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Appunti del corso di lingua latina a.a. 22-23, Appunti di Lingua Latina

Appunti del corso di lingua latina a.a. 22-23

Tipologia: Appunti

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Scarica Appunti del corso di lingua latina a.a. 22-23 e più Appunti in PDF di Lingua Latina solo su Docsity! Lingua latina !! Leggere bene !! Tradurre il testo latino nell’ordine in cui le parole sono poste dallo scrittore Il latino è una Korpus-sprache non monolitica: il latino è una lingua morta, non più utilizzata per produzioni linguistiche scritte od orali. Una Korpus-sprache è una lingua che, essendo morta, è conservata all’interno di un corpus conchiuso, limitati, di vario tipo. Questo corpus può accrescersi solo con rinvenimento di nuove opere. Il latino è definita anche una gross-Korpus-sprache: è una lingua attestata in un corpus enorme di testi e l’idea di avere a che fare con una lingua Korpus potrebbe insinuare in noi l’impressione di una monoliticità, di un’uniformità del sistema linguistico: questo è vero, ma non del tutto. La lingua latina, in quanto tale, anch’essa, come lingua viva, è andata soggetto a tutti quei fattori di variazione linguistica a cui sono soggette tutte le lingue vive: diacronia, diastratia, diatopia e diamesia. Fra questi fattori, quello che a noi interessa di più è quello diacronico. Un’altra variazione a cui il latino è molto sensibile è la variazione diastratica. La variazione diatopica nelle opere letterarie di autori colti non è evidente in sé; noi però siamo sicuri che ci sia stata questa variazione per via degli esiti successivi. La variazione diatopica, dal punto di vista dei testi conservati, è abbastanza chiara soprattutto nei testi documentari, perché la lingua risente molto di più del tenore del parlato, dato che gli scrittori non erano molto colti. Per quanto riguarda la diamesia, noi non abbiamo produzioni orali e, per ricostruire la lingua parlata, noi dobbiamo affidarci al medium scritto di alcune tipologie di testi. Catone, Origines, fr. 88b Le Origines sono un’opera in latino non conservata integralmente, ma in forma frammentaria. Per comprendere questo testo bisogna ricordare che la figura di Catone è emblematica alla resistenza romana alla penetrazione dell’elemento greco dal punto di vista morale e culturale. Il prestigio della cultura e alcuni suoi elementi contrastavano, secondo Catone, con il mos maiorum. Questa presa di posizione, nelle Origines, si riflette con la scelta di non citare il nome di nessun personaggio romano, perché il protagonista delle vicende che lui racconta è il populus, non sono gli individui. Questa è una scelta in aperto contrasto con certi modi della cultura e della vitalità greca. In questo passo viene nominato per nome l’unico personaggio romano, Quinto Cedicio. Il nome di costui viene riportato nelle Noctes Atticae di Gellio, che tratta di questo passo spiegandoci chi sia; Gellio riporta questo passo dicendo che sono le parole di Catone. Quinto Cedicio stava guidando le truppe romane nel 258, durante la Prima guerra punica in Sicilia; l’esercito romano si trova prossimo alla disfatta e nei pressi di questo si trovava una “verruca”, ossia un rilievo e i romani concordano una strategia per ingannare gli avversari: un contingente di 400 soldati romani si sacrificherà andando sull’altura per distrarre il nemico e il resto sarà salvo. Quinto Cedicio si offre per guidare questo contingente. Questa impresa venne comparata da Catone con il sacrificio di Leonida alle Termopili: Catone vuole dimostrare come, di fronte ad un’analoga impresa eroica, i greci si effondano in una serie di celebrazioni esagerate e deprecabili della personalità del singolo, mentre i romani non celebrano assolutamente il loro eroe. Il giudizio di Catone emerge non solo dalle parole e dai concetti che esprime, ma anche dallo stile che utilizza. Questo testo è frammentario, è conservato da Gellio, le cui Noctes Atticae sono fra i testi più rilevanti e interessanti che ci hanno conservato moltissimo della letteratura arcaica, di una tradizione letteraria che altrimenti sarebbe totalmente perduta. Gellio si trova nel II sec d.C., epoca nella quale la letteratura è dominata da un gusto arcaizzante: molte opere letterarie che a quel tempo erano ancora in circolazione vengono da questi autori valorizzate, lette e citate. Nei secoli precedenti si era costituito un corpus di opere scolastiche sulle quali si imparavano la retorica e la grammatica; per cui il gusto per le opere classiche fa cadere nell’oblio la letteratura precedente: le opere non vengono più copiate, le copie diminuiscono e a un certo punto tante scompaiono. Ci sono cinque righe per descrivere le celebrazioni di Leonida; una e mezza per quella di Quinto Cedicio. Dii inmortales tribuno militum fortunam ex virtute eius dedere. Nam ita evenit: cum saucius multifariam ibi factus esset, tamen volnus capiti nullum evenit, eumque inter mortuos defetigatum volneribus atque, quod sanguen eius defluxerat, cognovere. Eum sustulere, isque convaluit, saepeque postilla operam reipublicae fortem atque strenuam perhibuit illoque facto, quod illos milites subduxit, exercitum ceterum servavit. Sed idem benefactum quo in loco ponas, nimium interest. Leonides Laco, qui simile apud Thermopylas fecit, propter eius virtutes omnis Graecia gloriam atque gratiam praecipuam claritudinis inclitissimae decoravere monumentis: signis, statuis, elogiis, historiis aliisque rebus gratissimum id eius factum habuere; at tribuno militum parva laus pro factis relicta, qui idem fecerat atque rem servaverat». “Gli dei immortali diedero al tribuno dei soldati una sorte in proporzione al suo valore/impresa [virtus è qualcosa di molto concreto]. Infatti successe così: essendo lui stato ferito lì, tuttavia non accadde nessuna ferita [volnus con fonetica arcaica] al capo e lui, in mezzo ai morti, lo riconobbero indebolito dalle ferite e per il fatto che il suo sangue era fluito fuori [volneribus, arcaico, sullo stesso piano della causale]. [tante volte il pronome is] Lo sollevarono e lui si riprese, e spesso in seguito offrì alla res publica il suo servizio molto forte [c’è una dittologia sinonimica] e, con quell’impresa, per il fatto che aveva condotto quei soldati, salvò il resto dell’esercito. [Catone poi introduce la riflessione sull’accaduto] Ma la stessa impresa, in quale luogo tu la ponga, fa molto differenza. Lo spartano Leonida, che fece una cosa simile presso le Termopili, a causa delle sue imprese, tutta la Grecia decorò la sua gloria e la grazia/favore eccelsa [anche qui dittologia] con monumenti di gloria gloriosissima: con insegne, stuatue, elogi, opere letterarie storiche e altre cose che mostrarono graditissima quella sua impresa; ma [at fortissimamente avversativo] al tribuno militare fu lasciata una lode piccola in proporzione alle imprese, che aveva fatto la stessa cosa e aveva salvato la situazione” • Terze persone plurali del perfetto in -ere invece che in -erunt: il latino conosce due uscite per la terza persona plurale del perfetto indicativo. Questa uscita tuttavia resta tipica di testi di registro stilistico elevato, specialmente in poesia e nella prosa storiografica (Sallustio, Tacito, Livio, Ammiano); • Defetigatum: la -e- non è originaria, il verbo è fatigare, la -e- è esito di indebolimento; • La causa dell’essere defetigatum è indicata da un ablativo e poi da una causale, che stanno sullo stesso piano. È curioso l’accostare questi due elementi, perché il latino ha un gusto per il parallelismo di solito: si parla di variatio; l’autore ha un gusto per affiancare costrutti molto diversi; • Sanguen non è standard, il nominativo è sanguis: sanguen è una variante arcaica che potrebbe essere una retroformazione dal genitivo del tipo carmen,-inis; • Nella seconda parte nel testo latino ci sono due nominativi, Leonides Laco e omnis Graecia: quello che succede in latino può succedere in un testo parlato. Questo è un costrutto particolare: nominativus pendens, sospeso, viene ripreso in forma pronominale dall’eius. Ha la funzione di mettere in rilievo Leonida. La forma in -es di Leonides riflette la forma ionica, è coerente con la flessione greca. Omnis Graecia è al singolare, concordato ad sensum con decoravere. • Ci sono nel testo diversi verbi prefissati: subduxit e convaluit, da convalesco, verbo in cui riscontriamo che, rispetto all’elemento originario che contiene il tema verbale originario valeo, qui riscontriamo l’aggiunta di due elementi: prefisso con- e suffisso -sco, suffisso verbale che di per sé indica un cambiamento di stato (es. viridis, “rigoglioso/verde” > viridesco “diventare verde/prendere vigore”). Per sua natura, per ragioni di tipo semantico, il suffisso -sco non lo si trova nei tempi verbali che derivano dal tema del perfetto, che indica un’azione compiuta; è presente solo nelle forme verbali derivanti dal tema dell’infectum (ossia del presente). Qualche osservazione di tipo stilistico: • Una tendenza abbastanza evidente è quella alla predominanza della paratassi (giustapposizione) sull’ipotassi; 2. Sia pulita; tenga tutto il complesso spazzata e pulita [participio perfetto in funzione aggettivale del verbo verro, -ere, “spazzare” + avverbio]; abbia/tenga il focolare pulito e spazzato attorno [sempre da verro] tutti i giorni prima di andare a letto. Alle Calende, alle Idi e alle None, quando sarà un giorno festivo, getti una corona nel focolare [focum = focolare; ignis = fuoco] e in quei giorni presenti suppliche all’ara familiare a seconda delle possibilità [copia]. Curi di aver cotto cibo per te e per la famiglia. 3. [parte con una serie di prescrizioni che riguardano le varie attività di conservazione di cibo e della frutta. Uti è la forma rafforzata di ut] Abbia molte galline e le relative uova; abbia pere secche, sorbe, fichi, uva passa, sorbe in sapa [elemento intraducibile; in italiano diciamo “saba”, che è il mosto cotto; possiamo tradurlo come “sotto saba”] e pere e uva in dolia [contenitori] e le mele cotogne [strutheus è un nome tecnico], uva [vinaciis sullo stesso piano di doliis, sono contenitori di natura dubbia, forse boccali] in vinaciis e in orci nascosti sotto terra [modo di conservazione] e le noci di Preneste fresche in un orcio coperte in terra; abbia mele Scanziane [la selva Scantia era in campagna] nei doli e altre che sono solite essere conservate anche selvatiche, tutte queste cose ogni anno diligentemente le tenga riposti/conservati. Sappia produrre farina buona e farro sottile”. • Ci sono moltissimi imperativi futuri, forme che appaiono spessissimo in un testo come i dialoghi dei liberti di Petronio; erano forme che la lingua d’uso non disdegnava, perché molto efficaci; • Molte frasi contengono verbi al congiuntivo e sono introdotti da elementi diversi che potremmo, in senso ampio, chiamare avverbiali: ne; neve; • Numerosi ut o uti; • C’è un ni: non una forma alternativa di nisi, ma forma arcaica di ne rafforzato con la i di uti; • Congiuntivi siet: hanno un vocalismo che non è quello standard (sit), è un doppione morfologico che poi scomparirà; forme che sopravvivono in testi arcaici o come arcaismi; • Ne quo eat: avverbio indefinito di moto a luogo, appartentemente forma pronominale dell’ablativo di quis, quid; • Vicinas aliasque mulieres … utatur: utor regge l’accusativo, non l’ablativo, che è la regola. In latino utor, nella lingua più sorvegliata, tende a reggere un elemento che di per sé è un oggetto obbligatorio, nell’espressione sintattica del quale prevale il valore strumentale (far uso di qualcosa). Noi siamo abituati a leggere testi sorvegliati, in cui utor regge l’ablativo, ma sia in testi arcaici sia in testi meno sorvegliati, utor può reggere un accusativo come oggetto diretto. • Ne nimium luxuriosa … neve domun neve ad sese recipiat : ne imperativo; il -ve è enclitico: ci segnala che è una proposizione coordinata a quella precedente (neve = neue o neu). • Rem divinam ni faciat: ne visto in tutti gli altri casi, ma rafforzato con un elemento i finale, stesso elemento che troviamo in uti (< ut + i) al terzo paragrafo • Circumversum da verrere; • Cubitum : supino attivo, che indica il moto a luogo, dopo un verbo di moto indica il fine. Il supino passivo si trova con aggettivi (es. facile/horribile dictu) che hanno una sorta di valore passivo. Guardando, per esempio, cubitum e dictu, noi potremmo considerarli come due casi, un accusativo e un ablativo, di parole con il tema in -u-: originariamente infatti erano forme nominali. A