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Appunti da Verga a D'Annunzio, Appunti di Italiano

Appunti di letteratura sugli autori dell'Italia postunitaria, con qualche riferimento ad autori esteri. In particolare: - La scapigliatura - Carducci - Naturalismo Francese - Zola - Verismo - Giovanni Verga - Decadentismo - D'Annunzio

Tipologia: Appunti

2020/2021

In vendita dal 06/04/2021

Davide_Peccioli
Davide_Peccioli 🇮🇹

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti da Verga a D'Annunzio e più Appunti in PDF di Italiano solo su Docsity! Italia postunitaria Davide Peccioli Interrogazione 8 mar 2021 5 Le Laudi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 T: La sera Fiesolana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 T: La pioggia nel pineto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 Il periodo notturno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 T: La prosa “notturna” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Davide Peccioli Introduzione Politica e società • p. 4-7 : Le strutture politiche, economiche e sociali Stiamo parlando di quella letteratura che si sviluppa a ridosso della unità d’Italia fino alla fine dell’800. Uno dei temi portanti di questa letteratura è il progresso, che benché sia chiaro esista, non deve essere identificato come la felicità umana. Questo è un figlio diretto del “fallimento” dell’Illuminismo. L’unità d’Italia ha avuto in impatto enorme sull’opera letteraria dell’epoca. In Italia il romanticismo è diverso da quello d’oltralpe, molto più positivo, ed è impregnato di valori positivo quali l’amor patrio. Alla conclusione di questo processo romantico, che culmina con l’unità d’Italia, inizia la delusione di tutti quegli intellettuali che vedevano nel Romanticismo un modo per cambiare la nazione; la differenza tra nord e sud, che sembra incolmabile, rappresenta il nodo principale di questa delusione. Tra le ragioni, vi è principalmente l’inettitudine del governo sabaudo, che, senza considerare le differenze tra nord e sud, ampliarono semplicemente la loro legislazione su tutto il territorio italiano: - leva obbligatoria - tassazione - etc etc etc Lo stesso Manzoni, con la sua ricerca di una lingua comune, rappresenta questo desiderio di creare una Italia realmente unita, senza differenze o spaccature al suo interno. Iniziarono diverse inchieste: la più famosa è quella di Franchetti e Sonnino, Inchiesta in Sicilia, che mise in luce le condizioni di bambini nel sud Italia. Altro fattore è l’alfabetizzazione, minima nel sud più che nel nord, che si cercò di migliorare per mezzo dell’istituzione della scuola obbligatoria; questo causò ulteriori problemi, poiché insegnanti del nord andavano al sud e viceversa, non capendo i propri studenti. In definitiva, questo enorme squilibrio dettato dalle differenze tra il nord e il sud porta gli intellettuali a vivere questa enorme delusione: l’idea dell’unità d’Italia aveva, durante il romanticismo, affascinato moltissimi intellettuali, che vedevano in essa la risoluzione dei problemi italiani, quali la dominazione degli stranieri, etc etc etc; invece l’unità reale porterà un enorme delusione. 7 10 Introduzione Letteratura e cultura • p. 18-22 : Fenomeni letterari e generi - Non tutto Non c’è una grande varietà di nuovi generi letterari, ma si afferma il romanzo: dopo la morte di Manzoni i Promessi Sposi diventano parte del programma ministeriale in Italia. Nasce la critica letteraria: De Santis scrive la Storia della Lettera- tura italiana Abbiamo le diverse riforme scolastiche: - Legge Casati (1859): impone l’obbligo scolastico dei primi due anni della scuola elementare - Legge Coppino (1877): impone l’obbligo scolastico fino a nove anni Nel meridione, dove vi era uno sfruttamento minorile, queste leggi non venivano rispettate; alla fine del secolo, quindi, vi era una forte analfabetizzazione. Come già detto, l’unità d’Italia aveva sottolineato come l’Italia non fosse affatto unita: si cerca quindi una matrice comune nella cultura. La Storia della Letteratura Italiana andava proprio in questo verso. Iniziano ad apparire statue e vie dei grandi autori italiani. Il romanzo si afferma, le cronache e la memorialistica pure. Si ha una riscoperta del melodramma, come la Traviata di Giuseppe Verdi ( p. 23 ), che è la trasposizione in melodramma de La signora delle Camelie di Dumas In generale si possono riscontrare negli intellettuali di quest’epoca degli atteggiamenti diversi rispetto alle novità trattate, rispetto alla modernità e al progresso che avanzano con una velocità incredibile. 1. Alcuni hanno delle reazioni assolutamente entusiaste ed encomiastiche 2. Altri hanno atteggiamenti di assoluto rifiuto, un rifiuto a priori del progresso, con un atteggiamento di tipo Romantico che vede nel passato una sorta di rifugio 3. Altri autori invece hanno un atteggiamento sereno e di accettazione della modernità, magari ignorando questi aspetti. Il problema della lingua • p. 16-17 In questo periodo il problema della lingua è solo la punta dell’iceberg che dimostra e rende evidente le differenze e la frammentazione dell’Italia unita. Manzoni si occupa di questo problema già prima dell’unificazione italiana; interviene subito, fin dall’inizio della sua carriera, con la sua opera più famosa: I promessi sposi. Manzoni sceglie il Fiorentino colto parlato, come lingua unitaria. Nel 1868 egli viene nominato presidente per la commissione della lingua, e in quest occasione fa una relazione intitolata Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla. Qui continua ad indicare il fiorentino come lingua che avrebbe potuto creare il contesto unitario, ma propone addirittura l’utilizzo di maestri fiorentini nelle scuole italiane. Nel 1872 è pubblicato il Vocabolario della lingua italiana, di stampo fiorentino; si tenga conto che all’epoca c’era dal 70 al 90% di analfabetismo. Davide Peccioli 11 Obbligo scolastico • p. 10-11 : La scuola La situazione all’indomani dell’unificazione era molto diversa rispetto alle aspettative e rispetto alla coscienza dei singoli italiani rispetto alla situazione: l’unione politica mette in luce la divisione sotto ogni aspetto. La scuola, come la cultura, cerca di assumere una funzione unificatrice: le fratture si cercano di ricomporre sulla base di una unione culturale e linguistica. La scuola quindi cerca non solo di istruire le masse, ma anche di amalgamare la popolazione. Questo aspetto sarà poi ben analizzato da Verga, che con novelle come Rosso Malpelo studia l’aspetto parallelo alla scuola: il lavoro minorile. Pochi bambini, infatti, solvevano a quest’obbligo, poiché in molti luoghi si sfruttano i bambini. Intellettuale e società • p. 12-13 : Gli intellettuali Nonostante questo vi era il fenomeno della disoccupazione intellettuale. Di fatto, sebbene gli studenti universitari non fossero tanti come oggi, capitava che il sistema economico produttivo italiano fosse così arretrato che questi laureati non trovavano lavoro, né un impiego inerente al proprio status. Questo problema impensieriva le classi dirigenti, in quanto questi intellettuali disoccupati potevano dimostrare il proprio sentimento di fastidio nei confronti della situazione. Questo fenomeno è strettamente collegato ad al tema del rapporto tra intellettuale e società. Col romanticismo, in Italia vi erano grosse differenze rispetto al resto dell’Europa. L’intellettuale, infatti, all’epoca aveva ancora un ruolo importante, e non si erano diffuse le tematiche negative proprie del romanticismo europeo Con questo processo della disoccupazione intellettuale inizia ad avvertirsi, anche in Italia, lo scollamento dell’intellettuale dalla società: con un ritardo di qualche decennio, nella letteratura del secondo ottocento, si profila questo scollamento tra i valori dell’intellettuale con quelli della società borghese; il primo esempio è quello della corrente della scapigliatura. Letteratura per l’infanzia • p. 20-21 : Il romanzo di consumo e la letteratura per l’infanzia È una letteratura didascalica che si occupa di sancire l’importanza della scuola per le ragioni sopra citate. I testi trattati saranno Pinocchio e Libro Cuore Questa letteratura ha uno scopo prevalentemente di istruire Davide Peccioli 12 Introduzione Libro Cuore Il libro Cuore, ad esempio, è il diario di Enrico, intervallate da 9 racconti e da lettere dei genitori che Enrico riporta nelle pagine di diario. Questo libro è il documento di un epoca che dimostra quanto si volesse scegliere una funzione ben specifica per la scuola, ovvero di amalgamare una nazione che era prevalentemente disunita: è una scuola statale, pubblica e obbligatoria. Questo libro pone al primo posto la scuola, con quasi una sorta di adorazione, e poi al secondo posto i genitori (ed in particolare la mamma di Enrico). Leggere una pagina di diario, uno dei nove racconti e una lettera Pinocchio Ha avuto decisamente più fortuna, e nasce come “una bambinata”: nasce come un libro per bambini, ma ci sono delle simbologie e dei topoi letterari che vanno ben oltre al pubblico infantile. Il motivo per cui nasce come una bambinata è che l’autore lo scrive così, quasi per gioco, e poi chiamando un direttore di una rivista per bambini, gli chiede di pubblicarlo. Lo scopo è educativo, allora come adesso. La scuola è al centro dell’attenzione anche in questo romanzo, tanto che Pinocchio, che ha all’inizio è una testa di legno, decide di abbandonare la scuola: durante tutto il suo viaggio sono presenti delle metamorfosi e dei topos molto emblematici, e alla fine andrà anche a scuola Un messaggio importantissimo è che Pinocchio cresce e impara grazie alla prassi, ovvero sbatte il naso contro le cose prima di capirle; Nella dichiarazione dei diritti umani c’è il diritto all’istruzione, che a nostro parere oggi è portato a compimento, specie in Italia. Davide Peccioli 15 S’attende invano dalla musa bianca8 che abitò venti secoli il Calvario,10 E invan l’esausta vergine s’abbranca Ai lembi del Sudario... Casto poeta9 che l’Italia adora, Vegliardo10 in sante visioni assorto, Tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora!15 Cristo è rimorto! O nemico lettor11, canto la Noia12, L’eredità del dubbio e dell’ignoto, Il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, Il tuo cielo, e il tuo loto!20 Canto litane di martire e d’empio; Canto gli amori dei sette peccati Che mi stanno nel cor, come in un tempio, Inginocchiati. Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,25 E l’Ideale che annega nel fango... Non irrider, fratello13, al mio sussurro, Se qualche volta piango:14 Giacchè più del mio pallido demone, Odio il minio e la maschera al pensiero,30 Giacchè canto una misera canzone, Ma canto il vero! 1. fa riferimento ai poeti scapigliati 2. fa riferimento ai poeti romantici della generazione precedente, ovvero prin- cipalmente a Manzoni: sono i Romantici italiani; gli scapigliati riprendono molti temi tipici del romanticismo, ma quello europeo d’inizio secolo. Que- sti poeti attaccano ciò che non può più essere ripreso; Manzoni rappresenta il poeta dai forti ideale, ma costoro non possono più. 3. riferimento al fatto che le aquile, quando cambiano le piume, non riescono più a volare come prima: i poeti sono paragonati alle aquile 4. è un verbo che sta a metà, e rappresenta l’idea di un movimento privo di meta precisa e di punti di riferimento certi 5. chiaro riferimento a Manzoni 6. sono i valori religiosi, che non si riescono più a vedere chiaramente; viene meno il sentimento di fede nei confronti della religione Davide Peccioli 16 La scapigliatura 7. riferimento all’adorazione dell’idolo d’oro nel deserto da parte degli Ebrei, stufi di aspettare Mosè. Riferimenti fittizi. Questi versi sono l’emblema della mancanza di fiducia in valori in cui poter credere 8. fa riferimento alla poesia cristiana, che non ha più senso: non ci sono più i valori religiosi e la fede, quindi questa poesia non è più percorribile 9. riferimento a Manzoni; non gli augurano la morte, ma fanno riferimento alla sua mentalità 10. è un termine “cattivo”, “arrabbiato” 11. il poeta identifica il lettore con la classe borghese, i cui ideali non sono condivisi. 12. tema poi molto presente nel decadentismo 13. il lettore è diventato fratello perché diventa uomo: siamo tutti accomunati dallo stesso destino 14. c’è il desiderio degli ideali, di cantare “bagni d’azzurro”, ma questi ideali “annegano nel fango”. C’è questa duplice attrazione verso il reale e verso il brutto e il concreto La poesia è una sorta di manifesto della Scapigliatura, in cui Praga descrive la condizione spiri tuale che è propria di un’intera generazione intellettuale (si noti il «noi» collettivo), quella suc cessiva al Romanticismo. La perdita dei valori La prima parte (strofe 1-4) è negativa e mira a definire ciò che quella generazione non può più essere: essenzialmente non ha più la fede religiosa, fonte di tutti i valori. Per questo Praga esprime un duro rifiuto nei confronti di Manzoni, che rappresenta appunto lo scrittore che ispira tutta la sua vita a quei valori, fede religiosa, integrità morale, vita casta. Nei confronti di Manzoni gli scapigliati hanno un atteggiamento ambivalente di odio-amore, ripul sä-ammirazione. Egli costituisce come una figura paterna, a cui sentono la necessità di ribellarsi, ma di cui non riescono a liberarsi, perché ne avvertono la grandezza ineguagliabile, che li schiac cia. Il compiacimento "maledetto" del vizio e della bestemmia è anche un modo per negare una presenza incombente e condizionante, per "uccidere" simbolicamente il padre. Il rovesciamento dell’e- stetica e dell’etica manzoniane assume toni oltranzistici («tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora!»): in realtà proprio il tono truculento, nella sua esagerazione, tradisce una disperata no stalgia della fede. Come ha ben indicato Tessari a proposito di questa poesia, «la bestemmia è una preghiera capovolta che con- ferma la fede in Dio». La tematica baudelairiana La seconda parte (strofe 5-8) definisce invece ciò che quella gene razione intellettuale è realmente (o crede, o pretende di essere) dopo la perdita delle certezze. Si delinea chiaramente la tematica baudelairiana: la noia, rappresentata come carnefice della tor mentata anima moderna; la tensione verso l’ideale e la perdizione nel vizio e nel male; gli Davide Peccioli 17 atteggiamenti blasfemi, ma che imitano la devozione religiosa («litane di martire e