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La macchina e l'intelligenza: il test di Turing di Alan Turing, Appunti di Filosofia della Scienza

Intelligenza artificialeCalcolatoriLogica MatematicaAlgoritmi

In questo documento, Alan Turing discute sulla capacità delle macchine di pensare e propone il famoso 'test di Turing' per stabilire se una macchina possa essere considerata intelligente. Turing esplora la definizione di 'pensare' e offre una risposta al test attraverso il 'giuoco dell'imitazione'. Il documento include anche una breve storia sulla macchina analitica di Babbage e la contro-tesi di Lady Lovelace.

Cosa imparerai

  • Come Turing spiega il funzionamento della macchina calcolatrice in oggetto?
  • Come la metafora di calcolatore proposta da Turing è costruita?
  • Che cosa significa 'pensare' secondo Alan Turing?

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 05/02/2018

brisus
brisus 🇮🇹

4.5

(34)

14 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La macchina e l'intelligenza: il test di Turing di Alan Turing e più Appunti in PDF di Filosofia della Scienza solo su Docsity! TURING Per Turing c’erano pochi dubbi che entro poche decine di anni i sistemi computazionali avrebbero raggiunto un livello d’intelligenza paragonabile a quello degli esseri umani. Proprio in vista di questo obiettivo, egli si pose il problema di come valutare il livello di intelligenza di una macchina. Si rese conto che il modo più diretto per affrontare la questione richiedeva in qualche modo di definire con precisione il significato di termini come “macchina”, “intelligenza” e “pensiero”. Termini assai difficili da racchiudere in una definizione esaustiva che trovi tutti d’accordo. Invece che tentare una strada del genere, secondo Turing, è preferibile sostituire la domanda “le macchine possono pensare?” con una situazione concreta in cui vengano messe a confronto le prestazioni intelligenti di una macchina con quelle di un uomo. Si procede così. Collochiamo una macchina computazionale e un essere umano in due stanze separate. Da una postazione esterna, un esaminatore, senza conoscere l’identità degli interlocutori, rivolge loro delle domande tramite un terminale, ricevendone le relative risposte. Se dopo un tempo ragionevolmente lungo, l’esaminatore non riesce a riconoscere la macchina dall’uomo, si conclude che la prima si è comportata esattamente come un essere umano, tanto da non essere distinguibile da questo. Significa che non esiste una sostanziale differenza tra le modalità di elaborazione di una macchina e il pensiero dell’uomo e che quindi le macchine sono intelligenti. (1) Turing parte dall’assunto che l’intelligenza umana, e anzi l’intera attività del nostro pensiero sia riducibile a procedimenti di tipo logico-matematico, accettando sostanzialmente la ben nota concezione di Hobbes, secondo la quale pensare equivale a calcolare. Questa concezione sopravvive largamente ancora oggi nelle tesi dei cosiddetti funzionalisti, i quali si mostrano convinti che non solo l’intelligenza dell’uomo, ma anche ogni altra facoltà della mente – compresa la coscienza – possano venir riprodotte da un computer sufficientemente potente. In tale ottica, qualsiasi limite mostrato da una macchina computazionale rispetto alle capacità cognitive di un essere umano va imputato unicamente a una insufficiente implementazione della macchina a livello hardware e/o software. Accrescendo la potenza di elaborazione della macchina e dotandola dei programmi adatti, essa non potrà che arrivare a eguagliare (e magari anche a superare) le prestazioni di un essere umano. Prima di esaminare criticamente questa idea, vorrei approfondire un altro aspetto del test di Turing. Molto si è scritto su questo test ma, a quel che mi risulta, nessuno si è soffermato a sufficienza sul rilievo che i risultati ottenuti sono inevitabilmente legati alla soggettivitàdell’esaminatore, vale a dire alla sua capacità di cogliere differenze significative tra le risposte fornite dai due interlocutori, ma anche alla sua abilità nell’inventare domande in grado di mettere in difficoltà il sistema computazionale. Questo vuol dire che il test di Turing non può in alcun caso venir considerato una prova oggettiva per dimostrare in maniera assolutamente affidabile quando le macchine raggiungeranno un livello di intelligenza