qualunque verbo corrisponde un nomen actionis, che caratterizza l’atto: molti di questi deverbativi sono dei sostantivi in -us della quarta. Questo cubitum quindi è l’accusativo, a volte attestato a volte no, di un nome verbale in -us. Quindi l’accusativo del supino attivo è l’accusativo di moto a luogo del nome verbale. Lo stesso vale per dictu: noi dobbiamo supporre che esista un dictus,-us che indica l’atto del dire; dictu è l’ablativo di limitazione. • Pro copia supplicet : qui copia indica le possibilità. Il termine copia ha come contrario inopia: in- è il prefisso negativo, op- è la radice di ops, opis, la possibilità nel senso di forza, risorsa; quindi inopia è la mancanza di forza e risorse. Copia quindi deriva dal prefisso associativo con/co + ops: quindi copia indica la possibilità, le risorse, le forze (che possono essere le milizie). -ia è un suffisso nominale, che indica una condizione. • Passas : non da patior, ma da pando, che vuol dire “aprire, stendere”, perché è l’uva disseccata, stesa al sole. Riguardo all’assetto paratattico o ipotattico: Paratassi: significato etimologico, “collocazione a fianco”, quindi giustapposizione: collocare un elemento al fianco di un altro, sullo stesso fianco. Ipotassi: un elemento della frase rispetto all’altro è gerarchicamente subordinato: questa subordinazione è resa evidente tramite congiunzioni o infiniti. Guardando curato faciat, possiamo dire che si è paratattico: se ci fosse un ut, questo sarebbe l’elemento che introduce la subordinata, esplicitandola. Questo è un esempio di subordinazione esplicita. Nella storia della lingua (anche latina), la paratassi precede sempre l’ipotassi. Faciat è un congiuntivo volutivo (l’altra grande famiglia è quella dei congiuntivi eventuali). Ea te metuat facito : paratattico Ne nimium luxuriosa siet : sempre un congiuntivo volitivo, sullo stesso piano di “faciat” e “metuat”. Utatur : stesso piano di luxutiosa siet; e così via. Uti condita habeat: qui uti è avverbiale, non c’è “curato”. L’assetto prevalente della lingua è paratattico, dove la giustapposizione prevale rispetto alla gerarchizzazione tramite congiunzioni subordinanti, ecc. Molti di quelli che noi abbiamo studiato a scuola come costrutti ipotattici, in realtà sono spiegabili e leggibili in origine come assetti originariamente paratattici. L’esempio più ecclatante di questo è il costrutto tipico dei verba timendi: Timeo NE hoc facias —> Ho paura che tu faccia questo Timeo UT hoc facias —> Ho paura che tu non faccia questo Questa è un’assurdità: per il significato positivo abbiamo la congiunzione negativa, e viceversa. Rianalizziamo in termini paratattici le due frasi: Timeo: ne hoc facias —> il secondo è un congiuntivo volitivo (lett. Temo: possa tu non farlo!) Timeo: ut hoc facias —> lett. Temo: che tu lo faccia! È un ragionamento che si può fare per altri tipi di “subordinata”: Costrutti del tipo: Rogo te, mi Lucili, ut philosophiam in praecordia ima demittas Ti chiedo, mio Lucilio, di far scendere la filosofia nel profondo del cuore Quell’ut regge, in teoria, una completiva volitiva. Però possiamo capire l’origine di questo costrutto: Rogo te, mi Lucili, // ut philosophiam in praecordia ima demittas La seconda parte è quindi un congiuntivo esortativo Ne = avverbio negativo, non solo congiunzione coordinante: ha un’origine avverbiale Ut = originariamente avverbio di modo, “in qualche modo”. Si = prima di essere una congiunzione ipotetica, è un avverbio che significa in latino “così”, tanto che “sic” è semplicimente la forma rafforzata di si. Si pater filium ter venum dederit, filius a patre liber esto Qualora il padre avrà venduto/abbia venduto il figlio tre volte, il figlio sia libero dal padre Venum = elemento invariabile alla base del verbo vendo, vendere: “dare in vendita” = “venum dare”. Possiamo comprendere l’origine paratattica di questo costrutto: Così abbia il padre venduto tre volte il figlio, … Dederit = diventa un congiuntivo eventuale L’assetto paratattico della lingua è quello originario: in questo assetto congiuntivo e ottativo avevano un valore pregnante. Da qui, poi si è arrivato a un valore ipotattico. Dietro a ogni costrutto ipotattico, si può ricostruire un costrutto paratattico. Indicativo vs congiuntivo Il congiuntivo, tendenzialmente, è il modo della subordinazione. In questo discorso però capiamo che non è il modo della subordinazione: ricorre più copiosamente nelle proposizioni subordinate, ma in realtà in origine c’erano gli usi del congiuntivo come modo marcato autonomo. Quindi, l’indicativo e il congiuntivo sono modi autonomi, indipendenti. L’indicativo e il congiuntivo sono due modi che si distinguono in quanto l’indicativo indica realtà (anche solo per chi parla), è il modo non marcato dell’azione, indica l’azione in quanto tale. Il congiuntivo invece è il modo marcato: rispetto all’espressione dell’azione, aggiunge o una sfumatura volitiva o una sfumatura eventuale. Il congiuntivo, originariamente, è un modo indipendente esattamente come l’indicativo, a cui si oppone per il rapporto di marcatezza-non. Gli usi indipendenti sono quindi gli usi originari e primari. Congiuntivi eventuali: negazione non Congiuntivi volitivi: negazione ne 1. Mitto milites ut auxilientur copiis. 2. Fuit homo tam honestus ut [negazione non] omnes laudarent. 1. Rianalizzando da un punto di vista paratattico, possiamo dire che in origine era presente un congiuntivo ottativo; 2. Rianalizzando da un punto di vista paratattico, all’origine era presente un congiuntivo eventuale. ➔ I congiuntivi sono indipendenti. L’opposizione indicativo-congiuntivo c’è in un certo numero di subordinate: - Relativa: quando ha il verbo al congiuntivo, diventa una subordinata circostanziale (originariamente è un congiuntivo volitivo o eventuale); - Causale: con l’indicativo è oggettiva: esprime un dato di fatto; con il congiuntivo è soggettiva: esprime non solo il pensiero di chi scrive, ma anche del soggetto Es. Athenienses Socratem occiderunt quia iuventutem corrumperet = Gli ateniesi uccisero Socrate perché avrebbe corrotto i giovani. - Alcune temporali: la congiunzione cum, fra le più diffuse congiunzioni subordinanti, che ha originariamente un valore temporale, può reggere sia l’indicativo sia il congiuntivo. Cum + modo non marcato (indicativo) = conserva il suo valore di concomitanza temporale; Cum + congiuntivo = può indicare, oltre al valore temporale, una sfumatura causale, concessiva. - Periodo ipotetico: la distinzione fra il primo tipo e gli altri due tipi è una distinzione che discende direttamente dall’uso dell’indicativo, non marcato, e l’uso del congiuntivo nelle varie declinazioni che può avere il congiuntivo eventuale. Questo discorso riguarda sia la protasi sia l’apodosi: la distinzione fra quello della realtà e quello della possibilità/irrealtà riguarda direttamente la distinzione fra il modo marcato e quello non. - Uso dell’indicativo nelle proposizioni interrogative (sia dirette sia indirette): in latino, tendenzialmente, nella proposizione interrogativa diretta utilizza il modo indicativo Es. Quid facis/agis? A volte, in realtà, anche nella proposizione interrogativa diretta si può trovare il modo congiuntivo Es. Quid facias/faceres? È un congiuntivo di tipo eventuale, dubitativo: si traduce come “Cosa faresti/avresti potuto fare?” suovitaurilia, il mio fondo, il mio campo e la mia terra, per quanta parte tu ritenga o [gesto originario di ago, che sospinge avanti gli animali che sono in grado di camminare da soli] che li si debba portare in giro o in braccio, io ti affido l’incarico di purificare [uti sembra ripetere l’ut all’inizio; dal punto di vista sintattico c’è qualcosa che non funziona: fa riflettere che nessuno fra gli editori ha toccato il testo. Questo testo quindi è comprensibile. Sono messi sullo stesso piano circumagi e circumfero, che indica il portare in giro di peso]. Invoca [praefamino = forma arcaica di imperativo che si trova solo in Catone] prima di iniziare Giano e Giove con un offerta di vino, dì così: Padre Marte, ti prego e ti scongiuro [tendenza alla ridondanza] che tu sia benevolente, propizio [due aggettivi fra cui non c’è differenza, ridondanza] a me, alla domus [dativo di seconda declinazione; domus può avere forme di quarta declinazione in -u-), e alla mia famiglia: [quoius rei ergo] e per questa cosa io ho ordinato di portare in giro i suovitaurilia intorno al mio campo, alla terra e al fondo [non c’è differenza fra i tre, ridondanza], possa tu le malattie viste e non viste [proprio tutte], la sterilità [viduus = colui che è vedovo, privato di] e la devastazione [due termini molto corposi e evidenti; è evidente il gioco fonico. Vastus ha una connotazione piuttosto negativa, con connotazione di spaventosità, devastazione, > ingl. waste], le calamità e le intemperie, (tutti questi oggetti possa tu) [congiuntivi presenti: tutti e tre vogliono dire “tenere lontano”] tenere lontano, respingerle, stornarle, e possa tu le messi e i frumenti, le vigne e i virgulti, [siris = sino, -ere, permetere che] possa tu permettere che diventino grandi e che vengano su/risultino bene [duene, duonam (qualche riga sotto): forme arcaiche di bene e buonam)]; I pastori e il bestiame possa tu conservarli sani [servassis = da servo, -are; come sopra c’era prohibessis da prohibeo, -ere; forme di congiuntivo] e poi [duisque duonam = figura di suono; duis = forma imparentata con il verbo dare, come se fosse des, c’è quell’is che c’è in servassis e prohibessis] possa tu dare buona salute a me, alla casa e alla famiglia; e per tutte queste cose [harunce rerum ergo, ergo regge tutti i genitivi dopo], per purificare il fondo, la terra e il mio campo e per fare la purificazione, come ho appena detto, sii propizio [macte] a questi suovitaurilia da latte/piccoli che devono essere immolati ergo è un costrutto simile a quello di causa gratia + genitivo]; Marte patre, per questo motivo [eiusdam rei ergo], sii propizio a questi suovitaurilia da latte che devono essere immolati. Fai con un coltello; [struem è il nome di un cibo che nasce dal mettere insieme degli ingredienti, da struo, “costruire”; fertum dal verbo che vuol dire “farcire”; sono due focacce probabilmente] fa’ in modo che ci siano cibi che accompagnano l’offerta; da lì fai offerte [inde = si potrebbe interpretarlo come “da quelle focacce”. Il verbo obmoveto è piuttosto raro, aperto all’interpretazione]. Quando immolerai il porco, l’agnello e il vitello, è bene che tu dica così: [eiusque rei ergo] sii propizio all’immolazione di questi suovitaurilia. Sia vietato nominare Marte <***>, se non andrà bene in tutti gli animali offerti, così concepisci parole: padre Marte, se qualche cosa a te, in quei suavitaurilia da latte non ti è piaciuto, adesso ti placo [placulo] con questi suovetaurilia. Se dubiterà della buona riuscita in uno o in due animali, così formula parole: padre Marte, dal momento che a te non è stata data soddisfazione con quel porco, io cerco di placarti con un altro. Il testo non è coerente con la morfologia o l’assetto sintattico standard. Il latino non ama i composti nominali: i composti nominali latini spesso nascono come calchi dalla lingua poetica greca. • Suovitaurilia è un’eccezione: termine tecnico della lingua agricola e sacrale che indica i tre animali sacrificati in questo rito: maiale, pecora e toro. • -ilia è un suffisso neutro plurale della terza: si trova anche in altri nomi di feste religiose, come nelle feste agricole dei taurilia. • -ce elemento che troviamo non apocopato, è un elemento rafforzativo, più corposo, che troviamo spesso in una forma apocopata, ma che qui troviamo in forma integra. Illace: per l’accentazione, alcuni grammatici latini ritenevano che bisognasse guardare alla quantità vocalica, e leggere ìllace (legge della penultima, la a è breve); altri dicono che l’accento cambia in presenza dell’enclitica, per cui l’accento va fatto cadere nella sillaba prima dell’enclitica. La scelta è nostra, ma dobbiamo essere coerenti. • “Cum divis volentibus quodque bene eveniat”: dal punto di vista sintattico, i due costrutti sono messi sullo stesso piano, ma sono sintatticamente diversi: ablativo + quod bene eveniat; qui noi non ci aspetteremmo un quod, ma il più standard ut avverbiale. Il quod qui è una specie di quod avverbiale. Tra questo quod e gli usi di ut ci può essere più affinità di quando noi non siamo spinti a presupporre a priori. • Ci sono numerosi fenomeni di ridondanza • “Praefamino”: desinenza dell’imperativo deponente dal verbo praefor; è una forma dell’imperativo