d’empio», v. 21); la “malattia" interiore che porta alla distruzione («pallido demone», v. 29). Una dichiarazione di poetica L’ultimo verso («canto il vero») è una dichia- razione di poetica. Non si riferisce tanto al vero scientifico, positivisticamente inteso (di cui non si ravvisa traccia nella poesia) ma, come si ricava dal contesto, la realtà desolata della vita moderna, privata di fedi e di ideali, che la poesia deve rivelare nel suo volto brutale, senza mascheramenti ipocriti: il vi zio, l’abiezione, la malattia interiore, lo spleen. Per questo la canzone è «misera», perché dipinge senza finzioni la miseria della vita moderna. T: Dualismo Dualismo e vita moderna È una poesia "manifesto", che definisce la condi- zione spirituale dell’avanguardia scapigliata. Essa riprende motivi baudelairiani, ma, ancora più indietro, del Romanticismo tedesco: la lacerazione tra due opposti inconciliabili, la tendenza alla sublimazione nell’idea le e la caduta nel vizio e nel male. Questo dualismo è evidentemente il riflesso di una condizione di crisi: nasce dalla consapevolezza di vivere un’età che nega i valori ideali, dominata dal criterio della pura economicità, dalla cancellazione di ogni bellezza nello squallore del nascente industrialismo moderno. La vita modema può solo essere sofferenza, bruttezza, turpitudine. Questo, nella visione di Boito, diventa un pessimismo metafisico: l’uomo è la creatura di un “buio” dio del male, che l’ha creata per compiacersi della sua sofferenza. Da questo rifiuto della vita moderna nasce il rimpianto dell’ideale, che è una condizione ormai irraggiungibile di purezza morale e di bellezza estetica. Dalla definizione di una condizione spirituale deriva una dichiarazione di poetica. Il poeta ispira ad un’arte che realizzi la bellezza ideale, assoluta, contrapposta alla bruttezza moder na (l’ “Arte eterea”, v. 71), ma poiché questa bellezza è impossibile, non resta che cantare il “vero", la squallida e prosaica realtà presente, che è la negazione del “Vero” ideale (“un ver che mente al Vero”. v. 95): ne può nascere solo una poesia aspra, sgradevole, urtante. Il linguaggio poetico Boito si compiace di sviscerare con minuzia analitica i temi, di ampliare retoricamente i concetti, moltiplicando i paragoni e le metafore, in una serie studiata di parallelismi e di antitesi. Prevale lo studio formalistico, che lo avvicina ai parnassiani francesi, cultori del la forma perfetta (Gioanola). Si può notare tuttavia come questi poeti scapigliati non operino una rivoluzione del linguaggio poetico, nell’uso della parola, della sintassi, delle immagini, dei metri. La parola è ben lontana dal caricarsi di valori suggestivi ed evocativi, che agiscano a un livello più profondo di quello della comunicazione razionale (come avverrà pochi anni più tardi con d’Annunzio e Pascoli). Le immagini hanno ancora un impianto retorico, non rendono il con senso di misteriose «corrispondenze» tra le cose. Anche i metri sono quelli fortemente ritmati della tradizione romantica Davide Peccioli Carducci • p. 92-93-96-97 - In sintesi: studiare solo quello Carducci cerca di traslare la verseggiatura classica alla poesia italiana, con successo ma con un risultato poco gradevole Carducci è il classico poeta, in completa opposizione rispetto agli scapigliati. Tanta critica dice che Carducci era l’unico sano in mezzo agli ammalati Egli nasce nel 1835 in maremma, paesaggio selvaggio che ha influenzato moltissimo la sua produzione, è un poeta che si distingue dagli altri del suo tempo per la sua sanità. L’intellettuale in questo periodo è in crisi, ma Carducci, con vicende alterne, con le sue rievocazioni storiche solide, divenne l’emblema del poeta vate dello stato italiano, al punto che si metteva in evidenza la sua sanità rispetto al contesto in cui agiva Le sue rievocazioni storiche, che poggiano sui classici, riprendono momenti dell’età classica e del medioevo; addirittura sperimentò modi di fare poesia utilizzando i metri classici; esempio sono le Odi Barbare. Successivamente la critica su Carducci tendeva a sottolineare come le sue fughe verso i mondi lontani dei classici, era sostanzialmente delle fughe vere e proprie, ovvero il suo modo per recuperare dei valori che si stavano diffondendo: era un modo diverso per cercare di arginare questo dissidio che viveva all’interno della società. Oggi la critica su Carducci è piuttosto negativa: il poeta appare un po’ tronfio, e il suo tentativo di riprendere quello stile classico un po’ datato; inoltre la sua vicenda subisce delle variazioni che ce lo mostrano poco coerente. Abbiamo un poeta che in età giovanile segue con entusiasmo il processo rinascimentale, e come tanti altri poeti alla fine di questo processo vive quella delusione data dal risultato dell’unificazione. Segue un periodo estremamente violento nei toni: inizia una poesia di invettiva contro tutto e contro tutti, conto lo stato neonato, contro la chiesta. Ad un certo punto, complice anche un incontro con la regina, inizia a smorzare i toni della sua poesia, e nasce quella figura di poeta di maniera: diventerà senatore dello stato, e quindi probabilmente questa trasformazione risulta poco apprezzabile dal punto di vista ideologico. 21 22 Carducci T: Pianto antico Dalle rime nuove, è poesia molto semplice ma che nasce da un sentimento molto puro di dolore per la morte del figlioletto Dante Il testo è una odicina anacreontica: Anacreonte era un poeta greco che per primo aveva utilizzato questo verso Qui abbiamo un contrasto tra la vita e la morte: è rappresentato dal giardino in cui ritornerà la primavera, mentre la primavera non tornerà né per il bambino né per il poeta. Questo contrasto si gioca anche sul piano dei colori: nella prima parte abbiamo verde e rosso, mentre nella seconda compaiono delle tinte decisamente più fosche, come la terra negra. Anche sul piano lessicale, troviamo rinverdì, che con il prefisso “ri” indica rinascita, ma è affiancato a orto solingo. C’è una metafora tipica, quella che deriva dal fiore reciso di Virgilio. L’albero a cui tendevi La pargoletta mano, Il verde melograno a’ bei vermigli fior, Nel muto orto solingo5 Rinverdí tutto or ora E giugno lo ristora Di luce e di calor. Tu fior de la mia pianta Percossa e inaridita,10 Tu de l’inutil1 vita Estremo unico fior, Sei ne la terra fredda, Sei ne la terra negra; Né il sol piú ti rallegra15 Né ti risveglia amor. 1. si contrappone a quel rinverdì di prima, in quanto indica negazione. Questo componimento presenta la tematica centrale della poesia carducciana, l’opposizione luce/ombra, vita/morte. Le due polarità in opposizione sono nettamente ripartite tra le prime due strofe e le ultime due. Nelle prime due dominano immagini di luce e di calore, con intense note coloristiche («verde», «vermigli», «rinverdì»), e rendono il senso della vitalità prorompente della natura primaverile. A questi motivi, nelle ultime due si contrappone il motivo dell’aridità, del freddo, del buio, dell’assenza di gioia vitale e d’amore. La serie delle opposizioni si può così ricostruire sulla base della trama delle parole chiave: • rinvesì vs inaridita Davide Peccioli 25 ricingean la persona gentile.20 Sotto la pioggia, tra la caligine21 torno ora, e ad esse vorrei confondermi; barcollo com’ebro, e mi tócco,50 non anch’io fossi dunque un fantasma.22 Oh qual caduta di foglie,23 gelida, continua, muta, greve, su l’anima!24 io credo che solo, che eterno, che per tutto nel mondo è novembre.2555 Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,26 meglio quest’ombra, questa caligine27: io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito. 1. I fanali che si inseguonoa sono i lampioni 2. assolutamente emblematico, in quanto la noia caratterizzerà i poeti delle generazioni successive 3. significativo in quanto in generale è un verbo intransitivo, utilizzato con forma transitiva senza un oggetto interno: capiamo il tutto solo per mezzo della scena; altro indice di noia. 4. è una climax, con suoni quasi onomatopeici Prima parlava della nebbia, e ora abbiamo l’autunno che ci da l’idea di un grigio opaco tutto intorno. 5. Abbiamo una inversione: infatti il soggetto è gente; vi è inoltre una iperbato, ovvero la separazione di due termini che dovrebbero stare vicini 6. Particolari prosaici. Già la situazione e il luogo non sono tra i più poetici; una grandissima distanza separa questa poesia da una poesia petrarchesca come “Chiare fresche et dolci acque”: questo è tutt’altro che un locus amenus. Anche i gesti sono prosaici: la donna è rappresentata mentre sporge la tessera al controllore. L’immagine prosaica diventa immagine del tempo incalzante, che porta via dei pezzi: come il controllore si porta via una parte del biglietto, così il tempo strappa via i begli anni. 7. soggetto postposto 8. latinismo: picchiati 9. ogni gesto, azione e suono si riflette o evoca un sentimento dell’animo Davide Peccioli 26 Carducci 10. Altre immagini piuttosto prosaiche: tutte figure che ruotano attorno all’ambiente della stazione, che servono a sottolineare lo squallore della vita moderna; i vigili sono tutti incappucciati di nero, e la loro immagine lugubre serve a completare quell’atmosfera infernale: non è un locus amenus. 11. oltraggio al sentimento del poeta 12. allitterazione della S e scontri tra vocali dure 13. treno: si personifica e ci permette di capire quanta importanza avesse questo soggetto 14. Caronte occhi di bragia: diventa palese il riferimento alll’inferno Dantesco 15. gli stantuffi del treno 16. immagine simbolica: sono state abbandonate le immagini prosaiche; sono un passaggio alle strofe successive 17. il linguaggio prosegue la metafora del cando precedente 18. classica immagine della donna angelo 19. è cambiata la stagione, ora è estate 20. il poeta coglie l’immagine di una aureola 21. nebbia 22. Con questa strofa ritorniamo all’atmosfera dei primi versi. Il novembre che all’inizio era soltanto una condizione atmosferica, adesso diventa una condizione dell’animo. 23. emblema della caduta delle emozioni 24. l’immagine è di un mondo triste e privo di valori positivi 25. l’atmosfera novembrina può essere estesa all’animo del poeta: la nebbia è il tedio. Secondo alcuni, Carducci maschera un disagio dietro alla sua poesia. 26. è più fortunato colui per cui l’esistenza ha perso di significato: tipico del movimento sucecessivo di poeti 27. simbolo del tedio Davide Peccioli 27 Realtà e simbolo nella rappresentazione del paesaggio urbano Torna in questa poesia la struttura che abbiamo visto ricorrente nella lirica carducciana: in apertura un dato reale e presente, da cui prende avvio la "fantasia" (in questo caso il ricor do), poi il ritorno al presente. Qui però l’indugio sul presente ha di gran lunga maggior estensione che la rievocazione del passato. Colpisce innanzitutto il paesaggio d’apertura, contrassegnato da pioggia, fango, cielo plumbeo, con le metafore che lo accompagnano: i fanali si inseguono «accidiosi» e «sbadigliando» la luce, il mattino d’autunno è come «un grande fantasma»: è un paesaggio urbano di gusto inconfondibilmente baudelairiano. Ma colpisce soprattutto il luogo dove la poesia è ambientata: una stazione ferroviaria, luogo per nulla “poetico", secondo il gusto tradizionale. Non solo, ma il discorso insiste su tutta una serie di particolari quotidiani banali e prosaici (il biglietto forato dal controllore, i frenatori che percuotono i freni con sbarre di ferro, il rumore degli sportelli sbattuti, l’ultimo invito a salire in carrozza). La poesia del secondo Ottocento ama indugiare su particolari realistici di questo tipo. Ma ciò in Carducci è inconsueto: il poeta predilige usualmente un discorso aulico e sublime. L’indugio sui particolari prosaico possiede quindi una funzione particolare: sottolineare lo squallore avvilente della vita moderna, che nega ogni aspirazione alla bellezza. La stazione ferroviaria, nella cultura del tempo, è infatti il luogo emblematico della modernità, rappresenta gli scambi, il dinamismo, la vita attiva, gli interessi positivi. Essa ha però qui come due facce: la prima e più evidente è quella realistica e quotidiana, che si è sottolineata; ma su di essa si sovrappone un’altra dimensione. Si noti il ricorrere di colori foschi (il nero in particolare) che è troppo insistito per non essere voluto e denso di significati: «carri foschi», «nero convoglio», vigili incappucciati di «nero», «com’ombre», «buio», «tènebra». Il nero è colore altamente simbolico, richiama essenzialmente la morte. Questa stazione ferroviaria è infatti una sorta di regno dei morti: le figure che in essa si muovono silenziose, oppresse da «ignoti dolori» e «tormenti», richiamano le ombre dei dannati che si aggirano negl’Inferi; tutto è avvolto come da un’atmosfera spettrale, lugubre, su cui aleggia un senso di pena e sofferenza. Non manca neppure, in questo scenario infernale, la figura di Satana: il treno, un «empio mostro contrassegnato da un tratto tipico delle figure demoniache, i «fiammei / occhi». Il treno e la realtà moderna Poiché il treno, nella cultura dell’Ottocento, è il simbolo per eccellenza della modernità, tutto ciò rivela nel poeta paura e orrore per la vita moderna. Per comprenderne il motivo, occorre richiamare brevemente il contesto storico-culturale. La macchina è fatta segno, nella cultura di questo periodo, di una forte ambivalenza: è esaltata entusiasticamente dalla retorica corrente, come indizio del progresso inarrestabile, del trionfo della scienza sulle tenebre dell’ignoranza, ma appare anche come un’immagine mostruosa, inquietante. La macchina fa paura perché distrugge dalle radici tutto un mondo e un sistema di vita, capovolge i valori tradizionali, è un mostro che minaccia di sfuggire al controllo dell’uomo e di rivolgersi maleficamente contro il suo creatore (si ricordi il Frankenstein della Shelley, dove si esprimono, nell’Inghilterra della Davide Peccioli 30 Naturalismo francese preceduta da una Prefazione, di fatto un manifesto della nuova tendenza. Con i loro romanzi iniziamo a vedere la descrizione di personaggi brutti, malati: vi è il coraggio di guardare una realtà degradata e malata con occhio scientifico. Tuttavia vi è un piccolo scarto tra gli aspetti teorici e il romanzo vero e proprio: la produzione immaginata basandosi sulla teoria degli autori è diversa da quella effettiva. T: Un manifesto del Naturalismo Questa è la Prefazione al Germinie Lacerteux dei fratelli de Gouncourt. Dobbiamo chiedere