in tutto simile a quello degli esseri umani, ammesso che tale obiettivo sia conseguibile. Infatti, la circostanza che l’esaminatore non rilevi alcuna differenza tra le risposte ottenute dai due interlocutori non sta necessariamente a significare che non esistono differenze; può anche voler dire che l’esaminatore non è stato abbastanza abile nel formulare le domande e nel valutare le risposte. Si può migliorare la situazione, ma solo parzialmente, sostituendo il singolo esaminatore con una giuria composta di più persone. In tal modo si hanno migliori garanzie che almeno gli errori e le sviste più grossolane vengano neutralizzati. Siamo tuttavia ancora ben lontani dalla certezza che il verdetto raggiunto sia totalmente affidabile: il giudizio rimane comunque legato alla soggettività, anche se a una soggettività relativa a più persone, trasformata in una più rassicurante intersoggettività. Potrebbe sembrare che, dotando gli esaminatori di ben definiti criteri e procedure da applicare nella valutazione o addirittura incaricando della valutazione stessa un sistema computazionale appositamente programmato, costituisca un passo decisivo verso l’oggettività e quindi verso la validità dei risultati raggiunti. Ma non è così. La verità è che non esistono criteri assolutamente affidabili per distinguere l’intelligenza dell’uomo dall’intelligenza artificiale. Del resto, se ci fossero, non staremmo qui a disquisire sul test di Turing. Qualsiasi criterio di valutazione, per quanto complesso o articolato, utilizzato per discriminare l’intelligenza umana da quella di una macchina, una volta definito e reso pubblico, potrebbe facilmente venir aggirato da un bravo programmatore, fornendo il computer di adeguate tipologie di risposte in grado di trarre in inganno gli esaminatori. E’ una simile possibilità che, senza dubbio, aveva in mente il grande epistemologo Karl Popper quando scrisse: «Turing disse qualcosa del genere: specificate il modo in cui credete che un uomo sia superiore a un computer e io costruirò un computer che confuti la vostra credenza. La sfida di Turing non dovrebbe essere raccolta, perché in linea di principio non si potrebbe usare alcuna specificazione sufficientemente precisa per programmare un computer». (2) A queste considerazioni fa eco ai nostri giorni il filosofo tedesco Thomas Metzinger, riferendosi al più ampio contesto delle capacità mentali: «O non potete identificare quale aspetto della coscienza umana e della soggettività non può venire implementato in un sistema artificiale, oppure, se lo potete fare, allora la questione si riduce alla scrittura di un algoritmo che può essere implementato in un software». (3) Possiamo rappresentarci in maniera semplificata quello che, in definitiva, rappresenta un vero e proprio limite della computazione con il seguente esempio. Immaginiamo che degli esaminatori, che basano i loro giudizi sul test di Turing, e dei programmatori di grande esperienza intraprendano una sfida a oltranza per vedere dove essa conduce. Da una parte, verranno, di volta in volta, esplicitati i nuovi principi a cui devono sottostare le risposte fornite dall’elaboratore in esame per poter essere considerato indistinguibile da un essere umano; dall’altra, si apporteranno le opportune integrazioni a livello software così da consentire di prendere in considerazione anche questi principi. Questa strategia, classificabile come induttiva, può effettivamente permettere, seguendo un percorso asintotico, di giungere sempre più vicino al confine ideale che renderebbe nulle le differenze tra macchina e uomo. Confine che delimiterebbe l’insieme di tutte le situazioni affrontate dal genere umano nel corso della sua storia. Una macchina computazionale dotata di uno sterminato database in cui siano memorizzati i criteri di valutazione per poter discriminare tra una vastissima tipologia di casi possibili, offrendo le relative risposte, è molto difficile da realizzare nella pratica, ma non impossibile da immaginare in linea di principio, a livello teorico. Una simile macchina, sottoposta a una qualsiasi delle domande o dei problemi che gli uomini si sono trovati ad affrontare fino a quel momento, saprebbe in effetti rispondere appropriatamente, traendo in inganno qualsiasi esaminatore, umano e non. Senonché, tale macchina presenterebbe un grave difetto, che renderebbe