che si trova in Catone e nelle dodici tavole. Probabilmente è un tratto linguistico e morfologico sentito come arcaico da Catone stesso (sono capitoli arcaizzanti, in cui riporta formule rituali). • “Precor quaesoque”: quaeso è una forma intensiva di quaero, forma con la s che è conservata anche nella lingua letteraria, ma in certi contesti molto precisi: si trova in testi letterari che imitano il comportamento del parlante (epistolografia e commedia); si trova quaeso (se il soggetto è uno) o quaesumus (se il soggetto è plurale). Un’altra possibilità di tradurre questo elemento. È sullo stesso piano di precor; fa parte di una dittologia sinonimica. • “Sies”: forma alternativa di congiuntivo • “Quoius rei ergo”: forma originaria del genitivo cuius. In qui, quae, quod vi è la presenza di un elemento labiovelare; mentre il genitivo del pronome relativo è cuius, senza l’elemento labiale, è rimasto solo l’elemento velare. Questo cuius deriva da un originario quoius: tema in -o- + -ius, suffisso del genitivo della declinazione pronominale. In questo sintagma vige il fenomeno della postposizione • Gusto per la giustapposizione di elementi che spesso non sono sinonimi. A favorire la giustapposizione è anche il gusto per le figure foniche. • “Prohibessis defendas averruncesque”: prohibeo > pro + habeo; prohibere = “tener lontano una cosa”; defendas e averrunces vogliono dire sempre “tenere lontano” —> ridondanza molto evidente. Prohibessis è particolare, ci saremmo aspettati prohibeas per essere coerenti con la morfologia standard e con gli altri due congiuntivi. Prohibessis è un congiuntivo sigmatico con la vocale tematica i (= sim, sis, etc.), perché costruito con l’aggiunta di un suffisso, caratterizzato dalla s in greco. • “Dueneque” : forma arcaica di bene, sentita già come arcaizzante da parte di Catone. Uguale per “duonam salutem” • “Duis duonam salutem”: effetto di suono. Duis è un congiuntivo presente di do, dare: du- è l’elemento della radice, -is è la desinenza del congiuntivo, analoga a prohibessis. • “Harunce”: particella rafforzativa, conservata nella sua forma originale non apocopata. Con rerum ergo fa una postposizione. • “Macte”: aspetto di un vocativo, elemento che i grammatici antichi interpretavano come un vocativo derivante da magis auctus, participio perfetto dal verbo augeo, -ere, “far crescere, aumentare”. Augere è un verbo pregnante: Augusto è colui che fa prosperare con il favore degli dei. Magis auctus: vorrebbe dire una cosa del tipo “fatto crescere perché prospero/benedetto”; aggettivo che resta soprattutto nell’ambito sacrale. Si trova anche nella prosa storiografica; quando a un personaggio ci si rivolge con l’apostrofe “macte virtute”, ossia “sii benedetto per la tua virtù”, questa espressione dà al discorso un tono elevato e quasi religioso. Qui, rivolto a una divinità, potrebbe voler dire: “sii tu reso prospero da…” • Cultro da culter: strumento con cui vengono uccisi gli animali; • Eiusque rei ergo: postposizione • “Si minus in omnibus litabit”: lito,-are “sacrificare”, come utor esprime l’oggetto con un ablativo strumentale, “fare sacrifici con”. In questo caso è usato con senso assoluto e appare con questo costrutto anche in Stazio, e vuol dire che il sacrificio vada bene. Minus: non è non, ma vale come tale. Minus, con accezione identica alla negazione non, si trova nella lingua arcaica, nella quale non non si è ancora stabilizzata, e poi resta nella lingua parlata. Non > ne + oinom; ossia ne-unum, “nessuna cosa”. Non è quindi una negazione che si diffonde più tardi rispetto alla lingua arcaica. • “Piaculo”: il verbo piaculo, -are non è attestato, mentre esiste il termine piaculum < pia – culum, con “culum” suffisso strumentale. Il fatto che non sia attestato il verbo non ci complica granché la vita: magari era raro; l’attestazione di una parola è un accidente. • “Verba concipito”: indica l’attenersi a concepta verba, ossia a parole formulari. Tratti arcaici; elemento fonico; gusto per la ridondanza in tutte le sue manifestazioni. Osservare la struttura sintattica. La postposizione Passaggio ad asetti predominanti: OV > VO (appunti vecchi: include costrutti sia con l’oggetto nominale, sia con l’oggetto verbale) AN > NA (aggettivo – nome; da non generalizzare) GN > NG (genitivo – nome; da non generalizzare) Il discorso della testa del sintagma in seconda sede è messo in crisi da un costrutto come pater familias: formula arcaica con il nome che viene prima del genitivo; la testa del sintagma viene prima. Guardarsi sempre dall’assolutezza dei modelli. Il sintagma preposizionale Prep + N —> ha come testa la preposizione. Noi abbiamo una scarsa traccia del fenomeno che, rispetto al sintagma preposizione + nome, rappresenta gli elementi della prima colonna, ossia complemento + testa. Il punto di partenza va cercato nei costrutti postposizionali, come harum rerum ergo: N + Posposizione > Preposizione + N. Questo sintagma mette in crisi l’assolutezza del modello: l’evoluzione, pur andando nella stessa direzione, deve essere avvenuta in momenti diversi, dato che non abbiamo tanta documentazione di questo fenomeno, perché fin dalle origini abbiamo una preponderanza di costrutti preposizionali. Questo discorso si può fare anche sull’ordine dei membri della frase quando abbiamo una gerarchia, una sovraordinata e una subordinata (testa e complemento): tendenzialmente abbiamo che, anche dal punto di vista della sintassi del periodo, si parte da un originario assetto dominante: Complemento + testa = sviluppo + base (reggente) A un assetto che invece è dominante nel parlato e nella lingua tarda: Base (reggente) + sviluppi Si tratta comunque di uno schema generale, che può essere smentito. Ci sono alcune subordinate che resistono, per cui si trova prima lo sviluppo e poi la base in qualunque stadio cronologico della lingua: 1. Causale 2. Temporale 3. Ipotetica Seguono questo schema per un ordine logico. È un elemento che ha a che fare con il significato. Cesare, De analogia Cesare scrisse il De analogia, un trattato sull’analogia, nel quale prende posizione in un dibattito al suo tempo molto acceso, che trova un riflesso nella trattazione di Varrone sul De lingua latina: dibattito fra anomalisti e analogisti. Con tutte le cautele, prende le parti dell’analogia, non dell’anomalia. Il trattato, concluso nel ’54, è dedicato a Cicerone, che non era un analogista, il quale, in un passo dei Brutus 253 menziona il trattato di Cesare, dicendo che Cesare “de ratione latine loquendi accuratissime scripsit”; loquor indica la produzione orale e scritta. È un trattato non conservato: grave perdita, perché dovette trattarsi di un testo molto interessante per capire la posizione analogista; ma poi di Cesare abbiamo da un lato il De analogia, e poi la produzione letteraria: ciò ci permette di paragonare e di capire alcune caratteristiche del Cesare prosatore alla luce delle asserzioni linguistiche. derivasse dal greco] così […] guarda verbi latini […] [facit si traduce come “fa”, è un tecnicismo”]. Così Marco Tullio e Caio Cesare dissero [vedi paradigmi]. Per gli ultimi verbi citati prevalgono forme in cui il raddoppiamento è fatto con la prima consonante e la prima vocale della sillaba, non con la e. Si ritrova in queste forme quindi un vitium. Si cerca di inviduare una ragione e se ne desume una norma. Ultimo frammento: riguarda un problema che ricorre in tutte le trattazioni grammaticali dell’antichità, ossia la resa grafica del sonus medius. In latino, già Quintiliano aveva indicato che mancasse un segno grafico per questo suono intermedio fra i e u breve: problema perché alcuni lo indicano con i, altri con u; se esistesse un segno grafico apposito, il problema sarebbe risolto, ma non c’è. Questo è un caso interessante, anche perché Cesare cercò di normale e selezionò la i come resa grafica: nei suoi testi troviamo il sonus medius reso con la i. In realtà la u non scompare affatto: anche questo è un tentativo di normale che non è del tutto fallito, riesce, ma in parte. Testo che ci è giunto tramite l’Ortographica di Cassiodoro: F5 (exc. a Cornuto ap. Cassiod. orthogr. p. 150 K.): Lacrumae an lacrimae, maxumus an maximus, et siqua similia sunt, quo modo scribi debe<a>nt, quaesitum est. Terentius Varro tradidit Caesarem per ‘i’ eius modi verba solitum esse enuntiare et scribere: inde propter auctoritatem tanti viri consuetudinem factam. Sed ego in antiquiorum multo libris, quam Gaius Caesar est, per ‘u’ pleraque scripta invenio, optumus intumus pulcherrumus lubido maxume monumentum contumelia minume. Medius tamen est et ad enuntiandum et ad scribendum ‘i’ litteram pro ‘u’ ponere, in quod iam consuetudo inclinavit. F5: “Ci si è domandati come scrivere, se lacrumae o lacrimae, maxumus o maximus, e altre parole simili. Terenzio Varrone [autore di un De lingua latina, opera contemporanea al dibattito analogisti, anomalisti] tramandò che Cesare fosse solito sia pronunciare sia scrivere le parole di questo tipo con la i: e poi, per la presa di posizione di un uomo tanto grande, divenne consuetudine. Ma io in libri più antichi di quanto non sia Gaio Cesare trovo la maggior parte delle parole con il sonus medius scritte con la u, …[fa tutti gli esempi]… è intermedio/incerto (il suono parlato) e il porre la i per la u sia per pronunciare sia per scrivere, un uso verso il quale la consuetudine ha piegato” • Enuntiare e scribere: si esplicitano i due modi della produzione. • Medius nell’ultima parola è incerta: forse va al neutro, in modo da porlo in correlazione con l’infinito. È un errore conservato in un’edizione critica del testo, perché la lezione originaria del testo è “melius tamen est”. Di solito, la resa con u viene definita un arcaismo; in realtà è arcaica l’incertezza fra le due forme. È un elemento alquanto fragile nella trasmissione manoscritta dei testi. È un elemenot che colleghiamo alla prosa di un Sallustio, a Tacito; si trova in Livio, in Ammiano Marcellino (IV secolo; la resa della i con la u è un problema di vezzo stilistico). Si trova anche nella tradizione epica classica, come in Virgilio, anche se non al 100% delle occorrenze. Anche in Cicerone, in certi casi. La u non scompare, ma tende a essere conservata in testi che hanno delle pretese dal punto di vista stilistico, che si collocano in un registro elevato. Si può trovare anche in qualche testo documentario, ma il problema lì sarà che è il riflesso dell’incertezza della pronuncia (quindi scelto a caso). Possiamo pensare che sia una marca consapevole di un arcaismo, di un registro elevato. Dobbiamo presupporre che la norma stabilita da Cesare sia diventata consuetudine; la resa con la U non è stata cancellata, ma come riflesso di chi non sapeva come scrivere o come un segno di registro elevato. Quando il discorso sulla latinitas verrà ripreso da Quintiliano, dirà che i criteri della latinitas sono quattro: - Vetustas o Antiquitas, quando un termine è reso pregevole dal suo essere antico; - Auctoritas; - Analògia; - Anomalia, per il criterio della Consuetudo. Cesare è sì analogista, ma tutti riconoscevano una sua posizione equilibrata. Quintiliano sottolinea come fra gli analogisti ci siano coloro che considerano l’analogia come una dea alata, mentre Quintiliano ritiene che tutti i criteri vadano tenuti da conto. Per Quintiliano anche il critero dell’Anomalia e della Consuetudo va utilizzato cum grano salis. Il paradigma verbale; tema dell’infectum e tema del perfectum Il paradigma verbale, nell’ambito del latino, nell’assetto classico delle nostre grammatiche, prevede l’enunciazione della prima persona e della seconda persona singolare, poi tema del perfectum, poi supino e infine infinito: Gigno, is, genui, genitum, gignere Nel paradigma classico sono cinque le voci, ma sono tre i temi verbali che appaiono: - tema dell’in-fectum: in- è prefisso negativo, in-fectum vuol dire “non compiuto”. La caratterizzazione non teporale, ma aspettuale: dal tema dell’infectum posso dire scribebam (infectum del passato), posso usarlo anche al futuro semplice e all’infinito. Indica l’azione non compiuta, non portata a termine. Dal tema dell’infectum derivano tre forme del paradigma: gigno, is, ere. Il tema dell’infectum è gigne: seconda persona singolare dell’imperativo presente. Questa e breve, nella maggior parte delle forme flesse del verbo, non la incontriamo, non incontriamo gigne. La maggior parte dei verbi in latino hanno una vocale tematica, in base alla quale si dividono in coniugazioni; comunque non appare in tutte le forme: la sua presenza è resa opaca dalle