scusa al pubblico per questo libro che gli offriamo e avvertirlo di quanto vi troverà. Il pubblico ama i romanzi falsi: questo romanzo è un romanzo vero. Ama i romanzi che dànno l’illusione di essere introdotti nel gran mondo: questo libro viene dalla strada. Ama le operette maliziose, le memorie di fanciulle, le confessioni d’al- cova’, le sudicerie erotiche, lo scandalo racchiuso in un’illustrazione nelle vetrine di librai: il libro che sta per leggere è severo e puro. Che il pubblico non si aspetti la fotografia licenziosa del Piacere: lo studio che segue è la clinica dell’Amore? Il pubblico apprezza ancora le letture anodine e consolanti, le av- venture che finiscono bene, le fantasie che non sconvolgono la sua digestione né la sua serenità: questo libro, con la sua triste e violenta novità, è fatto per contrariare le abitudini del pubblico, per nuocere alla sua igiene. Perché mai dunque l’abbiamo scritto? Proprio solo per offendere il lettore e scandalizzare i suoi gusti? No. Vivendo nel diciannovesimo secolo, in un’epoca di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette «classi inferiori» non abbiano diritto al Romanzo; se questo mondo sotto un mondo, il popolo, debba restare sotto il peso del «vietato» letterario e del disdegno degli autori che sino ad ora non hanno mai parlato dell’anima e del cuore che il popolo può avere. Ci siamo chiesti se possano ancora esistere, per lo scrittore e per il lettore, in questi anni d’uguaglianza che viviamo, classi indegne, infelicità troppo terrene, drammi troppo mal recitati, catastrofi d’un terrore troppo poco nobile. Ci ha presi la curiosità di sapere se questa forma convenzionale di una letteratura dimenticata e di una società scomparsa, la Tragedia, sia definitivamen te morta; se, in un paese senza caste e senza aristocrazia legale, le miserie degli umili e dei poveri possano parlare all’interesse, all’emozione, alla pietà, tanto quanto le mise rie dei grandi e dei Davide Peccioli 31 ricchi; se, in una parola, le lacrime che si piangono in basso possano far piangere come quelle che si piangono in alto. Questa prefazione è importante per capire quali sono gli intenti, al punto che viene quasi vista come manifesto La poetica del naturalismo Da questo manifesto emergono alcuni punti essenziali della poetica del Naturalismo: • il rifiuto della narrativa di consumo, convenzionale, di evasione, ed il perseguimento di finalità serie, la ricostruzione della «Storia morale con- temporanea»; • il proposito di non curarsi, in questa ricostruzione, dei gusti del pubblico, anzi, di andare provocatoriamente contro le sue abitudini più consolidate; • l’acquisizione alla letteratura di una nuova zona del reale, esclusa dalla narrativa tradizio nale: le classi inferiori, le loro miserie ei loro drammi, che vengono trattati in chiave seria; • l’attribuzione alla letteratura del rigore metodologico e dei fini della scienza, come prescriveva la contemporanea mentalità positivistica; viene dato per scontato che la forma per eccellenza di questa nuova letteratura è il romanzo; • l’intento dello studio sociale, dell’analisi di miserie della società, in nome di una visione umanitaria. L’attrazione morbosa per il patologico È necessario però distinguere queste enunciazioni teoriche dalla realtà effettiva delle opere dei Goncourt. Ciò che spingeva i due scrittori a rappresentare il popolo era soprattutto la ricerca del nuovo e del raro, di sapori inediti e forti, propria di un gusto ormai sazio ed annoiato. Lo stesso Edmond annotava nel Diario il 3 dicembre 1871: «Il popolo, la cana glia, se volete, ha per me l’attrazione delle popolazioni sconosciute e non ancora esplorate, qualche cosa di quell’esotico che ricercano i viaggiatori». In particolare in Germinie Lacerteu ciò che muove i due scrittori è un’at- trazione sensuale, morbosa, per il brutto, il repellente, il patologico, qualche cosa che non ha nulla a che vedere con l’obiettività scientifica e documentaria, ma rivela semmai quelle tendenze de cadenti di cui si diceva. E non vi è veramente la volontà di inserire in una rappresentazione letteraria il proletariato operaio, la classe nuova che si affacciava alla ribalta sociale nella nuova organizzazione industriale: il romanzo tratta di una serva, cioè ancora di un’appendice della nobiltà e della borghesia (su questi aspetti, si veda il saggio di Erich Auer- bach, Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale del 1956). Davide Peccioli Letteratura russa Delitto e castigo • p. 132: trama • p. 133: T7 - I labirinti della coscienza: la confessione di Raskolnikov Trama Il protagonista, Raskolnikov, un giovane provinciale povero, studente a Pietroburgo, uccide una vecchia usuraia e la sorella. La motivazione del delitto è nelle idee del giovane, che ritiene che vi siano uomini superiori che hanno il diritto di violare le leggi morali, arrivando sino al delitto, se le grandi idee che essi aspirano a realizzare lo esigono. Raskolnikov uccide appunto per provare a se stesso di essere uno di questi uomini superiori; ma è assalito da un rimorso violento e dall’ossessione di essere scoperto. L’ossessione lo spinge a sfidare la polizia stessa. Il giudice Porfirij ha intuito la sua colpevolezza, ma indugia ad arrestarlo perché ha letto nel suo animo e sa che presto o tardi egli stesso si costituirà. Si aggiungono all’omicidio altri motivi d’angoscia: la sorel la Dunija, insidiata da un essere perverso, Svidrigailov, giunge a Pietroburgo a chiedere aiuto e decide di sposare Lužin, uomo ricco ma sordido e meschino. Raskolnikov viene anche a contatto con altri relitti umani: l’ubriacone Marmeladov, la moglie Katerina Ivanovna, isterica e semi folle, la figlia Sònja, che si prostituisce per sfamare i suoi. Proprio Sònja, creatura dolce e pura, raccoglie da Raskolnikov la confessione del delitto e lo spinge a costituirsi. Ma nell’intimo il giovane è ribelle ad un autentico penti mento. Solo in Siberia, dove Sònja l’ha seguito, si profila, appena accennata al termine del romanzo, la sua autentica redenzione. T: I labirinti della coscienza: la confessione di Raskolnikov «E com’è stato in realtà?» disse, come dopo profonda riflessione «è stato proprio così! Ecco: volevo diventare un Napoleone, è per questo che ho ucciso... Su, puoi capire adesso?». «No, no» sussurrò ingenuamente e timidamente Sonja «ma... parla, parla! Io capirò, dentro di me capirò tutto!» lo supplicò. 35 36 Letteratura russa Egli tacque e rifletté a lungo. «Capirai? Bene, vedremo. Si tratta di questo: una volta mi ero proposto un quesito: se, per esempio, al mio posto si fosse trovato Napoleone e non avesse avuto, per cominciare la sua carriera, né Tolone, né l’Egitto, né il passaggio del Monte Bianco, ma, invece di tutte queste belle e monumentali imprese, gli si fosse trovata dinanzi nient’altro che una spregevole vecchierella, vedova di un impiegato del registro, che per giunta si dovesse uccidere per rubarle i denari nel baule (per far carriera, capisci?), ebbene, si sarebbe egli deciso a farlo, non avendo altra via di uscita? Non si sarebbe inalberato al pensiero di un’azione così poco monumentale e... e delittuosa? Ebbene, io ti dico che con un simile «quesito», mi torturai per lunghissimo tempo, tanto che mi prese una gran vergogna quando alla fine intuii (d’un tratto) che non soltanto egli non si sarebbe inalberato, ma non gli sarebbe neppure venuta in mente l’idea che la cosa non fosse monumentale... e anzi non avrebbe capito affatto che motivo ci fosse lì di inalberarsi. E purché non avesse avuto altra strada, e poi l’avrebbe soffocata senza lasciarle dire né ahi né bai, e senza pensarci più che tanto! Ebbene anch’io... sono uscito dalle mie meditazioni... e l’ho soffocata... seguendo l’autorevole esempio... Ed è stato così punto per punto! Ti viene da ridere? Ma qui, la cosa più buffa è che forse è stato proprio così...». Sonja non aveva nessuna voglia di ridere. «Parlatemi piuttosto chiaramente... senza esempi» ella pregò ancora più timida e con voce appena udibile. Egli si voltò verso di lei, la guardò con tristezza e la prese per le mani. «Hai di nuovo ragione tu, Sonja. Tutte queste sono scempiaggini, è quasi una vuota cicalata! Vedi: tu sai pure che mia madre non possiede quasi nulla. Mia sorella ha ricevuto per caso un’educazione ed è condannata ad andare di qua e di là come istitutrice. Tutte le loro speranze non erano riposte che in me. Io ho studiato, ma non potevo mantenermi all’università e sono stato costretto a lasciarla per un certo tempo. Ma anche se si fosse andati avanti a quel modo, tra una decina, una quindicina d’anni (sempre che le cose si fossero messe bene), avrei potuto sperare di diventare insegnante o impiegato, con mille rubli di stipendio...». Pareva che dicesse cose imparate a memoria. «E intanto mia madre si sarebbe rinsecchita dai crucci e dagli affanni, senza che tuttavia mi riuscisse di darle la tranquillità, e mia sorella... be’, a mia sorella sarebbe potuto capitare anche di peggio!... E che gusto, per la vita intera, passare dinanzi a tutto e rinunciare a tutto, dimenticarsi della madre e sopportare umilmente, per esempio, la vergogna di una sorella! E perché? Forse soltanto per metter su, dopo averle sotterrate, una nuova famiglia, Davide Peccioli 37 moglie e figli, e lasciar poi anche loro senza un soldo e senza un boccon di pane? Ebbene... ebbene, ecco io decisi che, dopo essermi impadronito dei denari della vecchia, li avrei impiegati, nei primi anni, per mantenermi all’università, senza tormentare mia madre, e per i primi passi da fare dopo l’università; e avrei fatto tutto questo con larghezza, radicalmente, in modo da prepararmi tutta una nuova carriera e mettermi su di una strada nuova, indipendente... Ebbene, ebbene, ecco tutto... Già, si capisce, quanto a uccidere la vecchia, in questo ho fatto male... e adesso basta!». Come spossato si trascinò sino alla fine del racconto e chinò il capo. «Oh, non è quello, non è quello...» esclamò Sonja angosciata «e forse che si può così... no, non è così, non è così». «Lo vedi anche tu che non è così... Eppure ti ho fatto un racconto sincero; è la verità!». «Ma che verità è mai questa! O Signore!». «Io non ho ucciso che un pidocchio, Sonja, inutile, schifoso, nocivo». «Ma è una creatura umana quel pidocchio!». «Ma sì, lo so anch’io che non è un pidocchio» egli rispose guardandola stranamente. «Però io dico degli spropositi, Sonja» aggiunse «è già un pezzo che ne dico... Tutto questo è un’altra cosa; tu dici giusto. Qui ci sono altre cause, ben diverse!... Era già tanto che non parlavo con nessuno, Sonja. Adesso ho un gran mal di capo».ù I suoi occhi ardevano di un fuoco febbrile. Cominciava quasi a delirare; un sorriso inquieto errava sulle sue labbra. Attraverso l’eccitazione del suo spirito faceva capolino una tremenda spossatezza Sonja capì quanto egli si straziasse. Anche a lei cominciava a girar la testa. Egli parlava in un modo così strano: le pareva di capire qualcosa, ma... «ma come mai! Come mai! O Signore». Ed ella si torceva le mani disperata. «No, Sonja, non è quello» egli rispose, sollevando d’un tratto il capo, come se un improvviso nuovo giro di pensieri lo avesse colpito e di nuovo eccitato «non è quello! Ma piuttosto... supponi (sì! così infatti è meglio!) supponi che io sia egoista, invidioso, malvagio, abietto, vendicativo, e... magari anche incline alla pazzia. (Tutto questo insieme! Della pazzia si parlava già prima, me n’ero accorto!) Dunque ti ho detto poc’anzi che non potevo mantenermi all’università. Ma sai tu che forse lo potevo anche? Mia madre mi avrebbe mandato di che pagare quel che occorreva, e quanto alle scarpe, ai vestiti e al pane, avrei provveduto col mio lavoro, di sicuro! Lezioni se ne presentavano; mi si offriva mezzo rublo per ciascuna. Lavora pure Razumíchin! Ma io m’incattivii e non volli. Per l’appunto mi incattivii (ecco una bella parola!). Allora, come un ragno, mi ficcai nel mio cantuccio. Tu sei stata nel mi canile, hai veduto... E sai, Davide Peccioli 40 Letteratura russa venuto qui! Accogli il tuo ospite! Se non fossi un pidocchio, sarei venuto da te? Ascolta: quando andai dalla vecchia, vi andai soltanto per provare... Sappilo dunque!». «E avete ucciso! Avete ucciso!». «Ma come ho ucciso? Forse è così che si uccide? Forse è così che si va ad uccidere, come ci sono andato io?... Ti racconterò un giorno o l’altro come ci sono andato... Ho forse ucciso la vecchia? Me stesso ho ucciso, e non la vecchia! Mi sono bravamente accoppato da me, per sempre!... E quella vecchietta l’ ha uccisa il diavolo, e non io... Basta, basta, Sonja, basta! Lasciami» esclamò a un tratto, in una spasmodica angoscia «lasciami!». Le giustificazioni del delitto Nel suo lungo monologo, appena inframmez- zato dalle scarne battute di Sonja, Raskolnikov tenta di ricostruire i processi interiori che lo hanno portato al delitto: ma è confuso, si con traddice, si corregge continuamente, non riuscendo a spiegarsi come vorrebbe, anzi a chia rire a se stesso i propri impulsi. Il giovane studente è come in preda a un «cupo entusia smo», il suo discorso appare convulso e febbrile, quasi un delirio, per cui risulta incoerente e oscillante fra diverse spiegazioni. Prima Raskolnikov, per giustificare il suo gesto, si appiglia al modello di Napoleone: il grande uomo, se la vecchia fosse stata un ostacolo alla sua ascesa, non avrebbe esitato dinanzi al delitto. Ma poi rinuncia a questa giustificazione, ricorrendo a motivazioni più meschine e materiali, la necessità di pagarsi gli studi, di uscire dallo squallore della sua vita misera, preparandosi a una carriera. Il suo giudizio sul delitto muta nel giro di poche parole: prima egli riconosce di aver fatto male a uccidere la vecchia, ma subito dopo, in modo contraddittorio, ribadisce la liceità del suo gesto, adducendo come motivazione il fatto che la vittima era «un pidocchio», un essere «inutile, schifoso, nocivo», per poi di nuovo smentirsi alle rimostranze sdegnate di Sonja. Ritorna allora ad analizzare le condizioni che l’hanno portato al delitto, il suo degradarsi nella miseria, il suo «incattivirsi», che lo aveva fatto precipitare in una sorta di cupa depressione e lo aveva indotto a chiudersi in un feroce isolamento nella propria topaia. È da questa profonda frustrazione che sorgono le sue concezioni superomistiche (già peraltro intuibili dal riferimento al modello napoleonico): il disprezzo per l’umanità comune e l’esaltazione di colui che è