le risposte da essa fornite facilmente riconoscibili rispetto a quelle di un uomo: quella macchina non saprebbe affrontare situazioni nuove, per le quali non siano stati ancora messi a punto appropriati algoritmi; in particolare, non saprebbe pronunziarsi adeguatamente su questioni relative a ipotesi inedite o situazioni immaginarie appositamente inventate dagli esaminatori per smascherare la macchina. La capacità di affrontare il nuovo costituisce, a ben guardare, uno dei principali fattori discriminanti tra l’intelligenza umana e l’intelligenza artificiale. Tale capacità è riconducibile, in senso lato, all’intuizione, spesso messa in relazione con la creatività, ovvero all’attitudine di porsi al di là dei principi e delle regole preesistenti. Mentre la computazione è capace di restituire, pur se in forme variamente elaborate, soltanto ciò che era stato precedentemente immesso in essa, l’intelligenza umana mostra di saper andare oltre i principi regolativi e le informazioni disponibili a un determinato istante. I risultati ottenuti non offrono garanzie assolute di validità, ma la percentuale di successi è così largamente superiore rispetto alla mera probabilità statistica, da lasciare pochi dubbi circa la sua efficacia. (4) • La prima è la memoria, un deposito di informazioni che comprende svariati strumenti a disposizione del calcolatore umano: la carta su cui scrive i suoi conti, la carta su cui è stampato il suo “libro delle regole”, vale a dire la tavola delle istruzioni da seguire (il programma), e la porzione di cervello in cui, durante il calcolo, l'uomo ritiene le informazioni. • La seconda parte, il complesso operativo, compie le operazioni che un calcolo comporta; • il governo, la terza componente, controlla infine che le istruzioni siano eseguite correttamente e nell'ordine giusto (pp. 121-23). La spiegazione proposta da Turing è disegnata sulla base di un modello tripartito in analogia con il calcolatore umano; la divisione dei poteri si presta ad essere interpretata anche sul piano filosofico e politico. Abbiamo lasciato Turing alla definizione delle macchine interessate al giuoco dell'imitazione, i calcolatori numerici. Nelle pagine che seguono, lo scienziato inglese procede a dimostrare la sua ipotesi che, lo ricordiamo, è tesa a stabilire un'analogia matematica tra il calcolatore numerico e quello umano 10 . Turing prende dunque in esame le principali obiezioni all'ipotesi che le macchine possano pensare, e offre, al contempo una propria definizione di pensiero e di intelligenza; tale definizione nasce dalla confutazione dell'argomento proposto da Ada Byron e noto come obiezione di Lady Lovelace. Della prima programmatrice della storia, Turing riporta un'affermazione tratta da un saggio sulla macchina analitica di Babbage. “In esso, scrive, si afferma "La macchina analitica non ha la pretesa di creare alcunché. Può fare qualsiasi cosa sappiamo come ordinarle di fare" (il corsivo è nel testo).” La macchina sarebbe dunque incapace di fare cose nuove, limitandosi ad eseguire ordini e dunque a compiere azioni le cui conseguenze sono, per l'uomo, prevedibili. Ma è veramente così? Se né Lady Lovelace né Babbage erano a conoscenza degli sviluppi e delle potenzialità della macchina analitica, si tratta comunque di un'affermazione sbagliata; di essa, tuttavia, Turing confuta due varianti per approdare ad una definizione di intelligenza. La variante debole sostiene che una macchina non possa mai fare qualcosa di veramente nuovo. “Si può eludere per il momento l'obiezione col detto "Non c'è nulla di nuovo sotto il sole"” è la risposta ironica di Turing; che aggiunge: “chi può essere sicuro che il "lavoro originale" da lui compiuto non sia stato semplicemente la crescita di un seme gettato dall'insegnamento, o la conseguenza dell'aver seguito principi generali ben noti?” Segue, infine, la variante forte dell'obiezione di Lady Lovelace, secondo cui una macchina non è mai in grado di cogliere un uomo alla sprovvista. Lo scienziato confuta tale tesi sulla base della propria esperienza, affermando di essere continuamente stupito dalle macchine. Egli sa bene, con questa risposta, di non portare un argomento convincente e risolutivo. Il suo critico probabilmente controbatterà che simili sorprese sono dovute a qualche atto mentale creativo da parte sua e che, in