre nell’Ifigenia in Tauride fuggono secondo uno stratagemma al quale segue il tentativo di vendetta di Toante, re della regione, che si risolve con l’intervento di Atena.; nell’Ifigenia di Goethe tutto si risolverà grazie all’intervento della soggettività di Ifigenia. IFIGENIA DI EURIPIDE IFIGENIA DI GOETHE  Ifigenia si presenta sotto il segno dell’oggettività: facendo il resoconto del suo albero genealogico. Nonostante ammetta la barbaria del rito sembra naturalizzata a questo suo compito.  La scena si sposta su Oreste e Pilade: presente il tema dell’astuzia nel rubare la statua.  Si riconoscono e elencano in maniera oggettiva tutte le loro sventure e i loro mali.  Il piano: purificare l’immagine (la statua) di Artemide, toccata da Oreste matricida e impuro.  Esodo (conclusione): raccontata da un  Ifigenia si presenta nella sua nostalgia della Grecia. Ifigenia non è naturalizzata nel suo compito e in questa terra e trema ogni volta che entra nel tempio. Da greca e soggettività moderna che è, per Ifigenia una vita non libera equivale alla morte.  Risalta orgoglio in Ifigenia: per Hegel lo stesso orgoglio è un sentimento moderno; solo il moderno prevede scontri generati dell’orgoglio, in quanto sentimento derivato da una ferita a una soggettività interiore infinita.  Le donne dicono a Ifigenia che Toante è innamorato di lei e vorrebbe sposarla. Per Ifigenia è una minaccia e a lui ha nascosto messo, che dice a Toante quello che è successo. Lotta violenta tra greci e milizia di Toante.  Atene discende e il suo intervento oggettivo e estrinseco modifica il sentimento di Toante che non prova più ira, mostrando di non avere più interiorità e i cui sentimenti sono dettati completamente dagli dei. le sue origini.  Toante, melanconico, si dice uomo distrutto dopo la morte di suo figlio: Toante diventa personaggio fin dall’inizio con una sensibilità e interiorità (nella versione di Euripide emerge alla fine come “burattino”).  Ifigenia dopo aver raccontato la sua storia a Toante, lo implora a lasciarla andare e Toante inizialmente è contrario e successivamente sarà proprio lui a lasciarla andare.  Il volere degli dei, in Goethe, è ciò che esprime la voce dei nostri cuori: la vera religiosità è quella che sgorga dalla nostra intimità (per Goethe = la bella religione dell’umanità).  Oreste e Pilade giungono in Tauride per rubare la statua di Artemide, salvo poi scoprire che ciò che dovevano portare indietro è proprio Ifigenia, che è la vera divinità vivente perché sa ascoltare la voce dell’interiorità perché in lei parla la voce del cuore.  Una volta organizzato il piano per fuggire, Ifigenia in questa versione non può tollerare l’inganno e la menzogna. Pilade la esorta a ingannare Toante.  Ifigenia tenta di convincere Toante a rinunciare a condannare i due e gli dice tutta la verità.  Toante alla fine le porge la mano e da la benedizione a Ifigenia e i due. 31/03/2022 Il personaggio di Ifigenia è un’icona dell’età di Goethe: in generale è un’icona della riflessione teorica del tempo, soprattutto estetica ed etica, e dopo Goethe anche di quella sociale e politica, poiché emergono tensioni morali e sociali nel corso del testo. Goethe traghetta la figura di Ifigenia dal mito greco alla tragicità dell’anima moderna e la ricchezza psicologica tragica di questa eroina finisce per distruggere la forma statuaria del dramma classico. Nell’Ifigenia vi è un flusso di coscienza moderno nei ritmi di un dramma che non è tragico neanche nella storia, anzi è il prototipo di tutti i drammi della redenzione, della grazia. Dunque l’Ifigenia di Goethe è il simbolo più riuscito della transizione della fatale staticità del personaggio antico, del cosmo chiuso greco, all’apertura dialettica dell’anima moderna. Questo lo dimostra ciò per cui è la prima volta in un dramma di argomento greco in cui qualcuno convince qualcun altro: il sacrificio di Toante (nel lasciar andare Ifigenia) è più di una conversione etica (da una religione greca chiusa a quella che Hegel chiama la religione dell’umanità) ma è la testimonianza dell’esistenza e della validità di quei diritti umani che Goethe inizia a immaginare (Ifigenia fa appello a questi diritti di contro ai costumi barbari degli sciti quando invita Toante Nell’estetica hegeliana successiva si danno tre caratteristiche:  Il legame tra forma e contenuto → l’idea che ogni forma artistica è legata a un contenuto determinato, anche storicamente. Dall’inizio dell’Ottocento Hegel pensa l’equilibrio della classicità greca come legato a un equilibrio storico irrecuperabile perso per sempre.  Il legame tra arte e religione→ il contenuto dell’arte è un contenuto di carattere religioso, fino a diventare Kunstreligion. Se nella classicità antica arte e religione hanno un rapporto irenico, nella modernità è polemico.  Il rapporto tra arte e storicità → si tratta di analizzare i diversi modi in cui forma e contenuto, dunque arte e religione si rapportano tra loro nel corso del tempo. Questo ci dice anche che quella di Hegel è un’estetica che vede nell’arte la mediazione storica del vero: solo nell’antico l’arte esprime una completa compenetrazione tra forma e contenuto, solo qui la verità storica dei greci trova un’espressione felice nell’arte, mentre nel moderno la verità storico-culturale non si esprime più così felicemente nell’arte e dunque ha bisogno della filosofia. Nonostante quindi l’opera d’arte classica venga pensata da Hegel come l’opera ideale, quello di Hegel non è un classicismo alla Winckelmann: per Hegel l’ideale dei Greci ha come vocazione quella di tramontare e di essere perso per sempre. Hegel è un classicista ma allo stesso tempo un anti-classicista. 01/04/2022 “Fenomenologia dello Spirito” Il ruolo dell’estetico è spiegato anche in quest’opera in particolar modo nel capitolo settimo dedicato alla religione, dove Hegel si occupa di religione artistica, una configurazione culturale che corrisponde alla religione dei Greci. La “Fenomenologia dello Spirito” è un’opera che Hegel pubblica nel 1807. Cosa vuol dire fenomenologia dello Spirito? Con FENOMENOLOGIA si intende la riflessione sui multiformi modi in cui lo Spirito nella sua storia si consegna alla manifestazione, e dunque si fa fenomeno (termine che viene dal greco feinomai che vuol dire “apparire”, fin da qui dunque si può intuire una pertinenza estetica dell’intero movimento fenomenologico). Con questa fenomenologia Hegel revoca la millenaria opposizione tra apparenza e verità, apparenza e essenza. Per Hegel, l’apparenza è la verità dell’essenza: vede nell’apparenza ciò in cui si esprime, manifesta l’essenza, la cui vocazione è quella di consegnarsi alla sua apparenza. Da questo punto di vista anche nell’estetico la fisionomia dell’opera d’arte (ciò che è bello) è da concepirsi come l’apparenza sensibile dell’idea, di un contenuto ideativo che si manifesta e trova espressione nella dimensione dell’apparenza. Lo Spirito consegue la propria verità consegnandosi a manifestazioni che sono storiche, culturali e religiose che egli chiama “figure” (e anche questo denuncia una pertinenza estetica). Come scrive lo studioso Alexis Philonenko nella nozione hegeliana di Spirito c’è un richiamo a due vocazioni. A partire dalla tradizione inaugurata dall’incipit del vangelo di Giovanni, il Logos nel significato greco del termine (parola+razionalità) è il verbo che deve incarnarsi prendendo forma e figura: da un lato dunque il rimando a ciò che è parola e razionalità, dall’altro l’esigenza che esso trovi incarnazione. Cosa intende Hegel per Spirito? In tutta la Fenomenologia Hegel non fornisce mai una definizione letterale di Spirito, che significherebbe rischiare di schiacciare lo Spirito su una sua essenza, laddove Hegel vuole revocare la distinzione tra essenza e apparenza. Spirito, nella nostra esperienza, indica tutto ciò che non è riconducibile a una natura data bensì Spirito è ciò che corrisponde a quanto è prodotto attraverso l’intermediazione dell’attività umana (Geisteswissenschaften= scienze dello Spirito, in italiano corrispondono alle scienze umane). Parlare di una fenomenologia dello Spirito significa parlare di una fenomenologia di ciò che è prodotto grazie anche all’intermediazione dell’attività umana. La dimensione dello spirituale è tutto ciò che ha a che fare con il movimento, con una processualità attraverso la quale si tratta, secondo Hegel, di fluidificare i pensieri irrigiditi, cioè tutte quelle idee che crediamo di poter disporre come se fossero dei dati e di cui tuttavia non sappiamo rendere conto perché non sappiamo spiegare il loro “che” e il loro “perché” (nella Prefazione Hegel scrive “Ciò che è noto, non è perciò conosciuto”). Il titolo dell’opera di Hegel sembra vicino al titolo dell’opera di Kant “Critica della ragion pura “: in comune vi è il genitivo (dello Spirito, della ragion pura), un genitivo che è in entrambi i casi sia oggettivo che soggettivo. [il genitivo è ambiguo anche nella lingua italiana. Esempio: “il ricordo di Pietro” si può intendere con valore soggettivo un ricordo personale di Pietro, con valore oggettivo è il ricordo di Pietro che magari è partito o morto]. Nel caso della ragion pura, abbiamo visto che la ragione è soggetto e oggetto della critica: è giudice e imputato al banco di prova del processo. Nel caso della Fenomenologia, questa duplicità è centrale, perché si tratta di spiegare come lo Spirito si faccia fenomeno per lo Spirito stesso: lo Spirito è l’oggetto (si consegna a diverse figure nel tempo), ma è anche il soggetto che agisce, perché lo Spirito è il Logos, cioè il discorso che ci consente di ricostruire in maniera sensata questa serie di figure che, in assenza di interpretazione, sarebbero un mero susseguirsi di fatti e vicende prive di senso. Tra le due dimensioni (Spirito nel senso oggettivo e soggettivo -narrata dal Logos-) c’è una mediazione: la COSCIENZA con la sua esperienza (sottotitolo dell’opera “scienza dell’esperienza della coscienza”). La storia dello Spirito, cioè delle manifestazioni, tende a coincidere progressivamente con la storia della coscienza. I protagonisti dunque della fenomenologia sono due: lo Spirito e la coscienza. Spirito e coscienza sono da una parte la stessa cosa, dall’altra no, perché la coscienza non lo sa; la singola coscienza parte da una convinzione naturalistica stando alla quale ogni singola coscienza sarebbe un atomo a sé stante, pensa che le cose sia date fin da sempre e per sempre. La coscienza crede di essere un qualcosa in opposizione al tutto dello Spirito, le cui manifestazioni sono date, fisse, indipendenti da lei, non sa di essere una parte del tutto spirituale. Il percorso della coscienza è dunque un percorso del dubbio e della disperazione, perché la certezza soggettiva che la coscienza ha di sé non coincide con il ruolo che la coscienza svolge entro la dimensione dello spirituale: il percorso della fenomenologia mette in dubbio questa certezza soggettiva, portandola a disperare perché la coscienza dovrà abbandonare questa sua certezza per diventare AUTOCOSCIENZA (=verità della coscienza, quando la coscienza consegue la verità di sé). La disperazione emerge dalla perdita della convinzione per cui la coscienza sarebbe qualcosa di isolato, indipendente. D’altra parte in quanto momento, l’autocoscienza è il luogo in cui lo Spirito realizza sé stesso. “IL VERO È L’INTERO” → se la verità della coscienza consiste nel conseguire l’autocoscienza: cioè la consapevolezza del fatto che il nesso tra verità e totalità spirituale passa attraverso l’autocoscienza (il processo di autoconsapevolezza della coscienza che è parte della totalità spirituale, ma è anche ciò attraverso cui la totalità dello Spirito si realizza). Se però la coscienza tutte queste cose non le sa, chi è che le sa? Da una parte l’esperienza induce progressivamente nella coscienza dei mutamenti di prospettiva e una progressiva agnizione di sé stessa. Chi mette in relazione l’esperienza della coscienza con lo Spirito, siamo noi lettori della Fenomenologia segnalata da una locuzione “per noi”, con la quale Hegel coinvolge in prima persona il lettore nell’esperienza della coscienza. La Fenomenologia ha dunque tre protagonisti: Spirito che ha bisogno della coscienza umana per prendere consapevolezza di sé, la coscienza che non sa quello che fa fin quando non diventa autocoscienza, e noi filosofi, che sappiamo di questo inganno ottico della coscienza su sé stessa e teniamo insieme il punto di vista dello Spirito e della coscienza. Il fatto che si possano identificare tre protagonisti all’interno dell’opera ha indotto ad associare la forma di questo trattato filosofico a una forma letteraria: la fenomenologia, fin dalla sua prima ricezione è stata pensata come il romanzo dello Spirito (Hyppolite, filosofo francese, lo paragona a un romanzo di formazione). Richiamare queste plurime associazioni fatte dalla letteratura critica vale a sottolineare il carattere sperimentale di quest’opera. Altre locuzioni usate da Hegel fondamentali saranno:  “in sé” → è qualcosa di analogo all’in sé kantiano: il modo in cui le cose sono indipendentemente dal fatto che lo si sappia o meno. In Hegel c’è una differenza fondamentale: laddove in Kant il modo in cui le cose sono in sé sarà per sempre alieno rispetto a noi, per Hegel la verità della cosa per come essa è in sé e di essere per sé (ovvero per noi); è solo nell’ambito dell’esperienza che noi facciamo, che le cose rivelano la loro natura relazionale. Per Hegel la cosa in sé è inconoscibile in quanto insieme che rimane vuoto nel momento in cui l’oggetto si manifesta. Gli oggetti sono agenti dell’esperienza tanto quanto lo sono i soggetti: è nell’esperienza che gli oggetti rivelano il loro modo di essere, per noi, non esistono oggetti isolati al di fuori dell’esperienza. La verità dell’essenza è l’apparenza.  “per sé” → è una dimensione di rispecchiamento reciproco tra soggetto e oggetto nel campo bilaterale dell’esperienza. “per sé” in tedesco è “für sich”, la cui preposizione für nell’antico tedesco era vor (=davanti). Il fatto che la verità dell’in sé sia il per sé, significa la dimensione relazionale delle cose che sono davanti a me. Nel momento in cui soggetto e oggetto sono uno davanti all’altro l’oggetto è modificato dal fatto di partecipare alla nostra esperienza, anzi è proprio partecipando alla nostra esperienza che si rivela nella sua natura fluida, essere fenomeno, essere per altro.  “in sé e per sé” → nell’unificazione delle due espressioni, quest’espressione restituisce il carattere bilaterale dell’esperienza: l’oggetto consegue la propria verità nell’essere per il soggetto, e il soggetto conseguo la verità di me rispecchiandomi in ciò che prima sembrava altro da me e che diventa altro di me. Questo è anche ciò che Hegel pensa come il movimento fondamentale dello Spirito: essere sé nell’essere altro. Questo per pensare un’identità mobile dello Spirito che riconosce sé in ciò che prima gli sembrava altro da sé. Hegel, dunque, radicalizza la centralità dell’esperienza rispetto a Kant: per Kant ogni conoscenza comincia con l’esperienza ma non tutta la conoscenza deriva dall’esperienza (ci sono strutture a priori, le categorie, che producono conoscenza solo grazie all’esperienza); tuttavia tra strutture a priori e esperienza non c’è nessun tipo di feedback (le facoltà mentali sono uguali a tutti gli uomini di tutti i tempi), proprio perché la conoscenza comincia con l’esperienza ma non dipende interamente da essa. Una prima figura nella religione naturale, che corrisponde a una cultura che identifica il divino con la luce, l’elemento più indeterminato, amorfo: questa figura Hegel la chiama paradossale figura del Dio, l’assenza di figura (la luce palpita senza posa, senza alterare sé o gli oggetti su cui si posa). Questa figura corrisponde alla religione di Zoroastro che vede una polarizzazione delle divinità, tra una divinità della luce e una delle tenebre. Un altro possibile riferimento potrebbe essere Israele, la religione ebraica sia per il testo sembra darsi sotto il segno del fiat lux, la Bibbia: Hegel insisterà molto anche sul salmo 104 in cui si dirà che la veste del divino è la luce. Se il riferimento fosse Israele troveremmo anche una correlazione in quanto antipodo della religione dove da un lato c’è la parola, il linguaggio, dall’altra la completa assenza di nominare Dio. Dopo questa figura paradossale dell’assenza di figura Hegel pensa anche alla religione dei fiori, con cui Hegel pensa la religiosità di alcune popolazioni pacifiche dell’oriente pregreco e la religione degli animali che troviamo in diverse manifestazioni storiche. Si tratta di una religiosità in cui le divinità sono associate a animali che rappresentano anche il momento bellicoso delle culture dei popoli. Punto significativo è che c’è un rimando alla genesi dell’autocoscienza, alla figura del servo e del signore: Hegel pensa la genesi dell’autocoscienza come lo scontro tra due vocazioni, una (il signore) al consumo, l’altra (il servo) al lavoro, che lavorando trasforma le cose. Questa trasformazione costituisce per Hegel l’anticamera di quella trasformazione della natura, che sarà l’arte vera e propria. E allora se la religione degli animali è bellicosa, distruttiva, che si limita a consumare la natura, l’altro versante produce lavoro: da queste religioni degli animali, infatti, nasce la religione dell’artefice che produce manufatti usando la tecknè. Da questo punto di vista c’è un aspetto formativo del lavoro: il primo rudimento di arte si ha quando la tecnica comincia a legare la datità della natura per produrre un artificio, ciò lega la sensibilità della fenomenologia a quella delle lezioni di estetica. L’arte nasce da una negazione della natura e una riproduzione di essa totalmente artificiale. Kant nella critica del giudizio per descrivere l’essenza dell’arte distingueva l’opera d’arte bella libera dal lavoro delle api che costruiscono le loro celle che è un produrre legato all’istintualità. Hegel ribadisce nella fenomenologia che affinché ci sia arte deve esserci negazione della natura. Da questo punto di vista l’arte egizia ha un ruolo centrale in quanto hanno un piede nell’arte proto artistica, simbolica e un piede nell’arte vera e propria: l’arte degli egizi è l’arte che inizia ad essere tale in quanto funebre, che secondo Hegel è come l’araba fenice che celebra la morte della natura a cui fa seguito un rinascere nel terreno dell’arte vera e propria. A esprimerlo al meglio è la Sfinge, caratterizzata da parti di animali e parti umane: questa mescolanza denuncia l’arte egizia come arte di transizione tra ciò che arte non è e arte vera e propria. Nella religiosità naturale, questa proto arte che mescola elementi naturali con elementi artificiali presenta un limite: l’apparenza esterna delle opere anziché rivelare il significato interno diventa qualcosa che copre, tant’è che si considerano opere misteriose, enigmatiche, come nel caso della piramide. La piramide ha un significato (quello di custodire il morto), tuttavia questo significato è chiuso all’interno di sé, è inaccessibile. Nelle lezioni di estetica Hegel dirà che la piramide è il simbolo dell’arte simbolica. Hegel, successivamente, fa alcuni riferimenti dicendo che la cosa che manca a queste opere è il linguaggio, cioè l’esistenza dotata in sé di un’interiorità. QUANDO LE OPERE D’ARTE HANNO UN SIGNIFICATO CHIARO E APERTO? Quando sono fatte di parole, e la loro stessa apparenza sensibile è un libro aperto, un comunicare il loro significato, di contro a queste figure misteriose che imprigionano il significato all’interno di sé. Hegel per pensare il passaggio da religione naturale a religione artistica riprende una tragedia dove Edipo sconfigge la Sfinge (simbolo della mescolanza tra natura e uomo) e risolve l’enigma della Sfinge (“Qual è quell’essere che al mattino ha quattro zampe, nel pomeriggio due e la sera tre?” “L’uomo”): non a caso la risposta è uomo che è la figura centrale della religione artistica, il cui tema principale dell’arte è la restituzione della figura umana in tutta la sua complessità. 7/04/2022 Se l’arte dei Greci, rispetto ad ogni arte che è venuta dopo e ogni arte che l’ha preceduta, è l’arte che vede una perfetta compenetrazione tra forma e contenuto, e dunque un’arte che rispecchia in tutto e per tutto la comunità che l’ha prodotta: se vogliamo sapere chi erano i Greci dobbiamo guardare le loro tragedie. Il Neoclassicismo fa dell’arte dei Greci un modello intramontabile, c’è un aspetto antistorico che per Hegel non è. Inoltre quest’arte dei Greci non è un modello originario ma è il risultato di una serie di vicende. Se l’arte che riflette il modo d’essere dei Greci è la tragedia ciò vuol dire che quell’immagine idilliaca del popolo greco come bello e sereno, questa immagine è solo un lato della grecità, quello più immediato. Tutta la storia della religione artistica è la storia della crisi incipiente della grecità, la quale custodisce contraddizioni che porteranno al suo tramonto: questa crisi sarà anche la crisi della religiosità olimpica di cui la stessa tragedia è il sintomo di questa crisi. Hegel pensa questo percorso della religiosità dei Greci nella Fenomenologia diviso in tre momenti:  OPERA D’ARTE ASTRATTA→ pensata da Hegel come il tempio e la statua (la scultura).  OPERA D’ARTE VIVENTE→ pensata da Hegel come la partecipazione ai riti misterici e d’altra parte come l’agone olimpico, dove ciò che si plasma è il corpo stesso dell’atleta.  OPERA D’ARTE SPIRITUALE→ resa tale dal linguaggio dunque l’opera d’arte letteraria, l’epos e le due declinazioni del dramma (tragedia e commedia). Questa scansione è un ulteriore motivo che separa Hegel dal Neoclassicismo: quella statuaria presentata in Winckelmann come modello intramontabile e la produzione più alta dell’arte greca in Hegel è posta come la forma espressiva più povera dell’arte dei Greci. Nel caso del tempio e della statua c’è un limite naturalistico di queste forme d’arte: la durezza del marmo. Nel caso del tempio l’espressività è ancora più inferiore alla statua perché non dà una figura al dio ma è uno spazio vuoto se non ci fossero le statue. Come Hegel descrive questo limite drammatico dell’opera d’arte astratta? Avevamo detto che l’opera d’arte, e in generale il frutto del religioso, costituisce una triangolazione: da una parte l’opera è ciò in cui l’uomo da figura al divino, dall’altra l’opera è anche ciò in cui una determinata comunità riconosce il proprio modo di essere. Dunque ciò che chiediamo all’arte è molto di più: da una parte di dare consistenza al nostro dio e dall’altra di essere anche uno specchio di noi stessi. È da questo punto di vista che la statuaria (primo momento dell’opera d’arte astratta) risente di un profondo e insuperabile limite: l’artista nel fare la sua opera è attività, è creatività, è non coincidenza con sé stesso → il modo d’essere dell’autocoscienza è inquietudine, è mobilità e non coincidenza: allora come può l’artista riconoscersi nella statua, nel prodotto della sua attività? L’opera d’arte fino a che non parla nella sua mutezza e nella sua immobilità non può soddisfare il bisogno di riconoscimento dell’artista che lo produce; può al massimo ingannare la folla, che si accontenta di apprezzare il virtuosismo, il momento imitativo. Lo scultore allora va incontro a una duplice delusione: da una parte quella derivante dall’opera che ha prodotto e dall’altra una delusione che deriva dall’incomprensione dei molti che plaudono la sua bravura virtuosistica senza capire il dramma in cui egli si trova. Il secondo momento dell’opera d’arte astratta è un ritirarsi completo dell’artista dentro sé stesso: l’artista si rifugia nella propria interiorità dando sfogo alla propria devozione nel linguaggio dell’inno. È una lingua che noi parliamo nella solitudine di noi stessi: Hegel dice che questa lingua con cui noi lodiamo il Dio è quasi una specie di musica che soffre di un limite → per quanto la statua era un estrinsecazione fissa la cui figura era riconoscibile ma non capace di rispecchiare la mobilità dell’autocoscienza, l’inno è troppo poco figurata, troppo evanescente per essere un arte vera e propria: l’inno è come il tempo, appena c’è non c’è più. L’ultimo momento dell’opera d’arte astratta che ci consente di vedere una prima verità sull’arte è il culto. Perché il culto dovrebbe avere un valore artistico? Perché è la prima attività che disvela quale sia la verità dell’arte: dice Hegel il culto è una prima unificazione tra la rappresentazione del Dio e l’autocoscienza umana; il culto è incentrato sul lavoro dell’uomo, ciò che l’uomo fa per fare una festa che è sicuramente celebrazione del Dio ma d’altra parte il culto non è altro che una festa che l’uomo dedica a sé stesso. Da questo punto di vista vi è una prima agnizione di quel rapporto di dipendenza di Dio dall’uomo che sarà fulcro della rappresentazione artistica dei greci e dall’altra anche l’inizio della fine dell’arte dei greci, perché questo disvelamento del rapporto di dipendenza tra la figura del dio e l’uomo come autore di questa figura sarà la crisi di quella religiosità olimpica. Si comincia a vedere dal culto come la possibilità del divino di manifestarsi dipenda dall’attività dell’uomo. In continuità con questo momento, questa seconda espressione dell’arte dei greci è pensata da Hegel come opera d’arte vivente che trova espressione nei culti misterici e nell’agone olimpico. Il culto misterico si basa sul consumo del pane (sotto il segno di Cerere) e del vino (sotto il segno di Dioniso), che anticipa il consumo del pane e del vino tipico del cristianesimo: in questa attività presiedute dalle due divinità misteriche per eccellenza si mostra che la natura è per l’uomo. In questo momento, che Hegel ritiene parte integrante della creatività dei greci si vede la rappresentazione icastica dal passaggio da ciò che non è ancora arte a ciò che è arte vera e propria: si mostra la verità della natura cioè che è per l’uomo e in questo modo la natura acquisisce un’esistenza superiore nel momento in cui viene consumata, ovvero negata e si riafferma in questo modo la libertà dell’umano dalla natura. Hegel sottolinea che si tratta anche del passaggio dalla cultura greca con tracce di cultura orientale, le quali vengono congedate in questo rito misterico in cui la natura viene negata: Hegel scrive “il sole nasce a oriente e tramonta a occidente” e questo è anche il tragitto della civiltà. Qual è il limite del culto misterico? Ancora una volta è un tramontare, un dissolversi che manca di figura. Emerge ancora una volta la dicotomia consumo-lavoro che è alla base di ogni arte: non c’è arte ove non ci sia trasformazione della materia (il lavoro). Hegel parla del lavoro in senso proprio come qualcosa che bildet (il lavoro che forma) e in tedesco le arti figurative le chiama Bildendekunste. Da questo punto di vista nel mistero bacchico c’è una negazione della natura ma anche una negazione dell’individualità umana totale perché nel culto bacchico l’individuo partecipa di una ecstasis, che è un uscire fuori di sé a cui non fa seguito un momento di unificazione con sé stesso. Dunque questa individualità è un delirio il cui momento linguistico è una furia priva di senso, un balbettio selvaggio, non ancora quel linguaggio chiaro della poesia (Hegel qui fa riferimento alla tragedia delle Baccanti, il cui linguaggio è delirante).  