capace di «osare», quindi di diventarne il «dominatore» e il «legislatore». Così l’intellettuale, relegato a una vita miserabile, tenta di riscattare la sua rea le condizione attraverso un delirio di onnipotenza, trasfigurando uno squallido gesto delittuoso in un’azione eroica, che pone chi la compie al di sopra degli uomini meschini. La presa di coscienza Ai deliri dell’intellettuale frustrato si contrappone, in una netta antitesi, la fede semplice dalla creatura ingenua e pura, Sonja, che mette in crisi le mistificazioni dell’interlocutore. Allora il giovane è indotto a confessare i propri dubbi tormentosi, da cui trapela la consapevolezza di non Davide Peccioli 41 essere un «Napoleone», quell’essere superiore e dominatore con cui si compiaceva di identificarsi. Si rende conto che la ragione vera che l’ha spinto al delitto era la necessità di tentare una prova, cioè di sapere se era un «pidocchio» come tutti, oppure «un uomo»: e ha scoperto appunto di essere «un pidocchio» come tutti gli altri. Per cui in realtà non ha ucciso la vecchia, ma se stesso. Quindi non c’è in lui, per ora, un vero pentimento per ciò che ha fatto, solo un senso di sconfitta delle sue smisurate illusioni e un disprezzo di sé. E cerca di scacciare il senso di colpa accusando il diavolo di averlo trascinato al delitto, per cui sostiene che è stato il diavolo a uccidere la vecchia, non lui. Questa lacerazione devastante della coscienza è una condizione ricorrente negli eroi dostoievskiani, e si traduce spesso in forme narrative come questa, monologhi dei personaggi, confessioni in cui essi scavano nei recessi più segreti e più torbidi della loro psiche, nonrisparmiando nulla a se stessi, per cercare di portare alla luce e districare il groviglio degli impulsi più vergognosi (il «sottosuolo» a cui allude uno dei romanzi più famosi dello scrittore, Memorie del sottosuolo). Davide Peccioli Giovanni Verga Autore di una rivoluzione nel modo di narrare, contemporaneo a Zola. Vita • p. 186-189 : Vita, romanzi preveristi e svolta verista Nasce nel 1840 a Catania, negli stessi anni di Zola, da una famiglia nobile e benestante. Compie studi privati, in cui riveste una grande importanza il suo abate. Inizia l’università, per poi abbandonarla in favore della letteratura: si appassiona della letterautra francese. Verga sente la necessità di sprovincializzarsi, così abbandona la Sicilia e si reca a Firenze, dove compone Storia di una capinera. Nel 1878 ha una svolta verista, che avviene con la pubblicazione di Rosso Malpelo. Avviene a Milano, dove in un primo momento ha frequentato l’am- biente della scapigliatura. La sua produzione sarà affine ai gusti del movimento, con ambienti aristocratici, romanticismo, Femme Fatale. A Milano: • 1878: Rosso Malpelo, una novella completamente verista • 1883: I Malavoglia • 1889: Mastro Don Gesualdo: stesso anno del Piacere di D’Annunzio. Abbandona la letteratura: • 1903: ritorna definitivamente in Sicilia; da questo anno in avanti avrà un periodo buio, con problemi economico finanziari: abbandona la letteratura. • 1922: muore; questo è l’anno della marcia su Roma e dell’avvento del Fascismo. Il verismo ha dato una grande svolta al narratore. È d’obbligo il confronto con Manzoni: in Manzoni il narratore è onnisciente, e presenta i personaggi umili; per far parlare i suoi personaggi, egli utilizza il discorso diretto, oppure l’indiretto libero. 45 46 Giovanni Verga Passione per la fotografia Negli ultimi anni della sua vita, Verga scopre una passione per la fotografia, che lo porta a fare moltissime foto. Questo ha una relazione con la sua tecnica del verismo, in quanto è la realtà immortalata così com’è. Darwinismo sociale Verga rappresenta la lotta per la vita; egli presenta un pessimismo assoluto: a qualsiasi livello, per la lotta per la vita i più deboli soccombono. Verga pensa che il progresso lascia i suoi cadaveri, distrugge i più deboli, nonostante da lontano sembri positivo. Nelle classi sociali più alte la lotta è mimetizzata. Verga non riesce a chiudere il ciclo dei vinti. Poetica e tematiche Regressione del narratore • p. 190-191 : Poetica e tecnica narrativa del Verga verista Rappresenta l’eclissi dell’autore. L’autore non si serve più del narratore per parlare, quindi bisogna effettuare un cambiamento al narratore stesso: dal punto di vista ideologico e culturale è diverso dall’autore. Verga non si identifica mai con il narratore. Non abbiamo un’unica focalizzazione, e non è sempre quella del protagonista. In Verga il narratore si confonde con il popolo e con i personaggi. Il punto di vista dell’autore si capisce da alcuni aggettivi giudicanti. L’opera sembra fatta da sé. Questo porta al disorientamento del lettore T: Impersonalità e regressione Farina è un amico letterario e un critico: Verga gli racconta l’idea di opera fatta da sé. Si presenta il tema del narratore inattendibile . Il narratore, intervenendo con dei commenti, si identifica con la mentalità dei personaggi, dando spesso interpretazioni scorrette. Verga non utilizza il dialetto, ma fa molto uso di proverbi e modi di dire, utilizzando espressioni dialettali. Inoltre, nella struttura sintattica, viene evidenziato l’uso del che polivalente. Nella descrizione delle classi sociali elevate, il narratore è diverso. Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così Davide Peccioli 47 come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti mo- numenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto le- game oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uo- mo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi? Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine. La consapevolezza teorica di Verga È, con la Prefazione ai Vinti, l’unico testo teorico che Verga abbia pubblicato; tutto il resto della sua riflessione sulla scrittura letteraria è affidato a lettere private, non destinate alla stampa, o è ricostruibile da interviste giornalistiche. Ciò testimonia il pudo re e il rigore di Verga: egli voleva parlare attraverso le sue realizzazioni artistiche concrete, senza sbandierare sulla scena letteraria teorie più o meno suggestive o provocatorie. Per questo è durato a lungo il pregiudizio di un Verga “debole di idee", sprovveduto Davide Peccioli 50 Giovanni Verga Il filtro intellettuale e la posizione straniata Ma con questa visione ro- mantica e mitizzante contrasta il proposito affermato subito dopo: Verga non vuole un’immersione nostalgica in quel mondo (che pure sarebbe la sua prima tentazione), ma una rappresentazione a distanza, attraverso un filtro intellettua- le. È questo che preserva Verga, nel romanzo, dall’idillio campagnolo e dalla mitizzazione idealizzante del mondo rurale. Ma lo preserva anche da una forma di “verismo" come riproduzione puramente mimetica, “fotografica", che annul- lerebbe ogni distacco critico dall’oggetto. Verga vuole dare una «ricostruzione intellettuale», a distanza, della vita popolare siciliana, per mantenersi in una posizione straniata, criticamente vigile. È un principio fondamentale per capire la rappresentazione verghiana della realtà. T: L’«eclissi» dell’autore e la regressione nel mon- do rappresentato I personaggi si fanno conoscere con le azioni. Verga in questo periodo (’78) si interessa dei documentari e dei saggi gior- nalistici che mettevano in luce la questione meridionale, specie per l’aspetto delle condizioni sociali. Il testo Inchiesta in Sicilia mette in luce la mafia, la violenza e il lavoro minorile (estratto p. 224 ) Lettere meridionali sono di Vivari, uno storico del meridione. Sono con- siderate il manifesto del movimento meridionalista: sono articoli che l’autore invia ad un amico che lavorava per un giornale; mettono per la prima volta in luce il problema. Sono accolte con molta criticità a causa dei toni esagerati. Passo A Avevo un bel dirmi che quella semplicità di linee, quell’uniformità di toni, quella certa fusione dell’insieme che doveva servirmi a dare nel risultato l’effetto più vigoroso che potessi, quella tal cura di smussare gli angoli, di dissimulare quasi il dramma sotto gli avvenimenti più umani, erano tutte cose che avevo volute e cercate apposta e non erano certo fatte per destare l’interesse ad ogni pagina del racconto, ma l’interesse doveva risultare dall’insieme, a libro chiuso, quando tutti quei personaggi si fossero affermati sì schiettamente da riapparirvi come persone conosciute, ciascuno nella sua azione. Che la confusione che dovevano produrvi in mente alle prime pagine tutti quei personaggi messivi faccia a faccia senza nessuna presentazione, come li aveste conosciuti sempre, e foste nato e vissuto in mezzo a loro, doveva scomparire mano mano col pro gredire nella lettura, a misura che essi vi tornavano davanti, e vi si affermavano con nuove azioni ma senza messa in scena, semplicemente, naturalmente, era artificio voluto e cercato anch’esso, per evitare, perdonami il bisticcio, ogni artificio letterario, per darvi l’illusione completa della realtà. Tutte buone ragioni, o scuse di chi non si sente sicuro del fatto suo; Davide Peccioli 51 e sai che l’inferno è lastricato di buone intenzioni. Capirai dunque com’ero inquieto non solo sul valore che avrebbe accordato il pubblico a queste inten zioni artistiche, giacché le intenzioni non valgono nulla, ma sul risultato che avrei saputo cavarne nell’ottenere dal lettore l’impressione che volevo. Passo B Caro Pessimista, con me tu non sei tale, anzi temo che la tua benevolenza non ti faccia essere assolutamente il contrario. Ho letto il giudizio che dai nel Sole dei miei Malavoglia e mi ha fatto un gran piacere il vedere quello che tu pensi del mio libro, e l’essere riuscito in parte ad incarnare il mio concetto agli occhi di un critico fine e imparziale come te. So anch’io che il mio lavoro non avrà un successo di lettura, e lo sapevo quando mi son messo a disegnare le mie figure col proposito artistico che tu approvi. Il mio solo merito sta forse nell’avere avuto il coraggio e la coscienza di rinunziare ad un successo più generale e più facile, per non tradire quella forma che sembrami assolutamente necessaria’. [...] Io mi son messo in pieno, e fin dal principio, in mezzo ai miei personaggi e ci ho condotto il lettore, come ei li avesse tutti conosciuti diggià, e più vissuto con loro e in quell’ambien te sempre. Parmi questo il modo migliore per darci completa l’illusione della realtà; ecco perché ho evitato studiatamente quella specie di profilo che tu mi suggerivi pei personaggi principali. Certamente non mi dissimulavo che una certa confusione non dovesse farsi nella mente del lettore alle prime pagine; però man mano che i miei attori si fossero affermati colla loro azione essi avrebbero acquistato maggior rilievo, si sarebbero fatti conoscere più intimamente e senza artificio, come persone vive, il libro tutto ci avrebbe guadagnato nell’impronta di cosa avvenuta. Ecco la mia ambizione e il peccato che mi rimproveri. D’esserci riuscito non mi lusingo, ma lasciami pensare ancora che il concetto è perfettamente coerente ai nostri criteri artistici, e non mi dire che sono più realista del re. Passo D Devo a Lei il più bello ed importante articolo critico che sia stato scritto sui Malavoglia. Io non avrei potuto augurarmi encomio maggiore di quello che Ella mi fa dicendo co testo romanzo perfet- tamente obbiettivo ed impersonale. Sì, il mio ideale artistico è che l’autore s’immedesimi talmente nell’opera d’arte da scomparire in essa. Vorrei quasi che un romanzo arrivasse a non portare il nome del suo autore, si affermasse da sé, come vivente per un organismo proprio e necessario, producesse quell’illusione potente dell’essere stato, che hanno le epopee dei rapsodi e tutte le figure schiette della Davide Peccioli 52 Giovanni Verga poesia popolare. E in questa obbiettività efficacissima della rappre- sentazione artistica, Zola istesso, così grande e possente, ha ancora della debolezza pel gusto colorista della nuova scuola letteraria fran- cese, per la sua mirabile abilità di descrizioni [...]. A me è parso che la descrizione nei Malavoglia doveva essere tanto più sobria, quanto meno è il sen timento della natura in quegli uomini primitivi, e del resto la più rigorosa efficacia parmi stia sempre nella sobrietà. Quegli uomini io ho cercato di riprodurli nella loro genuina originalità mettendomi completamente nel loro ambiente, il più che ho potuto, rendendoli tali quali senza farli passare per nessuna preoccupazione artistica. Sono lietissimo di vedere che negli occhi di Lei ci sono riuscito, almeno in gran parte, e che Ella mi dia ragione in cotesto primo tentativo, che in Italia può passare per disperato, di farli parla- re con la loro lingua inintellegibile a gran parte degli Italiani, almeno di dare la fisionomia del loro intelletto alla lingua che essi parlano. Certuni mi addebitano di non aver separato in questo metodo la parte dello scrittore da quella dei suoi personaggi; e se arrivano a concedermi venia per l’ardimento in questo, avrebbero voluto che per la diversa intonazione dello stile lo scrittore avesse fatto sentire ogni venti linee: ora son io che parlo. La questione [...] si riannoda a quel che ho detto in principio, e parmi che non possa sussistere un momento l’illusione della completa immedesima zione col soggetto senza dare un’uniforme intonazione a tutta l’opera, senza eclissare completamente lo scrittore. Passo E Se dovessi fare a voi, amico, e non pel pubblico le mie confessioni letterarie, direi soltan to questo: – che ho cercato di mettermi nella pelle dei miei personaggi, vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole – ecco tutto. Questo ho cercato di fare nei Malavoglia e questo cerco di fare nella Duchessa in altro tono, con altri colori, in diverso ambiente. E qui cade in acconcio quel che disse Goncourt che le scene e le persone del popolo sono più facili a ritrarsi, perché più caratteristici e semplici - quanto complicati e tutti esprimentisi per sottintesi sono le classi più elevate, massime se si deve tener conto di quella specie di maschera e di sordina“ che l’educazione impone alla manifestazione degli stessi sentimenti, e alla vernice quasi uniforme che gli usi, la moda, il linguaggio quasi uniforme nella stessa società tendono a rendere pressoché internazionale in una data società. E massime nel mio metodo - che Dio m’assista per questa Duchessa! Eclisse dell’autore e regressione I cinque passi contengono la descrizione più chiara dei procedimenti in cui, secondo Verga, doveva tradursi il principio dell’impersonalità: soprattutto l’«eclisse» dello scrittore e la regressione del punto di vista narrativo entro la realtà rappresentata. L’obiettivo primario di Verga è Davide Peccioli 55 di vita. Poco a poco, nel corso della novella, la focalizzazione si focalizzerà su di lui Qui possiamo vedere un procedimento tipico della narrazione popolare, spesso orale: talvolta delle sequenze riprendono la fine di quelle precedenti Era morto così , che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo 5, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno 5. a tempo dell’ingrottato, e dacchè non serviva più, s’era calcolato, cosi ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione6 come mastro 6. Verga non considera Mastro Misciu un minchione. È un uomo buono, che vuole bene al figilio; il giudizio del narratore è inattendi- bile. Mastro Misciu è buono, e non mena le mani. Malpelo fa le occhiatacce ai molestatori Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: — Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre. Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttochè fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato. Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che 7 l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni 7. che polivalente, tipico del dialetto sicilianoavevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli “ah! ah!” dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: — Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! — e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il cottimante! Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: “Tirati in là!” oppure “Sta attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa!” Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorchè fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense. Davide Peccioli 56 Giovanni Verga L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia! Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero. — To’ ! — disse infine uno. — E Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? — Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia.... Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicchè nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacchè, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrasse nelle orecchie8, dall’altra parte8. ha ancora speranza che il padre sia vivo della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perchè i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: Davide Peccioli 57 — Così creperai più presto! Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo9, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello 9. A causa della reazione di Malpelo, egli viene paragonato al diavolo di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, e che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ci si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele,10 e sembrava che 10. da questo momento Malpelo si separa dalla società, e inizia a sviluppare una sua filosofia di vita si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre11, e del modo in cui 11. Qui Rosso Malpelo sta acqui- sendo una certa lucidità, denun- ciando e accorgendosi di una certa irregolarità: sviluppa un sentimen- to malevolo nei confronti di tutti coloro che non hanno fatto nulla per il padre l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: “Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perchè egli non faceva così!” E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: “È stato lui! per trentacinque tarì!” E un’altra volta, dietro allo Sciancato: “E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!” Per un raffinamento di malignità12 sembrava aver preso a proteggere 12. il narratore inattendibile non comprende le ragioni di Rosso Mal- pelo, e da la ragione delle sue azio- ni alla malignità; vi sono continui cambi di focalizzazione, da Rosso Malpelo ad agente esterno: que- sto pone il lettore in una posizione di critica attenta, in quanto deve capire. un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: — To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male13, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo 13. dice esattamente che gli vuole bene, nonostante i metodi siano discutibili e da quello! O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: — Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! 14 — Quando cacciava un asino carico per la 14. Verga non vuole dare una immagine confezionata del ragaz- zo, ma semplicemente raffigurare una realtà in cui anche i poveri sono violenti, non beatificati: è una visione estremamente lucida e pessimista. ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: — L’asino va picchiato, perchè non può picchiar lui; e s’ei potesse Davide Peccioli 60 Giovanni Verga sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare nè i calzoni quasi nuovi, nè il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra. Dacchè poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perchè il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l’aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt’ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. “Proprio come suo figlio Malpelo! — ripeteva lo sciancato — ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là.” Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo19.19. rinterpretazione della realtà del narratore Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, chè stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacchè rimpiccolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto. 2020. focalizzazione di Malpelo, fino alla fine di questo brano, in cui ritorna lo straniamento (cervellaccio) Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il Davide Peccioli 61 mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. Ei possedeva delle idee strane, Malpelo21! Siccome aveva ereditato 21. Malpelo ha dei bei sentimen- ti nei confronti del padre, ma il narratore non riesce a concepir- li, in quanto è permeato di una visione utilitarista e materialista, caratteristica di tutta la società anche il piccone e la zappa del ladre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. — Così si fa, — brontolava Malpelo; — gli arnesi che non servono più, si buttano lontano. Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. — Vedi quella cagna nera, — gli diceva, che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perchè ha più fame degli altri22. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più. 22. vige la legge del più forte L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire la ripida viuzza. — Ecco come vanno le cose23! Anche il grigio ha avuto 23. è molto significativa, perché è la dichiarazione di Malpelo: è l’espressione della sua filosofia dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: — Non più! non più! — Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio . La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato da giovane, e n’era uscito coi Davide Peccioli 62 Giovanni Verga capelli bianchi, e un altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni. — Egli solo ode le sue stesse grida! — diceva, — e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva. — Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà. Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente — perchè allora la sciara sembra più brulla e desolata. — Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, — pensava Malpelo, — dovrebbe essere buio sem pre e da per tutto. La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: — Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perchè non può andare a trovarli. Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perchè chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate. — Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti, — gli diceva, — e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, nè dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti. Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. “Chi te l’ha detto?” domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma. Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. “Tua madre ti dice così perchè, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella.” E dopo averci pensato su un po’: — Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io . Davide Peccioli 65 nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicchè nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, nè avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo. Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicchè pensarono a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: nè più si seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. L’impostazione narrativa rivoluzionaria Il racconto occupa una posizione fondamentale nell’arco dell’opera verghiana: è infatti il testo che dà inizio alla fase "verista" dello scrittore. Subito la frase iniziale evidenzia la rivoluzionaria novità dell’impostazione narrativa verghiana: affermare che Malpelo ha i capelli rossi «perché era un ragazzo malizioso e cattivo» è una stortura logica, che rivela un pregiudizio superstizioso, proprio di una mentalità primitiva. La voce che racconta non è dunque al livello dell’autore reale, non è portavoce della sua visione del mondo, ma è al livello dei personaggi, è interna al mondo rappresentato. L’apertura del racconto presenta immediatamente il procedimento della "regressione", mediante cui si attua il basilare principio dell’impersonalità. Scompare il narratore onnisciente, portavoce dello scrittore stesso, che era l’elemento caratterizzante della narrativa del primo Ottocento, in Manzoni, Scott, Balzac. Non essendo onnisciente, ma portavoce di un ambiente popolare primitivo e rozzo, il narratore di Rosso Malpelo non è depositario della verità, come è proprio dei narratori tradizionali. Difatti ciò che ci dice del protagonista non è attendibile: il narratore non capisce le motivazioni dell’agire di Malpelo, le deforma sistematicamente. Alcuni esempi sono molto evidenti. Dopo la morte del padre nel crollo della galleria Rosso scava con accanimento, ed ogni tanto si ferma, ascoltando. È facile intuire che scava nella speranza di riuscire ancora a salvare il padre e si ferma cercando di udire la sua voce al di là della parete di sabbia; ma il narratore non capisce questi suoi sentimenti filiali e attri buisce il suo comportamento, in base al pregiudizio del "Malpelo", alla sua strana cattiveria («sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussurrasse negli orecchi»). Più avanti, Malpelo tributa un vero e proprio culto alle reliquie del padre morto, gli strumenti di lavoro, i calzoni, le scarpe: ciò dimostra in lui un attaccamento profondo, una pietà filiale per l’unica persona che gli voleva bene. Anche qui è facile intuire che cosa si muova nel suo animo, dolore, rimpianto. Ma ancora una volta il comportamento del personaggio resta Davide Peccioli 66 Giovanni Verga impenetrabile al narratore, che riflette la visione ottusa e disumanizzata di un ambiente duro come quello della cava («rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio»). Infine, Rosso prende a ben volere Ranocchio, lo protegge, gli vuole insegnare le leggi brutali che regolano la vita e si toglie il pane di bocca per darlo all’amico. Il narratore interpreta, riproducendo evidentemente l’opinione corrente nella cava: «per prendersi il gusto di tiranneggiarlo». La funzione delle soluzioni narrative Qual è la funzione di questo siste- matico stravolgimento della figura del protagonista? È evidente dal montaggio del racconto che Rosso, pur essendosi formato nell’ambiente disumano della cava, ha conservato alcuni valori autentici, disinteressati: la pietà filiale, il senso della giustizia (si sdegna contro il padrone, responsabile dell’omicidio bianco” di cui il padre è stato vittima), l’amicizia, la solidarietà altruistica. Il punto di vista del narratore "basso", con le sue deformazioni e incomprensioni, esercita su questi valori un processo di straniamento; fa apparire strano, incomprensibile, ciò che dovrebbe essere normale, i sentimenti autentici, i valori. Ciò deriva dal fatto che il narratore è il portavoce della visione di un mondo disumano, che ignora i valori e conosce solo l’interesse e la forza. Lo straniamento che scaturisce dall’accettazione del punto di vista che domina la realtà oggettiva ha così la funzione di negare i valori, di mostrarne l’impratica- bilità in un mondo dominato dal meccanismo brutale della lotta per la vita, che non lascia alcuno spazio ai sentimenti disinteressati. L’artificio narrativo è quindi gravido di significato: con la scelta di narrare dal punto di vista degli operai della cava, Verga esprime tutto il suo pessimismo. Ma si verifica anche uno straniamento in senso inverso, nei confronti del narratore: poiché chi conduce il racconto è proprio chi è portatore di quella visione disumana, ciò che do vrebbe essere strano, l’insensibilità totale ai valori, finisce per apparire normale: ciò de nuncia con incisiva evidenza, sempre senza interventi giudicanti dal punto di vista dell’autore, lasciando parlare le cose stesse, lo stravolgimento profondo che domina nella visione del mondo di quell’ambiente e nei rapporti sociali che lo regolano (Luperini). Non va dimenticato che si tratta di un ambiente popolare: ciò dimostra come qui il mondo rurale non sia affatto mitizzato nostalgicamente come paradiso di innocenza e autenticità, ma sia dominato dalle stesse leggi che regolano anche gli strati più evoluti, la società delle «Banche» e delle «Impre- se industriali». Questa soluzione costituisce la smentita amara delle tendenze romantiche che erano presenti in Verga nei confronti del mondo popolare Il punto di vista di Malpelo Non tutto il racconto è però impostato sull’ef- fetto di deformazione e straniamento della fi gura del protagonista. Se nella prima parte Malpelo è visto solo dall’esterno, dal punto di vista ottuso e malevolo del suo ambiente e le motivazioni dei suoi atti restano incompren sibili al narratore (sicché solo per induzione il lettore le può ricostruire), nella seconda parte emerge il punto di vista del protagonista stesso, e possiamo allora sapere che cosa pensa e che cosa sente. Davide Peccioli 67 Affiora così la visione cupa e pessimistica del ragazzo indurito