varie forme della flessione medesima. Nelle forme flesse esiste un tema ed esistono le desinenze, che marcano la posizione del verbo (o degli elementi nominali o pronominali) nella sua flessione. Il termine desinenza viene dal verbo desino, -ere, che vuol dire “smettere”. Nel tema quindi metto fra parentesi la e: gign(e) - tema del per-fectum: indica l’azione compiuta, dal punto di vista aspettuale. Da questo tema mi derivano tempi al passato, ma anche il futuro anteriore. Tema gen-u- - tema del supino: nome verbale con il suffisso [-tos > -tus], di cui genitum è l’accusativo e genitu l’accusativo. Dal tema del supino deriva il participio perfetto: che indica un’azione sempre compiuta (perfectum) e sempre passiva. In indoeuropeo l’aspetto verbale riguardava due diversi elementi del processo verbale: opposizione fra compiuto e incompiuto (opposizione che il latino conserva nei due temi verbali dell’infectum e del perfectum); altra opposizione aspettuale che il latino non esprime tramite temi: durativo e istantaneo. Il greco aveva il tema dell’infectum, il tema del perfectum e il tema dell’istantaneo (aoristo in greco, che indica un’azione istantanea). In latino la categoria del tempo ha soppiantato quella dell’aspetto. All’interno di questa parola c’è una radice, che è qualcosa di diverso dal tema. La radice è il cuore: è costituita, al grado minimo, da elementi consonantici. La radice è l’elemento originario irriducibile comune a tutte le parole della stessa famiglia (gener, gens, genitor, genus, indigena, caeligena, tettigenae, gentilis, ingenium “dote innata”): gen-, gn- : variazione vocalica = apofonia indoeuropea (gn grado zero; gen grado normale). La radice è una cosa, il tema e la desinenza sono un’altra cosa. Gi-gno: verbo con raddoppiamento nel tema dell’infectum, poco comune nel tema dell’infectum, in cui il raddoppiamento è caratterizzato dalla vocale i. Nascor: “nascere” < (g)natus (“figlio di” nella lingua arcaica”). Nascor da gnascor, con il grado zero della radice, c’è stata la semplificazione di un elemento consonantico. *sd radice del sedersi o stare seduti, da cui deriva sedeo, -ere: la e evidenziata è breve, come ci dimostra la forma indebolita in consideo. Da questa radice deriva anche sedes,is dove la e è lunga. Il verbo che vuol dire sedersi è sido, -ere: la i è lunga: non è una variante apofonica, perché la forma originaria di sido è una forma raddoppiata nel presente, ovvero si-sdo, con la radice sd; la i quindi c’è perché originariamente era un raddoppiamento. Il tema può contenere affissi (prefissi, infissi o suffissi): in un verbo come pertimesco, il tema è pertimesc(e), che contiene il prefisso per- e il suffisso -sc. Il verbo pungo ha come perfetto pe-pug-i o pu-pug-i: il tema del perfectum ci dice che nel tema dell’infectum c’è un infisso nasale, la n, presente in altri verbi (cumbo, incumbere). Il supino punctum è formato per analogia con il tema dell’infectum. In un verbo come fingo il perfetto è finxi, quindi mantiene l’infisso, mentre il supino è fic-tum: nel tema del perfectum, rispetto alla forma teoricamente corretta, si preferisce una forma con la n per non confonderlo con il tema del perfectum di figo, fixi, -ere. La conservazione dell’infisso nasale fa parte di tutti quei fenomeni che tengono a semplificare il paradigma verbale. Tutti questi fenomeni possono accadere nella lingua parlata. I principali modi di formazione del tema del perfectum 1. Caratteristico dei verbi della prima, della seconda e della quarta coniugazione (in vocale tematica lunga, tutti e tre), l’aggiunta del suffisso -ui ui > ama-ui, dele-ui, audi-ui Nel pronunciare questi perfetti, conviene utilizzare la pronuncia restituta: fino al primo secolo a.C. si pronunciavano non con la fricativa, ma con la semivocale. Un discorso particolare riguarda questi verbi: Sono, -as, sonui (< sonaui: ci doveva essere una vocale breve che si è indebolita), sonitum (< sonatum), -are Moneo, -es, monui, monitum, -ere Se presupponiamo che il tema del perfectum e del supino avessero come base tematica una vocale breve, ci spieghiamo sonaui>sonaui e sonatum>sonitum indebolito. Lo stesso vale per monui<moneui e monitum<monetum. Un’alternanza quantitativa della vocale tematica spiega quindi questa possibilità. 2. Aggiunta di un suffisso sigmatico -si: variamente interferisce con le vocali precedenti. Dico, -is, dic-si (dixi) Scribo, scrib-si Fingo, fing-si (finxi) L’aggiunta del suffisso sigmatico era uno dei modi che il greco utilizza per la formazione dell’aoristo. 3. Perfetto con raddoppiamento Tango, -is, te-tigi [tig dell’indebolimento dell’originario tag, con la a breve; indebolimento dovuto alla prefissazione], tactum, tangere : la n dell’infectum è un infisso, non è pertinente alla radice. La regola imposta da Cesare, ossia il tentativo di normare il perfetto, non ha successo. Le forme prefissate del verbo non raddoppiano: Cado, -ere > cècidi (a breve indebolita) MA accido, is > accidi Curro > cuccurri MA occurro > occurri 4. Perfetti ad alternanza vocalica Bacino di verbi in cui il tema del perfectum si differenzia da quello dell’infectum per un’alternanza vocalica o quantitativa o quantitativa e qualitativa. Feci dal verbo facio. La e lunga di feci è paragonabile alla forma del perfetto cappatico di τιθημι, ossia εθηκα. Anche la k risponde alla c del perfetto. Fakio, la cui a è breve, presenta un relitto di alternanza apofonica dell’indoeuropeo che si va a inserire nel quadro delle variazioni apofoniche si realizzavano - Tendenza alla selezione: rifiuto dei doppioni morfologici; - Evita le sinonimie: selezione lessicale rigorosa, cosa che è una tendenza coerente con il suo pensiero. Non troveremo mai la dittologia sinonimica; - Sono alieni alla sua prosa i grecismi e gli arcaismi (ricordare il frammento sulle parole obsolete): anche qui rigorosa selezione lessicale; - Ordine delle parole e posizione del verbo: Cesare viene definito un fanatico della posizione finale del verbo: questo dà un enorme rilievo al verbo quando NON è in posizione finale. Questo vale sia nelle subordinate sia nelle reggenti; 1. Abbiamo diversi giudizi che gli antichi formularono sui commentari di Cesare: conosciamo, per esempio, il giudizio di Cicerone nel Brutus, che si è espresso anche sulle sue orazioni. Esprime un giudizio molto positivo, anche sulle orazioni, e dice che gli piacciono moltissimo, ne ha lette molte e sono testi da approvare veramente. Dice: “Nudi enim sunt, recti et venusti” Dice che gli sono stati tolti tutti gli ornamenti retorici come se fosse stata loro tolta una veste (sono nudi). Cfr. giudizio di Cicerone sull’opera di Cesare, orazioni e commentarii: - Cic. Brut. 262: orationes quidem eius mihi vehementer probantur. compluris autem legi; atque etiam commentarios quosdam scripsit rerum suarum. Valde quidem, inquam, probandos; nudi enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta. sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volent illa calamistris inurere: sanos quidem homines a scribendo deterruit; nihil est enim in historia pura et inlustri brevitate dulcius. “Ma mentre voleva che altri avessero le cose preparate/un testo pronto da cui traessero coloro che volessero scrivere un’opera storiografica, forse fece qualcosa che è gradito solo agli incapaci, che le vorranno adornare con i ferri e renderli arricciati: gli uomini sani di mente invece li distolse da questo proposito; infatti anche nel genere storico non c’è niente che sia più dolce/bello per una brevitas pura e illustre” Il giudizio è quindi assolutamente lusinghiero e positivo. 2. Tra i giudizi degli antichi c’è anche una formula che viene utilizzata da Frontone per parlare di Cesare in una lettera a Lucio Vero (2.1.8), che attribuisce a Cesare una “facultas dicendi imperatoria” Una capacità del parlare da imperator; quasi è in grado di ordinare la prosa come ordinava le truppe. Rigore, chiarezza, perspicuità. 3. In questo testo alcuni editori hanno sentito la presenza di un paio di elementi che, a giudicar bene, sono tendenziosi: uno di questi elementi è legionibus intra vineas in occulto expeditis. Concretamente, com’è possibile coprire le legioni con le vinee senza che la cosa venga percepita dal nemico? Qualcuno ha proposto di espungere intra vineas. L’altro elemento che suonava esagerato era ex omnibus partibus evolaverunt: ex omnibus partibus è un’epressione che racconta e interpreta, anche su questo alcuni editori hanno avuto dubbi: è un’espressione un po’ esagerata. Queste parole non vanno tolte, ma una lettura attenta ci fa cogliere che Cesare non usa solamente la cronaca oggettiva, ma qualche elemento di tendenziosità c’è, dalla costruzione del passo in generale. Quest’impressione di oggettività e di precisione che riguarda tanti aspetti della prosa cesariana fa giudicare questi aspetti non come il riflesso di una ingenuità o sincerità, ma come l’esito di una scelta o cosa. Lo ‘stile amministrativo’ dei commentarii : - Cfr. Plaut., Pers. 753-7: Hostibus uictis, ciuibus saluis, re placida pacibus perfectis, / Bello extincto, re bene gesta, integro exercitu et praesidiis, / Quom bene nos, Iuppiter, iuuisti dique alii omnis caelipotentes, / Eas uobis habeo grates atque ago, quia probe sum ultus meum inimicum. / Nunc ob eam rem inter participes diuidam praedam et participabo Sallustio, Bellum Catilinae 10, 5-6 Sezione emblematica delle caratteristiche della lingua e dello stile. Il capitolo 10 fa parte della sezione della cosiddetta archeologia (sezione della Guerra del peloponneso in Tucidide dove si spiegano le premesse della guerra), dove presenta un’analisi retrospettiva in cui mette in rilievo quali siano le cause di natura morale che hanno portato alla congiura. La crisi, di natura politica ed economica, è soprattutto di natura morale secondo la storiografia antica. Ambitio = non è andare in giro a cercare i voti, in questo caso è un vizio morale. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aestumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post, ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum “L’ambizione costrinse molti mortali a diventare falsi, ad avere una cosa chiusa nell’animo, un’altra cosa manifesta sulla lingua, a stimare le amicizie e le inimicizie non secondo la realtà delle cose, ma secondo il vantaggio, e ad avere buono più il volto dell’animo. Queste cose dapprima piano piano crescevano, talora veniva anche punita; ma poi, quando il contagio si diffuse come una pestilenza, la cittadinanza cambiò (in- prefisso spaziale, non negativo), il potere da giustissimo e ottimo divenne crudele e intollerabile” Ci sono diversi elementi stranianti, ossia che, dal lettore e ascoltatore dell’epoca di Sallustrio, potevano essere percepiti come diversi rispetto all’uso comune della lingua. Uno di questi elementi, che va nella direzione dell’arcaismo, è: - Mortalis = accusativo plurale in -i-, elemento non preservato dalla lingua d’uso; nello standard si trova -es. L’uscita in -is rimane nella lingua della poesia e della prosa elevata. Anche come scelta lessicale, non va nella direzione della lingua comune (multos mortalis nesso allitterante). Mortalis è una designazione propria della lingua poetica: scelta straniante. - Scelta lessicale paragonabile a quella di mortalis è quella di in pectore: pectus per animus, termine tipico della lingua poetica. - Resa del sonus medius: aestumare, iustissumo atque optumo. - Voltum: la forma standard è vultum. Qui abbiamo una grafia arcaizzante che rispecchia la grafia e la pronuncia originaria di questo termine. In pronuncia restituta si pronuncerebbe uoltum: la forma standard di questo termine, ossia vultus, è coerente con un’oscuramento della o reso possibile dal fatto che il fonema precedente non è sentito come semivocalico, ma come consonantico. Quando quella u originaria inizia ad assumere una pronuncia della fricativa, i termini latini nel primo secolo aC iniziano a essere traslitterati in greco con la beta, mentre prima del primo secolo aC venivano traslitterati in greco con il dittongo ou. Le traslitterazioni a un certo punto cambiano. A questo punto può evolvere verso vul-, con la u. Voltum quindi ai tempi di Sallustio è arcaizzante, ricercata. Un altro doppione morfologico che sceglie spesso Sallustio è -ere/-erunt per la terza persona plurale indicativo perfetto. Abbiamo quindi una facies linguistica caratterizzata da scelte lessicali che vanno nella direzione di uno straniamento/distanza dalla lingua corrente. Tutto questo sarà funzionale a dare un’impressione di