L’ ECONOMIA DEI RAPPORTI TRA ARTE E RELIGIONE , legati a quell’ambiguità costitutiva del momento estetico. Da questo punto di vista c’è una riflessione di Hegel sulla maschera tragica (il personaggio è incarnato da un attore che ci mette la voce ma non la faccia): riflettendo su ciò che abbiamo detto prima, possiamo affermare che la tragedia è la fotografia più esatta del modo di essere dei Greci, essa ha rappresentato tutte le contraddizioni della cultura dell’ethos classico. Questa capacità di riflettere in tutte le direzioni risiede nel suo statuto finzionale. Il limite allora del linguaggio tragico è quello di essere tutta una finzione, simboleggiata dalla centralità della maschera; ecco perché il momento più spirituale dell’opera d’arte spirituale è la commedia.  COMMEDIA → nella commedia i protagonisti giocano con la maschera, togliendosi alle volte la maschera, facendosi beffa dello stesso statuto finzionale di ciò che stavano facendo. Dietro la maschera ci siamo noi, uomini comuni: lo spettatore può finalmente identificarsi in loro in tutto e per tutto. Dietro la maschera vi è un uomo normale che è prodotto della crisi della religiosità olimpica e dell’ethos greco. In questo funerale (la commedia) di ethos e religiosità greca si consegue una grande cosa: la mimesi completa tra spettatori e chi è sulla scena, che è come noi. La commedia anticipa la fine dell’arte: essa produce il suo effetto di liberazione che consente il riconoscimento completo preannuncia il suo effetto di liberazione dalla rappresentazione, dalla finzione. Il carattere rappresentativo dell’arte è consegnato al passato. 8/04/2022 LEZIONE SU NIETZSCHE del professor Carlo Gentili Perché la cultura tedesca si occupa in modo così profondo del tema della tragedia? Perché si tratta dei primi tentativi di costruire una prima identità culturale tedesca che esisterà anche a livello politico solo dopo la guerra franco prussiana. I pensatori tedeschi rivolgono, con intento critico, la loro attenzione al Neoclassicismo francese che ha nel teatro il suo strumento principale. Lessing (massimo esponente dell’illuminismo tedesco) e altri autori tedeschi pensano di riportare il teatro alla sua dimensione originaria riferendosi direttamente alla tradizione attica, ai più grandi tre autori tragici (Eschilo, Sofocle e Euripide). Il teatro è importante perché viene percepito come il luogo nel quale si forma l’identità culturale popolare. C’è un altro elemento importante che viene fuori nel primo romanticismo, ovvero la costruzione di Shakespeare come autore europeo, autore della Weltliteratur. Grazie ai fratelli Schlegel, Shakespeare diventa autore universale, pur lasciando in primo piano una constatazione: per quanto sia grande il teatro tragico di Shakespeare, Goethe e Schiller, l’esempio degli antichi resterà insuperabile. A partire da Schelling, la tragedia diventa oggetto della filosofia: nell’antichità non esiste una filosofia della tragedia. Nel 1795 Schelling pubblica delle “Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo” in cui già egli affronta il tema della libertà (centrale nella sua filosofia): essa non può essere definita astrattamente, è sempre definita da qualcosa, liberazione da qualcosa. In queste lettere Schelling pone uno difronte all’altro il criticismo (la filosofia di Kant e Fichte) e panteismo (dove tutto è determinato in quanto vi è corrispondenza tra natura e Dio -indicando la filosofia di Spinoza-; qui non vi è spazio per la libertà): in questo scontro tra libertà e necessità nasce la LIBERTÀ AUTENTICA. Schelling prende in considerazione l’eroe che lotta per la libertà e deve confrontarsi con la necessità universale: in questa lotta in cui nessuno vince e perde, libertà e necessità vincono e perdono contemporaneamente eppure l’eroe viene punito. Questo eroe è Edipo, dell’“Edipo re” di Sofocle. Ciò che unisce rappresentazione tragica e concetto del tragico è l’idea della dialettica: la dialettica nella rappresentazione tragica consiste nell’identità dei contrari, nella suprema contraddizione (Edipo quando l’oracolo gli dice che ucciderà suo padre, ricongiungendosi con sua madre, Edipo va nella direzione opposta rispetto a colui che credeva essere suo padre, ma giunge a Tebe dove incontra il suo vero padre e madre e l’oracolo si realizza: la via della salvezza che si rivela la via della rovina). Ora nel momento in cui la contraddizione è pensata, il pensiero non può concludere ad altro che a una conciliazione, ed è qui che si perde la dimensione tragica. In Nietzsche la sua concezione della tragedia è fondata sull’opposizione di due principi, l’apollineo e il dionisiaco, che rappresentano l’opposizione più radicale ma sono anche un’alleanza fraterna destinati a riconciliarsi proprio nella tragedia. “La nascita della tragedia” Il libro esce nel gennaio del 1872, dopo che Nietzsche è arrivato a Basilea e viene chiamato come professore di Filologia e Letteratura classica. Nietzsche non ha la formazione del filosofo: egli figlio di un pastore protestante, viene mandato dalla madre a studiare Teologia a Bonn; qui Nietzsche incontra il suo maestro Ritchell, un filologo classico, e lascia la facoltà di teologia e si laurea a Lipsia in Filologia classica (non scrivendo la tesi perché prima di laurearsi pubblicò un articolo sulle fonti Diogene Laerzio sul Rainischen Museum). Nel 1868 poco prima di laurearsi pensa di laurearsi in Filosofia, leggendo e appuntando la critica del giudizio di Kant, per poi ritornare sui suoi passi e laurearsi in Filologia. C’era grande aspettativa su questo libro, delusa in quanto vi è molto poco di filologia, provocando una pessima reazione ovvero il silenzio: Nietzsche chiederà a Rhode di scrivere una recensione al libro, dove elogerà la magnificenza di Nietzsche. Wilamowitz-Moellendorff risponde dicendo che Nietzsche non ha seguito il corretto metodo storico secondo il quale per comprendere il passato bisogna ricostruire l’orizzonte del passato; dopodiché scrive che non è degno di quella cattedra di Filologia. Ritornando all’opera, la nascita della tragedia esce nel gennaio del 1872, ma esistono altre due edizioni, nel 1874 e nel 1876. In quest’ultima edizione Nietzsche va a rivedere e ripubblicare tutte le su opere fondamentali: in questa edizione cambia titolo da “La nascita della tragedia dallo spirito della musica” a “La nascita della tragedia, ovvero grecità e pessimismo”. Nell’edizione del 76 Nietzsche sostituisce l’introduzione a Wagner con il tentativo di autocritica, dove Nietzsche scrive che trova nell’opera profonde lacune. Nella prefazione a Wagner scrive, rivolgendosi a Wagner, che nel libro egli ha voluto affrontare un serio problema tedesco: dare ai tedeschi una cultura nazionale, diversa dalle altre culture europee. Riprendendo un frammento dell’88, dove Nietzsche esprime il suo desiderio di scrivere un libro di nome “La volontà di potenza”, scritta dai postumi per volontà della sorella di Nietzsche nel 1901 e rivista nel 1906. Qui vi sono annotazioni in cui Nietzsche commenta “La nascita della tragedia”, affermando che ci sono tre elementi di novità fondamentali:  Il nuovo modo di concepire i Greci, quella che Nietzsche chiama la psicologia dei Greci  Una nuova concezione dell’arte come stimolante della vita, l’arte incita a vivere  Una concezione del pessimismo, che deve essere pessimismo della forza, il pessimismo classico diverso da quello romantico, della debolezza (quello di Schopenhauer, Dostoevskij, Leopardi e Pascal). Dal lato del pessimismo romantico ci sono anche le grandi religioni nichilistiche, che hanno fatto del nulla un valore chiamandolo Dio (il bramanesimo, il buddismo e il cristianesimo). Ma in primo luogo vediamo cosa si deve intendere per Dionisiaco e Apollineo che sono due figure non due concetti. Apollineo e dionisiaco si trovano già in alcuni scritti di Wagner. Se l’apollineo è il principio della forma, il dionisiaco è il principio della distruzione e dell’assenza della forma. Da qui segue una classificazione delle arti: la statuaria è un arte apollinea al quale Nietzsche affiancherà la poesia epica, la musica è arte dionisiaca a cui poi Nietzsche accosterà anche la poesia lirica. La tragedia è la conciliazione di questi due principi. Degli elementi di novità che abbiamo visto quello da cui dipendono tutti gli altri è certamente il PESSIMISMO: nel capitolo 3 dell’opera Nietzsche cita un’antica leggenda, come la chiama lui, dove narra che il re Mida vuole sapere in cosa consista la felicità e quale sia la cosa più desiderabile per l’uomo. Per cercare la risposta il re Mida va alla ricerca del Sileno, figura del corteo di Dioniso simile alla figura del satiro. Una volta catturato Sileno risponde al re Mida: il meglio è irraggiungibile, in quanto essendo nato la felicità è irraggiungibile; sarebbe meglio non essere nati ma una seconda felicità è morire presto. Questo proverbio lo ritroviamo in Aristotele, in un dialogo perduto, ma ancor prima in Sofocle. Si tratta però di un pessimismo talmente radicale che l’uomo greco è costretto a dare un senso alla propria vita (la vita non ha senso tant’è che è meglio morire presto, ma essendo nati bisogna dare un senso alla propria vita): è qui la grandezza e il pessimismo della forza, il pessimismo classico. Basti pensare alla statuaria greca, alla prosperità dei corpi nelle statue (i greci non erano realmente così): Nietzsche scrive che la filosofia del Sileno fece morire i malinconici etruschi, in quanto l’arte etrusca è un’arte realistica, gli etruschi non furono capaci di inventare questa bellezza, il cui prodotto decisivo sono gli dei dell’olimpo. Qui Nietzsche è sulla stessa linea di Hegel: la religione greca è una religione artistica, gli dei mostrano a tutti modelli di bellezza con i quali diventa tollerabile vivere. È una riconciliazione con la vita il fatto che l’uomo è in grado di produrre questa bellezza al punto che questa vita così miserabile in realtà è amatissima dai Greci: l’esempio che Nietzsche fa è quello di Achille, al quale rispondendo ad Odisseo (che aveva appena prima elogiato la sua grandezza da vivo e da morto), Achille dice che pur di esser vivo sarebbe bracciante di un bracciante. Achille lamentandosi di esser morto, fa una grande lode alla vita che ha perso. Per quanto riguarda il dionisiaco, l’ebrezza, la vertigine prodotta dal dionisiaco deriva dall’essere stati capaci di gettare lo sguardo nell’abisso dell’orrore che la vita è e la capacità di ritrarsi in quest’orrore per compensarsi in immagini apollinee. della religione, storia del diritto, ecc. Ha tenuto però delle lezioni, per cui sarebbe lecito supporre che i due volumi tradotti da Merker e Vaccaro constino degli appunti di tali lezioni, che tramite criteri filologici ed ermeneutici, vengono poi pubblicati. Essi sono solamente appunti, che verranno poi approfonditi con la parola. Purtroppo, non rimangono appunti diretti di Hegel, per cui manca un originale con cui confrontare tali documenti. Rimangono però i quaderni degli appunti di Hegel medesimo, che a loro volta hanno una loro vita (lezioni di filosofia della storia, ad esempio). Le lezioni di Estetica escono in tre volumi tra il 1835 e il 1838 (Hegel era morto già da sette anni): l’iniziativa parte da Heinrich Gustav Hotho, allievo di Hegel che diventerà professore di Storia dell’arte a Berlino. Questi tre volumi sono parte di un’iniziativa più ampia intitolata “Le opere di Georg Wilhelm Friedrich Hegel edizione completa, a cura degli amici del circolo dell’amico” a cura di Philip Marheineke, Gans, Hotho e altri. Si tratta di una grande iniziativa istituzionale volta a recuperare questa straordinaria mole di materiali dopo la morte del filosofo, avvenuta nel 1831 probabilmente per via di un’epidemia di colera, che fa sentire l’esigenza di dare alla posterità tali riflessioni dell’autore. Quale criterio segue Hotho? Innanzitutto egli disponeva degli appunti (Nachschriften= appunti in bella copia; Mitschriften= appunti scritti in presa diretta) di Hegel da lui presi durante i diversi corsi hegeliani e di altri allievi. Egli redige una collazione dei corsi dal 21 al 29 con molte integrazioni, secondo l’unitarietà e leggibilità. Tale collazione dovrebbe quindi fotografare la posizione di Hegel nei vari anni, secondo unitarietà delle cose dette e la leggibilità di tali cose. Ciò significa che, prediligendo il secondo punto, si decide anche di intervenire maggiormente sul testo. Da tale punto di vista, si è prediletto l’ultima impostazione data da Hegel al corso, diviso in Parte generale, Parte speciale, dedicata alle forme d’arte, e una Parte individuale. Già la stessa impostazione del testa nasconde il fatto che queste serie di lezioni sono per Hegel un cantiere del pensiero; l’Estetica per lui non è una disciplina già data, ma una parte di riflessione da farsi, ragion per cui da anno a un altro sono tante le cose che si distinguono al punto tale che la stessa partizione del testo è stata inaugurata da Hegel solo l’ultimo anno. L’Estetica di Hegel, sulla base dell’edizione di Hotho, trova straordinaria