conseguenza, nessun merito deriva dalle macchine. Tuttavia, aggiunge, “vale forse la pena di osservare che valutare qualcosa come sorprendente richiede sempre un "atto mentale creativo", tanto nel caso che ciò che sorprende sia provocato da un uomo, quanto nel caso che si tratti di un libro, di una macchina o di qualsiasi altra cosa. L'opinione che le macchine non possano far nascere sorprese è dovuta spesso a un errore cui sono particolarmente soggetti filosofi e matematici. L'errore consiste nel presupporre che appena un fatto si presenta alla mente, tutte le conseguenze di questo fatto saltino fuori simultaneamente. È un presupposto utile in molte circostanze, ma ci si dimentica troppo facilmente che è falso. Una conseguenza naturale di questo modo di agire è che si presuppone che non ci sia alcun merito nella semplice elaborazione delle conseguenze di dati e principi generali” (A. Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, cit., pp. 140-42). Turing indica una difficoltà nell'individuare l'autore di un pensiero creativo; la scienza è un processo e un progetto, ed è tale in quanto le conseguenze di un dato o di un'idea possono manifestarsi in tempi, in luoghi e in menti lontani dal momento e dal contesto in cui il primo pensiero, come un seme, si è impiantato. Stupisce lo scienziato il fatto che filosofi e matematici del suo tempo abbiano particolare difficoltà su questo punto; alla base di tale assunto sta infatti l'idea di scienza come attività collettiva, collaborativa e distribuita, un topos nella storia del pensiero filosofico e scientifico, scontato per Platone, per Newton (“sono un nano sulle spalle dei giganti”) e per il pensiero illuminista. Infine, Turing affronta, al principio del passo citato, una questione solo apparentemente distante, affermando che l'atto mentale creativo (idea, pensiero o intelligenza) è un "prodotto" trasmesso tramite mezzi (il libro, il calcolatore) cioè è incorporato in un sostrato materiale. Suo scopo è ricordare che un libro e una macchina sono portatori di idee tanto quanto l'uomo che, ad esempio, fa un discorso in pubblico. Sembra un'affermazione banale, ma lo è meno se consideriamo che tale definizione chiama in causa il problema dell'autore di un'idea, e la questione della proprietà e del controllo della conoscenza. [8] A. Turing, Macchine calcolatrici e intelligenza, in V. Somenzi (a cura di), La filosofia degli automi, Bollati Boringhieri, Torino 1965 (Computing Machinery and Intelligence, Mind, London N.S. vol. 59, 433-60, 1950, disponibile in rete al seguente url: http://www.abelard.org/turpap/turpap.htm [9] Con "Macchina di Turing" si intende una classe di macchine calcolatrici astratte, che consistono in un nastro infinito e in un'unità di calcolo con un numero finito di stati interni. L'unità di calcolo può leggere e scrivere in una casella del nastro, e spostarsi di una casella, a destra o a sinistra, lungo il nastro. L'operazione successiva viene determinata dallo stato attuale e dal simbolo letto. Previa scelta di un codice adeguato per l'interpretazione dei simboli, dunque, tali macchine possono effettuare calcoli numerici (A. Turing, Sui numeri computabili con un'applicazione al problema della decisione , 1936). Un importante corollario di tale teoria è che tutti i calcolatori numerici ordinari equivalgono ad una Macchina di Turing. Vale a dire che qualsiasi numero computabile con queste macchine o con qualsiasi ordinario processo di calcolo può essere computato con un'adeguata Macchina di Turing. Ciò non significa, invece, che tutti i problemi possano essere risolti. Al contrario, un ulteriore fondamentale corollario della tesi di Church-Turing è che che se un problema non è risolubile con tale macchina, allora non è risolubile affatto; vale a dire che esistono problemi indecidibili (cfr. C.E. Shannon, Calcolatori e automi, in V. Somenzi (a cura di), La filosofia degli automi, pp 97-98). In rete sono presenti molti simulatori della Macchina di Turing (si veda, ad esempio, il sito del Dipartimento di Informatica dell'Università di Pisa: [10] La formulazione matematica dell'ipotesi di Turing affermava che entro 50 anni sarebbe stato possibile programmare calcolatori con una capacità di memorizzazione di circa 10 alla 9 (cosa che oggi si può effettivamente fare).
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