dalla disuma- nità di quella vita di fatiche, patimenti e angherie. Rosso ha colto perfettamente l’essenza della legge che regola tutta la realtà, quella sociale come quella naturale: la lotta per la vita, in cui prevale il più forte e il più debole rimane schiacciato. E su questa presa di coscienza regola tutta la sua condotta. Nelle vesti del povero garzone di una cava si delinea perciò la figura di un eroe intellettuale, portatore di una consapevolezza lucida dei meccanismi di una realtà tragica quanto immo- dificabile. In lui si proietta evidentemente il pessimismo dello scrittore stesso, la sua visione lucida ma disperatamente rassegnata della negatività di tutta la realtà, sociale e naturale. Verga non sa proporre alternative, però conserva un distacco conoscitivo che gli consente di rappresentare con straordinaria acutezza quella negatività. Si può cogliere allora l’importanza dell’impostazione narrativa della novella, che inaugura tutto il modo di narrare del Verga verista: la materia in astratto (i patimenti di un povero orfano incompreso e maltrattato) potrebbe essere quella di un racconto umanitario, edificante e patetico, teso a suscitare facile commozione, come ce ne sono tanti nella letteratura ottocentesca. Ma il modo in cui viene raccontata trasforma Rosso Malpelo in un’analisi dura e impietosa delle leggi sociali, dotata di altissimo valore conoscitivo e critico. I Malavoglia • p. 228 - Il ciclo dei vinti • p. 233-236 Fa parte del ciclo dei vinti . Ad un certo punto, Verga, sul modello di Zola decide di scrivere un ciclo di romanzi, originariamente 5. I primi due saranno completati, mentre il terzo rimarrà a metà. Quarto e quinto non saranno mai scritti. Il tema centrale dei Malavoglia è la lotta per la vita . Verga decide che vuole esprimere attraverso questo ciclo di romanzi questa sorta di darwinismo sociale che è la lotta per l’esistenza, e che secondo lui si evince in qualsiasi classe sociale. Nelle classi sociali più basse è una lotta per la sussistenza, mentre nelle classi più alte diventa una lotta per il potere, etc etc. Ad ogni livello questa lotta si conclude con la sconfitta dei più deboli. Verga propone l’immagine de la fiumana del progresso . Il tema del progresso è un concetto molto significativo per Verga. Verga non nega che ci sia un progresso, ma lascia delle vittime col suo passaggio: le vittime sono i più deboli. Visto da lontano è progresso, ma quando poi ci si avvicina e si vedono i cadaveri è difficile vederlo come qualcosa di positivo. Il suo intento è di fotografare nelle varie classi sociali questa lotta. Davide Peccioli 70 Giovanni Verga nismo tra individui, gruppi e classi: le leggi che la regolano sono la sopraffazione del più forte sul più debole e l’interesse individuale. E questa condizione è un dato di natura, sostanzialmente eguale in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Microsaggio: Lo straniamento Una definizione Nelle opere veriste di Verga troviamo abbondantemente usato il procedimento narrativo dello straniamento. Esso fu definito teoricamente dai formalisti russi degli anni Venti, una corrente critica i cui rappresentanti principali erano Viktor Šklovskij, Boris Ejchenbaum, Jurij Tynjanov, Boris Tomaševskij e che insisteva sugli aspetti tecnici e formali dell’arte, giungendo addirittura a identificare l’arte con l’«artificio, cioè con i procedimenti tecnici mediante cui si costruisce il discorso letterario. Lo straniamento consiste nell’adottare, per narrare un fatto e descrivere una persona, un punto di vista completamente estraneo all’oggetto. Famoso ad esempio è un racconto di Tolstoj, Cholstomer, in cui i rapporti umani sono riflessi nell’ipotetica psicologia di un cavallo. Il risultato è che le cose più abituali, "normali", presentate attraverso un punto di vista estraneo, appaiono insolite, strane, incomprensibili. Lo straniamento nell’opera verghiana Questo avviene frequentemente nei racconti e nei romanzi verghiani. Nei Malavoglia ad esempio i sentimenti autentici e disinteressati che sono propri dei protagonisti vengono spesso filtrati attraverso il punto di vista della collettività del villaggio che a quei valori è completamente insensibile e che giudica solo in base al principio dell’interesse economico e del diritto del più forte. Di conseguenza ciò che è "normale", secondo la scala di valori universalmente accettata e partecipata dal lettore, finisce per apparire "strano", subisce una deformazione che ne stravolge la fisionomia. Ad esempio l’onestà di padron ’Ntoni, che pur di non mancar di parola riguardo al debito lascia che la sua casa venga pignorata, si trasforma in una vera e propria truffa nell’ottica stravolta di padron Cipolla, che accettava per nuora Mena Malavoglia solo se portava in dote delle proprietà; e sempre per lo stesso motivo padron ’Ntoni viene giudicato «minchione» dalla comunità, perché incapace di fare i suoi affari; cosi pure la purezza dei sentimenti che uniscono Alfio e Mena viene deformata dall’ottica grosso lana di zio Crocifisso in una «rabbia di maritarsi»; e gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Questo tipo di straniamento compare quando sono in scena personaggi "ideali", come i Malavoglia, che sono l’antitesi del punto di vista dominante della narrazione. Ma quando sono in scena i loro antagonisti, i personaggi gretti, meschini e insensibili sino alla crudeltà che compongono il "coro" del villaggio, si verifica una forma di straniamento per così dire "rovesciata": infatti, siccome il punto di vista di chi racconta è perfettamente in armonia con quello dei personaggi, il loro comportamento ottuso e crudele, invece di apparire nella sua vera luce, viene presentato come se fosse normale, o addirittura degno di approvazione. Come si vede è questo l’esatto rovescio del procedimento abituale dello straniamento, che abbiamo prima indicato: là ciò che era "normale" appariva "strano", qui ciò che è "strano" appare "normale" (tale procedimento Davide Peccioli 71 è stato individuato in Verga da R. Luperini, L’orgoglio e la disperata rassegnazione, Savelli, Roma 1974). Si veda ad esempio l’episodio già citato del pignoramento della casa del nespolo: il comportamento abietto di Piedipapera, che fa da prestanome a zio Crocifisso per spogliare i Malavoglia e va in giro dicendo che essi sono «una manica di carogne», disonesti, avari e prepotenti, è guardato dal "narratore" popolare come se fosse cosa ovvia e giusta, senza il minimo moto di ripugnanza e di critica. Questa connivenza tra il "narratore" e la crudeltà o l’avidità interessata di un personaggio è forse esemplificata nella maniera più chiara e persuasiva nella novella La roba: qui il "narratore" non dimostra mai riprovazione nei confronti di Mazzarò e dei metodi da lui usati per arricchire la sua avarizia, la sordità ad ogni affetto familiare, la brutalità nei confronti dei lavoranti, la disumanità verso i fittavoli rovinati e ridotti alla fame dal suo contegno di usuraio, le malversazioni e i raggiri; anzi il comportamento di Mazzarò non appare solo "normale", ma addirittura eroico e degno di encomio. Trama Nel romanzo c’è una famiglia di pescatori, composta da un nonno, suo figlio e i nipoti. La famiglia Malavoglia, ed in particolare il nonno, è il depositario di quei valori che Verga ritiene positivi . È uno dei pochissimi personaggi di Verga che ci permette di comprendere la posizione di Verga rispetto a determinati valori: la correttezza, l’onestà, il senso della famiglia, del lavoro, il rispetto della parola data. Questo non significa che Verga proponga i valori positivi del nonno come valori accettabili e proponibili: sarà proprio lui, infatti, a distruggere la famiglia . Il suo tentativo di migliorare la condizione della famiglia, andando volontario a fare servizio di leva, inizieranno i problemi, dovuti principalmente alla carenza di braccia e di forza-lavoro. Padron ’Ntoni (il nonno) per far del bene decide di lasciarsi tentare dal commercio dei lupini. Questa è l’inizio della rovina. Dovranno poi vendere la casa e la barca perché vuole mantenere la parola data. La famiglia subisce un declassamento sociale ed economico. Egli morirà, alla fine, in quel famoso ospedale in cui non avrebbe mai voluto andare. La visione di Verga è estremamente pessimistica. All’interno della famiglia i valori opposti sono rappresentati dal nonno ’Ntoni e dal nipote ’Ntoni, attratto dalla modernità. All’interno del villaggio, invece, la famiglia Malavoglia rappresenta i valori positivi, in contrasto con i valori negativi diffusi nel villaggio. Con lo straniamento, infatti, il narratore, descrivendo i Malavoglia negativamente (padron ’Ntoni viene definito minchione), assume la focalizzazione corale del resto del villaggio. T: Il mondo arcaico e l’irruzione della storia Prima dell’unificazione italiana questo mondo arcaico sembra quasi immobile, mentre dopo tutto cambia Davide Peccioli 72 Giovanni Verga Lo stesso Verga aveva detto di non voler usare un narratore onnisciente che parli e racconti, ed infatti in questa introduzione vediamo come la famiglia sia presentata quasi da un passante. Successivamente i personaggi si introdurranno da soli Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poichè da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. [...] Diceva pure: — Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo. 1 —1. Uno dei momenti in cui Verga descrive la mentalità e il pensiero di Padron ’Ntoni E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perchè era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sóffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perchè stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora nè carne nè pesce. — Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perchè il motto degli antichi mai mentì»: — «Senza pilota barca non cammina» — «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» — oppure — «Fa il mestiere che sai, che se non Davide Peccioli 75 di madre, e significativo è il dolente silenzio di Bastianazzo, che non ha l’animo di aprir bocca dinanzi alla sventura. T: I Malavoglia e la comunità del villaggio: valori ideali e interesse economico Qui c’è lo straniamento rovesciato: Zio crocifisso appare come personaggio positivo, a causa della focalizzazione. Egli è un usuraio. Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza, e lo zio Crocifisso non si contentava di «buone parole e mele fradicie», per questo lo chiamavano Campana di legno, perchè non ci sentiva di quell’orec- chio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e’ diceva che «alla credenza ci si pensa». Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano, e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì glieli prestava subito, col pegno, perchè «chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno» a patto di averli restituiti la domenica, d’argento e colle colonne, che ci era un carlino dippiù, com’era giusto, perchè «coll’interesse non c’è amicizia». Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, ma dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro1, chè era cristiano e 1. si prendeva tutto: enumerazioni e congiunzioni ripetitive, con forte uso dell’ironia di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo2, e senza 2. termine religioso; particolar- mente significativo il fatto che aves- se materiale per andare per mare senza andarci davvero: andare per mare era pericoloso essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo — e quando gli dicevano perchè non ci andasse lui a rischiare la pelle come tutti gli altri, che si pappava il meglio della pesca senza pericolo, rispondeva: — Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei? — Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perchè era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che «Quel che è Davide Peccioli 76 Giovanni Verga di patto non è d’inganno», oppure «Al giorno che promise si conosce il buon pagatore». Ora i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo; e gli toccava anche recitare il deprofundis per l’anima di Bastianazzo, quando si facevano le esequie, insieme con gli altri confratelli della Buona Morte, colla testa nel sacco. [...] La casa del nespolo era piena di gente; e il proverbio dice: «triste quella casa dove ci è la visita pel marito!» Ognuno che passava, al vedere sull’uscio quei piccoli Malavoglia col viso sudicio e le mani nelle tasche, scrollava il capo e diceva: — Povera comare Maruzza! ora cominciano i guai per la sua casa! Gli amici portavano qualche cosa3, com’è l’uso, pasta, ova, vino e3. si parla della giornata del con- solo; il narratore ha appena de- scritto la situazione della famiglia, disperata per la morte del figlio; all’esterno della casa dialoghi mo- strano la grettezza e l’insensibilità del resto della comunità. ogni ben di Dio, che ci avrebbe voluto il cor contento per mangiarsi tutto, e perfino compar Alfio Mosca era venuto con una gallina per mano. — Prendete queste qua, gnà Mena, — diceva, — che avrei voluto trovarmici io al posto di vostro padre, vi giuro. Almeno non avrei fatto danno a nessuno, e nessuno avrebbe pianto. La Mena, appoggiata alla porta della cucina, colla faccia nel grembiule, si sentiva il cuore che gli sbatteva e gli voleva scappare dal petto, come quelle povere bestie che teneva in mano. La dote di Sant’Agata se n’era andata colla Provvidenza, e quelli che erano a visita nella casa del nespolo, pensavano che lo zio Crocifisso ci avrebbe messo le unghie addosso. Alcuni se ne stavano appollaiati sulle scranne, e ripartivano senza aver aperto bocca, da veri baccalà che erano; ma chi sapeva dir quattro parole, cercava di tenere uno scampolo di conversazione, per scacciare la malinconia, e distrarre un po’ quei poveri Malavoglia i quali piangevano da due giorni come fontane4. Compare Cipolla4. giorno del consolo: cerimonia che si svolge quando c’è lutto in casa di defunti, amici portano cibo raccontava che sulle acciughe c’era un aumento di due tarì per barile, questo poteva interessargli a padron ’Ntoni, se ci aveva ancora delle acciughe da vendere; lui a buon conto se n’era riserbati un centinaio di barili; e parlavano pure di compare Bastianazzo, buon’anima, che nessuno se lo sarebbe aspettato, un uomo nel fiore dell’età, e che crepava di salute, poveretto! 