risonanza e fortuna filosofica. Questa leggibilità che Hotho aveva voluto darvi è coronata da un grande successo che lo rende il testo più bello e significativo di Hegel. Tra il 1840 e il 1852 viene tradotta in francese da Bernard, e ritradotta altre due volte che ne sottolinea la vitalità dell’opera. Questo denuncia anche una differenza tra il panorama filosofico italiano e quello francese: quello italiano non ha più prodotto traduzioni dedicandosi a iniziative editoriali promuovendo ulteriori fonti, in Francia è considerata un classico della filosofia. Le varie traduzioni sono importanti in quanto sono il curriculum dell’opera stessa, che ne denunciano il successo e l’accoglienza da parte del popolo; inoltre, la traduzione non è qualcosa di meccanico e imparziale, bensì qualcosa che costituisce un’appendice del corpus di pensiero dell’autore stesso. Le stesse traduzioni, infatti, contribuiscono ad allargare la lingua di un popolo. Nella ricezione italiana, ad esempio, viene ampliato il lessico durante l’atto della traduzione. Fin qui abbiamo visto la prima vita delle Lezioni di Estetica che, come un’araba fenice, risorgono grazie a Hotho; ma c'è anche una seconda vita: a partire dal 1995 su impulso dell’Archivio Hegel che si trova a Bochum, sono stati trascritti e pubblicati singoli quaderni degli uditori di corsi hegeliani (cioè il materiale da cui aveva attinto Hotho). L’idea era quella di pubblicare le fonti di Hotho, in modo da avere un materiale di controllo delle nuove fonti, con cui comparare la versione unitaria di Hotho. Ciò servirebbe a restituire all’estetica di Hegel la sua vera fisionomia di laboratorio di pensiero che veniva persa nella versione di Hotho, certamente più unitaria e leggibile, ma fissa. Il lavoro vuole quindi apprezzare: a. i cambiamenti cui le singole trattazioni vanno incontro nel corso degli anni; b. la modificazione dell’architettura generale dell’estetica hegeliana, che nel corso degli anni conosce significative trasformazioni. L’operazione ha quindi un respiro volto a mettere in luce altri parti della vitalità, che non hanno trovato spazio in Hotho. L’andamento dei singoli corsi consente quindi di trovare le contraddizioni fra i vari corsi e la modificazione dell’impianto generale. Da ciò emergono ulteriori edizioni critiche:  Schenider, nel 1995, pubblica le lezioni del 1820/1821;  Gethmann-Siefert, nel 1998, pubblica quelle del 1823, poi tradotte da Paolo D’Angelo; nel 2005 quelle del 1826; nel 2017 quelle del 1828/1829. Inoltre, tali edizioni vengono fatte uscire presso diversi editori, con il limite di non avere un’unità filologica. Esse sono state ulteriormente curate per convergere nei Gesammelte Werke (le opere complete di Hegel) in uscita dal 1968, nel quale gli appunti sono stati riediti e rivisti criticamente per essere inseriti al suo interno.  Un’ultima fonte dell’estetica hegeliana è un quaderno di appunti trovato nella biblioteca della Sorbona, in lingua francese, da cui viene redatta “l’Esthétique, Cahier de notes inédit de Victor Cousin”, relativo al corso del 1823 e tradotto da Paolo D’Angelo.  Inoltre, il gruppo di ricerca italo-francese Hegel Art Net si sta al momento occupando della traduzione integrale in lingua italiana e in lingua francese delle testimonianze dei singoli corsi dal 1820/1821 al 1828/1829. Due dei punti critici più forti relativamente all’estetica di Hegel, per risolvere i quali, è necessario considerare la doppia vita dell’estetica hegeliana sono:  Il classicismo hegeliano →  Stando all’estetica della Fenomenologia: mentre in Winckelmann il classico è un origine, un modello che storicamente va in contro a depauperazione ma che costituisce sempre un modello classico per oggi; in Hegel il classico è il frutto di tutta una serie di cose e dunque non è origine, e inoltre produce anche contraddizioni che lo conducono al suo tramonto.  Stando alla nuova generazione di studiosi e alla ricezione culturale dell’edizione unitaria di Hotho: il limite è quello di accentuare una certa sensibilità classicistica di Hegel; accentuazione che deriva dalla sensibilità di colui che ha collazionato.  La morte dell’arte → si tratta di un termine che non esiste in Hegel, piuttosto egli parla di “CARATTERE DI PASSATO DELL’ARTE”; l’espressione “la morte dell’arte” è entrata nella lettura filosofica italiana grazie a Benedetto Croce che traduce diverse opere di Hegel. Benedetto Croce, nel 1948 scrive un saggio 'Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel'. Nella letteratura filosofica anglofona va sotto il tema di “End of Art”. Dunque, questi due sarebbero gli aspetti più critici dell'estetica di Hegel, per come emerge dalla versione unitaria di Hotho: il calcare la mano da parte di Hotho su una sensibilità classicistica, che in Hegel non ci sarebbe; e il tema della cosiddetta “morte dell'arte”. Dalla versione unitaria di Hotho, sembrano esserci tre paradigmi che caratterizzano l'estetica di Hegel in generale: 1. LEGAME TRA FORMA E CONTENUTO → ogni forma artistica è legata ad un contenuto determinato, anche storicamente (non ogni contenuto può essere espresso in una qualsivoglia forma). Hegel, infatti, pensa che l'equilibrio della classicità greca, ove si dà perfetta compenetrazione tra forma e contenuto adatta ad essere espressa artisticamente (gli dei della Grecia sono divinità umane), è legato ad una condizione storica irrecuperabile nella modernità e che pertanto è persa per sempre. Dunque, è costitutivo il fatto che non si possa imitare, riprodurre quella classicità greca, una volta che siano venute meno quelle condizioni culturali che l'hanno prodotta, che hanno prodotto quel determinato contenuto religioso, che si confaceva ad essere artisticamente espresso. Questo perché nella modernità (che per Hegel è un periodo lunghissimo che si inaugura con l'avvento del Cristianesimo) il rapporto tra arte e religione diventa più complicato, diventa polemico. 2. LEGAME TRA ARTE E RELIGIONE → o mentre nella classicità greca il rapporto tra arte e religione è un rapporto irenico, arte e religione sono sposate, sono congiunte; o a partire dall'avvento del Cristianesimo, il rapporto tra arte e religione diventa polemico. Il che non toglie però che l'arte abbia un legame costitutivo con la religione: solo che quel matrimonio che nella classicità greca è un matrimonio riuscito; diventa un rapporto polemico nella modernità, e forse anche un divorzio. Ciò non toglie però che arte e religione siano legate per sempre. 3. LEGAME TRA ARTE E STORICITÀ → i primi due punti ci rimandano all'idea che ci sia quindi un legame tra arte e storicità. L'arte è mediazione storica del vero, e questa è la ragione per cui “Estetica”, è un termine complicato e poliedrico che cambia di significato lungo la storia. Per Hegel è un termine dunque funzionale a livello filosofico: utilizzandolo andando a riferirsi a una filosofia della storia dell'arte Dunque la differenza tra gli antichi e noi è che per conoscere gli antichi è necessario leggere le tragedie, le opere d’arte; per conoscere noi non sarà sufficiente guardare le nostre opere d’arte. L'uomo moderno è colui che non si riconosce più nelle opere d'arte, tanto che, qualche volta diventa addirittura difficile stabilire cosa è arte e cosa no. Cosa emerge nelle singole redazioni dei corsi rispetto alla versione unitaria di Hotho? Annemarie Gethmann-Siefert sostiene che quello che emergerebbe sia un Hegel “fenomenologo” (attento all’osservazione della storia della vita dell’arte) più che un Hegel “sistematico” volto a ingabbiare la storia dell’arte in categorie sistematiche. o Inoltre, ella sostiene che prendere alla lettera la tesi della fine dell’arte finirebbe per condurci versi l’irrilevanza storica nel contemporaneo del fenomeno artistico, sarebbe l’esito di una forzatura da parte di Hotho. Riflettendoci su però, è proprio la tesi sul progressivo tramonto della centralità dell’arte nelle nostre esperienze che ci consente di comprendere la radicale storicità della filosofia dell’arte di Hegel. Nella modernità vi sono infiniti istituiti di mediazione: oggi nessuno può ricoprire quel ruolo di unificazione del mondo nell’epos ricoperto da Achille. Questa tesi sul “carattere di passato dell'arte” è anche ciò che ci permette di elaborare una POETICA STORICA DEI GENERI LETTERARI: il che significa che non solo ogni tipo di arte conosce la sua massima fioritura entro una determinata epoca (ragion per cui la scultura sarà l'arte classica per eccellenza; di contro alla poesia e alla musica che saranno arti romantiche per eccellenza); ma anche dentro i generi letterari si riproduce una dialettica dei generi (dall'Epos, che è il genere Antico per eccellenza, al Dramma, fino a generi nuovi come per esempio il Romanzo). Questa contrapposizione tra antico e moderno è anche nel fatto che mentre il mondo antico è più poetico, il mondo moderno è un mondo sempre più prosaico, che è sotto il segno della segno della dispersione, della frammentazione. E infatti, nel momento in cui si sono creati infiniti istituti di mediazione tra l'individuo e la legge, tra individuale e universale, si dà una dispersione, un allontanamento, che nell'Antico non si conosce. La costellazione di eventi storici da cui questa perdita di centralità dell’arte dipende sono almeno tre: 1) Avvento del cristianesimo: di contro alla religione dei Greci, la religione della bellezza, la religione della creaturalità, il Cristianesimo non affonda la sua verità nel sensibile, ma nel sovrasensibile. Come potrebbe l’arte rappresentare sensibilmente ciò che per costituzione è non sensibile? Laddove la religiosità dei Greci trova un culto esaustivo nell’arte, nella finzione; questo momento fittizio è lasciato alle spalle dall’avvento del cristianesimo dove la veste sensibile del Dio non è finta ma è un uomo in carne ed ossa. Il cristianesimo porta l’avvento di un umanità tutta interiore, a una soggettività che dall’agorà passa al teatro interiore, una soggettività che è dunque invisibile. Come può allora l’arte che, per costituzione è visibilità, rappresentare l’invisibile? Potenzialmente dunque il germe del tramonto dell’arte sembra stare già nell’avvento del cristianesimo. 2) Eventi della modernità avanzata come la riforma protestante, che spiritualizza sempre più la sensibilità cristiana (di contro al cattolicesimo romano le cui chiese sono state i principali mecenati dell’arte, le chiese protestanti sono spoglie e promuovono una certe spiritualità), e la rivoluzione francese, che insiste su una democratizzazione della libertà. 3) Di conseguenza, nella modernità, con la centralità della libertà individuale, l’arte diventa un’espressione - sicuramente sempre più libera (e secolarizzata) - della singola soggettività, non più di un ethos condiviso. La modernità avanzata, in antitesi all’ethos greco, è caratterizzata da frammentazione e scissione. L'arte non dice più chi siamo noi, perché non c'è più un noi. → Stante la tesi della fine dell’arte, non solo l’estetica hegeliana non sarebbe classicista, ma addirittura è il momento più vitale dell’estetica di Hegel e ci permette di vedere l’estetica di Hegel come estetica della modernità per eccellenza. («Alla fine della fine dell’arte non c’è alcuna fine, ma un altro inizio: la scoperta della fine dell’arte come un discorso della modernità» - E. Geulen, Das Ende der Kunst.) Tenendo presente tutto questo quadro, potremmo dire che nella modernità la forma di espressione che può dire chi siamo è la FILOSOFIA. In tal senso, quanto nella modernità si solidifica è, a vantaggio della seconda, il rapporto tra arte e filosofia → Hegel dice “noi produciamo arte per riflettere”: ma questo rapporto tra arte e filosofia è un rapporto mortale per l’arte? O corrisponde a un nuovo inizio, a una collaborazione tra le due? La radicalità della tesi della fine dell'arte è tale che, addirittura si può sospettare che Hegel collochi l'inizio della fine dell'arte non solo a partire dall'avvento del Cristianesimo, ma a partire dall'ultimo dei generi della classicità Antica, ovvero la Commedia. La Commedia è quell'arte dove l'attore gioca con la maschera, finisce per togliersela, denunciando così il carattere fittizio della rappresentazione artistica. Sembra quindi che sia già la Commedia, la prima a celebrare il funerale dell'arte. L'aspetto interessante è Hegel concluse il suo ciclo di lezioni di estetica, del corso del 1823, proprio parlando della Commedia Antica; così come accade per la sezione della religione artistica nella 'Fenomenologia dello Spirito' (1807). Dunque, il tramonto dell'arte comincia addirittura all'epoca del tramonto della grande cultura artistica classica. Ulteriore aspetto che testimonia di questa straordinaria modernità della tesi della fine dell’arte è che si possono trovare categorie interpretative anche per l’arte contemporanea a noi: questa idea per cui l’arte ha perso di centralità continua in verità a parlare di noi, non aliena l’arte dal nostro mondo, ma dice il modo diverso in cui noi siamo rispetto alla soggettività antica. Esempio: l’arte ha tanto perso di centralità che la stessa riconoscibilità dell’arte è in discussione. L'installazione dal titolo “Dove andiamo a ballare questa sera?”, delle artiste Goldschmied e Chiari, fu scambiata per spazzatura dagli addetti alla pulizia. Il nostro rapporto con l’arte è diventato talmente tanto mediato dal pensiero che può succedere che uno non riconosca ciò che è arte e ciò che non lo è proprio perché la mediazione di riflessione è tale che bisogna rifletterci altrimenti l’opera d’arte non si presenta più come tale nella sua immediatezza. Si verifica anche un singolare rivolgimento:  se dal punto di vista sistematico il limite dell’arte sarebbe quella di essere sensibile, è legata al sensibile;  dal punto di vista storico, della vita dell’arte, il limite dell’arte sembra essere la sua progressiva emancipazione del sensibile, che fa dell’arte un’attività, una produzione di senso che si getta nell’abbraccio della filosofia e del concetto, diventando mero significato. Per apportare ulteriori elementi di analisi e di comprensione occorre tenere presente che la tesi della morte dell’arte è l’esito dell’intreccio dinamico, nell’estetica hegeliana, tra prospettiva sistematica e prospettiva storica.  