solennità, ma anche per riagganciarsi al moralismo, ossia all’interpretare i fatti storici come effetto di fatti morali, non storici e politici. In questo, Sallustio è un continuatore di Catone: storiografia moraleggiante. La prosa quindi riflette la difesa del mos maiorum. Per quanto riguarda la sintassi, invece, possiamo parlare di inconcinnitas, che è una scelta: chiasmi e parallelismi utilizzati in modo sapiente. Nel primo paragrafo tutti gli infiniti sono retti da subegit, che qui vuol dire “costrinse”; nel secondo paragrafo invece ci sono infiniti, una delle possibilità alternative al perfetto o al presente storico per la narrazione. Nella subordinata con il post c’è regolarmente il perfetto; poi civitas inmutata reggerebbe o esse o est, proprio come factum. L’uso dell’infinito storico/narrativo è un elemento presente nella prosa storiografica di Cesare. È uno stilema di cui Sallustio fa un uso crescente passando dal Bellum Catilinae al Bellum Iugurthinum. A noi, l’utilizzo dell’infinito storico può sembrare una scelta banalizzante. L’infinito storico rimane però uno stilema confinato alla storiografia: in un autore come Ammiano Marcellino, storiografo del IV secolo dC, madrelingua greco e siriaco, non è mai utilizzato —> un non madrelingua latino probabilmente non sapeva bene quanto utilizzarlo. È quindi un elemento che si usa in certe sequenze narrative che vivacizzare, ma il non parlate latino non sapeva bene quando utilizzarlo. L’uso dell’infinito storico rende l’idea di un’astoricità dell’azione e di un’universalità dell’azione: oltre a fare una diagnosi storica, ci dice che la possibilità di declino e di deriva morale non è contingente, ma è universale. Universalizza la lezione di storia che possiamo imparare dal passato di Roma. Ritmo movimentato e concitato: rapido declino a cui l’ambitio porta. Sallustio, Bellum Iugurthinum, 113 Uno degli ultimi capitoli del Bellum Iugurthinum, in cui Sallustio fa un passo indietro nel tempo e racconta delle vicende accadute nel regno di Numidia dopo la morte del re defunto (118 a.C.), vicende che si risolvono più di 10 anni dopo con l’arrivo di Caio Mario come console in Numidia (107 a.C.). Uno dei due figli del re defunto aveva chiamato i romani a intervenire contro Giugurta, un nipote adottato che concorreva al trono contro i due figli legittimi. La storia è molto lunga, perché i romani intervengono non subito, qualche anno dopo essere stati chiamati, ma tutti i romani che andavano in Numidia venivano corrotti da Giugurta. È l’arrivo di Caio Mario, che non si fa corrompere, che la guerra termina con l’uccisione di Giugurta, consegnato da uno dei suoi alleati africani, Bocco, re della Mauritania. Questo capitolo racconta in un modo romanzesco (in senso moderno) tutte le esitazioni di Bocco nel momento in cui deve decidere chi tradire fra i romani e Giugurta. L’interesse di questo passo sta nella presentazione che Sallustio dell’interiorità psicologica di questo personaggio. Sallustio eccelle in un elemento di cui c’è traccia nel Bellum Catilinae (descrizione della psicologia di Catilina), in questa qualità drammatica (approfondimento della psicologia) della prosa. Abbiamo la psicologia del personaggio, che emerge dalla descrizione delle esitazioni interne, che però si riflettono in elementi esterni ed esteriori. Prima è tutto lento, poi il finale veloce richiama il passo di Cesare. Silla ai quei tempi era luogotenente di Mario in Numidia. Maurus = Bocco Haec Maurus secum ipse diu volvens tandem promisit; ceterum dolo an vere cunctatus, parum comperimus. Sed plerumque regiae voluntates ut vehementes sic mobiles, saepe ipsae sibi advorsae. Postea tempore et loco constituto in conloquium uti de pace veniretur, Bocchus Sullam modo, modo Iugurthae legatum appellare, benigne habere, idem ambobus polliceri; illi pariter laeti ac spei bonae pleni esse. Sed nocte ea, quae proxuma fuit ante diem conloquio L’apofonia indoeuropea è una variazione morfologicamente significativa. È un fenomeno non meccanico, come quella latina, ma funzionale. Il problema delle sopravvivenze dell’indoeuropeo in latino è che sono sopravvivenze incoerenti. In indoeuropeo c’era un sistema di alternanza vocalica sistematico: vedeva, in linea generale, per la radice, un’alternanza fra un grado pieno, caratterizzato dalla vocale breve, e un grado allungato, con la vocale lunga. Nelle tabelle c’è qualche esempio di sopravvivenza del fenomeno, con parallelismi con il greco. È un fenomeno che in latino risulta non produttivo e tende a essere oscurato da altri fenomeni fonetici. Il parlante latino quindi non percepisce le alternanze come sistematiche. Es. advorsae: alternanza fra ver- e vor-, forse alternanza fra un grado normale e un grado forte; ma il latino non distingue le due apofonie in base al tema. Per quanto riguarda il verbo facio, viene prima il perfectum feci e poi l’infectum; questo perché l’elemento gutturale di feci deriva dal suffisso cappatico dell’aoristo. o Doceo = insegnare < “far parere bene”, con grado apofonico forte tipico dei verbi causativi. o Disco = per il parlante latino era impossibile cogliere la parentela e la corradicalità fra questo verbo e doceo e decet. o Procus = colui che richiede, il pretendente. Alternanza impossibile da riconoscere per il parlante latino nel suo valore distintivo. o -yes suffisso del comparativo o Fido: l’apofonia non si riconosce più nella sua origine. o Nella radice che vuol dire “lasciare”, quindi, il tema dell’infectum sarebbe molto vicino al tema del perfectum. Il tema dell’infectum sarebbe relinquo: ci spieghiamo quindi quale valore possa avere nell’infectum l’inserzione dell’infisso nasale, che distingue quindi l’infectum dal perfectum. o Tentus da tntus: la sonante si vocalizza. o Le ultime quattro radice prevedono la presenza di consonanti laringali che hanno colorito la radice. o Per stare, il vocalismo con la a lunga non è attestato. o In latino ho molti composti di dare con la a breve: es. reddo, -ere, la e breve dell’infinito è dovuto all’indebolimento della a breve di dare. Es. circumdo, as, circùmdedi, circùmdatum, circùmdare. La a la trattiamo come una vocale tematica, ha la flessione dei temi in a lunga, ma quella a è originariamente breve. Il fenomeno non è più produttivo perché, se non è riconoscibile nella sua sistematicità da parlante, è ovvio che non possa più essere produttivo. Questo sistema di alternanza vocalica viene ereditato, ma non è produttivo perché troppi sono i fenomeni che hanno oscurato la presenza delle alternanze nella coscienza dei parlanti e scriventi. Uno degli elementi che favorisce ciò è il livellamento analogico dei paradigmi che, al di là del pensiero analogista di Cesare, agisce molto sui paradigmi, nominali o verbali, del latino. Es. siem sies siet, il grado con la ie si perde e diventa i, mentre prima marcava la distinzione fra le prime tre persone singolari e quelle plurali. Altro elemento che complica la situazione del latino è il fatto che spessisimo gli elementi vocalici subiscono indebolimento, per cui la a breve passa ad i. Cicerone, De Republica, VI 25-26 Testo che si confronta con Seneca. Il VI libro si è salvato al naufragio del resto dell’opera in quanto unico manoscritto che riportava l’opera è un palinsesto: un manoscritto che nel VII secolo si è raschiato a Bobbio per sostituirlo con alcune omelie di commento ai Salmi da Agostino. Il manoscritto è il Vaticano latino 5757. Il VI libro ha una storia pasrticolare: fra la fine del IV secolo e l’inizio del V fu commentato da Macrobio, nel Commentarium sul Somnium Scipionis. Il De re publica è un opera che conteneva sei libri: dialogo; modello: re publica di Platone; protagonisti: Scipione l’Emiliano e Lelio. Ambientato nel 79 d.C. Si propone un modello di Stato perfetto che molto somiglia alla costituzione (assetto politico) dello Stato romano. Il VI libro narrava una visione notturna, un somnium, in cui a Scipione Emiliano appariva in sonno l’Africano, suo antenato, che mostrava la vanità della gloria terrena, confinata in una dimensione di tempo destinata a morire, e invece l’immortalità celeste che sarà dovuta a coloro che hanno prestato i loro servizi alla res publica. Oltre la morte l’anima, che è divina e immortale, godrà una felicità eterna se benemerita nei confronti dello Stato. La dottrina che ispira questo testo è dualistica, di ispirazione platonica. Il registro è colloquiale, ma alto. È un dialogo, ma non dobbiamo pensare che per questo vi si rifletta un registro non elevato. Certi elementi sono propri del parlato ma, evidentemente, il dialogo di cui l’Emiliano e l’Africano sono protagonisti, è sicuramente un dialogo che riflette in modo elevato quello che poteva essere un dialogo fra colti o dotti. Quocirca si reditum in hunc locum desperaveris, in quo omnia sunt magnis et praestantibus viris, quanti tandem est ista hominum gloria, quae pertinere vix ad unius anni partem exiguam potest? Igitur, alte spectare si voles atque hanc sedem et aeternam domum contueri, neque te sermonibus vulgi dederis nec in praemiis humanis spem posueris rerum tuarum; suis te oportet inlecebris ipsa virtus trahat ad verum decus; quid de te alii loquantur, ipsi videant, sed loquentur tamen. Sermo autem omnis ille et angustiis cingitur iis regionum, quas vides, nec umquam de ullo perennis fuit et obruitur hominum interitu et oblivione posteritatis exstinguitur.” Quae cum dixisset, “Ego vero”, inquam, “Africane, siquidem bene meritis de patria quasi limes ad caeli aditum patet, quamquam a pueritia vestigiis ingressus patris et tuis decori vestro non defui, nunc tamen tanto praemio exposito enitar multo vigilantius.” Et ille: “Tu vero enitere et sic habeto, non esse te mortalem, sed corpus hoc; nec enim tu is es, quem forma ista declarat, sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam regit et moderatur et movet id corpus, cui praepositus est, quam hunc mundum ille princeps deus; et ut mundum ex quadam parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus sempiternus movet . “E dunque se tu avrai disperato il ritorno verso quel luogo in cui tutto c’è per gli uomini grandi e gloriosi, ma infine quanto (poco) vale questa gloria degli uomini, che può essere pertinente alla piccola parte di un unico anno [dura pochissimo]? Dunque, se vorrai volgere lo sguardo verso l’alto e fissare questa sede e questa dimora eterna, tu non ti affidare ai dialoghi del popolo e non porre la speranza della ricompensa di ciò che farai [rerum tuarum] nei premi degli uomini, è opportuno che la virtù in persona con le sue seduzioni ti attragga alla gloria [sinonimo di gloriam, decus] vera; che cosa dicono gli altri di te lo vedano loro [senso del congiuntivo è “è affar loro”, “se la vedano loro”], ma tuttavia parleranno. Ma tutti quei discorsi è limitato dalle angustie delle regioni che tu vedi e non furono mai eterni riguardo a nessuno e sono coperti dalla morte degli uomini e sono spenti [metafora del fuoco] dalla dimenticanza della posterità. Dopo aver detto questo, io dico: ‘ma io, Africano, se è vero che per i benemeriti dello Stato è aperto per così dire un sentiero [limes, limitis = propr. Confine] verso l’ingresso del cielo, per quanto io fin dalla mia giovinezza essendo entrato nelle orte tue e di mio padre e non sia mai venuto meno alla vostra gloria, ora tuttavia, essendomi stato proposto un tanto grande premio, mi sforzerò con molta più energia’. Ed egli: ‘Tu impegnati e considera ciò, che non sei tu mortale, ma questo corpo; infatti tu non sei quello che questa forma mostra, ma la mente di ciascuno questo è ciascuno, non è quella forma che si può mostrare a dito. Sappi che tu sei un dio, se è vero che è un dio, colui che ha l’istinto vitale, che percepisce, che ricorda, che provvede, che regge e modera e muove questo corpo cui è preposto tanto quanto quella divinità somma [ora sottintende tutti i verbi visti finora] questo mondo [due entità immortali che governano e muovono due entità mortali: deus e animus vs corpus e mundus]; e come quel dio eterno muove un mondo che è in certa parte destinato alla morte, così un animo sempiterno muove il fragile corpo’”. La dimensione del tempo non è tanto di felicità individuale, ma è qualche cosa, coerentemente con una concezione molto romana e catoniana, di fortemente collegata alla dimensione della collettività della res publica. Osservazioni linguistiche: o Abbondano elementi connettivi (igitur, autem, congiunzioni coordinanti, quae enclitico …), manifestano la logica del discorso. Prosa ricca e fluida. Ragionamento reso