55. rapporto ossimorico tra i Ma- lavoglia e il resto della comunità; crepava di salute: espressione fuori luogo [...] Don Silvestro per far ridere un po’ tirò il discorso sulla tassa di successione di compar Bastianazzo, e ci ficcò così una barzelletta che aveva raccolta dal suo avvocato, e gli era piaciuta tanto, quando gliel’avevano spiegata bene, che non mancava di farla cascare nel discorso ogniqualvolta si trovava a visita da morto. — Almeno avete il piacere di essere parenti di Vittorio Emanuele, giacchè dovete dar la sua parte anche a lui! Davide Peccioli 77 E tutti si tenevano la pancia dalle risate, chè il proverbio dice: «Nè visita di morto senza riso, nè sposalizio senza pianto». 6 6. battuta che gira il coltello nella piaga: i Malavoglia sono senza soldi: esempio di assoluta insensibilità [...] Don Silvestro faceva il gallo colle donne, e si muoveva ogni momento col pretesto di offrire le scranne ai nuovi arrivati, per far scricchiolare le sue scarpe verniciate. — Li dovrebbero abbruciare, tutti quelli delle tasse! — brontolava comare Zuppidda, gialla come se avesse mangiato dei limoni, e glielo diceva in faccia a don Silvestro, quasi ei fosse quello delle tasse. — Ella lo sapeva benissimo quello che volevano certi mangiacarte che non avevano calze sotto gli stivali inverniciati, e cercavano di ficcarsi in casa della gente per papparsi la dote e la figliuola: «Bella, non voglio te, voglio i tuoi soldi». Per questo aveva lasciata a casa sua figlia Barbara. — Quelle facce lì non mi piacciono. — A chi lo dite! — esclamò padron Cipolla; — a me mi scorticano vivo come san Bartolomeo. — Benedetto Dio! — esclamò mastro Turi Zuppiddo, minacciando col pugno che pareva la malabestia del suo mestiere. — Va a finire brutta, va a finire, con questi italiani! — Voi state zitto! — gli diede sulla voce comare Venera, — chè non sapete nulla. — Io dico quel che hai detto tu, che ci levano la camicia di dosso, ci levano! — borbottò compare Turi, mogio mogio. Allora Piedipapera, per tagliar corto, disse piano a padron Cipolla: — Dovreste pigliarvela voi, comare Barbara, per consolarvi; così la mamma e la figliuola non si darebbero più l’anima al diavolo. — È una vera porcheria! — esclamava donna Rosolina, la sorella del curato, rossa come un tacchino, e facendosi vento col fazzoletto; e se la prendeva con Garibaldi che metteva le tasse, e al giorno d’oggi non si poteva più vivere, e nessuno si maritava più. — O a donna Rosolina cosa gliene importa oramai? — susurrava Piedipapera. Donna Rosolina intanto raccontava a don Silvestro le grosse faccende che ci aveva per le mani: dieci canne di ordito sul telaio, i legumi da seccare per l’inverno, la conserva dei pomidoro da fare, che lei ci aveva un segreto tutto suo per avere la conserva dei pomidoro fresca tutto l’inverno. — Una casa senza donna non poteva andare; ma la donna bisognava che avesse il giudizio nelle mani, come s’intendeva lei; e non fosse di quelle fraschette che pensano a lisciarsi e nient’altro, «coi capelli lunghi e il cervello corto», chè allora un povero marito se ne va sott’acqua come compare Bastianazzo, buon’anima. — Beato lui! — sospirava la Santuzza, — è morto in un giorno segnalato, la vigilia dei Dolori di Maria Vergine, e prega lassù per noi peccatori, fra gli angeli e i santi del paradiso. «A chi vuol bene Dio manda Davide Peccioli 80 Giovanni Verga Padron Cipolla voltò le spalle freddo freddo, senza dir nulla; e dopo che tutti se ne furono andati, i Malavoglia rimasero soli nel cortile. — Ora, — disse padron ’Ntoni, siamo rovinati, ed è meglio per Bastianazzo che non ne sa nulla. A quelle parole, prima Maruzza, e poi tutti gli altri tornarono a piangere di nuovo, e i ragazzi, vedendo piangere i grandi, si misero a piangere anche loro, sebbene il babbo fosse morto da tre giorni. Il vecchio andava di qua e di là, senza sapere che facesse; Maruzza invece non si muoveva dai piedi del letto, quasi non avesse più nulla da fare. Quando diceva qualche parola, ripeteva sempre, cogli occhi fissi, e pareva che non ci avesse altro in testa. — Ora non ho più niente da fare! — No! — rispose padron ’Ntoni, no! chè bisogna pagare il debito allo zio Crocifisso, e non si deve dire di noi che «il galantuomo come impoverisce diventa birbante». 1111. codice comportamentale moralmente giusto di Padron ’Ntoni E il pensiero dei lupini gli ficcava più dentro nel cuore la spina di Bastianazzo. Il nespolo lasciava cadere le foglie vizze, e il vento le spingeva di qua e di là pel cortile. — Egli è andato perchè ce l’ho mandato io, — ripeteva padron ’Ntoni, — come il vento porta quelle foglie di qua e di là, e se gli avessi detto di buttarsi dal fariglione con una pietra al collo, l’avrebbe fatto senza dir nulla. Almeno è morto che la casa e il nespolo sino all’ultima foglia erano ancora suoi; ed io che son vecchio sono ancora qua. «Uomo povero ha i giorni lunghi». Maruzza non diceva nulla, ma nella testa ci aveva un pensiero fisso, che la martellava, e le rosicava il cuore, di sapere cos’era successo in quella notte, che l’aveva sempre dinanzi agli occhi, e se li chiudeva le sembrava di vedere ancora la Provvidenza, là verso il Capo dei Mulini, dove il mare era liscio e turchino, e seminato di barche, che sembravano tanti gabbiani al sole, e si potevano contare ad una ad una, quella dello zio Crocifisso, l’altra di compare Barabba, la Concetta dello zio Cola, e la paranza di padron Fortunato, che stringevano il cuore; e si udiva mastro Cola Zuppiddo il quale cantava a squarciagola, con quei suoi polmoni di bue, mentre picchiava colla malabestia, e l’odore del catrame che veniva dal greto, e la tela che batteva la cugina Anna sulle pietre del lavatoio, e si udiva pure Mena a piangere cheta cheta in cucina. — Poveretta! — mormorava il nonno, — anche a te è crollata la casa sul capo, e compare Fortunato se ne è andato freddo freddo, senza dir nulla. E andava toccando ad uno ad uno gli arnesi che erano in mucchio in un cantuccio, colle mani tremanti, come fanno i vecchi; e vedendo Luca lì davanti, che gli avevano messo il giubbone del babbo, e gli arrivava alle calcagna, gli diceva: — Questo ti terrà caldo, quando Davide Peccioli 81 verrai a lavorare; perchè adesso bisogna aiutarci tutti per pagare il debito dei lupini. Maruzza si tappava le orecchie colle mani per non sentire la Locca che si era appollaiata sul ballatoio, dietro l’uscio, e strillava dalla mattina, con quella voce fessa di pazza, e pretendeva che le restituissero loro il suo figliuolo, e non voleva sentir ragione. — Fa così perchè ha fame, — disse infine la cugina Anna; adesso lo zio Crocifisso ce l’ha con tutti loro per quell’affare dei lupini, e non vuol darle più nulla. Ora vo a portarle qualche cosa, e allora se ne andrà. La cugina Anna, poveretta, aveva lasciato la sua tela e le sue ragazze per venire a dare una mano a comare Maruzza, la quale era come se fosse malata, e se l’avessero lasciata sola non avrebbe pensato più ad accendere il fuoco, e a mettere la pentola, che sarebbero tutti morti di fame. «I vicini devono fare come le tegole del tetto, a darsi l’acqua l’un l’altro». Intanto quei ragazzi avevano le labbra pallide dalla fame. La Nunziata aiutava anche lei, e Alessi, col viso sudicio dal gran piangere che aveva fatto vedendo piangere la mamma, teneva a bada i piccini, perchè non le stessero sempre fra i piedi, come una nidiata di pulcini, chè la Nunziata voleva averle libere le mani, lei. — Tu sai il fatto tuo! — le diceva la cugina Anna; — e la tua dote ce l’hai nelle mani, quando sarai grande. L’osmosi tra narratore e personaggio Il ritratto di zio Crocifisso che apre il capitolo offre un bell’esempio dell’originalissima impostazione narrativa del romanzo. Il personaggio è presentato dall’ottica di un narratore che condivide del tutto la visione di un ambiente dominato solo dalla logica dell’interesse; oppure (e l’incertezza testimonia quanto la costruzione della pagina sia complessa e sfumata), si può dire che la voce narrante è il riflesso del punto di vista di Crocifisso stesso, riecheggia il suo modo di vedere le cose e il suo modo di esprimersi. È un procedimento abituale nei Malavoglia: siccome narratore e personaggi hanno la stessa mentalità e lo stesso linguaggio, spesso è difficile stabilire se il discorso appartiene all’uno o agli altri. Nel caso di zio Crocifisso, il risultato di questa ambigua osmosi è che il ritratto dell’usuraio avido e disumano risulta molto benevolo («era la provvidenza per quelli che erano in angustie»), la mancanza di scrupoli con cui strappa i suoi profitti appare perfettamente naturale («ci era un carlino dippiù, com’era giusto»), o si rovescia addirittura in comportamento benefico e meritorio («aveva anche inventato cento modi di rendere servigio al prossimo»); se si affaccia qualche aspetto negativo (le bilance «false come Giuda»), esso è attribuito alla malevolenza di quelli che «non erano mai contenti». Si verifica qui il tipico procedimento di straniamento "rovesciato" che si è già individuato in Rosso Malpelo: ciò che è strano, abnorme e ripugnante (l’avidità spietata dell’usuraio), venendo filtrato da un punto di vista che condivide la visione del personaggio stesso appare normale, Davide Peccioli 82 Giovanni Verga giusto e perfino lodevole. Come di consueto, questo tipo di straniamento fa risaltare lo stravolgimento profondo dei valori che si verifica in quella piccola comunità rurale; uno stravolgimento che la rende in tutto equivalente alla società evoluta, borghese e cittadina Il coro del paese Il fitto chiacchierio che percorre tutta la scena successiva della visita del consòlo non è una colorita scena di commedia, costruita per suscitare il sorriso indulgente sull’ingenuità primitiva di quei popolani, come è stato detto da taluni critici. Emergono al contrario la chiusura mentale, la grettezza interessata, l’insensibilità ai limiti della crudeltà che sono proprie della comunità paesana, e che lasciano un’impressione cupa, desolata, soffocante. Si pensi solo all’agghiacciante battuta di padron Cipolla, sull’«ultimo temporale in cui si è persa la Provvidenza», che «è stato una vera grazia di Dio» per le sue colture agricole. La comicità di Verga non è mai serena e liberatoria, ma sempre amara, sarcastica, intrisa del suo totale pessimismo sugli uomini e sui moventi delle loro azioni. Il punto di vista dei Malavoglia Se nella prima parte del capitolo la scena è occupata dal “coro” del paese, nella seconda parte emergono in primo piano i Malavoglia, che finora sono comparsi solo indirettamente, attraverso i discorsi degli altri personaggi. Si determina così uno stacco fortissimo rispetto alla pre- cedente sequenza narrativa: alla squallida commedia dell’interesse e dell’egoismo si contrappone una prospettiva tragica, la rovina della famiglia che è la rovina di tutto un mondo. I Malavoglia, insieme con la cugina Anna e la Nunziata, contro la grettezza ottusa del paese si propongono come portatori di alti valori etici, gli affetti familiari, l’onestà, il rispetto per la parola data, l’altruismo e la solidarietà disinteressata. Muta anche la tecnica narrativa: nella sequenza precedente gli abitanti del villaggio sono sempre presentati solo dall’esterno, attraverso le loro parole e i loro gesti; i Malavoglia invece sono visti anche dall’interno, e il lettore è ammesso a conoscere la loro vita interiore. È un privilegio che, nel corso del romanzo, tocca solo ai Malavoglia, ed è il segno inequivocabile di un privilegio spirituale, che li distingue dalla meschinità del paese. Il capitolo esemplifica quindi perfettamente la presenza di due polarità opposte, che è caratteristica dei Malavoglia: quella della comunità del villaggio, che conosce solo la logica dell’interesse e della forza ed è il semplice riflesso di un mondo regolato dal meccanismo della lotta per la vita, e quella della famiglia Malavoglia, che si ispira invece a valori etici puri e ideali. T: I “vinti” e la “fiumana del progresso” Anche nel momento in cui Verga fotografa la classe più bassa, come nell’ambiente dei Malavoglia (piccolo villaggio di pescatori), c’è comunque una gerarchia all’interno di questa società. Insieme a questa gerarchia c’è anche il desiderio di cercare di sopravanzare, a partire dal momento in cui la storia (I Malavoglia) irrompe in un mondo praticamente immobile. Davide Peccioli 85 T: La conclusione del romanzo Le interpretazioni di Russo e Bàrberi Squarotti Al termine della vicenda Alessi ricompra la casa del nespolo e vi ricostituisce un nucleo familiare. La conclusione del romanzo è da vedere come un "lieto fine", la vittoria dei va lori ideali sulla pessimistica analisi di una realtà dominata solo dalla lotta per la vita? Si tratta di pagine molto problematiche, che hanno sollecitato letture diverse. Luigi Russo, che ha dominato per oltre un quarantennio la critica verghiana, le interpreta va come una celebrazione della sacralità della casa e della famiglia, una «cerimonia religiosa», in cui il «tempio» che era stato violato «viene riconsacrato» (anche se non si tratta di un approdo idillico ad un porto di quiete e di benessere). Oggi la critica ha indicato altre direzioni di lettura. Bàrberi Squarotti osserva che la conclusione del romanzo non è un ritorno esatto al punto di partenza: la famiglia è dispersa, un mondo è scomparso definitivamente. La casa di Alessi non appartiene più ad una civiltà arcaica, ma è la casa dei «tempi nuovi», il mondo del vapore, della rivoluzione del 1860. Ed in effetti la nota dominante in queste pagine finali è quella del rimpianto, della mancanza, della nostalgia, da parte dei personaggi, di un passato ormai irrecuperabile, non il senso di pienezza tranquilla di un restaurato equilibrio. L’interpretazione di Luperini Luperini, dal canto suo, osserva che il ro- manzo non si conclude propriamente con la ricostruzione del «nido» familiare, a cui è dedicata solo una riga frettolosa, ma con la partenza definitiva di ’Ntoni. La conclusione ha dunque il senso di un distacco definitivo, di un addio amaro a quel mondo arcaico, a quello spazio chiuso e mitico, a quel tempo circolare e immobile (si pensi alla ripresa dei ritmi ciclici della vita del villaggio, che è la nota dominante dell’ultima pagina). Verga sa che quel mondo è scomparso, ed è ormai impossibile recuperarlo. Ad esso si contrappone l’eroe che parte per il mondo del moderno, verso la storia: la «fiumana del progresso» è inarrestabile. Secondo Luperini la conclusione, lungi dall’essere la celebrazione del mondo arcaico e dei suoi valori, è il distacco definitivo di Verga da quell’atteggiamento romantico che lo aveva indotto a cercare nella realtà rurale un «fresco e sereno raccoglimento» e un’alternativa al «progresso». Il paese è allontanato nel passato; e comunque era già un mondo lacerato al suo interno da forti tensioni sociali ed economi che. Continuando su questa linea, nel romanzo successivo del cielo, il Gesualdo, Verga seguirà il suo eroe, una sorta di prosecuzione del personaggio di ’Ntoni, nel suo viaggio attraverso la realtà moderna, in cui la logica della «roba» domina senza contrasti e i valori sono impossibili. Le Novelle Rusticane • p. 264 Sono scritte tra la stesura de I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo. Contengono alcuni testi che sono estremamente importanti perché costituiscono un anello di congiunzione tra i due romanzi; una di queste è La roba Davide Peccioli 86 Giovanni Verga T: La roba Questa novella ci servirà da termine di confronto con Mastro Don Gesualdo. Il protagonista della novella cerca per tutta la vita di mettere da parte la roba: vive come un pezzente per tutta la vita, ma ha tanta roba. Quando muore si rende conto di non potersi portare dietro tutto ciò, e impazzisce. È un personaggio piatto, ma non tragico come sarà Mastro Don Gesualdo. È un personaggio gretto, ma non sa di esserlo. Fino all’ultimo istante non si rende conto del suo modo di essere, di come la sua vita sia priva di affetti e di ogni altro valore importante. Mastro Don Gesualdo, invece, che da povero diventa molto molto ricco, si rende conto dello stato spirituale in cui vive, abbandonato da moglie e figlia, ed è un personaggio estremamente tragico. Anche qui c’è lo straniamento , ma è un personaggio che un po’ è inter- no, un po’ guarda dall’esterno, un po’ fa parte della comunità. Verga varia molto la focalizzazione, e gli permette di esprimere tanto nonstante la teoria dell’impersonalità. Il primo periodo è lungo e faticoso, e sembra quasi alludere all’ampiezza dei campi e dei possedimenti di Mazzarò (protagonista della novella). Il narratore si concede ancora qualche vezzo di maniera. Sono presenti tempistiche tipiche delle fiabe, a significare un tempo sospeso. Il tema dominante è quello del possesso . Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado Davide Peccioli 87 lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale1; ma aveva la testa ch’era un brillante, 1. insignificanza di Mazzarò, anche fisicaquell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba2, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a 2. scalata sociale mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto3. 3. si mostra la grettezza del perso- naggio, e la mentalità utilitaristica del narratoreEra che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso Davide Peccioli 90 Giovanni Verga per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch’è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! - Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! - In questo testo Verga abbandona il mito di una società bassa e positiva: anche in questa classe sociale così bassa, tutto è mosso da la roba. La nuova direzione della ricerca verghiana La roba, insieme con le altre Novelle rusticane, rappresenta perfettamente la nuova direzione della ricerca verghiana dopo i Malavoglia, l’abbandono definitivo di ogni mitizzazione nostalgica e romantica del mondo rurale. Il polo positivo dei valori puri scompare e la realtà risulta tutta dominata dalla logica dell’interesse e della forza. La famiglia non è più il centro ideale di quei valori e la loro difesa dalle forze avverse: si pensi a Mazzarò che rimpiange i dodici tari spesi per il funerale della madre. Né si ha più un universo arcaico, regolato da un tempo ciclico, in cui tutto torna sempre identico: al centro della novella si pone il tema della dinamicità sociale che travolge tutti gli equilibri tradizionali, nella figura di un self-made man rurale, che dal nulla si crea una prodigiosa fortuna e la cui scalata sociale è inserita in un ben identificabile processo storico della modernità, la crisi della nobiltà di origine feudale e l’ascesa della borghesia. Tranne che all’inizio, dove Mazzarò è visto dalla prospettiva di un ipote- tico viandante di livello culturale "alto", che con le sue fantasie trasforma il personaggio in un essere favoloso, l’ottica narrativa è quella consueta al Verga verista, interna al mondo rappresentato, proveniente “dal basso". Ma l’effetto Davide Peccioli 91 dell’artificio della "regressione" è ben differente rispetto a Rosso Malpelo. Là l’eroe era un "diverso" rispetto all’ambiente, dotato di una statura intellettuale e morale infinitamente più alta; qui invece Mazzarò è perfettamente integrato nella logica della lotta per la vita. Quindi in Rosso Malpelo l’ottica del narra- tore, essendo estranea all’eroe, non era in grado di comprenderlo e stravolgeva malevolmente la sua figura, con un vistoso effetto di straniamento. Qui invece, poiché il narratore è in sintonia con l’eroe e la sua logica, si ha una celebrazione entusiastica, un vero panegirico dell’uomo che si è fatto dal nulla. I temi ricorrenti della novella Dato questo modo di presentare Mazzarò, i temi che ricorrono costantemente nella novella sono: 1. l’ammirazione per la potenza dell’accumulo capitalistico, che riesce a creare ricchezze immense, un mondo di cose dalle proporzioni smisurate, epiche; la celebrazione impiega soprattutto la figura dell’iperbole (i mietitori sembrano un esercito di soldati, gli aratri sono numerosi come le lunghe file dei corvi, per la vendemmia accorrono villaggi interi alle vigne di Mazzarò...), ed assume le movenze ampie dell’inno, con cadenze musicali mae stosamente intonate; 2. le virtù eroiche del protagonista, l’intelligenza, l’energia infaticabile, ma soprattutto l’ascesi, la capacità di sacrificare tutto alla «roba», per cui Mazzarò appare quasi un santo martire dell’accumulo capitalistico; 3. il tendere inesausto sempre oltre gli obiettivi raggiunti, che fa di Mazzarò una sorta di eroe "faustiano", nel suo sogno di potenza senza limiti, che lo spinge a collocarsi in posi zione antagonistica addirittura rispetto alla suprema autorità in terra («voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re»),. Lo straniamento rovesciato La novella, grazie all’adozione di un punto di vista narrativo vicino al protagonista, presenta in tal modo la logica della «roba» in una luce epica, mitica, come qualcosa di sovrumano, titanico. Però vi è anche il rovescio della medaglia. Come avveniva per zio Crocifisso nel IV capitolo dei Malavoglia, questa celebrazione, proprio per il suo oltranzismo, produce l’effetto di straniamento "rovesciato": ciò che è strano, abnorme e ripugnante, l’avidità disumana e crudele di Mazzarò, che risalta con perfetta evidenza dall’oggettività dei fatti, appare normale, legittimo o addirittura meritorio della presentazione del narratore. Ciò mette crudamente in luce lo stravolgimento profondo di quel mondo che conosce solo l’interesse ed ignora ogni altro valore. Ne scaturisce una critica ferma della «religione della roba»; ma anche qui sono le cose che parlano da sé, senza che l’autore intervenga dall’esterno con giudizi e condanne. La problematicità della visione verghiana L’impostazione della novella appare dunque intimamente problematica: Mazzarò ha veramente qualcosa di Davide Peccioli 92 Giovanni Verga eroico e di epico nella sua dedizione ascetica al suo fine, nella sua potenza creatrice, nel suo tendere "faustiano" a mete sempre più alte; dall’altro lato però la logica dell’accumulo appare anche in tutta la sua disumana negatività. È quell’atteggiamento verso il «progresso» che si manifesta anche nella prefazione ai Vinti; e lo stesso atteggiamento ricomparirà presto dinanzi ad un altro eroe dell’accumulo capitalistico moderno, Gesualdo. Ma bisogna ancora tener conto della conclusione, che presenta un rovesciamento di prospettive. Nella sua tensione ad accrescere indefinita mente il possesso, Mazzarò non si scontra soltanto con avversari umani, con la società e le leggi economiche, ma con la natura stessa, col limite naturale della vita. Quella tensione va allora incontro al totale fallimento: e, in un gesto disperato e folle, Mazzarò tenta di uccidere le anatre e i tacchini, per portare con sé nella morte la «roba». Questa conclusione ha avuto interpretazioni diverse, che ora hanno insistito sulla comicità del gesto di Mazzarò, ora sul suo carattere tragico, terribile. L’oscillazione delle interpretazioni deriva probabilmente dalla problematicità del segmento narrativo finale, che rovescia i termini del resto del racconto. Se in precedenza Mazzarò appariva eroico nella prospettiva del narratore "basso", e meschino e abietto nella prospettiva morale dell’autore, ora il suo gesto di bastonare le anatre e i tacchini appare risibile nella prospettiva del narratore, che lo ritiene assurdo, non rispondente ad alcuna logica economica (Mazzarò per lui dovrebbe rassegnarsi e «pensare all’anima»), ma tragico nella prospettiva dell’autore, sensibile al dramma esistenziale dell’eroe, che ha posto la sua ragione di vita nell’accumulo infinito di «roba» ed è sconfitto dai limiti di natura. La duplicità di prospettive, pur rovesciate di segno, mette anche qui in evidenza la problematicità del personaggio. Mastro Don Gesualdo • p. 280-282 Questo testo esce nell’89, lo stesso anno in cui esce il Piacere di D’Annunzio: D’Annunzio avrà tantissimo successo, mentre questo no. Se nei Malavoglia l’ambientazione era immediatamente successiva al- l’unificazione italiana, il Mastro Don Gesualdo è ambientato attorno al ’48 Trama Mastro Don Gesualdo nasce povero, poi, grazie alla sua intelligenza e alla sua spregiudicatezza, riuscirà ad arricchirsi. Nasce come un muratore, e tenta la scalata sociale, esattamente come i Malavoglia. Questo non rende Verga più ottimista, in quanto Mastro Don Gesualdo è l’esempio di pessimismo più assoluto. Egli è un personaggio né positivo né negativo: è generoso, ma è quasi schiavista nei confronti dei suoi lavoranti, in quanto lui ha sempre lavorato come Davide Peccioli 95 T: La morte di mastro-don Gesualdo Masto Don Gesualdo osserva quindi questo grande sperpero di denaro, vedendo i servi che non si potrebbero permettere. Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorchè fu in casa della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi — sin dallo scalone di marmo — e il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di soprabitone, vi squadrava dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate una faccia che non lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: — C’è lo stoino per pulirsi le scarpe! — Un esercito di mangiapane, staffieri e camerieri, che sbadigliavano a bocca chiusa, camminavano in punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola o fare un passo di più, con tanta degnazione da farvene passar la voglia. Ogni cosa regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di messa cantata — per avere un bicchier d’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca, all’ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze. Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la figliuola, e s’era messo in gala anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato, con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette da tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola, e dirle il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella, dopo il caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone: — Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini... Poi, col regime speciale che richiede il suo stato di salute... — Certo, certo, — balbettò don Gesualdo. — Stavo per dirvelo... Sarei più contento anch’io... Non voglio essere d’incomodo... — No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio. Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino; lo incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior cera, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamento d’aria e una buona cura l’avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi giudizioso; cercava il modo e la maniera d’avere il piacere di tenersi il suocero in casa un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a rotta Davide Peccioli 96 Giovanni Verga di collo... Una procura generale... una specie d’alter ego... Don Gesualdo si sentì morire il sorriso in bocca. Non c’era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della voce, anche quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che vi respingeva indietro, e vi faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele al collo, proprio come a un figlio, e dirgli: — Tè! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi! Talchè don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona dell’alter ego. Gli mancava l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di sopra poche stanze che chiamavano la foresteria, dove Isabella andava a vederlo ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio: — Cos’hai?... dimmelo!... Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non posso tradirti!... Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso... accusando lo stomaco peloso dei Trao, che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili! Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sè i propri guai. Passava i giorni malinconici dietro l’invetriata, a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze, nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli strambotti coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Davide Peccioli 97 Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l’Àlia e su Donninga, le belle terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimè, povera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato in mano, ritto dinanzi alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre, dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava qualche visita - un’altra solennità anche quella. - La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare le visite come un’anima di purgatorio. Arrivava di tanto in tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine del suo antico mestiere, quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare... delle terre da seminare, a perdita di vista... E un esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!... Davide Peccioli
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