Stando alla prospettiva sistematica (teorico-conoscitiva), l’arte, per sua stessa costituzione, ha un lato “invariabile”, che tuttavia viene pensato da Hegel anche nella sua concreta, “variabile” manifestazione fenomenica. Ecco perché l’abbraccio tra i due punti di vista è nondimeno profondamente dinamico, cosa che costituisce anche una sfida per l’interprete. L’arte, nella prospettiva sistematica, è pensata come il primo momento in cui lo spirito assoluto conosce sé stesso. Stando a una esegesi minimale (e pertanto anche del tutto inesaustiva e incoativa), potremmo associare il significato di spirito – Geist, in tedesco – alla parola che, in ambito germanofono, definisce le scienze umane, ovvero le Geisteswissenschaften. Spirito è tutto ciò che, di contro a quanto è dato, è il prodotto dell’attività umana. Proprio in quanto l’arte è il prodotto dello spirito, è attività umana, intanto occorre anche notare che L’AMBITO DEL BELLO NATURALE È PERTANTO ESCLUSO DA UN’ESTETICA PROPRIAMENTE DETTA. Hegel dismette definitivamente il paradigma dell’arte come imitazione della natura per farne una produzione. Dopodiché, occorre anche notare che l’arte, in quanto primo momento in cui lo spirito conosce sé stesso, è anche il momento più basso di tre. Gli ambiti in cui lo spirito conosce sé stesso sono: o Arte → perché l'arte è legata all'intuizione, alla sensibilità o Religione → Rappresentazione o Filosofia → Concetto, la cosa più malleabile, più duttile che può rispettare quanto più possibile la pluralità del reale Se lo spirito è tutto ciò che, in quanto prodotto e risultato, inquieto e fluido, si contrappone alla dimensione del dato, l’arte è il primo momento, e pertanto il più basso e imperfetto, poiché l’arte si esprime nel sensibile, che, essendo sensibile, è legato a un materiale determinato, è dunque qualcosa di finito e cristallizzato. La fissa immediatezza del sensibile non potrà mai, in altri termini, esprimere a pieno la straordinaria mobilità dello spirito, che solo il concetto, nella sua immaterialità, può restituire fedelmente. L’arte è dunque il luogo in cui si verifica un movimento duplice. In quanto parvenza sensibile dell’idea, l’arte è il luogo in cui il sensibile viene spiritualizzato (secondo un’ideale di, ancorché non sempre pacifica, unità di forma e contenuto). Ciò nondimeno, quanto qualifica l’espressione artistica rispetto alla discorsività filosofica è il ritorno al sensibile.  primo movimento : dal sensibile all’ideale (idealizzazione del sensibile);  secondo movimento : dall’ideale al sensibile (incarnazione dell’idea). Proprio per questo Hotho parla della «mirabile» duplicità della parola «senso [Sinn]». Di conseguenza, l’arte è una prima espressione dello spirito. Tuttavia, proprio essendone una prima espressione, dal punto di vista sistematico essa è anche la più bassa, perché ogni arte, per essere arte (stante la duplicità del movimento che in essa ha luogo), vincola la dimensione spirituale a una dimensione sensibile, che non potrà mai essergli pienamente adeguata. Se si può parlare di unità dinamica tra prospettiva sistematica e prospettiva storica (e di sfida interpretativa) è perché, se associamo la prima alla seconda, si rileva un paradosso. Mentre, dal punto di vista sistematico, la tara dell’arte è il suo rapporto col sensibile, dal punto di vista storico essa perde di centralità proprio perché, storicamente, tende invece ad allontanarsi dal sensibile sempre più. L’arte, nelle sue concrete manifestazioni, esibisce una progressiva e storicamente irreversibile smaterializzazione. Nel moderno infatti si assiste ad una smaterializzazione dell'arte: “Solo in questa sua libertà la bella arte è arte vera, ed adempie il suo compito supremo solo quando si è posta nella sfera comune con la religione e la filosofia, ed è soltanto una specie e un modo di portare a coscienza e di esprimere il divino, il più profondi interessi dell'uomo, le verità più ampie dello spirito (che sono comunque storicamente determinati)”. (Estetica, cit. p.12) Con questo risponde anche alla terza obiezione in quanto il contenuto dell'arte è quindi il medesimo di quello della religione e della filosofia, solo che la peculiarità dell'espressione artistica è quella di rendere e manifestare sensibilmente questo contenuto. 2. Per quanto riguarda la seconda obiezione, ciò per cui l'arte, in quanto illusione, non sarebbe adatta a condurre al vero, essa è sbagliata di principio. È vero che l'arte è apparenza, ma è sbagliato credere che l'apparenza si opponga all'esistenza. Se diciamo che l'arte è apparenza non solo non la sminuiamo ma ne cogliamo il carattere principale: non esiste essenza che sia tale senza manifestarsi. La manifestazione dell'essenza non è un accidente, ma è il modo d'essere stesso di quell'essenza. Sta nella vocazione dell'essenza di consegnarsi alla apparenza, alla sua manifestazione. Un dio che non dovesse mai manifestarsi non sarebbe tale. “La parvenza stessa è essenziale all'esistenza, la verità non sarebbe se non paresse ed apparisse, se non fosse per qualcosa, per sé stessa tanto quanto lo spirito in generale. Perciò non la parvenza in generale, ma solo la maniera particolare di apparire in cui l'arte da realtà al vero in sé stesso può divenire oggetto della rimostranza”. (Estetica, cit. p.13) “L'apparenza non è qualcosa di non essenziale, ma anzi un momento essenziale dell'essenza stessa”. (Estetica 1823, p.5) L’arte proprio nella sua apparenza ha un vantaggio nei confronti della nostra esperienza ordinaria: quest’apparenza essendo apparenza di qualcosa, di un’idea. L’arte allora trasfigura quel sensibile che è il limite stesso dell’arte stessa. Solo che, pur trasfigurando il sensibile e consente a interpretare il reale è tuttavia per noi un passato: ad oggi noi abbiamo bisogno del puro pensiero per riconoscerci. “L'arte, dal lato della sua suprema destinazione, è e rimane per noi un passato”. (Estetica, Hotho p.16) “L'apparenza dell'arte è tuttavia inferiore al modo di esistenza del puro pensiero” (Estetica 1823, Paolo D’Angelo p.5) Questo non toglie che anche in quel margine per cui l’arte è inadeguata, l’arte continui ad essere un momento dell’esperienza dello Spirito perché esso si conosce non solo in ciò che è immediatamente suo ma anche in ciò che gli è estraneo. CONCETTO DEL BELLO Il concetto filosofico del bello deve contenere in sé i due estremi dati: il bello unifica ciò che è universale e ciò che è particolare. Così come all’essenza è essenziale manifestarsi e apparire, così ogni idea universale deve incarnarsi in un qualche particolare (nel caso dell’arte all’universale deve essere sempre data una figurazione particolare). L’opera d’arte dunque non è un oggetto cosale perché la particolarità che esprime è espressione di un universale. Hegel definisce l’opera d’arte come un appello dello Spirito per lo Spirito. Hegel passa poi alle rappresentazioni usuali dell’arte:  L’arte come prodotto dell’attività umana  L’arte come prodotto dell’uomo per l’uomo, rivolto al suo senso e alla sua sensibilità  L’arte ha un fine in sé Ciò che qualifica lo statuto dell’arte è la compenetrazione tra momento sensibile e momento ideale: l’opera d’arte può essere anche definita come sensibilità spiritualizzata o spirito sensibilizzato (il sensibile si manifesta solo come superficie, come parvenza del sensibile). Questo stare nel mezzo è anche il carattere dinamico dell’arte che dal sensibile va all’ideale, e dall’ideale al sensibile. Questa è anche la ragione per cui Hegel esclude che l’arte possa essere imitazione della natura: cita la sfida tra Zeus e Parrasia a chi avrebbe imitato la natura nel modo più illusionistico e vinse colui i chicchi d’uva ingannarono persino i colombi. “L’arte limitandosi a imitare la natura sembrerebbe un verme che si sforza a strisciar dietro un elefante” L’arte per Hegel non può avere una finalità esterna all’arte, fosse anche la moralizzazione: “L'arte è chiamata a rivelare la verità sotto forma di configurazione artistica sensibile, è chiamata a manifestare quella opposizione conciliata, ed ha quindi in sé questa rivelazione e questa manifestazione, il suo scopo ultimo”. (Estetica, p.66) Hegel spiega comunque come ci siano delle differenze nelle fasi storiche: di contro al dio greco che si presta ad essere rappresentato artisticamente, il dio cristiano si presenta meglio nel pensiero e allo Spirito come Spirito. DEDUZIONE STORICA DEL VERO CONCETTO DELL’ARTE Qui Hegel si confronta con Kant e con Schiller. Hegel ha un alta opinione della Critica del giudizio di Kant: il problema è che Kant ha confinato il dominio dell’estetico a quello della riflessione soggettiva. L’analitica dei giudizi di gusto è assolutamente persuasiva (il bello è ciò che piace universalmente senza concetto, disinteressato, necessariamente). Schiller supera l’astrazione kantiana e pensa la bellezza artistica come l’uniformazione del razionale e del sensibile, Hegel vede anticipata quella sensibilità spiritualizzata o spirito sensibilizzato che l’arte è per lui. Hegel cita anche gli Schlegel e il concetto di ironia che sarebbe una propaggine dell’impostazione filosofica di Fichte: si produce ironia quando le contraddizioni oggettive vengono dissolte dalla forza della soggettività (da Fichte, per il quale lo statuto del reale è quello di essere posto dall’io). Questo concetto dell’ironia è negativo: essa è vanità di ogni cosa concreta, di ogni cosa avente contenuto in sé. SUDDIVISIONE Bello è la parvenza sensibile dell’idea; la bellezza ideale è un’apparenza sensibile completamente conforme all’idea. L’arte è una totalità conciliata che ha come prima esigenza ciò per cui la conformazione del contenuto deve esibire, come seconda che il contenuto non deve essere qualcosa di astratto; inoltre, richiede grande concretezza, difatti la forma e la figura dell’arte devono essere un individuale in sé compiutamente e simbolo, ragione per cui si avvicina già all’ideale l’idea del corpo umano. Se l’ideale è una realtà configurata conformemente al suo contenuto concettuale, la mancanza della forma dipende dalla mancanza del contenuto. La manchevolezza della forma, specialmente nell’arte simbolica, dipende dalla mancanza del contenuto. Essa è una forma di proto-arte, che non riesce a produrre una vera e propria determinatezza, per cui non può mai essere un’arte ideale. Inoltre, siccome prende a prestito elementi della natura, la compenetrazione forma-contenuto non potrà mai essere totale. L’arte simbolica produce piuttosto sublime, (diversa da Kant=sublime come esperienza che facciamo solo dentro di noi e denuncia la nostra appartenenza al sovrasensibile), che è per Hegel la paradossale esposizione dell’inesponibilità del contenuto spirituale dell’arte, ovvero quanto esibisce è la sua costitutiva incapacità di rappresentare in maniera adeguata l’idea. Passa poi alla forma d’arte classica, in cui si ha la congruenza di concetto e realtà, di compenetrazione fra forma e contenuto. La peculiarità del contenuto consiste nel fatto che esso stesso è l’idea concreta. Questa forma che ha in sé l’idea è la figura umana, centrale nell’arte classica (la religione del pantheon dei greci è infatti antropomorfa). Essa è però un momento transeunte, in cui il massimo della sensibilizzazione cui l’arte può pervenire viene raggiunto, prima di giungere ad una successiva fase polemica fra forma e contenuto. Viene quindi definita come la libera compenetrazione di forma e concetto, un contenuto adeguato che non rinuncia alla sua vera forma Nel successivo, il contenuto non è più la figura esterna, ma quella interna, motivo per cui l’arte romantica diviene quell’arte che va oltre sé stessa. Ciò non fa sì che l’arte romantica sia quella meno generosa per contenuto, ma anzi la rende estremamente produttiva, in quanto rinuncia alla compenetrazione di forma e contenuto; quindi, si giunge a partorire il realismo, la pittura olandese, dove il sensibile viene celebrato nella sua assenza di significato. Anche se il romantico brucia la specificità dell’arte, esso produce tantissime forme di arte, impensabili nella società greca. Alla fine di tale presentazione si ha il sistema delle singole arti, che va da architettura a scultura a pittura, musica e poesia, specificando che ogni singola arte ha la vocazione di rappresentare una determinata forma d’arte (architettura come forma d’arte simbolica; scultura forma d’arte classica; pittura e musica forme d’arte romantiche). Sulla pittura, prima forma di esistenza, Hegel sostiene che l’arte si liberi della spazialità, divenendo pura superficie, apparenza dello spazio. Ugualmente, la musica giunge ad una soggettività e particolarizzazione ancora più