tramite una certa perspicuità. o Quanti: genitivo di stima, lett. “di che valore è”. Suffisso del genitivo di stima -i. o Hominum: genitivo sia soggettivo sia oggettivo. o Neque te dederis … neque posueris: congiuntivi esortativi, forma dell’imperativo negativo (congiuntivo perfetto) o Suis te oportet … ad verum decus: ci si aspetterebbe un’infinitiva (virtutem … traherem) retta da oportet. Qui abbiamo invece un costrutto paratattico, l’ut non è espresso. Quasi colloquiale. o Ipsi videant: “vedano loro”, il senso è “è affar loro”. È arieggiato l’andamento del parlato colloquiale. o Posteritatis: genitivo soggettivo, ma la cosa da osservare è che non si utilizza il sostantivo posteri, ma il sostantivo astratto. Il latino, rispetto al greco, nasce come una lingua con meno attitudine alla speculazione, perché è più scarsa negli strumenti linguistici dell’astrazione (meno sostantivi in -tas: da ποιοτης Cicerone conia qualitas). Altro strumento del greco è la presenza del participio e della possibilità di sostantivare il participio o l’infinito (το ον oppure το είναι). Il latino, dal punto di vista della lingua filosofica, ha carenze oggettive. Certi elementi le sono estranei, come tutte le risorse offerte dalla presenza dell’articolo; altri sono meno utilizzati o Perennis: per + annus o Siquidem: composto di si + quidem; si è un avverbio/congiunzione condizionale, quando è in composizione con quidem ha una sfumatura prossima alla causale. o Enitere: imperativo presente di enitor C’è un’altra possibilità per costruire la forma momentanea ingressiva. Questa seconda modalità prevede l’associazione di un prefisso con la presenza anche del suffisso verbale -sco. Modo di formazione tipico soprattutto per i verbi a vocale tematica lunga, in particolare quelli in -eo. Valeo, -ere: star bene, avere buona saluta vs Convalesco, -ere: guarisco Horreo, -ere: essere dritto; essere inorridito vs Perhorresco/Exhorresco: mi inorridisco Verbo delle spighe, che sono dritte come stato Timeo, -ere: temo vs Pertimesco: spaventarsi Taceo: sto zitto vs Conticesco: mi zittisco Esistono poi forme dalla quarta, con la i lunga: Dormio, -ire: dormire vs Obdormisco: addormentarsi Sapio (i breve), -ere: avere sapore/saggezza vs Resipisco: ritorno in me Perché le forme prefissate e suffissate in -sco vengano percepite come aspettualmente caratterizzate deve esserci l’opposizione con il verbo base. Il suffisso -sco si usa in formazioni verbali nelle quali, non essendoci un’opposizione con una forma verbale base, perde il significato: Posco < *prc -sco: che questo suffisso non sia sentito nel suo valore originario lo dimostra il fatto che il perfetto di posco è poposci: nel perfectum si conserva il suffisso -sco dell’infectum. NB Il suffisso -sco è un suffisso verbale molto diffusso, va chiamato con il nome “suffisso -sco”. Le grammatiche lo designano come un suffisso incoativo, ma è una definizione solo parzialmente corretta, non copre tutti i casi. Ci sono molte formazioni in cui il suffisso conserva il suo valore originario di indicare un cambiamento di stato, specialmente in assenza di prefisso. Es: Verbi a base nominale: • In Agostino: silvesco,-ere, da silva, “proliferare come una selva”. Non è un ingressivo, vuol dire che i peccati si stanno moltiplicando; • Tabesco: “divento putrido”, da tabes, “la putredine”; • Viridesco: da viridis, “verde” nel senso di “vigoroso”: “divento viridis”. Questo suffisso è conservato solo nelle forme dell’infectum. Seneca, Epistulae I.1 È nella vita dell’individuo che si gioca o meno la verità del tempo, che può essere vero o falso a seconda di come l’individuo lo vive. Questa modalità di vivere il tempo la possiede solo il sapiens. Tutti coloro che camminano verso la filosofia, nel lessico senecano, sono i proficientes (pro + facio, “fare passi avanti”; esiste anche una forma suffissata in -sco, proficiscor, “mi metto in cammino”, idea incoativo del suffisso). Seneca Lucilio suo salutem. Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus. Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris. Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, inputari sibi cum inpetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere. Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit. Quid ergo est? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, ‘sera parsimonia in fundo est’, non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale. “Fa’ così, mio Lucilio: rivendicati a te stesso [vindico, -are: connotazione giuridica: “(ri)prendere possesso”] e il tempo che fino ad oggi o veniva portato via o veniva sottratto o cadeva via raccoglielo e conservalo. Convinciti che questo è così come scrivo: [qui fa un discorso che riguarda i tempi, le parti del tempo] certi istanti ci vengono portati via, alcuni ci vengono portati via di nascosto, altri scorrono via [climax a responsabilità crescente del soggetto]. Ma la perdita più grave è quella che accade a causa della negligenza. E se vorrai fare attenzione, una grande parte della vita scorre via per coloro che agiscono male, [andamento brachilogico dipico del parlato], la massima parte della vita scorre via per coloro che non fanno nulla, tutta la vita sfugge a coloro che fanno altro. Chi mi darai (come esempio) che ponga un qualche prezzo/valore al tempo, che dia valore al giorno, che comprenda che muore ogni giorno? In questo infatti ci inganniamo, poiché [valore proprio del preverbio pro-] guardiamo avanti verso la morte [ossia pensiamo che sia nel futuro]: la grande parte di essa è già passata; tutto ciò che di tempo è alle nostre spalle la morte lo tiene. Dunque, Lucilio, fa’ ciò che scrivi che stai facendo, abbraccia ogni ora; così accadrà che tu dipenda meno dal domani, se avrai messo le mani [espressione tecnica giuridica, “prendere possesso di”] sull’oggi. Mentre si rimanda/tergiversa la vita passa. Tutte le cose, Lucilio, sono altrui [alienus = ciò che giuridicamente appartiene a un altro], soltanto il tempo è nostro; la natura ci mise nel possesso di questa unica cosa fugace e labile, dal quale chiunque vuole ci caccia [è molto facile farci perdere del tempo]. E la stoltezza del mortali è di tale misura che le cose che sono piccolissime e di scarsissimo valore economico [vilis aggettivo economico, opposto di pretiosus], sicuramente recuperabili, permettono che vengono imputate a sé quando le hanno ottenute, [manca la particella avversativa] invece che abbia ricevuto del tempo giudica di essere debitore di qualcosa, mentre questa è l’unica cosa che neanche la persona grata può restituire. [Seneca quindi mette a nudo se stesso; ora c’è un andamento dialogico: l’epistola è un sermo dimidiatus, un mezzo dialogo] Forse tu chiederai che cosa faccia io che ti do questi insegnamenti. Lo confesserò sinceramente: ciò che accade a una persona che sia prodiga ma scrupolosa: mi torna il conto della spesa. Non posso dire che non perdo nulla [nihil è il tempo o la spesa economica? Ovvio che è il tempo, ma la metafora economica è pervasiva], ma potrei dire che cosa perdo e perché e in che modo; saprei rendere conto della mia povertà. Ma mi accade ciò che avviene alla maggior parte delle persone che sono condotti alla povertà non per colpa loro: tutti perdonano, nessuno li aiuta. E quindi? Non ritengo povero colui al quale è sufficiente [quantulumcumque elemento intraducibile] quel che gli resta per quanto sia poco. Tu tuttavia preferisco che tu conservi le tue cose, e inizierai a tempo opportuno [inizierai è morfologicamente un futuro indicativo; ma ha una natura direttiva e precettiva, quindi sostituisce l’imperativo. Si avvicina al significato di un incipias, un congiuntivo esortativo, di natura volitiva]. Infatti, come sembrò opportuno ai nostri antenati, ‘la parsimonia nel fondo è tarda’, infatti nel fondo non rimane soltanto la minima parte, ma anche la parte peggiore. Stammi bene.” Osservazioni funzionali al confronto con Cicerone: Il testo di Seneca, forse più di quello di Cicerone, è fortissimamente dialogico. È un sermo dimidiatus, un dialogo dimezzato. In questo testo ci sono numerose metafore: • Vindicare: vendicare il possesso di qualcosa a qualcuno. • Dalla frase dopo è ovvio che il tempus è trattato come un valore economico: può essere sottratto (anche di nascosto), perso, scialaquato, raccolto, conservato (auferebatur, subripiebatir, excidebat, collige et serva, eripiuntur, subducuntu, effluunt) • Iactura: da iacio, -ere, “gettare via”; • Medesima metafora in aliquod pretium e • Nel verbo aestimare • Anche nel termine giuridico alienus, che indica ciò che appartiene a un altro. • Anche nel termine tecnico possessio, la “proprietà”. • Vilissima : aggettivo economico prima che morale • Inputari • Debere: verbo anche del debitum; è un verbo che, costruito con l’infinito, indica spesso un vincolo giuridico. • Accepit • Reddere Lo stesso tipo di metafore economiche e gli elementi giuridici sono presenti anche nell’ultima parte (luxuriosus). La lingua giuridica e le metafore economiche in un testo di questo tipo danno un senso di concretezza e vividezza maggiore: una questione speculativa acquisisce un’immediata concretezza. Inoltre, romanizza: il discorso filosofico sul buon uso del tempo è travasato dentro categorie che lo rendono familiarissimo a un pubblico romano. Prende una dottrina greca, stoica, e la esprime in termini vivi e concreti agli occhi di un romano. Questo testo è per lo più spaziale-concreto: la maggior parte delle forme verbali ha recuperato il modo originario: si vede nella prima parte, quando si parla dei modi di perdere il tempo: auferebatur (da ab); subripiebatur; excidebat. Questa climax ascendente è ripetuta nella frase successiva: eripiuntur (come auferebatur); subducuntur (identità del prefisso); effluunt (identità del prefisso). All’interno di questo passo emerge una caratteristica osservabile anche in Agostino, in un contesto di latino tardo nel quale i prefissi verbali si grammaticalizzano: la presenza del prefisso non sempre caratterIzza il verbo in modo pregnante (ci sono elementi di pluriprefissazione: così deboli che ce ne vogliono di più). Spessissimo nella lingua di Agostino i prefissi riacquistano il loro significato pregnante e originario: in Agostino, uno dei prefissi che in latino ha meno frequentemente valore spaziale, è il prefisso con-. Ci sono sezioni in cui si parla dell’amicizia dove il prefisso con- vede conferito nuovamente una vividezza materiale (prefisso associativo, dell’unione) che va controcorrente alle tendenze della lingua tarda. Anche Apuleio lavora in questo modo. Prospicimus = pro- indica il guardare davanti. Dal punto di vista delle sequenza delle idee: un concetto è chiaro, quello dell’essenzialità del tempo. Intorno a questo concetto si creano dei cerchi concentrici, si aggiungono idee non in conseguenza logica con quanto è stato detto fino ad ora. C’è una pars construens: cosa vuol dire perdere il tempo, esortazione a farne buon uso. La sequenza delle idee non è sviluppata consequenzialmente; l’idea principale è sviluppata nei dettagli in un modo che ha una sua coerenza, che è propria di un dialogo. È come se stesse parlando. La sintassi prevede un andamento paratattico, ma non è solo ipotassi. Nel testo ciceroniano la struttura era più complessa e più organicamente strutturata. Qui l’impressione è di tanti piccoli cola, membri sintattici. Si serve delle sententiae: frasi formulate a effetto (es. frase sottolineata). Impressione di un testo dominato da un gusto per il gioco retorico e per l’effetto. 44. “Ora il popolo è a casa leoni, fuori volpi. Per quanto mi riguarda, mi sono mangiato tutti i miei pani e, se va avanti questa annona, venderò anche la mia casetta. Che cosa accadrà se né gli dei né gli uomini hanno pietà di questa colonia? Possa io godere dei miei, se è vero che io penso che tutte queste cose vengano dagli dei. Infatti nessuno ritiene il cielo cielo, nessuno osserva il digiuno, nessuno fa Giove un pelo, ma tutti, con gli occhi caperti, contano i loro beni. In passato le matrone stolate, andavano [sembra che il tono si sollevi] a piedi nudi sul Clivo [su cui veneravano la triade capitolina], … e chiedevano acqua a Giove. E così subito chiedeva a orci [urceatim], o allora o mai, e tutti ridevano bagnami come topi [versione ignobile della similitudine]. E così gli dei hanno i piedi bendati di lana, poiché noi non siamo devoti/religiosi. I campi giacciono (non curati)…” Questo testo è molto ricco di elementi interessanti: l’ipotesi con cui noi lo leggiamo è che si tratti di un testo parlato da liberti (sermo plebeius) ; però è un riflesso artistico: parliamo di oralità mimetica. È filtrato da un autore che sa usare molti altri registri stilistici del latino, in più è una scelta di etopea (= far parlare il personaggio secondo il suo carattere; costruire il discorso caratterizzandolo secondo l’ethos del personaggio) non neutrale: il personaggio è caratterizzato da un ritratto negativo. • Prima frase: espressione proverbiale, comprensibile anche per noi (si trova anche nella Pace di Aristofane). Populus è collettivo, quindi il verbo va al singolare. La lingua sembra poco sorvegliata. Domi è un locativo. Sono relitti del locativo molti avverbi (heri, “ieri”); Romai > Romae. Foras è un avverbio di luogo, ma l’avverbio che indica “fuori” distingue una forma che si usa per il moto a luogo (foras, forma originaria di accusativo plurale) e una forma per lo stato in luogo (foris, forma originaria di ablativo): l’uso di foras invece che foris è un altro indizio di una lingua poco sorvegliata. • Comèdi = uno dei verbi che il latino parlato predilige, sopravvive in spagnolo. Viene privilegiato il verbo comedere. Il personaggio parla in maniera corposa: il carattere di sovraccarico espressivo è un elemento tipico. Pannos = sinonimo degradato di veste; casula = diminutivo di casa, che indica la capanna. È come se ci presentasse la versione povera delle vesti e la versione povera della casa. • Annona = prodotto della terra per un anno, imparentato con annus. Indica anche il prezzo del grano. • Quid enim futurum est = qui ci aspetteremmo fiet, spessissimo si trovano nella lingua dei liberti forme perifrastiche per il futuro. Perché la forma perifrastica invece che la forma sintetica? Il futuro è un tempo che facilmente viene sostituito da forme perifrastiche, specialmente nei registri bassi. Il futuro latino sincretico non sopravvive: il futuro italiano nasce da forme perifrastiche. Il futuro è confondibile con l’imperfetto o con il congiuntivo presente nel momento in cui si perde la concezione della desinenza. Il futuro si presta a troppe confusioni: si presta ad essere sostituito da forme perifrastiche. Spesso nei registri non sorvegliati noi troviamo il presens pro futuro, anche per questo non viene conservato. • Ita meos fruniscar, ut… = verbo imparentato con fruor, con suffisso -sco. È un verbo attestato in autori arcaici come Catone e Plauto. È una formula di auspicio, di scongiuro. Congiuntivo con sfumatura desiderativa. L’ennesimo tratto plebeius è meus, perché fruor regge l’ablativo strumentale; l’accusativo si trova in testi di registro meno sorvegliato. • Diibus = qui nel testo di Petronio non si trova questa forma, ma nel manoscritta si trova aedilibus, ossia gli edili, i magistrati incaricati dell’annona. Il problema è il senso della frase nel contesto. Questo sarebbe un ablativo costruito con il suffisso dei temi in -i- e in consonante. Questo diibus è una costruzione che è supportata dalla presenza di questo ablativo in epigrafi: le iscrizioni registrano stili linguistici molto diversi. La congettura è questa perché nasce dal testo del manoscritto: congettura che spiega anche come sia nato l’errore. • Pili = genitivo di stima; retto dal verbo facit che è un verbo che ricorre spesso • Omnes opertis oculis = ci si copriva gli occhi e il capo con un velo come gesto tipico della preghiera. Invece che fare questo gesto per pregare, ci si vela il capo per contare i soldi —> degradazione della religiosità. • Nel passo successivo sembra che Ganimede innalzi il tono stilistico per ricordare il passato (da Antea) • La stola è un simbolo della matrona ed è il simbolo di una condizione veneranda e rispettabile. Fa l’esempio di un rito religioso in cui si andava chiedere la piogga a Giove. • Passis capillis = dal verbo pando, -ere. • Ganimede rievoca alcuni miti antichi: il rito viene citato anche da Tertulliano nell’Apologeticum, da cui sappiamo che la festa durante la quale il rito si svolgeva era quella dei Nudi pedalia, il rito che si svolge a piedi nudi. • Statim urceatim = avverbi in -tim, suffisso di un accusativo in -i-, che viene rianalizzato come un suffisso avverbiale (in Apuleio ci trova anche catervatim, a caterve); hanno un effetto fonico rivelante. Urceatim è un hapax, è sicuramente un avverbio molto efficace ed espressivo. • Plovebat = forma standard pluebat. Si tratta di una forma volgare che riflette il parlato, ci fa pensare all’italiano. • Pedes lanatos = nessuno si cura degli dei e gli dei hanno i piedi lanati perché noi non siamo religiosi. È un’espressione che ha a che fare con il fatto che gli dei li puniscono. C’è chi ha pensato a un’interpretazione letterale: chi procede con i piedi lanati procede senza far rumore —> gli dei vengono avanti piano piano e intervengono a punirci perché non siamo religiosi. Un’interpretazione sostenuta da attestazioni antiche si basa sul fatto che in uno scolio di Porfirione a un’ode oraziana si dice che i piedi di lana li hanno i piedi adirati, perché alle volte arrivano a punire innocenti lentamente: la vendetta del dio non arriva subito magari, ma prima o poi arriva. Gli dei con i piedi lanatos quindi prima o poi puniscono. Il testo ha un registro poco sorvegliato e un’evidente vivacità espressione. È variegato. L’assetto sintattico è fatto di frasette spezzettate. Nella seconda parte c’è un Echion centonarius: -arius è il suffisso dei mestieri. 45. “‘Per favore – dice Echion il centonarius – parla meglio/non fare l’uccello del malaugurio [=trattieniti dal dire cose irrispettose. C’è chi ritiene che loquere sia un infinito, non un imperativo. La formula sacrale originaria si è volgarizzata]. Ora va così, ora va cosà’ dice il rustico; aveva perso un porco pezzato. Ciò che non è oggi sarà domani. Così va avanti la vita [trudo = spingere; così si spinge avanti la vita]. Mehercules nessuna patria potrebbe essere detta migliore se solo questa fosse abitata da veri uomini. Ma è in difficoltà in questo tempo, e non è la sola. Non dobbiamo essere schizzinosi, dovunque il cielo è condiviso [riflesso di un’espressione proverbiale]. Tu se fossi in un altro luogo, diresti che qui i porci già cotti comminano [complimento]. Ed ecco [segnale che si cambia argomento] avremo uno spettacolo eccelente nel giro di tre giorni in giorno di festa, un gruppo di gladiatori [familia] che non viene dalla scuola del lanista, ma [è un complimento] molti liberti. E [proliferare di congiunzioni coordinanti che sono tipiche del parlato] il nostro Tito ha un grande animo ed è una testa calda/vulcanico [personaggio da cui ci si può aspettare tanto]. Sarà o questo o quello, ma qualcosa sarà comunque. Infatti gli sono familiare, non è [qui c’è un hapax, forse è imparentato con misceo, -ere “mescolare, far pasticci”] un pasticcione. Fornirà armi ottime, senza scampo, un carnaio nel mezzo, affinché l’anfiteatro possa godere di questa vista. E ne ha i mezzi. …” In questo testo ci sono diversi dettagli che non rientrano nei nostri standard: • Melius loquere = duplice possibilità di interpretazione: oro + infinitiva, che presupporrebbe loquor flesso con un verbo attivo (cosa che c’è nel capitolo successivo); oppure imperativo: sembrerebbe la versione latina volgare di una formula greca sacrale del verbo ευφημεi, esortazione formulare utilizzata nell’ambito sacrale. Questa potrebbe essere la forma degradata di un imperativo sacrale. Va ad accrescere gli elementi di lingua religiosa degradata nel testo. • Centonarius = cento, onis è un tessuto costituito da tante pezze. Cento, -inis è il nome di un sottogenere letterario: poesie costruite con frammenti tratti (parole, emistichi, versi) dal testo di Virgilio, tipicamente. Il più importante dei poeti di questo genere è stato Ausonio. Centonarius è o uno straccivendolo, perché -arius è tipico dei nomi di mestiere, o si può intendere questo termine nel senso di pompiere: ci sono diverse testimonianze, soprattutto dell’ambito militare (Cesare o Vitruvio), per cui un modo per spegnere gli incendi è soffocare le fiamme buttandoci sopra stracci o stuoie. • Modo = avv di tempo che vuol dire o ora o poco fa. • Perdo = senso latino del termine è “mandare in rovina”; significato volgare è come l’italiano • Porto = trasportare; Trudo = sospingere, spingere. Questo verbo in contesti analoghi lo si trova in Seneca, nel De brevitate vitae: “vita trudetur”, “la vita sarà sospinta avanti/passerà”. I commentatori a Petronio citano tutti un epitafio per dire che questo termine doveva essere di lingua comune. Questo epitafio è un mistero: non ci sono tracce in nessuna fonte. Epitafio con un defunto che si rivolge a colui che guarda la tomba (immagine topica): “Vixi ut vivis. Morieris ut sum mortuus. Sic vita truditur”. Citato perché era presente nel commento del Beaumont. • Ubique: -que particella che da il senso dell’indefinito. Poi ci soffermeremo sull’origine di ubi. • Medius caelus: il problema è caelus, che dovrebbe essere neutro. Il problema vale anche per amphitheater, che dovrebbe essere neutro. Fenomeno che non è per nulla strano, ossia l’unione del maschile con il neutro singolare (il neutro plurale invece diventa un singolare femminile): ai tempi della lingua parlata di Petronio era già iniziata. • Aliubi: “da qualche altra parte”. Elemento su cui ci soffermeremo • Habituri sumus = tendenza ad abbandonare il futuro sincretico. Tendenza del futuro semplice a farsi rimpiazzare da forme perifrastiche. • Excellente = il nominativo è excellens per tutti e tre i generi. Quindi dovrebbe avere il neutro in excellente. Questo è il prodotto di un livellamento sul tema del genitivo. • Familia lanisticia = il lanista è l’allenatore dei gladiatori; la famiglia non lanisticia quindi è un gruppo di gladiatori che non viene dalla scuola del lanista. Il fatto che siano tantissimi liberti ha connotazione positiva per chi parla. Dediticius = verbo dedo, -ere (composto di do, are), “dare, al passivo darsi, arrendersi”. I deditici erano schiavi catturati. • Caldicerebrius = aggettivo composto da calidus in forma sincopata (origine dal parlato di questo composto nominale) e poi cerebrum (cervello). Tendenzialmente i composti nominali si trovano in poesia e sono grecismi. Il latino è una lingua restia alla creazione di composti nominali rispetto al greco. I composti nominali nascono in latino sotto l’influsso della lingua poetica greca. Sono quindi elementi pertinenti al registro alto. Caldicerebrius non è di registro alto: è la versione terra terra di un magnanimus. Ci testimonia della possibilità della composizione nominale anche in altri registri linguistici: espressione sovraccarica. • Utique : ci ritorniamo • Carnarium: il suffisso -arium neutro è un suffisso nominale che tendenzialmente indica il luogo dove si tiene/conserva qualche cosa. Il carnarium è il carnaio, luogo dove si tiene la carne. Questa è una lingua caratterizzata da vivacità, colore e un carattere iper espressivo e affettivo (anche in senso negativo). In molti tratti si compiace di imitare la lingua parlata di registro basso ed elementi caratteristici di questo sono alcune scelte lessicali. Ci sono poi formule religiose che figurano trivializzate e che sono elementi pertinenti a uno stile a un linguaggio che doveva essere alto, ma che qui sono travolte da un registro dominante. Von Andrecht sottolinea come vivacità e colore rispecchiano uno degli aspetti più interessanti del romanzo di Petronio, ossia un certo vitalismo (vitalità, espressività). Dall’altra parte sottolinea come questi elementi altri (di lingua sacrale che ha perso la connotazione sacrale) ci ricordano che in realtà il romanzo di Petronio, nel suo modo di guardare la realtà, non è semplicemente un’adesione vitalistica, ma è anche un ripensamento nostalgico di tutto ciò che di buono è andato perduto nel tempo presente. Tutti questi elementi, pertinenti a un registro altro, è come se ci ricordassero che il leitmotiv del romanzo di Petronio è la presa di distanza da questa realtà. Questo quindi indicherebbe un deprecato allontanamento dagli elementi tradizionali. Meditullio = sul dizionario troviamo che è un termine che ad Apuleio piace (lo usa almeno un paio di volte). È un sinonimo di medius, poi è attestato variamente nella tarda antichità: Ammiano Marcellino, Simmaco, Agostino. È un termine che dà un effetto di sovrabbondanza, di corposità rispetto a medium. Potrebbe essere un elemento pertinente anche al parlato. Ma è interessante osservare che il primo testo in cui appare sono i Topica di Cicerone, opera la quale Cicerone, verso la fine della