profonde, eliminando definitivamente lo spazio e divenendo tempo, nel cui fluire può essere rappresentato il mobile fluire del nostro stato d’animo. Eccezione la fa la poesia, che è l’arte regina in quanto tiene insieme i vantaggi della pittura e della musica. In essa l'elemento sensibile è interamente spiritualizzato e il suono non è più il risuonare del sentimento stesso, ma viene abbassato a mero segno, per sé privo di contenuto; esso diviene parola. L'elemento sensibile si separa dal contenuto come tale, mentre lo spirituale si determina per sé e in sé stesso come rappresentazione. Il segno non è più simbolo, ma segno interamente indifferente e privo di Però, proprio questo vantaggio dell'arte di calare determinate idee dentro a delle figure, è da un'altra parte anche il limite dell'arte stessa, perché quando questi interessi supremi dello spirito cambiano e dunque noi possiamo riconoscerci soltanto in qualcosa di altamente complesso (quale la filosofia) ecco che allora l'arte mostra il suo limite. Nel caso dell'arte le idee sono come impattate nel sensibile: nel caso della rappresentazione non si può estrarre il significato dell'opera dall'opera medesima. (Es. Non si può riassumere in una riga che cosa significa Madame Bovary, perchè se noi volessimo riassumere il significato di quell'opera in una frase, allora avremmo accantonato l'opera medesima per estrarne qualcosa che non rappresenta più quell'opera.) Il nostro bisogno di noi uomini moderni è per contro un bisogno sempre più di pensiero, sempre più concettuale. Dunque, l'arte ha per noi oggi un carattere di passato. Nelle lezioni successive Hegel si interroga sulla cosalità dell’arte: COME SI PRODUCONO LE OPERE D’ARTE? L'opera d'arte non è qualcosa che si produce in maniera meramente meccanica; né però è l'esito di un genio innato, come credevano Goethe e Schiller nelle loro opere giovanili. Quella di Hegel è una critica delle opere giovanili di Goethe e di Schiller, perché nella loro fase giovanile, essi avrebbero aderito in maniera troppo incondizionata alla mitologia del genio che non ha nulla da imparare. Per contro, Hegel elogiando le opere più mature di Goethe e Schiller, mette in luce il fatto che anche il genio ha bisogno di apprendere, anche il genio ha bisogno dell'esperienza. “Il genio ha bisogno di educazione intellettuale e di esercizio tecnico, nel produrre”. (p.12) “Inoltre, l'artista deve conoscere le profondità dello spirito e dell'animo, e deve conoscerle tanto più profondamente quanto più la sua opere vuole essere nobile”: (p.13) Per quanto l'estetica di Schopenhauer e quella di Hegel siano agli antipodi, sotto questo aspetto si approssimano: l’artista è colui che deve produrre qualcosa in cui ci dobbiamo riconoscere, allora l'artista deve conoscere le profondità dell'animo umano, e per questo ci vuole tempo e esperienza. “Una tale conoscenza non la si possiede immediatamente ma la si acquista soltanto attraverso lo studio del mondo interno ed esterno dell'esperienza”. Dopodiché questa acquisizione dei tesori dell'intimità dell'umano dipende anche dal tipo di arte che si produce: per esempio, nel caso della musica (senza parole), che cattura la pura sonorità dell'animo, che cattura la volubilità dei nostri stati d'animo, è quella per la produzione della quale, la genialità è l'elemento più importante. Dunque un genio musicale precoce, quale un Mozart, è un grande artista. Per contro all'arte della letteratura, che è quella che racconta più nel dettaglio quello che si agita nel cuore dell'uomo, dove per diventare dei grandi scrittori ci vuole più tempo; di contro, invece, all'esordio precoce consentito ai geni musicali. Questa però è anche la ragione per cui nella musica ci può essere un virtuosismo che ci dice poco, povero di carattere e di spirito. “Nella poesia, invece, le cose vano diversamente: giacché qui è in gioco una rappresentazione ricca di pensiero dello spirito umano e delle potenze che lo muovono. Ed è per questo che le prime produzioni di Schiller e di Goethe sono spesso rozze e barbariche, fredde e piattamente prosaiche, il che contrasta con la rappresentazione usuale, la quale ritiene che l'ispirazione sia connessa con il fuoco giovanile. Niente di più falso. Solo attraverso l'educazione intellettuale quegli uomini hanno prodotto le loro opere più belle e profonde”. Per 'poesia' Hegel intende tutti e tre i generi letterari: l'epos, il dramma (nelle sue due versioni: tragedia e commedia), e la lirica. Nella letteratura, che è quella che restituisce più in profondità gli aspetti dell'animo umano, vediamo anche il momento della coscienza, vediamo come il sentire in noi sia sempre intrecciato con il pensare, dunque con il momento della consapevolezza. Ed è per questo che la letteratura è l'arte la cui capacità espressiva è la più ampia rispetto alle altre, perché può precisamente farci vedere le potenzialità realizzate dall'arte. L'arte rappresenta gli interessi supremi dello spirito, le cose più importanti della vita; dunque quando noi fruiamo l'arte ci troviamo messi di fronte a noi uomini medesimi. Mentre la scienza studia come è fatto l'umano e come ragiona; la filosofia pensa l'umano; l'arte dà una rappresentazione dell'umano, ne fornisce la figura in cui noi ci possiamo rispecchiare. Inoltre l'arte ha qualcosa in comune con il lavoro, perché l'arte, come il lavoro, è trasformazione della materia: dunque l'arte, come fa il lavoro per costituzione, è anche ciò che, trasformando la natura, ci consente di appropriarci un po' di più del mondo, ciò grazie a cui noi nel mondo ci sentiamo un po' più a casa nostra. “L'opera d'arte è un modo della produzione di sé stessi. E non sul terreno del sentimento, che è qualcosa di particolaristico”. (p. 17) → Questa definizione sottolinea l'aspetto tecnico dell'arte. Per Hegel, il sentimento è ciò che per essenza non si può comunicare: il sentimento è il mio sentire più immediato, che non può essere comunicato artisticamente. Hegel, nell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche, sostiene l’incompatibilità tra sentimento e logos: come si può esprimere nell’universalità quel sentire che è solo mio? Hegel però non sta negando la possibilità che io possa raccontare a un altro come mi sento, ma nel momento in cui lo esprimo modifico quel sentimento, che nella sua purezza è solo mio e inesprimibile. Se il bello è il terreno dell’espressività universale, grazie alla quale tutti possiamo riconoscerci in un’opera d’arte, non possiamo parlare di un sentimento dell’arte. Dunque, l'arte non si rivolge al nostro sentire immediato; si rivolge a quell’unione di cuore e mente che è la nostra totalità organica. Ecco perché non si può parlare né di un sentimento del bello, né di gusto. Per Kant, il gusto è un momento universale che consente di fruire dell'arte di genio. Per Hegel, per contro, il gusto è qualcosa di superficiale. “Quando entra in scena il genio, il gusto si ritira”. (p.19) → Dunque Hegel separa quella coappartenenza tra genialità e gusto che c'è in Kant. “L'opera d'arte deve essere giudicata non superficialmente, in base al sentimento, ma in base ai suoi aspetti determinanti; l'atteggiamento del conoscitore”. (p.19) Per giudicare se un'opera d'arte è riuscita o meno, ci vorrebbero determinate competenze, ci vorrebbero gli storici dell'arte. Questa serie di competenze tecniche che certamente sono necessarie per giudicare della riuscita o meno di un'opera d'arte non sono sufficienti. Il conoscitore, infatti, si occupa della tecnica con cui è stata realizzata l'opera, dell'occasione storica (chi l’ha fatta da chi è stata commissionata), e altre circostanze esteriori. Però, per quanto l'atteggiamento del conoscitore sia un momento necessario nella fruizione dell'opera d'arte, il suo atteggiamento non è la modalità più alta di fruizione dell'arte. Il conoscitore, infatti, tutto sommato, si occupa soltanto delle determinazioni sensibili dell'opera; come se l'opera fosse un oggetto (chi l'ha fatto, quanto è costato, in che epoca); dunque si occupa di ciò che assimila l'arte a qualsiasi altro oggetto che sia stato prodotto. Nel caso dell’arte la sensibilità è per lo spirito: di contro al sensibile per come lo conosciamo nella vita (ovvero un sensibile che viene consumato -il nostro corpo ne è la dimostrazione-), il sensibile nell’arte è qualcosa di ideale. Ed ecco anche perché i sensi sollecitati dall’arte sono quelli più ideali: la vista e l’udito. Quando si produce arte per Hegel, non si ha prima un’idea che poi calo in vesti sensibili come se momento sensibile e momento spirituale possano essere uniti. In arte, il significato e la sua veste sensibile nascono insieme, concrescono. Dunque, non è che l'artista prima abbia l'idea e poi la unisca ad una certa veste sensibile. Non c'è una anteriorità del significato sulla sua veste sensibile. (Esempio: Dunque, nel caso dell'arte, se un'artista ha un talento naturale ed è uno scultore, il pensiero nasce nel momento in cui scolpisce il marmo. Nel caso di un poeta il pensiero si definisce nel momento in cui scrive del versi. Lo stesso per un pittore: una determinata idea emerge nel momento in cui lavora con i colori.) [DOMANDA FATTA IN CLASSE: anche in filosofia potremmo chiederci se ci sia una coappartenenza tra pensiero e manifestazione sensibile (nel suo caso, il linguaggio)? Hegel nella Fenomenologia si domanda come dovrebbe essere un proposizione speculativa, un argomentare filosofico: tendenzialmente gli studiosi di Hegel tendono a negare che ci sia questa dipendenza tra pensiero e linguaggio (la Ele non è d’accordo, perché ama Hegel e ha letto, quindi lei dice che c’è: Hegel infatti scrive che il pensiero meno la parola non è uguale al pensiero, non è qualcosa che si aggiunge.] “La produttività in arte è l'inseparatezza del sensibile e dello spirituale” (p. 23-24) “Lo scopo finale dell'arte è portare l'essenza a coscienza (a differenza della filosofia) in immagine (per figure), il che essa ha in comune con la religione”. (p.31) Dunque, mentre la filosofia ci restituisce il modo in cui siamo nel momento del logos; l'arte ci consente di acquisire coscienza di noi attraverso le immagini, le figure; cosa che ha in comune con la religione, le cui vicende sono figurate. “Bisogna allontanare la rappresentazione erronea che l'arte abbia al di fuori di sé uno scopo, per la realizzazione del quale essa sia semplice mezzo”. (p.31) Questo esclude che l'arte possa avere la finalità di insegnare qualcosa in termini morali: l'arte non è un'educazione; l'arte è la rappresentazione in figure e immagini di ciò che siamo noi, delle cose che interessano lo spirito umano. Dunque l'arte è impattamento di un certo pensiero che nasce nel momento in cui si sposa con un certo sensibile. Questo rapporto tra il pensiero e l'immagine, però, non è sempre un momento irenico, felice; ma può essere anche polemico, perché l'arte testimonia anche di un momento di polemica, di riottosità tra quel pensiero e una certa immagine. “Per esempio: se diciamo di Dio che Egli è il semplice Uno, Dio in questo caso è pensato come mero astratto ed è inadatto all'arte; gli Ebrei e i Turchi perciò non possono avere arte”. (p.33) Hegel a questo punto fa questa serie di osservazioni sul modo d’essere di opera d’arte che riprendono alcune considerazioni di Goethe sulla natura: quell’esclusione del bello di natura dal campo dell’estetica sembra essere ammorbidita. Hegel scrive che ogni opera d’arte deve essere pensata come un organismo, dove ogni parte ha un esistenza autonoma, ma ogni parte deve esprimere l’unità del tutto. Questa unità che è come l’anima del tutto, Goethe l’ha trovata proprio osservando la natura: in questo momento proprio per spiegare il modo d’essere dell’opera d’arte, Hegel recupera le osservazioni che fa Goethe sull’unità della natura. (pg. 58-59) Quella radicale distanza sembra essere recuperata nella misura in cui ciò che guardando la natura noi possiamo solo preavvertire in maniera confusa, sembra essere compiuto nel momento in cui ciò che produciamo un opera d’arte, dove la logica dell’organico emerge in tutta la sua trasparenza. Stando alla lezione di Goethe “La metamorfosi delle piante”, la bellezza è pensata come quel rapporto tra il tutto e le parti che possiamo preavvertire nel rapporto che c’è nelle foglie (nelle loro infinite forme) e che tuttavia sembrano esprimere una forma comune (una forma originaria) che trova la sua manifestazione sensibile nella diversità delle forme reali. La bellezza è ciò che manifesta in maniera apparente, in tutta trasparenza, quel rapporto tra il tutto e le parti che gli organismi lasciano solo preavvertire. Quell’abisso tra bello di natura e bello artistico sembra essere una contiguità. Il bello di natura non è più contraddizioni in termini, seppur indeterminato: nonostante questo recupero, il naturale lascia solo preavvertire questa unitarietà tra forma e contenuto che solo l’arte compie in maniera esauriente. 