sua vita, indirizza a Tribazio Testa, un giureconsulto amico di Cicerone (c’era un rapporto confidenziale). Opera dedicata a quella parte della retorica che è l’inventio: quali tipi di argomentazione si possono utilizzare per sostenerle in termini giuridici e giudiziari. Fra i capitoli 35 e 37 vediamo apparire per la prima volta questo termine. (Guarda il testo sulle slide) Notatio = corrispondente latino di etimologia in greco. Postliminio = altro dei termini che Apuleio predilige I due personaggi che cita sono due giureconsulti, che si servono di diverse etimologie di postliminium per sostenere cause diverse: 1. Servio dice che l’unico elemento significativo è post, mentre liminium è una productionem verbi (una forma suffissata, un allungamento della parola), ossia un allungamento della parola. Liminium non è nulla di più di quanto non voglia dire -tullium in meditullium 2. Scevola pensa che sia un composto di due elementi diversi: post + limen (soglia). Indica il tornare indietro, alla stessa soglia. Qui abbiamo un testo che cita come autorità grammaticali i giureconsulti, i quali esprimono opinioni diverse ma grammaticali. A questo punto questo meditullium in Apuleio, come postliminio, ci fa sorgere il dubbio che questo sia un termine corposo più espressivo. I Topica sono un’opera pertinente alla retorica di scuola. Questo ci rende evidente come sia molto difficile giudicare a priori, soprattutto quando si tratti di termini poco attestati. È difficile stabilire a priori a quale registro appartenga un termine. “Molte argomentazioni vengono tratte anche dall’etimologia. Questa è quando l’argomentazione viene tratta fuori dal significato (originario) del nome. È ciò che i greci chiamano etymologian, tradotto letteralmente “veriloquium” [ethymos in greco = autentico]. Noi però rifuggendo la novità di una parola non così adatta, i fenomeni di questo tipo li chiamiamo notatio, perché le parole sono note [ossia segni] delle cose. E Aristotele chiama tutto questo συμβολον, che in latino si traduce nota. Ma, una volta che si capisca quale sia il significato, non dobbiamo perderci tempo sul termine. Molti argomenti vengono tratti nel disputare dalla parola, come per esempio quando ci si domanda che cosa significhi postliminium [si usa in associazione ad avverbi che indicano il tornare indietro]. Postiliminio tornano queste cose: uomo, navi, il mulo da soma con il carico, un cavallo o una cavalla che sia solita subire il freno; ma quando si indaga il significato del postliminium si cerca di fare anche l’etimologia della parola e nel far questo il nostro Servio, per quello che ne so, ritiene che nulla sia da etimologizzare, tranne l’elemento post e interpreta che quell’elemento liminium sia l’esito di una suffissazione e di un allungamento della parola come in infinitumo, legitumo, aeditum l’uscita -tumus non valga di più rispetto al -tullium di meditullium. Ma Scevola, figlio di Publio, ritiene invece che si tratti di una parola composta, e cioè che in questo termine ci sia il primo membro post e il secondo limen, cosicché le cose che ci sono state sottratte/rubate dopo che sono arrivate al nemico e per così dire sono uscite dal loro limen, quando una volta sono tornate indietro, è chiaro che sono tornate postliminio”. Abbiamo quindi uno stile composito nel quale dobbiamo stare attenti nel valutare a quale tipo di registro linguistico un elemento lessicale sia pertinente. Questione della patina straniante della narrazione apuleiana: ci sono tanti elementi che è come se creassero intorno alla narrazione un’impressione di complicata e misteriosa di quanto non possa sembrare. Auxilio rosario e praesidio salutari sono strani, perché auxilio e praesidio sono elementi tipicamente militari. L’impressione è che ci sia la predominanza che da questa lingua comune si allontanano: l’effetto è quello di un tessuto linguistico più uniforme nell’essere artificiale. Questa lingua straniante, che complica anche fatti molto semplici, in realtà potrebbe essere interpretata come uno strumento di cui A si serve per presentarci fatti che si svolgono in una dimensione banale e quotidiana come contenenti già in sé un elemento prodigioso, magico, misterioso, inaspettato; quasi con l’intento di alludere a un doppio fondo della narrazione: nessuno sa di avere a che fare con un uomo trasformato in asino. Vuole attirare l’attenzione di chi legge alla storia vera, di quel Lucius che è trasformato in asino. Questa patina straniante quindi rievoca la prodigiosità dei fatti che narra. Probabilmente quindi c’è un qualche significato nella profondità di quel che si vede o al di là di quel che si vede. Von Andrecht in questo vede un’anticipazione del latino della Chiesa, ma non dei cristiani quando ancora era una lingua rivolta alla comunicazione orizzontale; ma quello dei secoli successivi, quando il latino smette di essere la lingua della comunicazione quotidiana e diventa un mezzo di espressione artificiale, lontano dalla lingua d’uso e simbolico. Si separa dal registro della comunicazione quotidiana è diventa la lingua simbolica della liturgia: lingua artificiale che segna e addita il mistero che sta dentro le parole. Il parallelo è particolare, forse un po’ azzardato, ma può chiarire cosa significhi l’artificiosità della lingua apuleiana. In Apuleio questa espressione così involuta e complessa è come se inducesse chi legge ad andare oltre la superficie della narrazione. Addita un significato che sta dentro e invita a non fermarsi alla lettura d’intrattenimento. Agostino, conf. III.1 Agostino muore nel 430 come vescovo di Ippona, in Algeria, assediata dai vandali. La sua fioritura si colloca fra la fine del IV e i primi tre decenni del V secolo. Nel IV secolo nella cultura latina c’è una svolta epocale: 313 editto di Costantino —> libertà religiosa. Il cristianesimo si diffonde in maniera consistente anche fra le classi alte della società. 380 editto di Tessalonica —> Teodosia vincola al cristianesimo lo stato romano medesimo. Questo ha conseguenze sulla produzione letteraria: fino alla svolta costantiniana la produzione cristiana è apologetica, quindi di difesa; si marca la differenza di una tradizione cristiana rispetto a quella pagana. Dopo l’editto di Costantino, la tradizione letteraria viene assimilat: abbiamo Giovenco e gli Evangeliorum libri che raccontano il Vangelo in esametri. Gli autori cristiani del IV secolo formalmente proclamano un’estraneità ideologica dalla tradizione pagana, ma si nutrono della tradizione culturale non cristiana e di scuola. Agostino è uno di questi: fa gli studi classici della sua epoca, diventa retor (docente di retorica) e, in quanto tale, si sposta dall’Africa fino a Roma (384, a Roma c’era anche Girolamo) e, raccomandato da uno dei più grandi esponenti dell’epoca, Quinto Aurelio Simmaco, si trasferisce a Milano per fare il retore di corte, presso Valentiniano II. Qui incontra Ambrogio. Battesimo nel 387 e nel 388 ritorna in Africa. Agostino è uno dei pochi autori antichi rispetto ai quali non sentiamo il tempo che è passato: è un pensatore di una modernità assoluta. È il primo, nel De civitate dei, ad asserire che Roma è moderna: l’idea di Roma eterna l’avevano avuta sia i pagani sia i cristiani. Le sue strutture politiche sono definite magnum latrocinium. Le Confessiones sono un’opera particolare: non appartiene coerentemente a nessun genere letterario; il genere dominante è quello dell’autobiografia. Il X libro è dedicato alla concezione del tempo. Gli ultimi tre libri sono un commento alla Genesi. Il termine latino confessio (da confiteor) ha, anche per l’influsso della lingua della scrittura, un significato più complesso: confiteor vuol dire affermare qualcosa come vero, corrispondeva a un termine ebraico che voleva dire sia questo sia lodare. In ambito cristiano, confessio vuol dire anche lodare. Le confessioni quindi sono sia delle confessioni sia un elogio di Dio. È un monologo di fronte a un tu che è Dio. In questo testo Agostino ha preso un anno sabbatico perché suo padre non gli poteva pagare gli studi successivi. Aveva studiato a Madaura. Dopo questo anno va a studiare a Cartagine. Veni Carthaginem, et circumstrepebat me undique sartago flagitiosorum amorum. Nondum amabam et amare amabam et secretiore indigentia oderam me minus indigentem. Quaerebam quid amarem, amans amare, et oderam securitatem et viam sine muscipulis [Sap 14,11], quoniam fames mihi erat intus ab interiore cibo, te ipso, deus meus, et ea fame non esuriebam, sed eram sine desiderio alimentorum incorruptibilium, non quia plenus eis eram, sed quo inanior, fastidiosior. Et ideo non bene valebat anima mea et ulcerosa proiciebat se foras, miserabiliter scalpi avida contactu sensibilium. Sed si non haberent animam, non utique amarentur. Amare et amari dulce mihi erat magis, si et amantis corpore fruerer. Venam igitur amicitiae coinquinabam sordibus concupiscentiae candoremque eius obnubilabam de tartaro libidinis, et tamen, foedus atque inhonestus, elegans et urbanus esse gestiebam abundanti vanitate. Rui etiam in amorem, quo cupiebam capi. Deus meus, misericordia mea [Ps 58,18], quanto felle mihi suavitatem illam et quam bonus aspersisti, quia et amatus sum et perveni occulte ad vinculum fruendi et conligabar laetus aerumnosis nexibus, ut caederer virgis ferreis ardentibus zeli et suspicionum et timorum et irarum atque rixarum [Gal 5]. Questo passo è intricato quanto è intricata la situazione psicologica che Agostino cerca di definirci. Prova un desiderio enorme che si getta su cose e persone sensibili; a posteriori capisce che quello era un desiderio di Dio. C’è un gioco fra ciò che vive nel passato, il giudizio che ne dà e ciò che attribuisce a posteriori. “Vissi a Cartagine eintorno a me strepitavva da ogni parte il calderone (sartago) degli amori colpevoli. Io non ancora amavo e amavo amare e a causa di questo bisogno interiore odiavo me che non avevo bisogno [minus indigentem, da interpretare]. Cercavo che cosa amare, amando amare, e odiavo la sicurezza [ossia quella senza peccato] e la via senza trappole [letteralmente sono le trappole per topi], poiché dentro di me c’era una fame destata dal cibo interiore, che eri tu, mio Dio, ma non capivo quella fame, ma ero senza desiderio di alimenti incorruttibili, non perché ne fossi pieno, ma quanto più ne ero pieno tanto più ne ero nauseato. E per questo la mia anima stava male e, coperta di ulcere, si buttava fuori, infelicemente avida di essere graffiata dal contatto delle cose sensibili. Ma se non avessero un’anima (le cose sensibili =le persone), non le avrei potute amare. Amare ed essere amato era per me dolce, se avessi potuto godere del corpo dell’amante. Dunque la vena dell’amicizia io la inquinavo con le sozzure della concupiscenza e annebbiavo il suo splendore con [de strumentale] le tenebre del piacere, e tuttavia, essendo io turpe e vergognoso, con abbondante vanità cercavo di essere elegante e urbano. E anche mi precipitai in un amore da quale desideravo essere preso. Dio mio, mia misericordia [dio sempre presente], con quanta amarezza tu aspergesti a me quella amarezza e quanto buono fosti, poiché sia fui amato sia giunsi di nascosto [occulte perché gestiebam esse] al vincolo del godere ed ero legato felice in catene pieni di affanni, al punto che venivo battutto dalle verghe ferree ardenti della gelosia e dei sospetti e dei timori e delle ire e delle liti”. Niente è tardo in questo testo di Agostino, c’è solo un elemento tardo in questo testo: sono pochissimi i dettagli che tradiscono l’appartenenza di questo testo al latino tardo. Si manifesta la cultura del grammaticus e del retor. La quantità di espedienti grammaticali e retorici che utilizza per far capire lo schifo, il fastidium, è rilevante. “Amare” = è anche un avverbio da amarus: nessuno può escludere che in aggiunta al significato di infinito ci sia anche il senso di “amaramente”. “secretiore indigentia oderam me minus indigentem” = si odiava o perché non era bisognoso o perché era meno bisognoso rispetto a un amore di Dio di cui non pensava di avere bisogno. Testo involuto quanto la situazione psicologica che descriva. Le possibili interpretazioni e traduzioni si arricchiscono l’un l’altra, si integrano, piuttosto che l’una escludere l’altra. Autore complesso nel quale il traduttore non rende giustizia al testo latino. Una prosa come quella delle Confessioni è difficile che abbia un’unica traduzione italiana che le renda giustizia. [Fame = cibo di Dio, corpo di Dio]
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