5/05/2022 PARTE GENERALE L'opera d'arte ideale: L’ideale dell’arte è ciò in cui l’esistenza esteriore è conforme all’esistenza interiore: l'opera d'arte ideale è quella nella quale l'aspetto esterno apre l’accesso completo al significato; dove aspetto esteriore e aspetto interiore vivono in una comunione totale. Data la definizione dell'ideale, Hegel si interroga sulle varie specificità della bellezza in arte, cioè sulla possibilità che ogni arte particolare, dall'architettura alla poesia, a seconda del materiale in cui consiste, possa accogliere l'ideale. Nel caso della scultura, che è l'arte classica per eccellenza, è più facile che l'arte possa essere ideale, perché la scultura è costitutivamente inquiete e in questo senso la scultura può esprimere l'ideale nella sua semplicità. L'ideale, però, è più completo e perfetto quando include dentro sé l'inquietudine, la differenza, il movimento. Questo è anche il motivo per cui, è vero che l'arte classica è l'arte ideale per eccellenza, ma non per questo l'arte classica è superiore a tutte le altre, perché quel grado di perfezione che essa raggiunge non può, per definizione, esprimere l'aspetto negativo, il contrasto, l'inquietudine. Per cui, proprio la sua perfezione, che è il motivo dell'idealità dell'arte classica, è anche il suo limite: perché ove ci sia completa compenetrazione tra interno ed esterno, non si può dare espressione al momento del contrasto, del conflitto, dunque al momento della differenza, dell'inquietudine. Da questo punto di vista, la vicenda del Dio Cristiano è tutt'altro che una vicenda di serenità e di quiete: la vicenda del Dio Cristiano passa attraverso il più crudo dolore. Perciò, l'arte romantica, dovendo esprimere una vicenda di dissidio, di inquietudine, con momenti di straordinaria negatività, sarà un'arte che pur non essendo più ideale e dunque non essendo più così bella come l'arte classica è stata, è un'arte che può però esprimere molte più cose. Dunque, è vero che non ci sarà mai più un'arte bella come l'arte classica; ma questo non significa che l'arte romantica sia di valore inferiore. Hegel valuta anche il modo in cui l'ideale si rapporta con l'esperienza, con il suo contesto. Ci sono almeno quattro punti attraverso i quali Hegel analizza l'ideale dell'arte: 1) Il mondo esteriore come condizione nella quale si presenta l'ideale → questo ci rimanda alla costitutiva storicità dell'arte. L'ideale ha un rapporto con il mondo esteriore e dunque la sua possibilità dipende anche dalla condizione del mondo esteriore. 2) L'ideale deve essere in grado di esprimere una condizione particolare, che Hegel chiama 'la situazione' → dunque nessuna opera d'arte può essere veramente ideale, se il contenuto che veicola è vago, generico, astratto. 3) La reazione a questa situazione 4) La determinatezza esteriore dell'ideale → che vuol dire che un'opera d'arte non ha solo un suo contesto e una sua genesi, ma si rapporterà anche con le generazioni successive che la fruiscono. 1. Il mondo esteriore come condizione universale nella quale si realizza l'ideale individuale (p.80) Non ogni circostanza del mondo è favorevole all'opera d'arte. Da questo punto di vista c'è una differenza tra il mondo Moderno e il mondo Antico:  nel mondo moderno ci sono istituzioni ben definite, dove ognuno di noi conta molto poco, ossia il nostro margine di azione è ben determinato;  nel mondo antico, come vediamo nell'Epos, l'individualità afferma dei valori che può lei stessa rendere autorevoli, e i valori in base ai quali un eroe agisce sono dei valori che egli racchiude nel proprio petto e non delle leggi da cui noi moderni siamo distanti. Dunque, mentre nella modernità sono una serie infinita di leggi e regole che dettano il nostro modo di essere (tra me e l’universale ci sono infiniti istituti di mediazione); nell'Antico possiamo immaginare, invece, delle vicende dove la storia di un solo individuo o le passioni di un solo individuo possono modificare un'intera comunità. (pag. 82) (Es. Un esempio è la pretesa della cavalleria medievale, che si ispira ancora all'antico e che non casualmente diventa una condizione ironica nella modernità avanzata, dove il cavaliere Don Chisciotte si pensa ancora come un eroe antico, ma l'ironia del romanzo sta proprio nel mostrare come uno così nella modernità è uno che per l'appunto combatte contro i mulini a vento.) (p. 83) L’ideale del mondo moderno ha una cerchia molto limitata: da questo punto di vista non ci sono più eroi nella modernità, ma tutte le figure professionali che fanno semplicemente il loro dovere. (p.84) Dunque, gli eroi dell'ideale sono sempre collocati nel passato. Il vero ideale è solo quello Antico. Nella modernità ci sono dei tentativi di ripresentare degli eroi, tentativo che però fallisce per due tipi di limite:  se noi prendiamo un soggetto moderno e gli facciamo fare l'eroe epico, questo eroe sarà un eroe drammatico, e cioè destinato alla sconfitta, perché oggi nessun individuo da solo può andare contro il corso del mondo;  nel momento in cui nel moderno, uno ambienta un Epos nell'Antico, finisce inevitabilmente per essere anacronistico, cioè finisce per prestare all'eroe antico un sentimento, un lessico e un modo di riflettere che è talmente tanto pregno del moderno da guastare l'epicità dell'Epos proposto. Infatti, le tragedie di Shakespeare, che Hegel considera la vetta della letteratura moderna, non casualmente sono ambientate in un momento del mondo in cui il vincolo e la statalizzazione sta per esserci ma non è ancora definita: siamo in un mondo ancora non compiutamente moderno. “Le figura shakespeariane si trovano in una condizione nella quale il vincolo della legge è ancora lento, lascia ancora maggiore arbitrio alla soggettività”. (p.85) 2. La situazione (p.85) Il contenuto di un'opera d'arte ideale non può essere qualcosa di vago, astratto, generico. Qualunque circostanza noi vogliamo eleggere oggetto dell'arte, ha un interesse solo perché ha una determinata situazione. La situazione, naturalmente, è molto legata al margine di espressività del tipo di arte che andiamo a considerare.  situazione quieta, senza processo: antiche statue dei templi “Opere del tutto prive di situazione sono gli dei nella loro fissa tranquillità, le antiche statue dei templi” Nelle statue antiche dei templi pre-classici, abbiamo situazioni di massima tranquillità, imperturbabilità.  situazione come movimento L'opera è tanto più bella, però, quanto più la situazione è complessa e articolata, e il primo grado di articolazione è il MOVIMENTO. → Questo è il passaggio dalla proto-arte all'arte vera e propria. Pensiamo alle figure egiziane, la cui posizione innaturale non ci consente di pensare quelle figure in movimento: i piedi giunti, il corpo di fronte, il volto che guarda da un'altra parte. Esse sono immobili. È soltanto con l'arte greca che le figure cominciano a presentarsi in un qualche incedere: i Greci sono stati i primi a scostare le braccia dal corpo e a presentare le gambe divaricate, dunque predisponendo i loro personaggi al moto. “Gli Egizi presentavano i loro dei con le gambe unite; sono stati i Greci i primi a scostare braccia e gambe dal tronco e a dare alla figura la posizione dell'incedere.” (p.87) Hegel traccia una storia dell’arte greca mostrando come comunque le opere dei greci restano comunque in una certa staticità  situazione come azione Solo dopo, però, la situazione diventa una vera e propria azione. E affinché ci sia una situazione determinata e complessa bisogna che ci sia un moto vero e proprio, un vero e proprio agire. Questo denuncia anche una progressiva maturazione della soggettività, perché uno agisce quando si immagina di poter rendere le cose diverse da come le ha trovate. La differenza tra il segno e il simbolo, però, sta nel fatto che:  nel SEGNO la forma esteriore non ha nessun rapporto con il significato interiore.  il SIMBOLO, invece, rispetto al segno, è sì un segno, perché ha un significato e un significante come nel segno, ma contiene nella sua esteriorità il contenuto della rappresentazione che deve presentare. Il simbolo, dunque, rappresenta anche sé stesso. Esempio: Hegel fa l'esempio della bandiera e del leone: Il leone è simbolo della forza perché il leone è un animale forte. Dunque se io faccio del leone il simbolo della forza, tra significante e significato c'è un vincolo interno. Cioè, questa forza (il significato) è effettivamente esibita dalla veste sensibile che deve significarla. Nel caso invece di una bandiera, che un pezzo di stoffa colorato in un certo modo rappresenti una nazione, è una mera convenzione. Nel simbolo il momento sensibile è un momento centrale rispetto al segno: nel caso del segno la sensibilità funziona a scomparsa (bandiera la percepisco, ma nel momento in cui penso alla nazione la bandiera scompare). Il simbolo è un'esistenza esterna che è immediatamente presente all'intuizione ma che non deve essere presa in base a lei stessa, bensì in un senso più ampio e universale. Quindi, nel simbolo dobbiamo distinguere:  il significato, che è una rappresentazione di qualsiasi contenuto  l'espressione, che è un'esistenza sensibile Il problema è che l'arte simbolica, che sta sotto il segno del non ancora, è un'arte ambigua. Questa ambiguità dell'arte simbolica è costitutiva. Il carattere enigmatico e ambiguo è il modo per cui il simbolo può veicolare alcuni contenuti: l’opera d’arte può essere talmente tanto radicale che alle volte sfugge se un certo elemento è usato in maniera simbolica o meno. Il simbolo fa il suo ingresso quando l'universale si separa dal naturale, ovvero quando il divino non è più immediatamente legato a una figura naturale (la luce, le piante, gli animali -come accade in determinate religioni antiche orientali-). Questo vuol dire che questa forma d'arte del “non ancora” prende inizio da una divisione, da una separazione, da una scissione. È questo l'elemento che produce una paradossale contiguità tra l'arte del non ancora (simbolica) e l'arte del non più (romantica): l'arte romantica, dove il contenuto eccede la forma, è un'arte che dimostra come la potenzialità espressiva del discorso artistico sia tale non nonostante l'inadeguatezza, ma proprio grazie ad essa. Questo significa che anche la prima arte simbolica prende le mosse da una divisione: una scissiosione che è la revoca della naturalità. Infatti, l'arte egizia celebra la separazione dalla natura, la scomparsa della natura, perchè la maggior parte dell'arte egizia è arte funeraria. Dunque, è un'arte il cui scopo è appunto celebrare la fine della natura e la rinascita in una dimensione spirituale, che si è appunto separata dalla natura. Tre caratteristiche del simbolo:  il simbolo contiene in sé stesso ciò il cui significato deve far apparire: dunque c'è un rapporto intrinseco tra il significante e il significato;  Proprio nella misura in cui del significato è solo simbolo, il significante non è interamente adeguato a questo significato;  Il simbolo è essenzialmente ambiguo, enigmatico. L'immagine, infatti, rappresenta anche qualcosa di diverso dal proprio significato. Data questa ambiguità dinanzi al simbolo ci si può chiedere se il simbolo debba essere considerato in sé o come simbolo di qualcosa, ma significato proprio e improprio sono sempre mescolati. Nell'arte simbolica abbiamo una lotta, che non è semplicemente una lotta tra forma e contenuto, ma può essere concepita come contrasto tra adeguatezza e inadeguatezza (scrive nell’estetica unitaria). “L'arte simbolica lotta per il contenuto e per la forma, entrambi non sono liberi (perché si forzano l'uno con l'altro). Poiché l'intero sia libero bisogna che i lati differenti siano totalità autonome (il sensibile e l'ideale), perché allora entrambi i lati sono identici e la loro differenza soltanto formale”. (p.149) Questa osservazione può sembrare enigmatica: ma vedremo che un’ulteriore conseguenza non voluta e che denuncia la potenzialità dell’arte romantica è anche che il contrasto tra forma e contenuto, mette capo a un divorzio tra sensibile e ideale. Affinché ci sia piena libertà bisogna che il sensibile e l'ideale si siano autonomi, e questo comporta una infinita libertà di rappresentazione del romantico, rispetto al classico. Nel momento in cui il sensibile ha divorziato dall'ideale (nell'arte romantica), finalmente l'arte acquisisce la capacità di rappresentare il sensibile in tutte le sue apparenze, anche senza che significhino nulla. L'arte dei Paesi Bassi testimonia di questa separazione tra il sensibile e l'ideale: l'artista può finalmente rappresentare momenti del tutto insignificanti della vita (una mamma che allatta un bambino durante la pausa dai campi, degli zoccoli abbandonati in un salotto...). Il sensibile che si è finalmente emancipato dal significato, dal dovere di dover significare qualche cosa di alto e nobile, è ciò che garantisce la libertà dell'arte romantica rispetto all'arte classica, ed è anche ciò che fa l'infinito accrescimenti dei suoi oggetti. Dunque, quello che da una parte può sembrare il limite dell'arte romantica, ovvero la separazione tra sensibile e ideale, è ciò che permette all'arte romantica di acquisire una infinita libertà di espressione. La nascita dell'arte simbolica la troviamo in Egitto. Nel simbolico c'è sempre una mescolanza tra qualcosa che di prodotto, voluto dallo spirito, e qualcosa di trovato (il Nilo che significa fecondità, ma il Nilo è anche un fiume come tutti gli altri). Dunque, nel simbolico, la figura è sempre doppia: il significato proprio convive con il significato improprio, che tuttavia non è libero perché dipende dal primo. Esempio. “Un esempio è il fiore di loto, che è un simbolo universale al massimo grado. Viene spiegato che il fiore di loto chiude i propri petali nell'oscurità, e al sorgere del sole li dispiega, tanto che di lui è stato detto che veneri il sole, ed è stato usato come segno della preghiera. Ma, d'altro canto, esso è anche un simbolo diverso, ha il significato dell'universale generazione naturale”: (p.126) La forma simbolica tende alla sublimità (cerca di significare sempre di più deformando, facendo violenza alle cose (mescolare elementi o ingrandire elementi)): “La forma simbolica, in genere, è la forma della sublimità, la quale consiste in ciò: che la figura (il significante) non è in grado di esprimere l'intero significato. Il sublime però non è il bello. [...] Il sublime contiene sempre qualcosa di non adeguato che viene a manifestazione, così che viene reso avvertibile il fatto che l'espressione non raggiunge il contenuto”. (p.131) Per Hegel, il Sublime è la paradossale esibizione dell'inesponibilità dell'assoluto. Il sublime si declina in due versioni:  il panteismo indiano: essendo la sostanza al di là dei singoli fenomeni, essa viene concepita come immanente a tutti i fenomeni del modo.  il simbolismo negativo, quale quello dell’ebraismo, che incarna il vero sublime: l’espressione sensibile (come la voce di Jhavé) denuncia l’infinita solitudine del Dio che non potrà trovare un’adeguata espressione sensibile. La peculiarità del simbolico egizio è quella di avere al proprio centro il rapporto tra arte, morte (della natura, del sensibile) e trasfigurazione. Gli Egizi infatti furono i primi a insegnare che l'anima è immortale: con loro venne la separazione del naturale dallo spirituale, che è la condizione dell'arte. Il limite della cultura egizia è che la negazione della natura è a sua volta la negazione naturale, ovvero la morte. L'Egitto è la terra del simbolo. “L'arte egizia è a sé stessa un simbolo, è l'enigma in sé stesso, l'enigma obbiettivo”. (p.134) “E infatti, le opere d'arte egizie contengono enigmi, non solo per noi, ma erano un enigma per i popoli stessi che le produssero”. (p.134-135) Il simbolo del simbolico stesso è la piramide (perché le piramidi non hanno la porta: denuncia il modo d’essere del simbolo dove il significante un po’ rivela, un po’ vela), ma anche la Sfinge. Nella Sfinge lo spirito umano sforza la brutalità del corpo animale senza riuscire a manifestarsi totalmente. Abbiamo la tensione a dire qualcosa, solo che nessuno capisce quello che dice (salvo Edipo). La meta a cui giunge l’arte simbolica è la chiarezza priva di enigmi dello spirito che si dà forma adeguata. L'arte classica: Nell’arte classica l’unità del contenuto e della forma non è più qualcosa di immediato, che prende a prestito dalla natura; l’unità nell’arte classica è tutta prodotta dallo spirito. Di contro alla lotta che caratterizza l’arte simbolica, l’arte classica è l’arte dell’artista libero, che non lotta per il contenuto assoluto, l’artista libero forma per immagini (mentre quello simbolico forza la forma a partire dal significato). Questo significa anche che mentre l’artista dell’arte simbolica in tutto questo sforzo è aperto, l’artista greco è chiuso in sé stesso: l’arbitrio qui è escluso; il contenuto è presente per l’artista, lo incontra e l’artista è solo l’attività della presentazione. Per Hegel si può rimproverare l'arte greca non di essere stata troppo antropomorfica, ma addirittura di essere stata troppo poco antropomorfica, perché l'umanità dei greci rappresenta solo un momento dell'umano, quello della quiete, sella serenità, della tranquilla bellezza, che però non riesce ad esprimere il negativo. Il contenuto principale dell'arte classica è la rappresentazione degli dei nella loro bellezza immediata, quieta, gaia; ma se guardiamo bene, gli occhi delle statue greche sembrano finti, ciechi, perché non aprono l'accesso alla vera interiorità dell'animo, a cui solo l'arte romantica darà voce. ama deve per forza amare un altro, ritrova sé stesso perché negli occhi dell'altro può ritrovarsi) è realizzato per sé stesso nella sua proprietà, nel suo elemento più proprio”. (Estetica versione unitaria, p.607) 2) CERCHIA MONDANA → L'intimità religiosa diventa mondana, si applica anche al mondo. Amore, Onore e Fedeltà non sono concepite nel romantico come virtù, ma come forme dell'interiorità, dunque come forme del sentimento. Onore e fedeltà sono dunque da intendersi come forme del sentimento, come forme dell'intimità. - l'Onore L'onore è peraltro un sentimento del tutto sconosciuto agli Antichi, ai greci: anche se secondo noi moderni (essendo molto legati all’onore) potremmo dire che lo scontro tra Achille e Agamennone è per onore, per Achille in realtà deriva solo da un’ingiustizia oggettiva e non perché è ferito nell’onore. L'onore è un sentimento moderno, e “l'offesa colpisce infinitamente il soggetto, laddove il soggetto ha collocato la propria infinita personalità”. (p.185) Anche una piccola, apparentemente insignificante offesa può ferirci enormemente, perché l'onore è il sentimento dell'infinità della nostra personalità, è il sentimento che corrisponde al fatto che noi abitiamo nella nostra interiorità; di contro, invece, all'uomo greco. Dunque, ogni cosa che lede l'onore è ciò che mette in discussione l'infinitezza della nostra soggettività, il carattere inesauribile della nostra interiorità. Dunque, l'onore è un motivo sconosciuto al mondo classico. - l'Amore “Da un lato l'amore è contrapposto all'orgoglio personale dell'onore, giacché nell'amore non si ha a che fare con la personalità propria, anzi l'interesse principale è costituito da una comunanza dell'essere-per-sé. Contemporaneamente però l'amore è una faccenda privata, l'interesse di questo individuo particolare. Le collisioni dipendono appunto dal fatto che l'individuo ama proprio questo particolare individuo. L'interesse è dunque legato ad una particolarità soggettiva”. (p.187) Dunque, l'amore (erotico) è ciò che tiene insieme l'infinitezza della personalità e la contingenza della particolarità. Noi non sapremmo dire come mai uno si è innamorato proprio di una certa persona, perché non c'è una ragione: tuttavia, poi, quella persona che era una come tante altre, viene amata nell'infinitezza della sua personalità. <3 Per questo, nelle grandi tragedie degli Antichi l'amore non è presente: l'amore è un tema romantico perché tiene insieme l'infinitezza della personalità e la contingenza della particolarità, che sono entrambi elementi estranei alla soggettività greca. E dunque, le grandi tragedie Antiche non sono mai tragedie d'amore. Anche quando è presente una vicenda amorosa tra i protagonisti, questa vicenda sta solo in secondo piano, come accade per esempio nell'Antigone di Sofocle; ad emergere è sempre il momento universale, la vicenda etica. Nei casi in cui l'amore è più vicino al carattere erotico dell'amore romantico, o è immorale, come il caso di Elena e Paride, a causa dell'amore dei quali scoppia la guerra di Troia; o è meramente sensuale, come nel caso di Achille e Briseide. In Saffo si esprime tutta la potenza corrosiva del sentimento ma anche qui tale sentimento esprime più il fremere sensuale più che un’intimità del cuore e dell’animo soggettivo. - la Fedeltà La fedeltà della letteratura romantica è la fedeltà della letteratura cavalleresca: non è la fedeltà di un’amicizia già presente nell’antico (tra Achille e Patroclo, Oreste e Pilade). Si tratta piuttosto di una fedeltà di un subordinato al suo signore. La fedeltà è il legame su cui si basa la stessa rete sociale del Medioevo, che viene appunto rispecchiata nella letteratura cavalleresca. 3) IL FORMALISMO DELLA SOGGETTIVITÀ → Cioè, in generale un tema dell'arte romantica è la caratterizzazione dei personaggi. L'arte romantica ha la specificità di caratterizzare i personaggi in maniera inequivocabile, in maniera straordinariamente particolare. Nessun personaggio in Shakespeare è uguale a quell'altro: ogni personaggio ha il proprio stile. Non abbiamo dei caratteri determinati dall'adesione a leggi etiche:  nell'Antico, la qualificazione del personaggio è interamente determinata dall'adesione ad una certa legge etica;  nel caso dei personaggi di Shakespeare, nessun personaggio è più assimilabile ad una qualche legge o virtù universale e astratta. Non abbiamo l'eticità, ma solo individui basati su loro stessi, che sono coerenti con la specificità del loro carattere. Come succede ad esempio in Otello, che è tragicamente e irrimediabilmente geloso. Inoltre, nel dramma romantico, la vicenda non è scandita da una serie di eventi esterni, ma c'è anche uno sviluppo interno del carattere. Mentre invece, la qualifica del personaggio Antico è di essere sempre uguale a sé stesso. Il personaggio moderno, proprio perché è soggettività formale, ovvero che non rimanda ad altro che a sé stessa, e che non ha una legge o una virtù, ma ha una qualche passione irriducibilmente sua, nella tragedia moderna si evolve. Questa è la ragione per cui la tragedia moderna non può portare a una conciliazione oggettiva. Per Hegel la compatibilità tra tragedia e modernità è problematica perché in fin dei conti al personaggio tragico moderno capita ciò che si merita (la fine che fa Macbeth è qualcosa che lui stesso si è procurato) mentre nella tragedia antica ogni personaggio ha in parte torto e in parte ragione proprio perché il personaggio risponde di leggi universali etiche e non esclusivamente alla propria passione. Anche personaggi silenziosi e dolci sono inequivocabilmente sono riconoscibili: anche Amleto è un personaggio di questo tipo perché Amleto ha un animo certamente bello, nobile, non è debole, però è irriducibilmente fatto a modo suo (è privo di energia vitale). Hegel tratta poi il romanzo, che nasce dalla dissoluzione della cavalleria. Il primo vero grande romanzo è “Don Chisciotte” di Miguel Cervantes, dove l'amore, l'onore e la fedeltà sono ancora temi dominanti, ma in chiave umoristica. Questo formalismo della soggettività, quest’attenzione all’ingiustificabile (non c’è legge che giustifica le azioni) particolarità di ogni personaggio è anche ciò per cui il linguaggio della letteratura diventa RICCO e VARIO: in Shakespeare ogni sfera della vita trova posto; l’etico e il non etico, l’eccelso e l’umile, il male ed il bene convivono in Shakespeare. In particolare l'arte, quanto più si mondanizza, tanto più si installa nelle finitezze del mondo, conferisce loro validità completa, e l'artista si trova a suo agio quando le rappresenta cosi come sono. Così anche in Shakespeare troviamo le azioni e le passioni più alte insieme alle cose più meschine e carnali: ci sono i domestici, ma anche i vasi da notte e le pulci, ci sono le sbornie e i buffoni. La stessa cosa vale per la rappresentazione della natalità, in cui non possono mancare il bue, l'asino, la paglia e la mangiatoia: sembra veramente che valga per l'arte romantica il motto per cui anche il più umile verrà innalzato. Da una parte il mondo viene rappresentato in tutta la sua oggettività prosaica, dall'altra la soggettività come padrone del reale, e le due cose, per quanto apparentemente inconciliabile, sono invece complementari. Il Realismo Il mondo viene rappresentato in tutta la sua oggettività: e questo lo vediamo rappresentato al massimo grado nell'arte Olandese, dove abbiamo il Realismo, il trionfo della realtà in tutta la sua accidentalità, in tutta la sua casualità. E questo onora la realtà. Qui abbiamo il trionfo della realtà per quello che è: cioè per il fatto che non significa proprio niente. (Esempio: La “Donna con brocca” di Vermeer non significa niente, è un momento del tutto insignificante.) Ma in questo non voler dire niente abbiamo il trionfo dell'arte, cioè l'apparenza. L'arte è apparenza. Nel caso della pittura Olandese, che coglie dei momenti del tutto insignificanti della vita quotidiana, abbiamo l'apparenza che non rimanda ad altro che a sé stessa, momenti insignificanti che non rimandano a nient'altro. In questo abbiamo il trionfo dell'arte, perché quest'arte non ha bisogno di altro, non ha bisogno di rimandare ad un'idea, un contenuto, una qualche verità: quest'arte non significa più nulla e in ciò trionfa in tutta la sua apparenza. “Qui è l’apparenza che costituisce l’interesse, l’apparenza che si approfondisce in sé stessa. A essere sottolineato, nel bello, è il lato dell’apparire. E in ciò gli Olandesi hanno raggiunto una vera maestria: gli oggetti sono presi dalla realtà comune, ma tutte queste manifestazioni immediate, che vengono presentate, hanno raggiunto il grado più alto dell’apparire. Si tratta in parte di nature morte, oppure di un qualche essere vivente: una vecchia, che infila un ago alla luce. Qualcosa di assolutamente transitorio viene fissato e reso permanente. Una smorfia che qualcuno fa bevendo, e simili rappresentazioni momentanee. Viene portato all’intuizione il mutamento, nel suo trapassare assolutamente transitorio; è il trionfo dell’arte sulla caducità del reale. Il sostanziale è per così dire defraudato del suo potere sul transitorio. L’apparenza viene riprodotta nel modo più significativo”. (Lezioni di Estetica, p.195) L'arte, dunque, trionfa non quando rappresenta la strepitosa bellezza degli dei greci; al contrario quando rappresenta l'apparenza, quando rappresenta una vecchia che non vede bene dove infilare il filo nell'ago. L'apparenza viene riprodotta nel modo più significativo. Dunque quello che emerge qui non è più l'importanza del contenuto, ma appunto l'emergere dell'apparenza che non si può più bucare perché non c'è nessun aldilà oltre il quale andare: è apparenza, mera apparenza. E dunque, quest'arte della fine dell'arte è al contempo l'inizio di un percorso di liberazione dell'arte, in cui l'arte trionfa precisamente per quello che è: nient'altro che apparenza.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved