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Appunti del corso "Teoria dei linguaggi" della prof Fortuna, Appunti di Filosofia del Linguaggio

Gli appunti riguardano i tre moduli delle lezioni di Teoria dei linguaggi: - Fondamentali concetti semiotici e linguistici e storia delle idee linguistiche - Saussure e gli strutturalismi - Dalla filosofia del plurisemiotismo di Vico all'educazione linguistica inclusiva dell'Italia contemporanea

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 17/05/2023

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Scarica Appunti del corso "Teoria dei linguaggi" della prof Fortuna e più Appunti in PDF di Filosofia del Linguaggio solo su Docsity! LEZIONE 1 – Introduzione Che cos’è la teoria dei linguaggi? È una disciplina filosofica che equivale alla filosofia del linguaggio. Ciò non significa che sia una disciplina che richiede conoscenze filosofiche pregresse. Consiste in una riflessione fondata sulla capacità metalinguistica. Occorre fare una distinzione tra questa e la capacità epilinguistica: -capacità metalinguistica  riguarda le strutture e le regole delle varie lingue. È una capacità che troviamo a vari livelli: fin dalle scuole elementari impariamo a distinguere alcuni elementi morfo-sintattici. Durante l’apprendimento infatti impariamo a fare tali distinzioni anche se le regole sono al di fuori della nostra capacità epilinguistica, e le facciamo nostre. -capacità epilinguistica capacità di cui possono emergere tracce negli scambi verbali spontanei, specie nei bambini, i quali adottano un fenomeno linguistico come oggetto di riflessione, anche in forme intuitive e immediate. Distinzione tra lingua e linguaggio: i termini sono polisemici, quindi con linguaggio possiamo riferirci a varie cose. Inoltre, la distinzione non è universale, basti pensare al fatto che in alcune lingue non c’è distinzione, come ad esempio nel tedesco “Sprache” e nell’inglese “language”. In altre lingue al di fuori dell’italiano, quindi “linguaggio” diventa un’accezione di “lingua”. In linguistica, il linguaggio è una facoltà innata generale che si determina nelle varie comunità in diverse lingue, le cosiddette lingue storico-naturali. Il linguaggio è infatti unico, identico per tutti i membri delle specie (visto che anche gli animali hanno un linguaggio che, a suo modo, produce “lingue”). Quando parliamo di teoria dei linguaggi ci riferiamo ai diversi linguaggi, quindi non solo il linguaggio verbale ma anche di altri tipi di linguaggio. I linguaggi possono essere infatti chiamati anche codici semiologici, cioè sistemi di segni. Un altro elemento centrale della teoria dei linguaggi riguarda la comprensione, la traduzione e l’interpretazione. La filosofia del linguaggio ha spesso peccato nel considerare prevalentemente la produzione linguistica, tralasciando la comprensione. Anche a livello di sviluppo linguistico, eppure, la comprensione precede la produzione. Basti pensare ai bambini che, già a pochi mesi di vita, riescono a comprendere le nostre parole. Altro elemento importante è la traduzione, che ci porta a fare riferimento a una pluralità di lingue. I processi traduttivi sono molto importanti nella teoria dei linguaggi anche per ragioni sociali. Altro argomento importante è la filosofia della linguistica: non si tratta di uno studio diretto delle lingue, bensì di una riflessione epistemologica sulle teorie introdotte dalla linguistica. La filosofia del linguaggio non consiste in una “filosofia col genitivo” (filosofia speciale, come la filosofia del diritto). Questo perché dall’inizio del Novecento si ritiene che tutta la filosofia abbia attuato il cosiddetto “linguistic turn” (=svolta linguistica): le ragioni di questa svolta risiedono in un’autocritica che la filosofia fa di se stessa, al cui centro abbiamo la metafisica (approccio filosofico tout court della filosofia classica). La metafisica appunto cerca di avere accesso a una verità non filtrata dal soggetto. Sarà la rivoluzione copernicana di Kant a rivolgere per primo alla filosofia questa critica: tuttavia persino Kant sarà criticato nell’800 per non aver considerato che il modo fondamentale con cui concettualizziamo la realtà è proprio la lingua. Ciò che afferma la svolta linguistica è quindi che la realtà è sempre filtrata dal linguaggio. Occorre precisare che si tratta di una prospettiva antropocentrica in cui i filtri sensoriali e cognitivi del soggetto sono propri dell’essere umano. Questo punto di vista è problematico perché pare quasi che l’unica realtà interessante sia quella umana e che tutto il resto abbia una rilevanza inferiore. Eppure i processi di semiosi e categorizzazione della realtà non sono di certo solo un prodotto degli esseri umani, e nemmeno solo della specie animale. Anzi, la semiosi è un prodotto fondamentale in ogni essere vivente sulla Terra. In questa svolta linguistica, è possibile individuare due tradizioni, per certi versi opposte, accomunate dal riconoscimento della centralità del linguaggio: - La filosofia analitica, ambito anglofono, i paesi di riferimento sono il Regno Unito e gli USA. Emerge agli inizi del Novecento con due grandi filosofi e matematici, Frege e Russell, e prosegue con il circolo di Vienna. - La filosofia continentale, tradizione che riguarda l’Europa continentale: strutturalismo, ermeneutica1, fenomenologia, esistenzialismo Queste filosofie hanno preso caratteristiche l’una dall’altra, per questo si parla anche di filosofia post-analitica e post-continentale. Il corso avrà un approccio storico sulla teoria dei linguaggi: vedremo cos’è stato detto sul linguaggio, dei codici semiotici e del segno, fin dalla filosofia greca. Questa componente è tipica della filosofia continentale. è una tradizione che ritroviamo nella storia filosofica del nostro Paese. La storia italiana ha infatti vissuto momenti rilevanti non solo per la cultura nazionale ma anche per tutta l’Europa: un esempio è il Rinascimento, periodo in cui questo metodo storico-filologico prende forma, quindi prende piede l’idea di ricostruire e interpretare una serie di nozioni partendo dai testi e dagli autori che hanno espresso particolari concetti sul linguaggio. Perché scegliere la tradizione italiana? Nel terzo modulo si propone la questione dell’inclusione scolastica in Italia nei suoi aspetti pedagogici e legislativi, sostenendo che il modo unico in cui essa è stata declinata nel nostro Paese è legato alla specificità della filosofia italiana, così come è stata interpretata dalla cosiddetta Italian Theory o Italian Thought. Questa tradizione filosofico-linguistica è relativamente recente, anche se sin dal Rinascimento la riflessione sui fenomeni linguistici è una costante. Ma la disciplina 1 Continua interpretazione non solo dei testi antichi ma anche dell’intera esistenza umana importanti anche per il pensiero filosofico. Ad esempio, negli USA la filosofia continentale è quasi non considerata. Il linguaggio è al centro di entrambe le tradizioni in quanto esse prendono le distanze dalla metafisica. Propongono entrambe l’idea che ogni esperienza umana sia filtrata dal linguaggio.  Nella tradizione continentale, un punto di riferimento è Kant, una filosofia critica rispetto alle pretese della metafisica che propone di individuare le condizioni trascendentali di ogni esperienza, attraverso i filtri sensoriali e cognitivi che il soggetto pone alla realtà. A questa prospettiva kantiana, la svolta linguistica aggiunge un passo ulteriore, che in realtà è stato già fatto tra ‘700 e ‘800 con una critica diretta alla filosofia kantiana da parte di Hamann, Herder e Humboldt. Questi ultimi creano una rielaborazione metacritica che pone al centro il linguaggio e rimprovera a Kant di non aver riconosciuto il ruolo fondamentale delle lingue storico-naturali nel plasmare la realtà.  La tradizione analitica, invece, si rifà a una tradizione anglosassone che pone al centro l’analisi della lingua, ma lo fa per mettere in luce l’imperfezione intrinseca di questo strumento e quindi la necessità di emendare il linguaggio naturale. L’obiettivo delle due filosofie è quindi quello di attuare un perfezionamento. Questa soluzione viene trovata in altri tipi di linguaggi, come il linguaggio della logica e della matematica. Alcuni filosofi sono infatti loro stessi matematici. Esistono però anche delle convergenze più generali: - La soggettività linguistica nella filosofia continentale: la lingua non è un organismo autonomo. Questo viene messo al centro dalla fenomenologia, dall’ermeneutica e del post-strutturalismo. - Nella filosofia analitica non ritroviamo questa terminologia, ma ugualmente il tema della coscienza è un’evoluzione importante legata alla svolta del cognitivismo chomskiano. Viene posta al centro l’attività mentale del soggetto parlante. Cognitivismo/mentalismo, filosofia della mente. Un’altra convergenza importante riguarda una rottura delle due filosofie rispetto alle ambizioni sistematiche del pensiero filosofico dell’800. Il compito della filosofia era di esplorare in maniera sistematica la totalità dell’esperienza umana e sovrumana. Abbiamo quindi una rottura netta con le filosofie idealistiche (Fichte, Schelling, Hegel): un esempio è la Fenomenologia dello spirito di Hegel, che propone un sapere assoluto, con nessun buco. Questo si collega alla fine della filosofia, visto che ormai il pensiero filosofico ha compiuto un percorso così ampio. L’approccio del Novecento diventa quindi meno totalizzante e in questo la filosofia analitica rivendica come formato ideale di una filosofia modesta l’articolo. La filosofia continentale considera il formato della monografia. Tutt’e due forme che si allontanano dalle forme totalizzanti dell’idealismo. Ritroviamo l’idea del superamento della metafisica che assume la forma dell’auto- superamento della filosofia.  Nella filosofia analitica tale idea è connessa all’esigenza di rendere il metodo della filosofia più vicino a quello delle scienze e anzitutto della logica, proprio per depurare la lingua dalle sue imperfezioni.  Nella filosofia continentale l’idea dell’autosuperamento viene declinata in modalità molto diverse e si accompagna a una concezione pluralistica dell’attività filosofica (relativismo, pensiero debole, molteplicità delle prospettive ermeneutiche). Il pensiero debole, introdotto in Italia da Gianni Vattimo, è un pensiero che ha fatto propria l’idea dell’impossibilità di un pensiero metafisico, è un pensiero relativista, che ritiene che in filosofia non si possa pretendere un’unica posizione vera. Questi filosofi si sentono parte di un progetto collettivo, basti pensare alle riviste filosofiche. L’aspetto comunitario forte è tipico della filosofia analitica, in confronto alla filosofia continentale. Frege, tedesco, è il fondatore della filosofia analitica. Lui ha proposto una serie di analisi su senso, significato, sui rapporti tra pensiero e linguaggio, che sono diventate punto di riferimento della filosofia analitica. Lui ha illustrato dei fenomeni che sono diventati oggetti di studio della pragmatica linguistica. - Ideografia, 1879, qui Frege propone un sistema di notazione per evitare le imperfezioni (polisemia, omonimia) delle lingue storico-naturali. Per questi filosofi, queste imperfezioni rappresentano anche una mancanza etica. Quest’ultimo tema è anche centrale nel pensiero del filosofo inglese Bertrand Russell, il quale ha contribuito alla diffusione del pensiero di Frege e di Wittgenstein. Nella sua Teoria della descrizione, ha individuato una fallacia tipica delle lingue storico- naturali e ha proposto un modo per emendarla: quando ci serviamo del linguaggio non facciamo un’analisi sufficiente. Ad esempio, possiamo dire Il re di Francia è calvo, questa frase passa per buona ma prima non abbiamo condotto l’analisi preliminare per cui quella proposizione è vera se associata al re di Francia  se il re di Francia non esiste, quando pronunciamo la frase non stiamo parlando di nulla. Questo tipo di fallacia è nel dibattito politico è una costante, quindi anche per Russell è fondamentale la dimensione etica. Alcuni importanti logici come Frege, Russell e Wittgenstein si occupano del linguaggio considerandolo un sistema di espressione imperfetto, che nasconde la reale natura dei nostri pensieri. Non a caso Wittgenstein scrive: <<Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”>>. Il loro contributo sarà preso in considerazione soltanto dalle generazioni successive di linguisti. C’è da precisare che nei loro studi appare più volte il termine Satz, tradotto in Marty come “frase”, in Frege come “enunciato” e in Wittgenstein come “proposizione”. Frege si dedicò con particolar impegno alla creazione dell’ideografia, un linguaggio simbolico capace di rappresentare il pensiero. Lo scopo è quello di liberare il pensiero dai difetti del mezzo linguistico.2 Per comprendere il rapporto tra parole e oggetti che queste designano, Frege parte dall’analisi degli enunciati d’identità (a=b): se fosse una relazione tra oggetti, allora a=b e a=a sarebbero equivalenti, con la differenza che a=b avrebbe un valore conoscitivo; se fosse una relazione tra segni di oggetti, essa riguarderebbe solo il nostro modo di designare quegli oggetti e a=b non produrrebbe alcuna conoscenza. Per risolvere tale quesito, Frege pone i concetti di Bedeutung (=significato), ovvero l’oggetto indicatoci dal segno, e Sinn (=senso), ovvero il modo in cui l’oggetto ci è dato tramite il segno.3 I nomi propri possono avere sensi diversi e significato identico, come nel caso di l’allievo di Platone e il maestro di Alessandro Magno, il cui significato è sempre Aristotele. Non è invece possibile che due significati diversi abbiano lo stesso senso. Un’espressione può avere senso, ma non significato: è il caso la serie meno convergente, in quanto data una serie convergente se ne può trovare un’altra meno convergente ma pur sempre convergente. Viceversa non esistono espressioni che hanno un significato ma non un senso. Il senso di un enunciato è un pensiero comune a tutti: se fosse il contrario non si potrebbe parlare in modo univoco del teorema di Pitagora. Secondo Frege, la possibilità che gli individui hanno di comunicare tra loro sarebbe da lui spiegata in base all’esistenza di questo “tesoro comune di pensieri”. Un pensiero può essere vero o falso, dubbio che non si pone nel caso degli enunciati imperativi, dei termini deittici4 e delle proposizioni ottative5, considerati da Frege incompleti. La parola significato si fonda per Frege proprio sul concetto di verità: tutti gli enunciati assertori veri hanno come significato il Vero, e tutti quelli falsi il Falso. Un altro elemento fondamentale in Frege è il principio di composizionalità secondo cui il significato di un enunciato si ottiene componendo i significati delle singole espressioni in esso contenute. Anche questo significato complesso costituisce quindi per Frege un oggetto, anche se di tipo particolare. 2.2. Russell e il primo Wittgenstein: forma grammaticale e forma logica 2 Frege afferma che <<è compito del logico impegnarsi in una lotta contro la psicologia, e, in parte, contro la lingua e la grammatica, nella misura in cui queste non esprimono con purezza l’elemento logico. 3 Frege ricorre a questo esempio: se si osserva la Luna mediante un cannocchiale, la Luna equivale al significato, l’immagine proiettata dal cannocchiale al senso e l’immagine che si forma sulla retina dell’osservatore alla rappresentazione. 4 I termini deittici dipendono da componenti contestuali e momentanei come “qui” ed “ora. 5 Riferito al modo del verbo che esprime desiderio o potenzialità, solitamente il congiuntivo. LEZIONE 3,4 e 5 – Concetti fondamentali Concezione strumentalista Una concezione molto diffusa delle lingue è quella che le considera uno strumento che serve per comunicare. Tramite una concezione strumentalista, ne comprendiamo anche i limiti. Perché? Da un lato ci chiediamo in che rapporto stia la comunicazione col pensiero. Secondo questa concezione, i pensieri si formino in modo dipendente dal linguaggio per poi essere comunicati col linguaggio. Inoltre ci rendiamo conto che non esiste uno strumento solo, ma diverse lingue. Le lingue sono quindi strumenti dalle caratteristiche simili, che assolvono tutte le stesse funzioni, anche se in forme diverse. Tale concezione ha una serie di implicazioni di natura diversa che toccano anche la politica linguistica; se, ad esempio, le lingue sono viste come meri strumenti, allora sarò ovvio privilegiare quella o quelle che, qualsiasi ne sia la ragione, funzionano in modo più efficiente da un punto di vista economico. È evidente che sul piano internazionale la lingua che ha il maggior valore è l’inglese. Ma se seguissimo questa logica strumentalista, si andrebbe incontro a un suicidio del plurilinguismo. Altro aspetto problematico di questa concezione è il fatto che la lingua è considerata come un dispositivo separato dai parlanti. Il soggetto non è particolarmente implicato nelle lingue. Tullio De Mauro ci ricorda che nella concezione strumentalista domina “l’idea di una lingua come una machine à parler, un dispositivo che ci permette di dire e capire frasi senza aver avuto parte nella sua costruzione e senza sapere come è fatto, così come né costruiamo né ben capiamo come funzionano le auto che guidiamo, gli aerei su cui voliamo, il computer su cui scriviamo”. L’importante è usarla, insomma. Questa è la conseguenza di questa concezione. È indubbiamente vero, non è una lingua da noi progettata, non è una lingua artificiale progettata a tavolino da un parlante (come l’esperanto). È una lingua che ha una tradizione. Gli utenti considerano dunque lo strumento di cui si servono per la comunicazione come qualcosa ad essi estraneo. Però non è detto che sia così, perché il rapporto tra parlanti e lingua non è estrinseco. Questo lo si nota molto bene quando si affronta la concezione opposta… …Weltansicht La nozione di Weltansicht (prospettiva/visione del mondo) rende quest’aspetto della lingua, il fatto di non essere semplicemente uno strumento comunicativo, bensì la creazione di una prospettiva sul mondo, quindi qualcosa che abbia a che fare con la cognizione, ancor prima che con la comunicazione. Le lingue quindi non sono diverse tra di loro solo da un punto di vista comunicativo (nella dimensione semiotica e fonologica) ma anche diverse da un punto di vista di categorizzazione della realtà. Le lingue creano un insieme di categorie unica che non ha corrispondenza identica nelle altre lingue. Quest’idea della lingua è molto diversa da quella strumentalista perché mette a fuoco il rapporto tra cognizione e comunicazione, che considera due aspetti dello stesso fenomeno (come si vedrà in Saussure). In questa concezione troviamo un altro aspetto opposto alla concezione strutturalistica, cioè il ruolo del parlante. Le lingue hanno da un lato un valore in sé paragonabile alla varietà dell’ecosistema Terra: così come ci sono tanti organismi, ci sono anche tanti organismi linguistici. In effetti, è proprio dato che questa dimensione viene trascurata scompaiono le lingue, perché scompaiono i suoi parlanti; anche se la comunità linguistica ha lasciato dei testi scritti, è comunque una lingua morta. Quindi in questa concezione ritroviamo la centralità del soggetto parlante, perché esso è un fattore fondamentale per la creazione di questa prospettiva: è il parlante ad avere la Weltansicht, può modificare ed esercitare un’influenza profonda sulla lingua. Questo è dimostrato dall’uso letterario e creativo della lingua. Esempio significativo è quello di Dante con il volgare e la Commedia. Questi sono esempi della soggettività linguistica che può avere un influsso sulla lingua, modificando così la Weltansicht con cui la lingua è identificata. Quindi lo strumentalismo non può essere l’unico punto di vista possibile. Saussure usava dire che la lingua è una massa di fatti eterofili, cioè che i fenomeni linguistici sono moltissimi e tra loro eterogenei, per questo difficilmente riconducibili a una prospettiva unica. Quindi lo studio del linguaggio implica l’adozione di più prospettive. 4 punti di vista sul linguaggio Un elemento fondamentale per la filosofia è la relazione tra il linguaggio e il mondo, dato che nasce con l’ambizione di conoscere la realtà, la verità. La lingua dev’essere quindi uno strumento adeguato per conoscere la realtà. Per quanto questa concezione possa sembrare inadeguata, in questa relazione tra linguaggio e mondo si gioca buona parte della filosofia del linguaggio. Il linguistic turn ha poi autocriticato la pretesa di ricondurre il linguaggio soltanto a questa prospettiva, come se col linguaggio verbale non potessimo fare altro che conoscere il mondo. Come se il punto fondamentale del linguaggio fosse il fatto che ci fa conoscere la realtà. Rimane il fatto che per comprendere alcune funzioni del linguaggio bisogna considerare il suo rapporto con il mondo. Tale relazione con il mondo è per la filosofia ciò che contraddistingue la specificità del linguaggio verbale rispetto ad altri sistemi comunicativi. Anche nella concezione strumentalista del linguaggio la funzione più importante dello strumento lingua è quella di riuscire a rappresentare in modo adeguato (vero) il mondo. In questo senso la lingua è apparsa a molti filosofi uno strumento inadeguato per la conoscenza, non paragonabile al linguaggio della logica e della matematica. La capacità di parlare del mondo è considerata specificamente umana ed è connessa all’intenzionalità, ossia all’uso volontario, consapevole del linguaggio verbale. I sistemi di comunicazione di altre specie e anche di organismi viventi sono in connessione diretta con il mondo, lo esprimono attraverso filtri specifici, ma essi non posseggono caratteristiche equivalenti al linguaggio umano. Il secondo elemento fondamentale è il rapporto tra linguaggio e pensiero (mentalismo): si tratta di studiare le rappresentazioni mentali. Al centro abbiamo l’attenzione per i processi mentali, legati al linguaggio in quanto il linguaggio è comunicazione e cognizione. Anche in questo caso lo strumentalismo appare una concezione in cui tale relazione è contraddistinta da un dualismo che identifica il linguaggio come mero fatto comunicativo esterno legato alla sensibilità e il pensiero come qualcosa di interno alla mente legato a rappresentazioni prodotte dall’attività neurocerebrale. La connessione tra linguaggio e pensiero (o cognizione) è al centro dell’indagine delle scienze cognitive (psicologia) che eredita, come vedremo, il dualismo della posizione cartesiana riguardo alla separazione tra corpo (res extensa) e mente (res cogitans) e lo declina all’interno di un paradigma naturalizzato in cui la stessa mente è studiata a partire dal suo supporto materiale, il cervello  approccio legato alle neuroscienze. Il terzo elemento riguarda il problema delle regole costitutive (normatività): non c’è realtà linguistica se non ci sono regole. Non significa che le regole debbano essere esplicite. Quando i bambini imparano a parlare non imparano mica le regole. Quando l’adulto ha imparato la sua lingua e inizia a imparare una seconda lingua, è possibile che la studi come una lingua morta, imparando una serie di regole. Però questo non significa che il bambino, nel suo apprendimento, ha imparato qualcosa che non ha regole, anzi, la lingua è un sistema di regole imparato dal bambino attraverso l’imitazione e l’esercizio, e il bambino è consapevole della correttezza e non di certi enunciati. Pare che il bambino possegga un dispositivo innato che gli permette di fare ciò senza istruzioni e correzioni. Il passaggio da regola applicata implicitamente a quella assimilata nella sua forma esplicita sembra essere il prodotto di quella capacità epilinguistica che si rivela nei bambini in età precoce e che si trasforma attraverso la riflessione in una competenza metalinguistica che è all’origine dello stesso studio grammaticale delle lingue. Chiaramente questa questione della normatività è rilevante, perché sembra che il parlante sia spontaneamente sensibile alle regole sul piano semantico, morfologico e pragmatico, anche a regole non conosciute in modo esplicito. Uno degli aspetti più discussi è l’università di tali regole: secondo Chomsky esiste una grammatica universale, cioè un nucleo di caratteristiche comuni a tutte le lingue; ma per quanto riguarda le regole pragmatiche, a incidere è la cultura che il parlante vive. Quarto aspetto è il nesso con l’utente (pragmatica): l’utente è il soggetto parlante. Non esisterebbero le lingue se non ci fossero soggetti parlanti che conoscono e utilizzano le lingue: questo dato di fatto invita a considerare la rilevanza del punto di vista dell’utente così come è stato fatto dalla pragmatica linguistica. In tale prospettiva le lingue mostrano a tutti i livelli delle loro strutture le tracce che in esse imprimono il parlante e il ricevente. Il “design delle lingue” appare insomma determinato dalla struttura psicofisica e culturale degli individui parlanti e la stessa diversità linguistica appare anche il prodotto pantomima8. Diversi esperimenti hanno mostrato che l’effetto della trasparenza del significato di tali gesti per i soggetti non segnanti è il frutto di un’illusione che si dissolve alla prova dei fatti. Vero però è che nell’impiego di dispositivi iconici e di usi metaforici a essi connessi le lingue dei segni si rivelano molto più icastiche9. In particolare nella recitazione di brani poetici appare chiaramente come la dimensione performativa in tali lingue sia molto più pervasiva. Esempio: 2 "La Fiaccola" poesia in Lingua dei Segni (Lis) di Lorenzo laudo - YouTube Segno e semiosi Abbiamo visto come nel modello strumentalista del linguaggio il pensiero è visto come separato dalla dimensione comunicativa. Abbiamo visto che questo modello è inadeguato perché il pensiero è sempre legato a una attività semiotica. Ogni processo di conoscenza - che sia quello degli esseri umani, degli animali, di altri esseri viventi – consiste in un processo di semiosi. Il pensiero è dunque un processo mediato dai segni, è solo tramite i segni che conosciamo. L’attività semiotica avviene tramite la produzione di segni diversi. In quest’attività dobbiamo includere anche un soggetto, protagonista dell’attività semiotica. Una definizione celeberrima per capire segno e semiosi è quella del semiologo Peirce: “Il segno qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro, sotto certi aspetti o capacità”. Ciò significa che il segno sta per un certo soggetto, non c’è prospettiva metafisica, quindi il segno richiede un interpretante e può essere chiamato rapresentamen, visto che rappresenta qualcos’altro, ma può farlo sotto determinati aspetti, non in maniera assoluta. La semiosi seleziona solo alcuni elementi, che Peirce chiama “aspetti o capacità”. Questa selezione dà inizio ad ulteriori processi semiosici, come dice Peirce dà inizio alla semiosi illimitata: si parte dall’oggetto immediato, di cui il segno rappresenta solo certi aspetti, per poi arrivare virtualmente a un oggetto dinamico, che esaurisce tutti gli aspetti. Esistono diversi tipi di segni, perché il segno istituisce con l’oggetto immediato una serie di relazioni diverse tra di loro. Il modo in cui il segno entra in relazione col proprio oggetto è classificato, sempre da Peirce, da - Indice, segno che ha una relazione di continuità con l’oggetto a cui si riferisce, es. il fumo per indicare il fuoco. Questi dispositivi indicali sono anche strategie delle lingue storico-naturali. - Icona, raffigura l’oggetto attraverso una serie di relazioni che hanno il carattere di similarità. Peirce ha suddiviso ulteriormente l’icona in - immagine, somiglianza figurativa, la foto, il disegno 8 Azione scenica muta, caratterizzata da una successione di gesti e di atteggiamenti, o anche da una danza più o meno sfrenata, a carattere farsesco 9 Improntato a una notevole efficacia rappresentativa - metafora, somiglianza astratta, concettuale. Es. Il leone al posto del coraggio - diagramma, riproduzione di una serie di relazioni astratte. Es. mappa di una città Quindi per similarità non si intende tanto la somiglianza quanto la rappresentazione. - Simbolo, ha con la realtà una relazione arbitraria. Il rapporto è stabilito da una regola generale astratta, che non fa riferimento ad alcuna somiglianza con la realtà. Un esempio sono le nostre lingue storico-naturali, oppure il simbolo della pace. ☮ Un segno non sta mai isolato, il segno è sempre immerso in un sistema chiamato codice, un sistema che determina le regole d’uso dei segni. Un codice, nel determinare una serie di regole, può essere considerato dal punto di vista della dimensione cognitiva (non percepibile) e dalla dimensione materiale (percepibile). Infatti il codice è da un lato qualcosa di astratto, dall’altro qualcosa di materialmente utilizzato. Quando il segno si palesa chiaramente, il soggetto percepisce il valore “segno”: il segno è nella sua percezione e attualizzazione chiamato token. Si compone di un senso (dimensione cognitiva) e un’espressione (dimensione materiale). Il token è tale perché fa riferimento ad un type, una classe del codice, determinato da un insieme di regole stabilite dal codice. Anche a livello del type esiste una realtà doppia del segno: da un lato il significato (dimensione cognitiva), che corrisponde al senso, e dall’altro il significante (dimensione materiale, che corrisponde all’espressione. Per quel che riguarda il token, l’attualizzazione avviene del segno in modo individuale. Ma ciò che ci interessa del token è ricondurlo al type. Esistono diversi tipi di codice, non solo codici visivi e uditivi, ma anche codici che si avvalgono del canale tattile, basti pensare all’alfabeto braille. Abbiamo anche codici che si avvalgono del canale chimico, quindi messaggi percepibili dagli animali anche da noi esseri umani, come i feromoni. Questi ultimi codici hanno però un grande difetto perché non permettono di individuare in modo specifico le lingue storico-naturali, questo perché s servono di molteplici canali, sia visivi, sia uditivi, sia tattili. Sembra quindi opportuno affiancare a questa classificazione una classificazione che faccia riferimento alle caratteristiche costitutive dei codici. Una classificazione che adotta l’ordine crescente (da codici semplici a complessi) è quella di Tullio De Mauro: il vantaggio di quest’ordine è il fatto che si riesca a capire quali siano le caratteristiche più funzionali dei codici semiologici. Più il codice è semplice, meglio funziona. 1) Codice della certezza: due esempi tipici sono il semaforo e la spia della benzina. All’interno del semaforo possiamo trovare due codici: da una parte il semaforo che la notte lampeggia, dall’altra il semaforo che il giorno emette tre diversi segni. Il significante è un particolare oggetto luminoso con tre colori, di cui ognuno ha un significato. Il codice è assolutamente certo, non si possono avere ambiguità. Ovviamente però l’uso del semaforo è ben diverso nella pratica, il che ci fa capire che l’interpretazione dei segni cambia da cultura a cultura. La spia della benzina è un segno ancora più elementare perché è funzionale agli scopi che deve assolvere. Il codice è determinato da quest’alternanza tra due segni: uno è a significante zero (spia spenta) e l’altro ha come significante il segnale luminoso a forma di serbatoio. è un codice della certezza perché l’ambiguità non avrebbe alcun vantaggio. 2) Codice del risparmio: esempio classico sono i segni dello zodiaco. Ha una certa rilevanza da cultura e cultura. È costituito da una serie di segni ordinati. Questi codici veicolano informazioni non che riguardano il singolo segno: se prendo il segno dell’Ariete, so che il segno che succede è il Toro. Insomma, per ogni segno ci sono delle informazioni o collegate agli altri segni oppure contenutistiche. è un codice del risparmio perché alcune informazioni vengono semplicemente date dall’ordine in cui sono disposti i segni. 3) Codice combinatorio del risparmio: vi sono anche codici più complessi che sfruttano e ampliano il potenziale della serialità ordinata all’interno di un sistema combinatorio. Oltre a individuare alcuni elementi, a inserirli in una serie ordinata, tale tipo di codice “articola” tali elementi. Un esempio sono i cataloghi, di un campionario di stoffe o di una biblioteca. In un campionario di stoffa possiamo distinguere tot tipi di tessuto, tot tipi di qualità e prezzo, e creare un grosso numero di slot per riferirci sempre a un uguale numero di pezzi di stoffa. Altro esempio sono i giochi di carte. Anche la scala di do è un codice combinatorio del risparmio? 4) Codice dell’infinito: sono codici composti da elementi virtualmente, potenzialmente infiniti, come i numeri. Il codice dei numeri sembra strettamente connesso all’uso del linguaggio verbale e da esso dipendente. Anche quelli dei numeri vengono appressi come nomi, anche se è possibile che le loro prime forme di notazione siano state scritte e a carattere analogico (le tacche incise sulle antiche pietre). Perché i codici siano infiniti, l’iterabilità deve cambiare il significato del token. Si può avere un’espressione non importa quanto grande, ma si può sempre aggiungere un elemento. Senza queste due proprietà, non si può avere il codice dell’infinito. Come ci ricorda De Mauro, però, questi sono ancora codici della certezza, perché ogni segno fa riferimento a un solo significato. Le cose cambiano ancora se facciamo riferimento ai calcoli, definiti da De Mauro “codici per risolvere problemi”: i Dobbiamo essere consapevoli del fatto che in ogni momento, nella produzione di una frase, di un enunciato, noi compiamo delle scelte: quando optiamo per una formulazione, per uno stile, ne escludiamo un altro. Questa scelta richiede che nel procedere dell’esplicazione siamo coerenti o che siamo in grado di spiegare qualche incoerenza. Lo stile non è una scelta arbitraria, ma dipende dal pubblico, per questo esistono degli stili collettivi oltre agli stili individuali. Condizioni esterne al discorso: qualsiasi discorso siamo tenuti a fare, è utile ricordarsi che ciò avviene in un contesto spazio-temporale. Secondo De Mauro, soprattutto nelle culture mediterranee manca la consapevolezza di calibrare il discorso a seconda del tempo a disposizione e del tipo di pubblico. Quindi è necessario, per ottemperare a questa esigenza, preparare una scaletta. Un’altra soluzione, quando si ha poco tempo, è di scrivere un testo, di cui si può misurare la lunghezza. Questa strategia, come sottolineava De Mauro, però non tiene conto degli interventi momentanei, motivo per cui la soluzione migliore pare la scaletta affiancata all’improvvisazione. Condizioni interne al discorso: - componente semantica (le cose che vogliamo dire); - componente pragmatica (gli obiettivi che vogliamo raggiungere); - componente sociopragmatica (i destinatari che vogliamo raggiungere, che ci portano a scegliere uno stile anziché un altro); - componente linguistica (la lingua di cui ci serviamo per costruire i testi con cui trasmettere ciò che vogliamo dire, insieme alla padronanza della lingua stessa). Anche una punteggiatura sbagliata può inficiare la comprensione. Ovviamente questi fattori sono correlati tra di loro, e sono anche correlati ai fattori esterni. È molto importante nella componente semantica la scelta del lessico, perché dobbiamo essere consapevoli del fatto che una parola potrebbe essere fraintesa. E qui ci ritroviamo un po’ tra due fuochi, perché da un certo punto di vista è preferibile, non avendo chiaro quale pubblico abbiamo di fronte, optare per i vocaboli ad alto uso, ma al tempo stesso dobbiamo essere consapevoli che i termini ad alto uso sono quelli che hanno un maggior numero di accezioni (a maggiore usabilità corrisponde maggiore plasmabilità semantica). Quindi anche evitare tecnicismi può esporre il testo a un’eccessiva genericità. La soluzione è conoscere il vocabolario e avere anche degli strumenti per poter misurare la leggibilità: il vocabolario delle lingue è stato concettualizzato da De Mauro come un bersaglio, in quanto ci permette di capire che le parole sono organizzate proprio come un bersaglio, al cui centro troviamo un nucleo relativamente ristretto di parole che quasi tutti i parlanti conoscono, mentre via via che ci avviciniamo alla periferia, troviamo un numeor maggiore di termini che però sono conosciute da sempre meno persone, fino ad arrivare all’idioletto11 o al lessico familiare. Quindi, se conosciamo un po’ il nostro pubblico, sappiamo anche come orientare le nostre scelte lessicali. 11 Lessico usato solo da una persona È possibile identificare la fascia di vocabolario più diffuso, il vocabolario di base; secondo gli studi di De Mauro, esso comprende 6700 parole: 2000 costituiscono il vocabolario fondamentale (centro del bersagio  verbi ausiliari, articoli, pronomi e tutte le componenti essenziali per costruire un discorso); 2900 rappresentano il cosiddetto vocabolario ad alto uso (parole che ricorrono con altissima frequenza nei discorsi e nei testi); mentre le restanti 1900 sono definite vocabolario ad alta disponibilità (parole di cui tutti i parlanti madrelingua conoscono il significato ma che usano di rado). Un gruppo di studiosi ha creato, utilizzando questi dati, dei testi ad alta leggibilità. In questo caso la dimensione etica è molto rilevante. La costruzione di tale vocabolario dell’uso è avvenuta attraverso lo spoglio di un numero rilevante di testi trattati con strumenti statistici al fine di calcolarne la ricorrenza. Tale impostazione del vocabolario ha come obiettivo primario di condurre il parlante a costruire i suoi discorsi mettendo al vaglio comprensibilità e leggibilità. Le massime conversazionali (approccio analitico, indirizzo pragmatico) La dimensione etica è in Grice abbastanza corrispondente al tipo di istanza proposta da De Mauro. Secondo Grice esistono intenzioni implicite nelle pratiche conversazionali, anche con un grado incompleto di consapevolezza nel parlante. Quindi il parlante si metterebbe implicitamente e inconsapevolmente in cooperazione con l’interlocutore, attenendosi alle sue aspettative. Questo tipo di approccio ha consentito a Grice di mettere in luce alcune massime conversazionali, che il parlante segue non perché le conosca. È chiaro che le massime sono fortemente influenzate dalla cultura di provenienza di Grice, quella anglosassone. Questo principio conforma in modo pervasivo le interazioni conversazionali e fa sì che alle infrazioni a tale principio venga attribuito un valore informativo (ad esempio permettendo di riconoscere enunciati ironici). Grice, per dimostrare che queste massime agiscano seppur in maniera implicita, ha mostrato che se una massima non viene rispettata, il parlante probabilmente lo fa intenzionalmente per un particolare fine comunicativo. Quindi in qualche modo le massime funzionano anche quando produciamo un’infrazione. La regola della cooperazione può essere articolata in 4 massime: - Massima della quantità: dai un contributo informativo quantitativamente adeguato alla situazione - Massima della qualità: non dire cose false o non sufficientemente fondate - Massima della relazione: sii pertinente; - Massima del modo: evita le oscurità, parla in modo chiaro. LEZIONE 6 – Storia delle idee linguistiche – Il linguaggio nella filosofia antica Le nozioni viste finora sono il frutto di un’elaborazione teorica sviluppatasi nel corso della storia della filosofia. Rapporto tra linguaggio e ontologia Per capire il modo in cui i filosofi antichi si occupano del linguaggio, è necessario sapere che i filosofi antichi si pongono prima di tutto domande sull’essere: cos’è l’essere, quindi l’ontologia e la metafisica. La filosofia tornerà sempre a proporsi questa domanda. Il linguaggio si configura come strumento per poter parlare e conoscere l’essere. Come dice anche Aristotele, l’essere si dice in molti modi diversi e quindi si tende necessariamente a questa dimensione linguistica. Ciò che è importante è anche il contesto storico in cui nasce la filosofia occidentale, in una realtà politico-sociale molto piccola, la polìs. Proprio perché sono città-stato il numero degli abitanti è piuttosto limitato, ma sono grandi laboratori politici, tanto che la Grecia ci dà una prima idea di democrazia, sebbene non sia totale. Il coinvolgimento della comunità nella gestione del bene pubblico è un’altra delle molle che stimola la riflessione sul linguaggio. Infatti è nel contesto democratico che il discorso diventa fondamentale, specie per persuadere una comunità a prendere determinate decisioni. Nasce infatti la sofistica: i sofisti insegnano a costruire bei discorsi, ma devono necessariamente interrogarsi su che cos’è un bel discorso, sulle caratteristiche per creare un discorso efficace, dunque devono anche interrogarsi anche sul rapporto linguaggio- realtà, su come il linguaggio possa rappresentare la realtà in modo fedele, in modo tale che il destinatario venga persuaso a fare determinate scelte. Alcuni critici della letteratura greca hanno parlato di una forma di illuminismo, in quanto c’è una certa esaltazione del logos (=ragione/discorso/calcolo  è proprio su questa polisemia che si sviluppano importanti riflessioni). Chiaramente il discorso della sofistica è piuttosto opportunistico poiché un discorso è buono se efficace . I sofisti si fanno infatti pagare e le loro posizioni sono spesso interessate non a usare il linguaggio per scoprire la verità, bensì per raggiungere un fine, che sia politico, sociale o letterario. cui lati rappresentano elementi simmetricamente relazionati: da un lato le parole sono legate ai concetti e dall’altro alle cose in sé. Per indicare questa relazione, il filosofo usa la parola semainen (“significare”) per indicare la relazione tra parola e concetto. I fatti del mondo reale sono dunque collegati all’anima in virtù delle impressioni e delle modificazioni psichicamente subite dall’uomo per effetto della realtà stessa. Lo Piparo evidenzia i paradossi di tale processo, tra cui: come si possono esplicare le potenzialità semantiche nel momento in cui si riferiscano a fatti che non si danno nella realtà concretamente sussistente (come gli enti fantastici o gli enunciati circa gli avvenimenti futuri)? A risolvere tale dilemma è la traduzione del testo “De Interpretatione” di Lo Piparo, attuata in seguito a una previa analisi del lessico delle opere scientifiche dello stagirita: «Come le unità minime della scrittura non sono le stesse per tutti gli uomini, non lo sono nemmeno quelle della voce linguistica. Sono invece le stesse le operazioni logico-cognitive di cui unità vocali e grafiche sono segni fisiognomici e sono gli stessi i fatti con cui le operazioni logico-cognitive dell’anima sono in relazione di similarità.» Grazie a tale interpretazione, la concezione unidirezionale del linguaggio viene demolita per lasciare il posto a una léxis paragonabile a un cerchio in moto uniforme, articolata dal pathemata (affezione dell’anima), dal phonaì (suono) e dal grámmata (grammatica), che trova il suo centro nel prágmata. La portata rivoluzionaria della traduzione di Lo Piparo è chiaramente espressa dal sottotitolo “Cosa fa di una lingua una lingua”. Il suo testo si pone come stimolo alla riflessione filosofica aristotelica, che si approccia con innovativa acutezza alla realtà di oggi. Perché “convenzionalismo” se i pathemata sono uguali per tutti? Perché si fa riferimento in questa declinazione del convenzionalismo alla dimensione del significante, quella esteriore, sensibile, a cui fa riferimento il vertice contrassegnato dai symbola. Questa traduzione viene messa in discussione da Lo Piparo, che propone una traduzione completamente diversa da questo passo pensando all’intera filosofia d’Aristotele, in quanto fu un pensatore molto attento alla forma biologica del linguaggio umano. Pensiamo a quanto è centrale in Aristotele la dimensione etica e politica, al fatto che i soggetti vengano considerati sempre all’interno di una collettività, in cui prende senso l’esperienza linguistica. Nella sua interpretazione si nega che symbolon voglia dire semplicemente “segno”, fa una riformulazione che tiene conto in maniera più precisa del testo greco di riferimento e parla delle “articolazioni della voce umana e delle operazioni logico- cognitive dell’anima umana, che sono tra loro differenti e complementari così come lo sono le articolazioni scritte e quelle della voce”. E quindi quello che Lo Piparo vuole mostrare è che symbolon non può essere considerata come la faccia sensibile del segno, ma come una delle parti di un’unità. Quindi non ci può essere una separazione come nella tradizione convenzionalista. Per Lo Piparo c’è una correlazione tra la dimensione cognitiva del significato e la dimensione empirica del significante, e parimenti c’è una rappresentazione di determinati aspetti dei pragmata (come affermava lo stesso Peirce, il segno ci consente di fare riferimento alla realtà sotto determinati aspetti). Così Lo Piparo smonta anche la traduzione di katà sunthéke e lo traduce con “per composizione”(cioè l’articolazione tra le tre dimensioni del triangolo semiotico). Lui nega l’interpretazione del simbolo come qualcosa che sta per qualcos’altro, ma afferma l’interpretazione di un qualcosa che fa riferimento alla sua parte complementare, del significato. Quindi fa riferimento a una dimensione articolatoria. Quindi anche gli omoiomata non sono una copia dei pragmata, ma sono ad essi proporzionali. Le tradizioni platonica e aristotelica, tra loro opposte, si ritroveranno nei pensieri di altri filosofi, come Epicuro di Samo. Fu il fondatore della corrente filosofica dell’epicureismo, in cui l’etica ha un ruolo fondamentale. Ma è interessante il fatto che viene enucleato presto, all’interno di questa tradizione, un approccio al linguaggio  infatti si parla di tradizione epicureo-lucreziana, dato che Lucrezio nel suo poema filosofico De rerum natura riprenderà i contenuti della lettera di Epicuro ad Erodoto, in cui ripenserà in una cornice epicurea l’origine del linguaggio come qualcosa che è dettato da due elementi. Da un lato la dimensione del bisogno, legata a un contesto in cui mancavano una serie di strutture culturali ed economiche. Qui il linguaggio è legato all’espressione di determinati bisogni e ad una mancanza espressiva. Altro aspetto è il linguaggio come dispositivo espressivo, quindi la voce è legata all’espressione di determinate passioni in un contesto in cui il bisogno è prevalente. Questo ci riporta all’idea del fonosimbolismo, secondo cui l’essere umano sia dotato di dispositivi espressivi che lo portano a interagire con la realtà in modalità prefissate dalla propria costituzione psico-fisica. Quest’ultima non è poi così distante da quella degli animali, quindi questa teoria non è tanto lontana dal naturalismo. Lo sviluppo del linguaggio è graduale e queste reazioni vocali agli stimoli esterni sono un perfezionamento di quelle che troviamo in altre specie. Quindi è una posizione definita con i termini “gradualismo” e “continuismo” rispetto a dispositivi espressivi di altre specie. Questa posizione ha un antagonista speculare, lo stoicismo (Zenone), che difende invece una posizione convenzionalista e discontinuista: è un indirizzo discontinuista in quanto il linguaggio viene strettamente connesso alla ragione  anche lo stoicismo, peraltro, è una filosofia che pone al centro l’etica, però in questo modello chiaramente hanno un ruolo fondamentale anche la logica e la fisica. All’interno della logica individuiamo una riflessione sul linguaggio legata al fatto che logica fa riferimento a logos, termine polisemico che vuol dire “ragione” e “discorso”: così gli stoici individuano diverse parti del discorso. Ritroviamo una variante del triangolo semiotico nello stoicismo. Ogni enunciato si compone di tre elementi: È interessante notare come lo stoicismo abbia influenzato una serie di altri filosofi moderni, come Spinoza, secondo alcuni studiosi. LEZIONE 7 – Storia delle idee linguistiche – Il linguaggio nel pensiero di Dante Le opere di Dante in cu si affrontano questioni filosofico-linguistiche sono - il Convivio (1303 c.), opera in cui il poeta si propone di realizzare in volgare una sorta di enciclopedia del sapere; non si tratta di teorizzare il plurilinguismo, ma di esibirla praticamente nell’opera poetica. In un canto filosoficamente importante del Paradiso, il canto 26, Dante fa recitare ad Adamo la sua concezione di naturalismo linguistico, e non solo esibisce la sua teoria, ma corregge le tesi del Convivio e del De vulgari Dante aderisce al naturalismo linguistico: il volgare era la lingua dei desideri, dei bisogni, che aveva persino permesso ai suoi genitori di incontrarsi (quindi, volgare = lingua naturale, che si evolve; latino = lingua artificiale, fissa). Però ancora Dante, filosofo e credente, mostra nel De vulgari un Adamo che dà i nomi alle cose, quindi è come se incaricasse Dio stesso in un’opera di denominazione. Quindi la lingua d’Adamo è opposta rispetto al volgare, è chiamato Dante homo sine lacte, cioè senza latte materno, che non ha imparato a parlare dal seno della madre. Quindi l’ebraico era pure considerato lingua immutabile. Eppure come vedremo in Vico l’ebraico fa eccezione: si attiene a quello che dice la Genesi. Invece Dante si mostra più radicale, perché in Paradiso 26 fa dire ad Adamo che non è vero quant’era affermato nel De vulgari, cioè che l’ebraico rimane immutato e che la confusione delle lingue risale alla torre di Babele (punizione data da Dio all’uomo che voleva sfidare la divinità con una torre che arrivasse fino al cielo)  quindi il modello della Genesi viene disatteso. È Adamo stesso a spiegare a Dante che la sua lingua “fu tutta spenta innanzi all’opera inconsummabile” ( la torre di Babele). Quindi Dante contraddice quanto detto nelle sue opere: la lingua da lui stesso inventata si è modificata e la variabilità linguistica è una caratteristica antropologica che contraddistingue anche il primo uomo sulla Terra, Adamo. Il naturalismo linguistico in Dante, quindi, matura ed è più vicino alla tradizione epicureo- lucreziana, dato che c’è un forte avvicinamento della lingua ai bisogni del corpo, il che porta Dante anche a riconoscere la variabilità linguistica, cioè riconoscere anche che le lingue non possono esprimere la vera essenza delle cose nell’unico modo possibile, anzi, le lingue si trasformano e vanno comunque sempre bene perché questa trasformabilità fa parte della natura delle cose. Lo stesso linguaggio appare sottoposto alle leggi naturali della trasformazione, come ogni oggetto sulla Terra: Dante fa riferimento a meccanismi di corruzione delle cose terrestri. Ma c’è di più: la corruzione delle lingue storico-naturali non è identica alla corruzione di qualsiasi oggetto naturale. Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella (Paradiso 26) La dimensione naturale della linguisticità apre la terzina, ma a essa è associata immediatamente quella della storicità e del carattere convenzionale delle lingue. L’evoluzione della lingua ha la dimensione della convenzione, dato che sono gli uomini che, a loro piacere, formano la lingua così come formano la cultura, a cui la lingua è strettamente connessa. Quindi è un naturalismo fortemente legato alla dimensione culturale. Studiosi come Stefano Genzini infatti hanno parlato, riferendosi a questa terzina, di naturalismo storicizzante. E questo è l’esempio che Adamo fa anche il nome di Dio è stato cambiato, prima si chiamava I e poi si chiamò EL. Questo è l’esempio più forte, dato che il nome della divinità, come era stato affermato nella Genesi, doveva restare immutato. Quindi Adamo si trova a riaffermare, riecheggiando un verso di Orazio, che le lingue per natura si trasformano, così come gli alberi cambiano le fronde  metafora naturalistica che rimanda alla corporeità. Quindi nella Commedia Dante arriva addirittura a far dire ad Adamo che il nome di Dio ha cambiato forma. Dante sembra aver perso le preoccupazioni del De vulgari eloquentia. Eppure, nel descrivere l’Inferno, ritroviamo di nuovo una riflessione sulle lingue che punta alla complessità delle varie dimensioni. La vediamo attraverso l’interpretazione di una dantista, Elena Lombardi, che ricorda proprio come già la realtà infernale sia plurilinguistica per eccellenza, sebbene si tratti di non solo di diverse lingue storico- naturali, ma di orribili favelle, come direbbe Saussure di parole pregne di dolore e ira  questa è la parole dei dannati, di chi è condannato a stare per l’eternità sempre in questo stato emotivo. In questa dimensione, la corporeità è più forte, a un certo punto si trascende la dimensione verbale e linguistica: prima si parla di voci alti e fioche che non esprimono nulla di linguistico e sono accompagnate agli schiaffi (suon di man con elle). La connotazione linguistica è coperta da questo suono indistinto, indistinto perché non c’è una trasformazione, è una dimensione atemporale, un’eternità opposta rispetto al Paradiso. Nel Purgatorio invece la soggettività si deve trasformare per arrivare in Paradiso, quindi c’è l’idea di un’espressività linguistica che deve crescere e modificarsi. Quando Dante arriva nell’Eden parla proprio di purificazione linguistica. Quindi nella Commedia c’è una dimensione plurilinguista che rimanda anche all’espressività corporea e gestuale che sarà poi un elemento cardine della dottrina linguistica di Giambattista Vico. LEZIONE 8 – Storia delle idee linguistiche – Il linguaggio nella filosofia moderna Lia Formigari – autrice di riferimento, Linguaggio: storia delle teorie. Formigari si serve di due categorie per lo studio delle idee linguistiche: - psicologismo, pone al centro il soggetto nella sua attività cognitivo-rappresentativa - antipsicologismo, prospettiva esternista che mette al centro la prospettiva sociale, l’esecuzione più che la competenza. Formigari propone anche una prospettiva incentrata sulle lingue, non sul linguaggio, quindi è una storia della filosofia delle lingue. Fa anche una ricostruzione storica che si concentr su una riflessione epistemologica, anche sulle discipline che si occupano del linguaggio. L’organizzazione del sapere nel Medio Evo È proprio nel Medioevo che si crea un assetto disciplinare che ritroviamo anche oggi. Libro consigliato anche per la prospettiva ecologica: La vita delle piante, Emanuele Coccia, filosofo  lui si interroga sull’origine storica dello specialismo, prospettiva che obbliga oggi i ricercatori ad occuparsi di una cosa molto settoriale. Coccia riflette anche sui limiti di questa prospettiva. Quest’inclinazione nasce nel Medioevo con la prima organizzazione del sapere, tra arti liberali - del trivio, scienze umane: grammatica (studio del latino), dialettica (studio della filosofia) , retorica (tradizione greco-latina) - del quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica unica che consideriamo oggi arte). Un altro fenomeno fondamentale è la fondazione delle università, di cui l’Italia ha un ruolo cardine in tutta Europa, che rafforza la separazione del sapere. L’università viene fondata su iniziativa degli studenti, quindi dal basso. Chiaramente poi le università subiranno l’influenza culturale della nazione in cui si trovano. Tra le prime, Bologna, Modena, Padova, Salerno, Parigi, Salamanca, Cambridge e Oxford. In ambito accademico le prime facoltà sono diritto, teologia e medicina; il metodo didattico seguito è quello scolastico della quaestio, oggetto della disputatio che sfocia in una conclusiva determinatio del tema svolto nella discussione. Nate in modo autonomo, le università cadono gradualmente sotto l’influenza statale o sotto quella della Chiesa. Formigari ricorda che in età moderna prende piede il ruolo del filosofo freelance, che spesso esercita altri mestieri, il che lo rende più libero rispetto all’assetto medievale. L’interpretazione del testo sacro ha un ruolo centrale nella formazione superiore. Si tratta di un’esegesi che adotta un metodo allegorico e tende a connettere gli scritti biblici alla totalità dell’esperienza nella convinzione che la Provvidenza divina, di cui le Scritture sono espressione, guidi l’intera storia umana. La lettura delle opere logiche dei filosofi greci, in particolare quelle aristoteliche gradualmente riscoperte, porta alla discussione della nozione universale che sfocia in una teoria del significato. Si distinguono: - universale ante rem di matrice platonica secondo cui il significato (l’idea) è precedente alla realtà fisica; - universale in re, che è intrinsecamente connesso alla realtà (sinolo di materia e forma); - universale post-rem, posteriore alla realtà e prodotto da un processo di astrazione compiuto a partire dall’esperienza. Rinascimento e Umanesimo in Italia Il Rinascimento e l’Umanesimo prendono le distanze dal metodo scolastico e introducono, con l’umanista Lorenzo Valla, un’analisi filologica dei testi della classicità così come dei testi sacri; in essi all’interprete “compete il restauro della lettera, la sua liberazione dalle superfetazioni posteriori” (Formigari). La filologia biblica in particolare avrà tra i suoi esiti più radicali il contributo di Spinoza, che considera la Bibbia non un testo ispirato a Dio e dunque infallibile, ma piuttosto l’opera di un’umanità bambina in cui prevale la fantasia e l’espressione è dunque poetica e Un altro grande pensatore dell’età moderna. Locke è anche un pensatore politico, il grande pensatore della tolleranza, connesso con la prima grande rivoluzione politica che vedrà l’Inghilterra appropriarsi del sistema costituzionale. Ma noi qui ci occupiamo solo del suo pensiero semiotico, affidato al terzo libro dei saggi Sull’intelletto umano. Fa parte della tradizione empirista. La semiotica di Locke va inserita all’interno dell’indirizzo nominalistico del tardo medioevo in cui l’universale, post-rem, è considerato come un segno che si produce attraverso la mente che lavora, generalizza e astrae a partire dai dati individuali dell’esperienza. Tutte le parole sono dunque contrassegni che derivano in modo diretto o indiretto dall’esperienza sensibile. Quindi l’anima è una tabula rasa prima dell’esperienze e le idee, i concetti, si formano attraverso l’attività sensibile. Ma appunto le idee di esperienze sensibili come quelle di rosso o di particolari suoni sono ovviamente innate, dipendono dal corredo fisiologico degli esseri umani. Secondo Locke, se in questo corredo ci sono deficit, non si possono formare le idee: un esempio è il non vedente, che non può avere l’idea di rosso. Lui distingue tra essenza reale (inaccessibili agli esseri umani) ed essenza nominale (unica dimensione da essi conoscibile), che è il frutto di un’attività che parte dai sensi e che generalizza attraverso un’attività generalizzante, si avranno dei concetti astratti generali. Locke non si ferma alle idee semplici, ma alla creazione di idee complesse: siamo di nuovo affidati all’attività sensoriale, che è affiancata da un altro tipo di attività. Esempio celebre è quello dell’oro: il bambino collegherà l’oro alle caratteristiche “duro”, “giallo” e “scintillante”, mentre uno scienziato lo collegherà ad altre caratteristiche. Quindi l’essere umano non fa altro che modificare l’essenza nominale di un’essenza reale. Quest’attività di composizione ha anche un carattere creativo, Formigari parla di una prima nozione di arbitrarietà quando creiamo le parole. Un esempio è il concetto di “parricidio”: è sicuramente il frutto di una connessione culturalmente variabile di determinate idee. Non c’è un vincolo naturale per creare questo termine. Quindi Locke si può considerare un filosofo arbitrarista. G.W. Leibniz Pensatore enciclopedico, si è occupato di tutto, ha fondato l’Accademia delle Scienze di Berlino. Lui scrive una risposta a Locke, Nuovi saggi sull’intelletto umano. Addirittura riassume le sue posizioni per poi proporre in modo analitico le sue obiezioni. Fa parte della corrente epicureo-lucreziana: la corrispondenza tra suoni e moti dell’animo è alla base dell’evoluzione delle lingue storico-naturali; di essa recano tracce le componenti iconiche, onomatopeiche e metaforiche presenti in tutte le lingue. Egli adotta una forma di naturalismo linguistico che fa perno sui dispositivi simbolici legati alla corporeità e innesta in essi anche la dimensione storico-culturale. Anche sul piano sintattico si individua un rapporto naturale di proporzione tra articolazione dei segni e articolazione delle cose. Leibniz, per dirla con Peirce, parla quasi di un modello diagrammatico. Per Leibniz, è molto importante distinguere le lingue storico-naturali dai linguaggi scientifici, perché da un punto di vista semantico le prime sono caratterizzate da vaghezza e polisemia, mentre le secondo sono monosemiche. Altro aspetto della discussione filosofica dell’epoca è l’importanza delle lingue universali, lingue artificiali per facilitare la comprensione tra popoli differenti (il latino per Dante). È molto importante la characteristica universalis, un sistema di scrittura in grado di far uso di caratteri che denotano direttamente le cose (come si pensava fosse il caso dei caratteri cinesi e dei geroglifici egizi). Secondo Leibniz, le idee, antecedenti rispetto alle cogitationes, fanno riferimento a un ordine platonico (livello delle idee) e dunque la loro natura è innata e non frutto di composizione arbitraria come voleva Locke. Riprendendo un esempio della semiotica lockiana sostiene che anche se nessuno avesse mai commesso un parricidio, l’idea del parricidio rimarrebbe reale, insieme alla possibilità, concepibile, del suo accadere. Baruch Spinoza (1632-1677) Spinoza è uno dei più grandi filosofi della tradizione occidentale. Il tratto eroico del suo pensiero e la sua vita breve hanno portato a dire Gilles Deleuze, filosofo francese, che Spinoza è il Cristo dei filosofi. L’individuazione della semiotica di Spinoza è frutto dell’interpretazione del filosofo italiano Lorenzo Vinciguerra. Si contrappone totalmente a Descartes. È un filosofo monista, al centro di tutto c’è un’unica sostanza infinita, che coincide con Dio e con la natura e di cui noi possiamo conoscere solo due modi, il corpo e la mente. La matrice della semiologia di Spinoza è la nozione di corpo, una nozione profondamente rinnovata. I corpi sono sempre affetti, una nozione fondamentale è l’affezione: una sostanza unica, eterna, universale, produce affezioni sul corpo. A partire da queste nozioni, Spinoza sviluppa le nozioni di figura, forma, immagine e immaginazione. Con corpo però non intende corpo umano, bensì qualsiasi corpo. La semiotica di Spinoza si connette a una prospettiva etica, perché conoscendo i corpi e il loro funzionamento, e quindi le affezioni, Spinoza sviluppa una teoria degli affetti molto sofisticata, che spiega come coltivare affetti positivi ed allontanare quelli negativi. La prospettiva non è antropologica, ma anzitutto fisica. Non si tratta di riflettere sul modo in cui le due sostanze, res cogitans e res extensa, possano comunicare, ma di pensare alle forme della loro concomitanza. Vinciguerra evidenzia l’ambiguità di “affezione”, in quanto essa riguarda da un lato la sostanza, dall’altro i corpi. Essa viene poi connessa a quella di “traccia”, che è a sua volta in relazione essenziale con quella di “corpo”. I significati di traccia e tracciabilità sono affrontati introducendo le nozioni di “corpo duro, mollo, fluido”: duri sono i corpi con scarsa capacità di essere tracciati e ottima di tracciare, inversa è la condizione dei corpi molli, mentre i corpi fluidi sono ottimi trasportatori di tracce. L’identità dei corpi è data dalla ritenzione delle tracce (memoria), la cui reiterazione produce determinate configurazioni. Etienne Bonnot de Condillac (1714-1780) Un altro filosofo francese riprende la tradizione empirista di Locke e pone al centro un’indagine che avrà un’estrema fortuna nel ‘700, cioè la glottogenetica, l’indagine sull’origine del linguaggio umano. Secondo Condillac, il linguaggio umano ha origine dai primordiali cris de passion, quindi gli affetti, le emozioni  condizione originariamente istintiva dei primi esseri umani. La prima forma in cui si esprime il linguaggio è un langage d’action, gestuale, prodotto dalla prima forma di categorizzazione pre-verbale. Quindi le lingue storico- naturali sono il prodotto di uno sviluppo graduale in cui i segni diventano sempre più convenzionali, artificiali allontanandosi dalla loro radice istintiva. Il suo modello glottogenetico viene ampiamente discusso e criticato perché sicuramente questa dimensione gradualistica diventa sempre più astratto, quindi c’è un processo di generalizzazione. Johann Gottfried Herder (1744-1803) Herder contraddice le tesi di Condillac, scrivendo un saggio sulla glottogenesi, vincendo un premio all’Accademia di Berlino. Chiaramente la modalità di approccio a questa questione implicava di creare sempre scenari glottogenetici: Herder lo fa proponendo un incipit: già come animale, l’uomo possiede il linguaggio  in questo modo prende, da una parte, le distanze da Condillac, ma dall’altre ammette l’esistenza dei cris de passions. Proprio perché il linguaggio è unico, diverso da quello degli animali, non possiamo spiegarlo, ci è stato dato da Dio. Possiamo spiegare l’origine del linguaggio, ma non c’è gradualismo. Il primo segno, secondo Herder, è la pecora: un uomo di fronte a una pecora crea il primo contrassegno facendo riferimento all’attività espressiva, sonora, di questo animale, il belato. Lo scenario ha una componente dialogica: Herder riconosce la pecora chiamandola “colei che bela”. Questa operazione è di natura cognitiva e non ha nulla a che vedere con l’espressività animale. La facoltà che è alla base di questa creazione linguistica è la sensatezza, essa ha un carattere olistico e assume in sé le facoltà intellettive e immaginative umane. LEZIONE 9 – Storia delle idee linguistiche – Ottocento termine greco energeia, da ergon (=opera compiuta), la lingua come organismo in perpetua trasformazione. Al tempo stesso però Humboldt, essendo il filosofo della diversità delle lingue, si interroga anche sul carattere specifico delle lingue, quindi propone la nozione di Weltansicht (=visione del mondo): le strutture sintattiche, semantiche e le forme foniche di una lingua concorrono a creare una visione unica della cultura e di quella lingua. Humboldt però non intende dire che questi visioni del mondo non consentono l’accesso a diverse visioni del mondo questa posizione di relativismo linguistico è stata vista come incomunicabilità di altri visioni del mondo. Ma per Humboldt le tradizioni e il plurilinguismo costituiscono una possibilità di poter uscire dal cerchio della lingua per entrare nel cerchio costituito da un’altra lingua. Sicuramente c’è questa idea che le lingue hanno filtri cognitivi diversi, quindi ci danno modi diversi di vedere l’esperienza, ma per esempio l’attività di traduzione denota la possibilità di passare da una Weltansicht all’altra. Quindi la Weltansicht non è una gabbia: da un lato non è Weltanschauung e dall’altro non è una Weltbild  la lingua è in costante evoluzione, per questo non è chiusa in se stessa. Perché la lingua si evolve? Humboldt ricorre all’importanza del soggetto parlante: l’individuo imprime la sua soggettività nella lingua. Da un lato la lingua esercita un potere sull’individuo, il quale non può introdurre a piacimento nuovi termini, ma può fare riferimento a una serie di creazioni individuali che, chiaramente, si danno in modo esemplare in letteratura, dove si manifestano con uno stile unico  da qui emerge il concetto di linguistica del carattere: esiste una facoltà universale del linguaggio, di cui le lingue sono espressione, ma ciascun individuo parla una lingua unica. La prospettiva mediana tra la facoltà del linguaggio e la linguistica del carattere sono proprio le lingue storico-naturali. La prospettiva di Humboldt da un lato supera la prospettiva ottocentesca dell’origine del linguaggio. Da un lato però è una prospettiva che mantiene al centro il soggetto parlante. Secondo le categorie di Lia Formigari, Humboldt non è né psicologista né anti- psicologista, in quanto ha componenti di entrambe le parti. La prospettiva glottogenetica la troveremo poi nella linguistica storica: la nascita della linguistica storica e del comparativismo linguistico si usa far risalire alla scoperta del sanscrito (lingua da cui derivano tutte le lingue indo-europee) ad opera dello studioso inglese Jones, che in un articolo metteva in luce la somiglianza tra questa lingua e il greco e il latino. Questa scoperta fu sviluppata nel XIX secolo all’interno del movimento tedesco della Romantik. Importante a tale proposito il saggio di Friedrich Schlegel del 1808 dedicato alla lingua indiana. Lo studioso Franz Bopp scrisse Studio sulla coniugazione del sanscrito, 1816, testo cardine della linguistica storica a cui fece seguito anche una grammatica comparata. Questa prospettiva storica si rivolge all’analisi di lingue esistite. Quindi le speculazioni glottogenetiche sull’origine del linguaggio sono bandite da questo ambito di studi (come scrive la Società linguistica di Parigi nel 1866). Non si tratta di proporre un’indagine sulle facoltà che hanno consentito l’origine del linguaggio, ma si tratta di indagare sulla lingua già esistente, magari risalendo a una protolingua. Però vengono posti dubbi speculari al tema, come la questione della monogenesi e la poligenesi di Schelling: si è avuta all’origine una monolingua da cui si sono generati idiomi diversi oppure sin dall’origine sono nate più lingue? Optare per la monogenesi ha delle implicazioni filosofiche e religiose, quindi è la tesi più affermata. È importante ricordare che fin dall’origine la linguistica mutua i metodi delle scienze naturali: la linguistica ha sempre considerato una disciplina gemelli la paleontologia, ossia la disciplina che ricostruisce un animale preistorico da un determinato osso, così il linguista era colui che con pochi frammenti doveva ricostruire una lingua. Quindi abbiamo da una parte un approccio empirico, ma dall’altra Lia Formigari sottolinea che rimane sempre l’idea tipica della filosofia idealistica per cui c’è uno spirito soggiacente alle varie lingue. La linguistica storica prende però strade diverse, come vedremo nelle posizioni positivistiche  lingue come leggi naturali. Un altro elemento importante è la tipologia linguistica, di cui il fondatore è August von Schlegel, anche se è declinata da Humboldt: le varie lingue possono anche essere raggruppate in famiglie linguistiche, come affermava Bopp (lingue indeuropee). Secondo questa prospettiva, invece, anche lingue lontane geograficamente e storicamente, possono appartenere allo stesso gruppo: - lingue flessive, includevano il greco, il latino e il tedesco  erano considerate le lingue superiori  nazionalismo tedesco. Possono esprimere più relazioni grammaticali mediante un solo morfema. - lingue agglutinanti, in cui le parole sono costituite dall'accostamento di più morfemi che ne determinano il significato, ma che rimangono invariati dopo essere stati uniti. - lingue isolanti, come il cinese. I suoi termini sono quasi privi di morfologia, quindi di declinazioni e flessioni. Grimm propone un’analogia tra leggi fonetiche e leggi di evoluzione naturale. Altri, come Schleier, stabiliscono una distinzione tra il glottologo, che si occupa delle leggi di trasformazione fonetiche come se si trattasse di leggi naturali; il filosofo del linguaggio, che si occupa dell’idea di lingua il filologo, che si occupa della lingua in una prospettiva storica che include la cultura dei popoli. Questo è importante perché dall’Ottocento c’è una tendenza a creare discipline indipendenti…. … Il positivismo linguistico si avvicina sempre di più alle scienze naturali. Fu sviluppato dai neogrammatici, il principale esponente fu Karl Brugmann, autore di una grammatica delle lingue indoeuropee. Sostiene che è possibile individuare leggi di trasformazioni fonetiche che hanno il carattere di leggi naturali. È una posizione anti-psicologista perché all’intervento del soggetto viene tolto ogni ruolo. Lia Formigari mette in luce il processo per cui, a partire dal XIX secolo, le indagini linguistiche si rendono autonome rispetto alla riflessione filosofica e diventano oggetto di discipline differenti: da un lato quelle linguistiche e semiologiche, dall’altro quelle psicologiche che confluiscono più tardi all’interno delle scienze cognitive. Se la linguistica ottocentesca si distacca dalle spiegazioni settecentesche sull’origine del linguaggio e si rivolge allo studio delle lingue e non delle facoltà psicologiche generali, nella seconda metà dell’Ottocento, risorge nuovamente l’interesse per lo studio psicologico del linguaggio che porta alla nascita di discipline autonome che si spartiscono i diversi ambiti di studio del linguaggio. La separazione dei vari ambiti viene approfondita in un’opera di Victor Henry chiamata Les antinomies linguistiques, in cui propone una riflessione epistemologica. Considerando che le antinomie (termine kantiano) sono tesi contraddittorie di cui si può argomentare la legittimità, il suo scopo è proporre il modello dell’antinomia alle indagini linguistiche distinguendo la prospettiva psicologista settecentesca sulla glottogenetica dalla prospettiva antipsicologista della linguistica storica che si occupa della ricostruzione delle lingue. Per Henry la soluzione consiste nel delimitare due ambiti: - studio delle lingue nella prospettiva delle scienze storiche; - studio delle facoltà linguistiche nella prospettiva delle scienze della natura. La diversità dei metodi delle due discipline rende impossibile ogni comunicazione e scambio tra i due ambiti disciplinari. Troviamo infatti lo psicologismo in figure come Heymann Steinthal (1823-1899), allievo di Bopp e Grimm. Insegnò linguistica all’università di Berlino, ma ebbe anche interessi filosofici e psicologici. In un’opera del 1848 mette a confronto la linguistica di Humboldt e la filosofia di Hegel. La prospettiva psicologista lo porta a riprendere la riflessione sull’origine del linguaggio in una prospettiva storica sviluppando una propria spiegazione, una prospettiva integrata. Steinthal sviluppa queste riflessioni in un momento in cui si stanno creando discipline indipendenti con metodologie specifiche e un’ispirazione empirica e sperimentale. Contribuisce a questo processo lavorando in una maniera che è possibile definire, ante litteram, interdisciplinare, mosso com’è dal desiderio di integrare diverse prospettive e ambiti di ricerca. Riprende infatti le istanze settecentesche. In questo senso può essere letta la creazione insieme a Lazarus nel 1860 della Rivista per l’etnopsicologia e la linguistica. Steinthal ritorna ad affrontare il tema della filogenesi del linguaggio utilizzando i contributi delle nuove scienze empiriche e proponendo un modello molto articolato per affrontare le diverse dimensioni che la questione glottogenetica include. Charles Sanders Peirce (1839-1914) Filosofo e scienziato americano e fondatore di una disciplina semiotica onnicomprensiva, padre del pragmatismo, Peirce non riesce a pubblicare in vita quasi nessuna delle sue opere, che escono postume (Collected Papers, 1931) La riflessione di Peirce prende avvio dal riconoscimento del carattere semiotico di ogni pensiero. Peirce critica infatti l’idea che siano possibili le intuizioni e sottolinea la natura mediata di ogni attività conoscitiva. Questo aspetto si esprime nella stessa definizione che Peirce dà del segno: “Qualcosa che sta per qualcuno, al posto di qualcos’altro, sotto certi aspetti o capacità” cui si palesa il Bedeutung. Si potrebbe dunque pensare che il Sinn sia il modo di rappresentazione dei parlanti di uno stesso oggetto. Ma in realtà la rappresentazione mentale, per Frege, non è assolutamente identificabile col Sinn, che è oggettivo. Quindi ci sono due elementi oggettivi (Sinn e Bedeutung) e uno soggettivo (rappresentazione mentale). Il Sinn di un enunciato riguarda il suo significato oggettivo ricondotto al regno del pensiero; solo a questo ambito vanno attribuiti i valori di verità e falsità. Frege introduce anche un’altra serie di nozioni in cui fa capolino la nozione soggettiva, che non mettono in discussione la separazione del senso dal dominio soggettivo. Nozione tipica è il tono, chiamato in semantica “connotazione”: la lingua può fare riferimento a diverse connotazioni tramite l’uso della sinonimia gatto e micio hanno lo stesso referente, ma cambia la connotazione  stesso Bedeutung, diversi Sinn. Un altro elemento importante è la forza: gli enunciati non hanno tutti la stessa forza. L’enunciato dichiarativo, interrogativo e esclamativo hanno una forza diversa. Anche nel tradurre da una lingua all’altra è difficile che si conservi lo stesso tono, ma per Frege la cosa essenziale è che venga mantenuto il senso. Altri due principi fondamentali, che verranno poi ripresi da Wittgenstein, sono quelli del contesto e della sostituibilità, secondo cui non si danno mai segni isolati  bisogna sempre fare riferimento al contesto linguistico-proposizionale. Il principio di composizionalità è che il senso e il riferimento di enunciato corrispondo alla composizione di senso e riferimento delle sue parti. Chiaramente si possono sostituire le singole parti lasciando inalterato il valore di verità. Esistono però proposizioni problematiche, come il discorso indiretto e gli atteggiamenti di credenza  “egli pensa che..” “egli crede che..”. Quindi c’è un’opacità del riferimento. Wittgenstein è un altro grande esponente della tradizione antipsicologista, nonostante abbia messo al centro dei suoi studi elementi psicologici. Ha scritto due opere fondamentali: il Tractatus logico-philosophicus e le Ricerche filosofiche. Nel Tractatus Wittgenstein individua nel linguaggio (qualsiasi sistema semiotico) l’unica funzione di rappresentare il mondo, tramite l’isomorfismo logico, cioè le rappresentazioni linguistiche hanno in comune con le porzioni di realtà che rappresentano la forma logica, che è la condizione di possibilità della rappresentazione. La forma logica così si esibisce e le uniche proposizioni dotate di senso sono quelle che si riferiscono alla realtà in modi veri o falsi. Lui elabora una tavola di funzioni di verità che permette di calcolare il valore della proposizione. Il linguaggio non può mostrare direttamente la sua forma logica, ma, nel caso delle proposizioni prive di senso, come le tautologie, che sono sempre vere e le contraddizioni, che sono sempre false, esse mostrano la loro forma logica, cioè la verità e la falsità. In questa esibizione chiara della forma logica, Wittgenstein individua il dominio indicibile dell’etica e dell’estetica, che per lui fanno tutt’uno nel Tractatus. Però nel Tractatus le immagini ambigue, come il cubo di Necker, così come le proposizioni ambigue e omonime (franco e Franco) sono casi di simboli diversi che vengono calati nello stesso segno. Quindi la disambiguazione consiste nel separarli. Il Tractatus finisce in una maniera inaspettata: l’opera si autodenuncia come insensata, così come sono state considerate insensate le proposizioni della metafisica  Di quello di cui non si può parlare si deve tacere. Dopo dieci anni, scrive le Ricerche filosofiche, importanti per l’opposizione psicologismo- antipsicologismo, in quanto l’opposizione non regge più. Nel Tractatus la prospettiva psicologista non esisteva, mentre nelle Ricerche filosofiche W. mette al centro il soggetto parlante e agente, che quando parla non vuole solo rappresentare il mondo, ma secondo l’immagine del gioco linguistico, la lingua può dare ordini, persuadere, raccontare barzellette, cantare, recitare filastrocche.. quindi il significato non è più legato alla rappresentazione, ma agli usi, e gli esseri umani devono essere addestrati ai giochi linguistici, pratiche di cui il linguaggio è una componente. Un’altra nozione fondamentale è quella di somiglianza di famiglia, da cui i giochi sono legati tra loro. La somiglianza tra un padre e una figlia è qualcosa che si colie ma che non si può afferrare individuando elementi precisi, è più frutto di intuizioni e sentimenti. Quindi Wittgenstein critica la teoria tradizionale del concetto, dicendo che i membri di una stessa classe non devono condividere una serie di caratteristiche, ma due giochi linguistici possono non avere nulla in comune eppure essere membri della stessa classe, attraverso una rete di somiglianze che li connette. Un modo per concettualizzarli sono i cerchi: due cerchi possono non avere nulla in comune, ma in qualche modo una connessione li rende tutti membri di una stessa classe. Wittgenstein quindi ripropone una critica ai concetti della psicologia, ma ponendo al centro il soggetto parlante. Non è più un filosofo che nega l’influenza della psicologia. Una posizione più netta la troviamo nell’opposizione cognitivismo-comportamentismo. Il comportamentismo è un indirizzo che nega la rilevanza della coscienza, della dimensione interna (quello che accade nella mente dei soggetti dev’essere considerato una scatola interna). Viene data importanza a ciò che l’ambiente esterno provoca nel soggetto: il processo linguistico è visto come una stimolazione esterna sul parlante, che attraverso la ripetizione assimila e usa il linguaggio. Questo modello estremamente influenzente nella psicologia fino a metà del ‘900, viene messo in crisi da Chomsky, che scrive proprio una recensione sull’opera Verbal Behavior di Skinnerè da quest’opera che inizia la svolta cognitiva, dal forte impatto, dato che nasce dalla critica del comportamentismo e mette al centro il soggetto con la sua attività mentale. Ha un impatto forte perché Chomsky sviluppa i suoi modelli cognitivi, ma il suo contributo riassorbe le scienze cognitive. Al centro dell’indagine è posto un soggetto isolato di cui si modellizza la competenza, in questo caso competenza linguistica. La dimensione che Chomsky chiama dell’esecuzione è considerata insignificante. Quindi tutta la dimensione esterna e il piano sociale dell’attività linguistica non è rilevante: è quindi una prospettiva internista. Va detto che le scienze cognitive nascono negli USA e si innestano nella filosofia analitica, quindi hanno un dialogo molto più forte con le scienze, come l’informatica. è quindi una prospettiva anticomportamentista: l’opposizione competenza/esecuzione, dimensione cognitiva/dimensione comunicativa ci ricorda, nel modello dualista di Descartes a res cogitans e res extensa. Chomsky è uno studioso molto attento a ricostruire la tradizione che costituisce l’antecedente del suo pensiero e individua come predecessore Descartes. Ha ricavato una storia delle idee linguistiche sulla base delle idee cognitiviste, persino travisando alcuni elementi, come la celebre affermazione secondo cui la lingua fa un uso infinito di mezzi finiti frase che Chomsky prende per spiegare la rules following creativity e la rules changing creativity. Quindi Descartes è il padre fondatore della tradizione cognitivista. Anche Spinoza è interessante per le scienze cognitive, ma viene omesso. Per accettare Descartes come padre fondatore bisogna anche prendere le distanze dal dualismo cartesiano, poiché la prospettiva di Chomsky è naturalista  le rappresentazioni mentali sono frutto di un’attività cerebrale, chiamata da Chomsky moduli, attività cerebrali che svolgono in maniera isolata determinati compiti. Questo è importante da comprendere perché nella linguistica di Chomsky la dimensione che viene identificata col linguaggio è solo la morfosintassi, la grammatica. Quindi quando Chomsky fa riferimento a dei moduli, all’idea che questo dispositivo LAD sia un modulo, si riferisce alla morfosintassi. Fonologia e altri livelli sono attività indipendenti svolte da altri moduli. Chomsky è anche uno scrittore politico che si impegna per trasformare la realtà. La sua linguistica mira a isolare un determinato aspetto e nasce da un’idealizzazione. La prospettiva è quella di soggetto isolato. Chomsky si chiede come i bambini apprendono il linguaggio: se guardiamo i bambini che da 1 anno a 3 anni imparano con estrema rapidità e con pochissime correzioni e con pochissimo input esterno, formulando frasi mai sentite, questo è il presupposto che conferma l’esistenza dell’innato LAD. Per Chomsky l’imitazione non basta. Questa spiegazione ontogenetica ci fa parlare di innatismo. Un’altra linea di spiegazione della teoria chomskiana è quella platonica. La sua è sicuramente una teoria empirica: si tratta di creare sistemi di modellizzazione che spieghino le relazioni morfosintattiche ma si tratta anche di spiegare il perché dell’esistenza del LAD, collegandosi anche all’evoluzione biologica. Chomsky si trova a dover spiegare perché, nonostante ci sia questo dispositivo, le lingue sono così tante (parere provocatorio di De Mauro). Tuttavia Chomsky dice che il fenomeno della trasformazione linguistica (lingue diverse e lingue che si evolvono) rimane misterioso. Perché in effetti il modello di Chomsky, in quanto universale, tenderebbe a considerare la grammatica universale. Lui separa una teoria dedicata a dei principi comuni che spiegano tutte le lingue: il fatto che poi le lingue deviino in diversi parametri morfosintattici è deputato ai diversi parametri che si fissano nelle lingue, come SVO, o ordine libero. Quindi la linguistica di Chomsky si propone come una riflessione interna alla psicologia. Quindi è una prospettiva psicologista che porterà fine alla psicologia così come veniva praticata prima negli USA. Il livello sintattico è spiegato da diagrammi ad alberi, in cui c’è a livello superiore la frase, poi sintagma nominale e verbale, ecc. Questo diagramma è una rappresentazione di quanto accade nella mente del soggetto parlante. Questo modo di modellizzare è stato anche utilizzato nel grande progetto delle scienze cognitive. Una delle grandi analogie è infatti quella tra cervello e hardware del computer, in cui le diverse lingue corrispondono a diversi software. ricorre (espressioni idiomatiche), che sono diverse nelle altre lingue. Quindi l’arbitrarietà saussuriana afferma che ogni lingua, sia a livello del significante che a livello del significato, ritaglia diversamente la propria materia  sono diversi i valori = il significato di un termine acquisisce il proprio valore relativo al sistema. è interessante vedere il paragone con la moneta: noi possiamo scambiare sicuramente una merce con la moneta e in qualche modo anche noi possiamo scambiare dei significati per dei referenti (esempio poco rilevante, perché il valore linguistico è assimilabile al valore di una moneta che può essere paragonato con altri sistemi monetari  non c’è mai equivalenza, come tra albero e arbre). Le lingue ritagliano in maniera individuale la dimensione cognitiva. Un celebre passo del Corso dice che il pensiero, al di fuori del linguaggio, è una massa amorfa. Quindi il linguaggio è il medium con cui si dà ogni tipo di categorizzazione  affermazione molto controversa e criticata, ci si è chiesti: Saussure ha davvero negato che esista una categorizzazione prelinguistica, categorizzazioni cognitive indipendenti dal linguaggio? Molti studiosi non sono d’accordo. Per altri studiosi invece si mantiene questo carattere onniformativo del linguaggio anche rispetto ad attività in apparenza indipendenti. Un altro punta che ci porta a dubitare di ciò è il fatto che Saussure ponga la linguistica all’interno della semiologia, che a sua volta è all’interno della psicologia sociale. Ma se c’è solo il linguaggio verbale, quella collocazione nella semiologia rimarrebbe un po’ oscura. È chiaro che Saussure intende che nel sistema lingua, quello che determina il valore dei significati è indipendente dai referenti extralinguistici: questo non significa che ci sia un rapporto, ma di certo essi non determinano il modo in cui vengono concepiti i significati nelle varie lingue. È chiaro che per Saussure un’implicazione di questi assunti è che le due entità di cui si compone il segno non sono separabili, si danno sin dal principio da una sintesi  De Mauro ha fatto notare come questa nozione sia connessa con la nozione di articolazione in Humboldt  la cognitività umana viene determinata nel segno linguistico, che produce una particolare declinazione categoriale. Qui ritroviamo i due parlanti che parlano e recepiscono: l’intero processo di audizione e fonazione è connesso all’attività cerebrale. È interessante questo circuito perché nel segno troviamo concetto e immagine acustica, però per Saussure è importante mostrare che entrambi sono prodotti dalla realtà mentale, quindi per fare riferimento al sistema bisogna sempre considerare l’attività linguistica concreta in tutte le dimensioni (anche quella più esterna, i suoni). Un certo indirizzo dello strutturalismo invece penserà di poter fare a meno di questo circuito, ma questo nucleo psicologista è invece presente in Saussure. Per Saussure possiamo astrarre la langue, ma per comprendere i fenomeni linguistici ad essa relativa, dobbiamo considerare tempo e massa parlante, perché la vita della lingua è determinata da questi elementi. Un elemento senza l’altro non avrebbe motivo di esistere. Uno studio concreto della langue deve studiare quindi anche fenomeni relativi alla massa parlante, alla dimensione pragmatica. La stessa distinzione tra sincronia e diacronia appare qui meno netta, dato che anche il tempo è parte dell’osservazione. Il secondo Saussure Si è arrivati a parlare di un secondo Saussure perché, quando nel 1996 è stata sgomberata la sua casa, sono emersi manoscritti sconosciuti, che ci portano verso un Saussure che si interroga tormentosamente sulle operazioni che rendono possibile lo studio della lingua. Da un lato è possibile rivedere nozioni presenti nel Corso, dall’altro si scopre che Saussure aveva proposto nozioni che pongono al centro dell’attività del parlante. Da questi scritti esiste fuori un Saussure epistemologo molto attento a distinguere la prospettiva del linguista da quella del parlante e anche molto attento a creare per la prospettiva del parlante una serie di categorie e nozioni che potessero fargli comprendere come il parlante entra in relazione col sistema. Per Saussure, nell’essenza dei fenomeni linguistici, c’è sempre una duplicità di prospettive e la lingua è proprio il prodotto indissolubile tra due dimensioni (mentale e acustica). Per Saussure è importante capire cosa succede quando osserviamo fatti linguistici: la conoscenza del linguista è diversa dalla conoscenza del parlante? Certamente sì. Un altro elemento importante è la lingua come sistema: dal punto di vista del parlante ha posto delle difficoltà. Quando il parlante produce un’enunciazione, è possibile che padroneggi in quel momento l’intero sistema? No, in effetti per Saussure in questi scritti dobbiamo fare riferimento al fatto che il parlante non ha sempre accesso all’intero sistema, ma solo al jeu de signes, identificati con un’unità locale del sistema linguistico. Saussure parla di rapporti sintagmatici e associativi: noi come parlanti abbiamo memorizzato una serie di espressioni idiomatiche e frasi ricorrenti in cui quella parola compare, quindi quando componiamo una frase ricorriamo a dei rapporti paradigmatici per poi porre le parole in rapporti sintagmatici, nel cotesto. Questo avviene selezionando una porzione del sistema lingua, quindi il jeu de signes è un gioco solo locale. Come osserva De Mauro, Saussure si concentra sulla dimensione pragmatica. Un altro aspetto interessante è il nesso tra percezione e linguaggio. Abbiamo letto la celebre frase: al di fuori del linguaggio il pensiero è una massa amorfa  Marina De Palo chiama questo il fantasma del prelinguismo amorfo. Negli scritti inediti si parla di una categorizzazione percettiva, ma se ne afferma l’obliquità rispetto al referente e rispetto alla categorizzazione linguistica, quindi abbiamo diversi livelli di semiosi. La scuola di Ginevra Dopo la morte di Saussure, i suoi allievi di Ginevra portano avanti il suo insegnamento, ed è interessante, anche rispetto all’interpretazione dell’insegnamento di Saussure, che la cosiddetta “scuola di Ginevra” (chiamata così da Bally) si occupi di parole, più che di langue. Questo perché viene dedicata una particolare attenzione alla dimensione soggettiva del parlante. E poi si crea una scuola di psicologia, oltre che di linguistica. Uno specie si riferiscono ad altri elementi significativi dell’ambiente. Più in alto troviamo il campo simbolico, che affonda le sue radici nel campo indicale ma ha altre caratteristiche: troviamo dei processi di dematerializzazione e di formalizzazione rispetto al campo indicale. Il discorso all’interno del linguaggio può affidarsi a diversi media e può essere separato dal contesto extralinguistico. Bühler individua tre funzioni fondamentali: 1) funzione comunicativa-espressiva, che troviamo in tutti i sistemi comunicativi  2) funzione rappresentativa, specifica del linguaggio verbale; 3) funzione di scatenamento o di appello, che fa perno sul ricevente. 4) funzione di controllo, da parte del parlante, che coordina tutte le altre funzioni in vista di un obiettivo; B. distingue tra : - senso puro/fisso - senso occasionale, il singolo atto di enunciazione legato a un particolare contesto. Bühler deve però ammettere che una distinzione assoluta tra campo indicale e simbolico, e anche che il senso nella comunicazione è fluttuante ed indeterminato. L’indeterminatezza semantica è un elemento fondamentale. È importante per Bühler sottolineare che, anche se la comunicazione ha dei vincoli (è legata a contesto e parlanti), un margine di libertà e creatività per il soggetto c’è. Per Bühler è importante considerare l’atto individuale come elemento creativo e libero (linguaggio come forza creativa = Humboldt. Tradizione humboldtiana molto forte nello strutturalismo) all’interno della tensione tra dimensione astratta e concreta (langue e parole di Saussure, a cui Bühler pone la sua terminologia). Però per Bühler, rispetto a Saussure, è importante fare una battaglia contro il riduzionismo in psicologia. In Saussure c’era questa intenzione in maniera latente e indiretta. Bisogna quindi che la linguistica consideri i fatti linguistici nella loro totalità, oltre ai dati biologici- fisiologici. Quindi un elemento fondamentale nel programma non riduzionistico è la fenomenologia di Husserl (filosofo fondatore della fenomenologia, che si è battuto anch’egli contro il riduzionismo scientifico. Ha proposto una metodologia che pone al centro il soggetto nel suo atto intenzionale che consente di dare senso all’enunciato). Al contrario di Husserl, B. non vuole dividere l’atto intenzionale dai fenomeni comunicativi di altre specie. Quindi questa datità di senso non deve portare a separare un senso puro da un senso ancorato a una prassi. In questo modello troviamo: - Oggetti e stati di cose  la funzione rappresentativa ha nel linguaggio umano un ruolo preminente per ragioni legate alla cultura occidentale; - Espressione  la funzione espressiva che fa riferimento al locutore - Appello  la funzione di appello fa riferimento al ricevente. - S = segno  il cuore a cui si riferiscono tutte le funzioni. - ∆ dimensione astratta - o  dimensione concreta, l’atto concreto del parlare, la parole saussuriana Per Bühler è importante mostrare l’eccedenza dell’uno rispetto all’altro: nel cerchio troviamo molto di più perché la dimensione astrattiva astrae rispetto alla molteplicità di elementi che la situazione concreta contiene. Allo stesso tempo anche la dimensione astrattiva contiene qualcosa di più, perché corregge e seleziona, rispetto alla molteplicità dell’atto comunicativo. In ogni atto di enunciazione e decodifica si selezionano determinati tratti sia a livello di significante che di significato, il che significa che chi comprende spesso tralascia degli elementi di malfunzionamento  la maggior parte delle frasi che pronunciamo sono ipoarticolate, quindi se facciamo un’analisi meccanica non pronunciamo bene nemmeno un fonema, eppure il ricevente riesce a capirci perché mette in atto il principio di rilevanza astrattiva = il ricevente considera una serie di elementi contestuali. Originale è il modo in cui Bühler sottolinea che nella decodifica il ricevente esercita una funzione fondamentale, nel senso che lo stesso atto dell’emittente spesso contiene in maniera solo implicita degli elementi che sarà la comprensione a rendere espliciti  ci comprendiamo attraverso la reazione dell’altro, per questo la funzione d’appello è fondamentale. La reazione del ricevente rende il mittente consapevole di tratti di cui non era necessariamente conscio. Bühler chiama le langue e parole forma linguistica e atto del parlare: B. è in effetti il primo a creare una teoria degli atti linguistici, attribuita a Austin. Gli atti linguistici sono connessi a una teoria dell’intenzionalità: ci ritroviamo in un modello fenomenologico  da un lato B. critica Saussure perché il soggetto è troppo psicologizzato, ma d’altro canto la sua analisi empirica torna sempre sul soggetto concreto. Lui distingue tra fenomeni indipendenti dal soggetto e dipendenti dal soggetto: per B. è importante individuare fenomeni linguistici strettamente legati al parlante e dall’altra c’è un livello in cui il prodotto linguistico è indipendente dalle intenzioni parlante ( basti pensare alle opere letterarie). Chiaramente il messaggio fa riferimento a un contesto extralinguistico complesso da cui seleziona solo alcuni tratti. Questo contesto extralinguistico è qualcosa che va concettualizzato. Lui lo concettualizza attraverso la teoria dei tre campi: - campo indicale  campo in cui ci troviamo come soggetti con la nostra percezione ed espressività. Questo campo è coordinato dagli elementi io, qui, ora. A livello linguistico è espresso attraverso la deissi  deissi preverbale  indicare un oggetto con i gesti  deissi fantasma  ci riferiamo a un pensiero nella nostra mente  deissi anaforica  il linguaggio traduce gli elementi spazio-temporali legati ai soggetti che si muovono in esse attraverso particelle linguistiche come lì, dopo - campo simbolico  i simboli sono sempre circondati da un contesto, non sono mai disancorati, per quanto nei testi possiamo avere una dematerializzazione  contesto sinfìsico, campo circostante che consiste di oggetti fisici;  contesto sinsemantico, campo che consiste di altri simboli e parole. Determina il valore dei singoli segni, sembra avere una certa autonomia rispetto agli altri campi ma così non è, dato che quando parliamo noi non affidiamo, nella nostra intenzionalità, tutto il peso al linguaggio ma spesso al contesto empratico. Lo facciamo per questioni di economia. Quando parliamo ci esprimiamo in modo ellittico, cioè con frasi incomplete, es. il parlante intende il verbo ma lo omette. È il contesto a completare la frase. L’idea di completezza di frase viene da una concezione grammaticale, ma nella realtà non avvertiamo quest’esigenza perché la nostra attività significativa permea anche il contesto non linguistico che aiuta la nostra comunicazione.  contesto empratico o simpratico, campo che consiste in comportamenti e azioni. Il Circolo linguistico di Praga e la nascita dello strutturalismo Una delle idee principali è la fonologia strutturale, che mette al centro l’unità minima a livello del significante, il fonema, che ha un carattere distintivo, anche se poi all’interno di queste unità minime vengono ulteriormente distinti dei fasci di tratti. La cosa interessante è che lo strutturalismo di cui le tesi di Praga sono il manifesto non ha posto subito al centro la nozione di struttura, ma si è anzitutto rivolto a quella di funzione. Solo in un secondo tempo la struttura ha preso il sopravvento, sinonimo di sistema per Saussure. senso logico. C’è sempre nell’enunciazione un nucleo prelogico che non può essere ridotto alla logica. Anche l’accesso metalinguistico al sistema è diverso nel parlante comune e nel linguista. Altro elemento importante è quello di onniformatività delle lingue storico-naturali: la lingua, unica tra i codici, può trasportare nel proprio piano del contenuto qualsiasi contenuto di altri codici, può riformularlo e farlo proprio, onnipotenza semiotica che ha come pena l’incomprensione  metalinguisticità riflessiva. La stessa linguistica è una meta semiotica perché in maniera programmatica propone una descrizione esaustiva delle sue categorie. Benveniste (1902-1976) Pone al centro il soggetto. Nuovamente in Benveniste è fondamentale il dialogo con la fenomenologia, ritroviamo molti elementi di Bühler. Critica a Saussure la staticità del sistema sincronico in cui la temporalità è un elemento di cornice. Sulla scia di Bühler e Husserl tende a ripensare il modello saussuriano distinguendo la semiotica (prospettiva sincronica) dalla semantica (teoria che si occupa dei meccanismi di attivazione della langue da parte del parlante – parole)  Per Benveniste è essenziale vedere come funziona la soggettività, che è secondo lui un effetto del linguaggio: la stessa enunciazione io. Questo io non è elemento del sistema lingua, ma anzitutto un effetto di linguaggio, non lingua, quindi è universale. Chiaramente non pensiamo a una prospettiva monologica perché l’io prevede anche il tu, quindi possiamo parlare di intersoggettività. La deissi si occupa di fornire questa cornice di soggettività. È l’ancoraggio soggettivo che si attiva attraverso l’enunciazione: la stessa temporalità è istanziata a partire da categorie temporali. Il tempo presente è la dimensione temporale originaria. Se il tempo presente è una cornice in cui troviamo l’io e il tu, il tempo storia è una cornice in cui troviamo la terza persona (categoria della neutralità). Il modello della messa in funzione della langue attraverso l’enunciazione prevede tre momenti: 1) la realizzazione vocale della lingua (espressione vocale dell’individuo) 2) trasformazione della lingua in discorso attraverso il processo di semantizzazione 3) analisi delle forme specifiche adottate con lo scopo di porre il locutore in rapporto costante con l’enunciazione. In tutti e tre i momenti è individuabile un processo di appropriazione della langue da parte del parlante. La semantizzazione propone d’altro canto una riarticolazione del saussuriano rapporto tra langue e parole: la langue si pone cioè al crocevia tra forma e attività. Essa è concepita come un sistema che riceve la propria forma anche attraverso le funzioni legate al soggetto. LEZIONE 13 – Saussure in dialogo con la filosofia continentale La crisi della cultura occidentale è una crisi delle discipline dovuta anche all’impatto della scienza e della tecnica. Molti dei filosofi seguenti sono molto influenzati dalla crisi. In questi autori il confronto con lo strutturalismo è duplice: da un lato vengono mutuati degli elementi (nel caso di Levi-Strauss nasce l’antropologia strutturale), dall’altro dello strutturalismo viene criticata una posizione che tende a far scomparire il soggetto. Il soggetto c’è negli strutturalismi, ma in effetti nella loro evoluzione questa dimensione finisce sullo sfondo. Il linguistic turn e la crisi A un primo sguardo, la centralità del linguaggio nella filosofia non rappresenta più una filosofia specialistica. In qualche modo il linguaggio diventa la prospettiva omnicomprensiva che ci fa credere che si tratta di una celebrazione del linguaggio e delle forme simboliche. Invece è più plausibile pensare che in realtà è proprio da una crisi semantica generale che si arriva alla tematizzazione del linguaggio  ci si occupa del linguaggio, lo si scopre come qualcosa che permea tutta l’esperienza umana proprio quando ci si accorge che il linguaggio “gira a vuoto” (Wittgenstein, consapevolezza della crisi). Quando parliamo di crisi tendiamo a restare generici, ma in realtà ci sono fattori storici precisi che ci permettono di parlare di crisi in modo concreto. Basti pensare agli effetti devastanti dell’industrializzazione sullo stile di vita. Il processo scientifico e tecnologico sono positivi, però anche qui il mondo rurale viene devastato e crollano anche degli assetti geopolitici. Declino dell’impero austro-ungarico e prima Guerra Mondiale. Ogni Paese declina diversamente questa crisi. Questa crisi ha un impatto sul modo di pensare la lingua. Tullio De Mauro parla di una tensione che crea questo nuovo contesto culturale, una tensione tra la concezione di lingua come machine à parler , i cui meccanismi non sono conosciuti dal parlante e la visione del parlante come operaio di questa macchina. Viene meccanizzata l’idea della lingua. La lingua è prodotto di un modo di esprimersi della collettività dei parlanti, che si impossessano della consapevolezza della lingua. Nel momento in cui poniamo il parlante come attore della lingua, diamo anche una ricetta per uscire dalla crisi: questo elemento è forte in alcuni filosofi. La filosofia delle forme simboliche di Erst Cassirer (1874-1945) Un grande filosofo che si è interrogato sulla crisi con una prospettiva positiva neoilluminista. Si oppone al nichilismo. È fondamentale riflettere sulla crisi causata dalle scienze: mentre prima la filosofia aveva la funzione di coordinazione tra i veri saperi, c’è ora una frammentazione antropologica. Dunque bisogna porsi la domanda fondamentale (come faceva Kant): cos’è l’uomo? La risposta che Cassierer dà lo porta a sviluppare una filosofia delle forme simboliche: l’essere umano può essere visto come colui che crea determinate forme simboliche. Cassierer individua 4 forme simboliche fondamentali: mito, linguaggio, scienza e religione. È importante concepire la lingua secondo le categorie già proposte da Humboldt: la lingua come energeia, non come forma formata ma come forma formans in divenire. All’interno di questa concezione possiamo indagare come le diverse forme simboliche concorrono in modo specifico alla creazione del mondo culturale. Questa creazione simbolica è un tratto specificamente umano. In rapporto con Saussure e lo strutturalismo, Cassierer riconosce l’importanza di questo movimento, vista la natura sistematica, però individua una tensione tra due visioni differenti del mondo: amici delle idee VS amici della materia. Chiaramente per Cassierer l’indirizzo strutturalista-formalista è portato avanti dagli amici delle idee: infatti la nozione di fonema come unità minima distintiva del significante non ha un carattere materiale ma ideale. Altra cosa interessante è che Cassierer individua anche delle radici degli aspetti dello strutturalismo nella tradizione della Gestalt, in quanto entrambi partono da una nozione di forma come totalità costituita da elementi che però acquisiscono un valore diverso nel tutto  quindi il tutto non è la somma delle parti. Cassierer individua una tradizione di riflessione sul rapporto tra mondo ideale e empirico, già presente nel pensiero romantico tedesco (Goethe e Cuvier sono stati i primi a individuare una nozione di Gestalt come unità olistica di elementi che non coincide con i tratti isolati di cui si compone, si pensi alle figure ambigue  abbiamo sempre gli stessi tratti, ma diverso significato). L’antropologia strutturale di Lévi-Strauss È considerato uno dei prodotti più interessanti dello strutturalismo. Lèvi-Strauss è un antropologo francese che si è occupato di fenomeni culturali di diversi ordini. Anche in lui emerge la consapevolezza della crisi, e le oscillazioni del suo pensiero sono legate alle soluzione che immagina per uscirne. Lui dialoga direttamente con la fonologia strutturalista e traccia un programma in cui dice che ci sono tre elementi fondamentali: 1. per lui è fondamentale lo slittamento di prospettiva dalla dimensione conscia alla dimensione inconscia. L’inconscio è importante per la realizzazione dei fenomeni linguistici, nonostante la funzione metalinguistica del parlante. Quindi il parlante parla in maniera inconscia rispetto alla struttura di cui si serve 2. Un elemento mutuato dalla Gestalt è l’idea olistica: non si considerano elementi isolati che compongono una somma, ma si parte dal sistema  3.  Realtà sistematica con leggi generali  4.  Individuazione di leggi generali ed elementi invarianti attraverso l’induzione o deduzione logica. Per arrivare a queste conclusioni, L.S. fa ricerche sul campo e fa delle ipotesi preliminari e sistematiche che riguardano il funzionamento di determinati assetti sistematici. Diverso è il caso di Michel Foucault, che nel suo dialogo con lo strutturalismo pone al centro della sua riflessione la questione della morte dell’uomo. Foucault è molto eclettico. Tendeva a considerarsi più uno storico che un filosofo. La sua riflessione parte dall’idea che l’essere umano sia giunto, dopo una crisi, alla sua fine. Foucault studia i dispositivi che hanno costruito una forma di umanità: quello che oggi consideriamo un essere umano normale, è il prodotto di processi di soggettivazione di cui l’individuo non è autore ma oggetto. In questo senso lui gioca sulla polisemìa di soggetto, non solo individuo attivo, ma colui che è soggetto a dei processi. Questo porta Foucault ad occuparsi dei sistemi di detenzione nelle prigioni, a occuparsi della follia, costruzione di un certo modello di razionalità: non c’è un disturbo psichiatrico, ci sono dispositivi che creano degli standard di normalità. Anche attraverso una ricerca storica cerca di capire come, attraverso una forma di pensiero (episteme), si sono costruiti ordini di discorso che hanno creato quello che è oggi per noi l’essere umano. Ecco che la domanda sulla morte dell’uomo si propone: se siamo costituiti da una serie di dispositivi di discorsi, questa costituzione deriva da un particolare assetto socio-politico che da un momento all’altro potrebbe venire meno. Quindi Foucault parte da un’idea di sistema come un qualcosa che permea la soggettività: quindi il soggetto viene parlato da certi ordini di discorso e perde la sua autonomia. Quindi si può parlare di decostruire queste stratificazioni di discorsi: per Foucault non si può fare di questo. F. è fondatore così di un indirizzo post-strutturalista insieme a Derrida, perché la nozione di struttura fa scomparire il soggetto. Il post-strutturalismo si occupa proprio di decostruire questi dispositivi di soggettivazione. È chiaro che parliamo del soggetto come qualcosa che ha una sua sussistenza, ma consapevoli che le condizioni di costruzione di questo soggetto a priore possono venire meno. Il progetto semiotico di Umberto Eco (1932-2017) Si è formato nell’indirizzo strutturalista. Ma è sempre stato aperto ad altre correnti. Attraverso un’autocritica, prende le distanze da strutturalismo ed ermeneutica. Anche Umberto Eco vede nella nozione di struttura uno slittamento da un approccio metodologico a un approccio ontologico: prima la struttura era un punto di vista per cogliere fenomeni linguistici, e poi diventa qualcosa di oggettivo e tangibile. Per Eco ha senso dire che il linguaggio è una forza che agisce dietro l’uomo, quindi l’uomo diventa un effetto di linguaggio che si articola in certi ordini di discorso. Abbiamo un nuovo naturalismo. Ma Eco osserva con buon senso che è vero che il soggetto appare determinato in assetti culturali, ma se questi assetti cambiano e si trasformano, presuppongono la chiusura del soggetto in una struttura che lo determina senza possibilità di scelta, il che appare implausibile. E qui è interessante vedere come effettivamente anche il punto di vista culturale fa la differenza: sebbene la cultura francese dia un grande valore alla resistenza e alla scelta, la cultura è molto omogeneizzante, rispetto a quella italiana. Eco è infatti molto versatile rispetto alla posizione negativa di Foucault: la prospettiva nazionale in cui si è vissuti fa la differenza. Eco, da un lato dice che il soggetto sembra scomparire nel processo di semiosi, ma dall’altro lato queste funzioni semiotiche sono sempre attivate dai soggetti, che alla fine non si lascia soppiantare da un dispositivo. L’ultimo Eco propone un’autocritica alle posizioni strutturaliste da cui è partito, alla posizione arbitrarista. Per Eco tutta la dimensione naturale, quel che si assume perché parte della struttura psico-fisica degli esseri umani, non ha valore. In Kant e l’ornitorinco, Eco recupera questa soglia inferiore della semiosi e dà spazio alla categorizzazione percettiva. Quindi il soggetto parlante appare ancorato a un contesto non verbale ma affettivo. LEZIONE 14 – Psicoanalisi e strutturalismo La psicoanalisi è una disciplina che nasce quasi contemporaneamente alla linguistica generale di Saussure. Freud (1856-1939), il soggetto parlante e la nascita della psicoanalisi + Jung Freud è l’inventore di una disciplina a cui molti negano la scientificità. Freud parte da una prospettiva neurologica per poi allontanarsene per creare la psicoterapia. C’è un’attenzione metapsicologica in Freud: lui si interroga costantemente sulle categorie scientifiche della disciplina, come fa Saussure. Freud propone una riflessione epistemologica sulla sua scienza introducendo nozioni originali: quella fondamentale è l’inconscio, non l’inconscio linguistico, quello per cui gli strutturalisti osservavano che il parlante conosce la lingua parlandola. L’inconscio freudiano è una delle risposte alla crisi del linguistic turn, una crisi di civiltà. Per Freud un punto di partenza è il disagio collettivo dell’uomo civilizzato. Questo disagio lo porta a ipotizzare l’esistenza di una dimensione della psiche non percepibile ma che la sua scienza ipotizza per poi attribuirle un assetto funzionale, questo perché nell’inconscio ritroviamo le cosiddette pulsioni, ossia quelle spinte che hanno una base biologica, che però negli esseri umani vengono sospinti in una zona inconscia e spariscono dallo sguardo razionale del soggetto, che giudica le pulsioni (libido) e l’espressione psichica in modo negativo con una prospettiva morale. La pulsione però non viene eliminata: anche a un livello inconscio continua ad agire. Freud crea una strutturazione dell’individualità, che comprende da un lato l’istanza censoria, che reprime la pulsione nell’inconscio (nel super- io), poi abbiamo l’io che fa da mediazione tra la dimensione inconscia disconosciuta dal soggetto, l’es e il soggetto. La dimensione dell’inconscio diventa oggetto dell’attenzione di questa disciplina. Come funziona l’inconscio? Innanzitutto funziona in modo tale che, non potendo esprimere le pulsioni, produce un disagio in ogni individuo, le nevrosi . La nevrosi si può esprimere in varie forme, gravi e meno gravi, tra cui la psicosi. La psicanalisi nasce con l’individuazione di particolari sintomi nevrotici come l’isteria. Freud mette a punto il proprio modello terapeutico su donne che manifestavano tale sintomo. Freud ipotizza che il sintomo, in quanto espressione della rimozione delle pulsioni e del loro linguaggio specifico, può essere curato col dialogo col terapeuta. Quindi la psicanalisi prende una curvatura ermeneutica  se si interpreta verbalmente il sintomo, si riesce a guarirlo. La proposta di Freud è una terapia della parola, attraverso cui si riesce a superare il sintomo. Per capire ancor meglio quanto sia simbolico il linguaggio in questo ambito, Freud si accorge che uno dei modi fondamentali per capire come la pulsione è stata rimossa è l’interpretazione dei sogni. Analizzando i sogni, capisce che sono messaggi di tipo simbolico che vanno decifrati e, per la prima volta, individua due meccanismi rispetto alla configurazione simbolica del sogno: - la condensazione del senso, la metafora - il suo spostamento, la metonimìa. La terapia della parola è quindi anche interpretazione dell’attività simbolica che non è parte del linguaggio ordinario. In Freud come in Saussure abbiamo al centro d’interesse il senso e il soggetto parlante. La psicanalisi individua, attraverso l’ipotesi dell’inconscio, dei meccanismi di simbolizzazione più primitivi rispetto alla parola, come il sogno, il lapsus e i linguaggi dell’arte. Freud, nel creare un nuovo ambito di ricerca, come Saussure, postula un elemento non percepibile, come la realtà sistematica della lingua. Entrambi trovano metodologie per cogliere le forme espressive del non percepibile. Il progetto di Freud ha anche carattere biologico se pensiamo alla libido e alla pulsione. L’inconscio è una entità riferita agli individui. In un’altra linea di ricerca, quella di Jung, l’inconscio diventa inconscio collettivo e Jung si distacca decisamente da Freud, muovendosi verso l’analisi di fenomeni religiosi, artistici, della magia, del mito  infatti la nozione di inconscio collettivo è strettamente legata alla nozione di archetipo, che ha una dimensione interpersonale. In questo Jung riprende le nozioni kantiane: l’archetipo è una sorta di a priori storico di forma trascendentale che si riveste del linguaggio del mito. Quindi i miti incarnano degli archetipi,come quello della Grande Madre, del fanciullo, ma l’aspetto importante è che questi archetipi non sono qualcosa di staccato da noi come individui singoli. Anzi, Jung, attraverso la terapia del dialogo, mostra come alcuni dei nostri comportamenti meno razionali e più affettivi (radicati nella soggettività) sono guidati dagli archetipi. Jung ovviamente non rimane solo a questo livello collettivo, ma è anche autore di una teoria sui tipi psicologici, in cui troviamo elaborati alcuni elementi che abbiamo già individuato nella psicologia di matrice saussuriana. Jung individua due tipi: l’introverso e l’estroverso, che collega a 4 funzioni fondamentali: 2 funzioni razionali (pensiero e sentimento) e 2 funzioni irrazionali (intuizione e sensazione). Quindi Jung va oltre l’opposizione classica pensiero-sentimento e, anzi, riconosce al sentimento a un carattere razionale, come qualcosa che il soggetto può controllare. Secondo Jung ognuno di noi è un tipo prevalente, per cui il tipo introverso può essere correlato alla funzione “pensiero”, ma a livello inconscio si ritrova invece la funzione “sentimento” che è associata al tipo latente “estroversione”. Quindi in realtà queste funzioni e questi tipi si potrebbero coltivare all’interno di un individuo per raggiungere anche un maggiore equilibrio, e qui si vede il nesso della psicanalisi con la denuncia della crisi della civiltà occidentale  per come è organizzato il sistema scolastico e lavorativo, siamo spinti a perfezionare il tipo in cui siamo più forti, trascurando gli altri tipi, che ripartire dall’ordine simbolico del padre però individuare una sfera prelinguistica anteriore a quella dell’ordine simbolico del padre e propone di chiamarla “semiotico”. Da un punto di vista ontogenetico, la sfera preverbale dev’essere superata per arrivare all’identificazione con l’ordine simbolico del padre, pena uno sviluppo linguistico disturbato e un soggetto psicotico. Ma come possiamo descrivere la fase preverbale? Troviamo qui la deriva intesa da Lacan, una fase in cui quello che simbolizza è la corporeità, una simbolizzazione ancora precedente all’articolazione semantica e significante. Quindi abbiamo quest’estrema fluidità del senso, che invece poi nei sistemi linguistici sono dei sistemi completamente disancorati dalla dimensione materiale. Quindi questa dimensione del semiotico viene di nuovo completamente rimossa. Non interviene più se non in minima parte nel linguaggio adulto. Si può però avere una riemersione del semiotico nel simbolico: è il caso delle avanguardie poetiche a cavallo tra ‘800 e ‘900, come Mallarmé  l’avanguardia poetica manomette il linguaggio razionale simbolizzando direttamente il semiotico, la pulsione, disturbando la linearità del discorso poetico standard. Per Kristeva questa è la possibilità di rivedere nella produzione linguistica del semiotico, così come la vediamo nel bambino prelinguistico (lallazioni, percepite come un tutto frammentario). Riprendendo la nozione lacaniana dell’immaginario, afferma che il bimbo, tra 6 e 12 mesi, riesce a creare, attraverso il riflesso nello specchio, l’immagine di sé non frammentata, ma è un processo molto lungo che ha il suo culmine nel linguaggio verbale. Questa riemersione del semiotico nel simbolico è riscontrabile anche in opere poetiche precedenti: una serie di autori, di dantisti, hanno individuato anche nella poesia di Dante, nel Paradiso, questo fenomeno. Anche nel Paradiso, Dante, nell’avvicinarsi alla dimensione divina, deve disarticolare il linguaggio e far emergere l’affettività. Spesso gli psicanalisti e i filosofi propongono anche dei modelli che possono essere messi alla prova in analisi di critica letteraria, il che è la prova della forza del modello. Luce Irigaray (1930) e lo strutturalismo: dalla psicoanalisi alla filosofia della differenza Psicanalista lacaniana belga: anche lei riparte dall’idea di Lacan di ordine simbolico, ma si propone in maniera molto più netta, esplicita e diretta di Kristeva sulla decostruzione dell’ordine simbolico del padre che, appunto, siccome è connesso da Lacan alla figurazione del fallo, Kristeva chiama fallologocentrismo, individuando questa connessione con il logos. Come si decostruisce? Per Irigaray la decostruzione deve mostrare che quello che viene considerato universale nell’ordine è in realtà legato a una simbolizzazione solo maschile. Quindi lei mostra come questo modello abbia eliminato la nozione di differenza. Per lei la differenza è qualcosa che ha carattere originario nei due generi  l’essere umano si dà in questa dualità. Un altro elemento molto importante per lei, dopo la decostruzione e l’analisi delle figurazioni femminili (altra forma di simbolizzazione), bisogna costruire un nuovo ordine, in senso etico, in cui è possibile una simbolizzazione che sia il dialogo tra i due generi. Lei fa anche analisi empiriche sul modo in cui attualmente si tende a inglobare l’altro genere. Questa teoria appartiene a un femminismo diverso rispetto a quello emancipazionista di Simone De Beauvoir centrato sulla rivendicazione di diritti e sulla decostruzione del genere donna. Irigaray va in direzione opposta: la differenza è un dato irriducibile, non è un fatto culturale, culturale è semai il fatto di aver eliminato la differenza simbolizzando solo il maschile e rendendolo neutro, universale. Il pensiero femminista di Luisa Muraro (1940): della tensione tra metafora e metonimia all’ordine simbolico della madre Filosofa della seconda generazione del femminismo, riprende la nozione di differenza. Anche lei si è formata studiando filosofia e lo strutturalismo saussuriano. Ha scritto Maglia o uncinetto riprendendo la concezione di Jakobson su metafora e metonimia come due forme quasi in opposizione. Per lei la maglia è metonimica perché doppia, dialogica, relazione tra contesti concreti, mentre l’uncinetto è metaforico,è uno solo e si proietta su un senso unico, connesso ad un ordine razionale. Per Muraro è molto importante che quest’opposizione venga esemplificata e si serve della sua esperienza da insegnante. Questo tipo di separazione tra i due ambiti, metaforico maschile e metonimico maschile. Per Muraro è molto importante la ricerca di un ordine simbolico alternativo a quello maschile e scrive L’ordine simbolico della madre, per cui bisogna riconoscere il merito originario della madre, cosa che la nostra società, in quanto connessa a un altro ordine, ci rende difficile fare. Un’altra linea della sue ricerche è quella storico-filosofica-religiosa: è nella religione che si giocano a livello spirituale le possibilità di una simbolizzazione del divino come femminile. Scrive a tal proposito un saggio sulla ricostruzione della storia di due eretiche del Medioevo, che tentano la simbolizzazione del divino nella loro attività corporea. LEZIONE 15 – La recezione di Saussure in Italia e la scuola romana di filosofia del linguaggio Il contesto intellettuale italiano nella prima metà del Novecento Secondo un’idea storiografica diffusa, l’Italia arriva in ritardo nella recezione di Saussure e dello strutturalismo. L’Italia è sempre un po’ alla retroguardia e segue in ritardo le mode importate da altri Paesi. Questo stereotipo viene in realtà contestato da Marina De Palo. Certamente è vero che la recezione saussuriana, ad analizzar bene, è precedente rispetto all’inizio degli anni ’50, vero è anche che nel contesto filosofico italiano del periodo anni ’30-anni ’50, una recezione positiva di Saussure era molto difficile a causa del prevalere del modello idealista crociano. Quindi c’è un dialogo con Saussure, ma è molto presente l’idea che il primo Croce nell’Estetica, come scienza dell’espressione e linguistica generale aveva dato. L’idea di linguistica saussuriana non poteva darsi, non si trattava di una scienza vera e propria: per Croce le categorie della linguistica erano pseudoconcetti  secondo Croce i linguisti avevano ripreso concetto dei grammatici. L’unica cosa di cui si può dare una conoscenza autentica, per Croce, è solo l’espressione individuale, che aveva i suoi momenti più culturalmente rilevanti nella poesia, e che non poteva essere illuminata facendo riferimento a una nozione come quella di lingua, in quanto si dà solo un’individualità che si esprime in un atto unico e irripetibile. La nozione molto diffusa del modello crociano rende difficile riconoscere scientificata ai progetti di Saussure. Se si assumeva qualcosa della proposta di Saussure era proprio la centralità del soggetto parlante, la parole. Croce in realtà riprendeva idee già presenti nella filosofia del linguaggio tedesca: ritroviamo l’idea di lingua come energheia, come forma formans, attività creatrice di Humboldt. Come mostrerà De Mauro, Humboldt è un autore rielaborato anche da Saussure, quindi di nuovo le convergenze della filosofia italiano appaiono più forti di quanto sembrava. In questo senso, Croce si muove sicuramente da posizioni che tendono a vedere nella langue un concetto non utilizzabile per la propria Estetica, ma il secondo Croce riconosce la dimensione storica, collettiva della lingua. È proprio questo Croce a influenzare i cosiddetti istituzionalisti, generazione di linguisti che potranno dialogare in modo positivio con la linguistica saussuriana. Ci sono quelli che dialogano con Saussure tramite il primo Croce, tramite l’analisi della parole, dell’attività poetica. Ciò porta studiosi come Vossler e Spitzer a sviluppare una riflessione che, da un lato, non vuole sciogliersi nell’analisi estetico-filsoofica, ma mantnere un profilo specificamente linguistico, ma che vuole anche mantenere l’idea crociana dell’espressione individuale. Si rivolgono alla disciplina della stilistica (come la scuola di Ginevra), il che consente di mantenere una componente estetica molto forte e che si rivolge al cosiddetto linguaggio arte e che può essere contrapposto all’approccio del linguaggio-funzione. In Vossler è possibile fare un’indagine estetica e stilistica: parte del progetto saussuriano può rientrare nell’idea del linguaggio funzione, che reimmette la dimensione collettiva e anzitutto come una tecnica. Questa dimensione tecnica nella lingua emerge già in un’opera giovanile e poi viene elaborata in scritti successivi. Quindi in qualche modo questa tecnica è molto particolare in quanto consente di rappresentare nella lingua l’intero mondo della coscienza. Questa idea si accompagna a un modello di segno un po’ diverso. Innanzitutto va osservato che Marco Mancini in un articolo su Pagliaro, evidenzia che Pagliaro fu molto attento alla dimensione ideologica che sottende qualsiasi attività linguistica e quindi anche alla dimensione collettiva, quello che lui chiama valori costruiti collettivamente. Mancini ricorda che Pagliaro, nell’aderire al fascismo, portò avanti costantemente l’analisi filosofico-linguistica e la ricerca che poi fu anche oggetto di attività didattica, di una sorta di filosofia del fascismo. Mancini osserva che bisognerebbe ripensare la filosofia del linguaggio di Pagliaro considerando anche quest’aspetto, studi che Cassierer avrebbe poi ricordato come attenzione alla forma simbolica, perché chiaramente Pagliaro trattava il fascismo come una forma simbolico-culturale che serviva a riflettere sui fenomeni linguistici. Questa è una delle linee di ricerca di Pagliaro lungo la quale si afferma l’idea della lingua come sapere tecnico, che ha sempre una precisa contestualizzazione storica. Pagliaro è quindi legato a una teorizzazione che è quella di un modello politico in cui P. si collocava in maniera anche attiva. Anche Pagliaro si confronta con Saussure e dedica una recensione alla sua opera: anche lui rifiuta la dicotomia langue parole, invece di valutare l’attenzione ai fatti linguistici individuali e affianca alla terminologia saussuriana la sua idea di lingua come condizione tecnica della parola. Un altro elemento fondamentale è legato alla pragmaticità intrinseca della lingua: per Pagliaro la lingua non si dà al di fuori dei parlanti. La lingua significa ma non significa come identità autonoma in cui il senso è calato dall’alto, la lingua significa perché i parlanti le danno senso. Questo sarà principio fondamentale della filosofia del linguaggio romana: De Mauro la tratterà in maniera esplicita con un confronto alla lingusitica saussuriana. Altro aspetto è quello di non considerare, vista anche la sensibilità socio-poltiica, di non considerare come Croce l’individualità dei soggetti parlanti, ma considerava sempre l’individualità come un filo il cui significato assume forma solo all’interno dell’arazzo. Quindi questa idea della collettività, tipica degli istituzionalisti, è connessa a un’idea di langue come dimensione storica comune. Anche l’altro aspetto ritrovato in questo percorso che caratterizza il pensiero di Pagliaro è l’approccio integrato, l’idea che l’essere umano va considerato da una serie di prospettive. Si parte sicuramente anche da una dimensione biologica e si arriva a includere aspetti più storico-culturali, però non si fa giocare l’opposizione tra le componenti. In qualche modo si considera la necessità di una prospettiva multidisciplinare. Un altro aspetto è la tensione nella filosofia del linguaggio di Pagliaro: da una parte la langue è un preciso sapere tecnico e questo porta Pagliaro vicino a un’idea di langue come realtà sistematica, ma dall’altro lato la pragmaticizzazione di questa nozione saussuriana pone al centro il parlante, il quale vitalizza questa tecnica. Ecco che ritroviamo un’idea di lingua come qualcosa di semplicemente allusivo. Quindi alla fine la lingua è composta da elementi additativi: Pagliaro si rifà all’idea di lingua come segno che addita alla sostanza. Quindi l’idea è il carattere necessariamente incompleto dell’attività linguistica, cui è sufficiente far riferimento a quello che Bühler avrebbe chiamato contesto empratico, che satura le dimensioni alluse dell’atto linguistico. Ritroveremo quest’aspetto anche in De Mauro, che si inscrive in quella tradizione di autori che ritengono l’ellissi un enunciato incompleto, facendo perno sulla non necessità del parlante di corrispondere sempre a dei modelli linguistici che non fanno parte del parlare ordinario, in cui contesto linguistico ed extralinguistico si completano a vicenda. Pagliaro, in questa riflessione, riprende l’insegnamento di Humboldt  questo ci fa vedere l’attività linguistica da diversi punti di vista: - da un lato c’è una dimensione universale, in cui il parlante è in possesso della facoltà di linguaggio, la chiave per parlare tutte le lingue; - dall’altro lato c’è la lingua, langue, che è l’elemento a cui il singolo parlante è necessariamente connesso; - dall’altro l’espressione individuale, la parole. Quindi da una parte il parlante è vincolato al contesto storico da cui può prendere le distanze in un atto linguistico che abbia il potere d’innovazione. Altro tema connesso a questo aspetto è l’idea, ripresa da De Mauro, dell’intrinseca incertezza del significare. Il progetto di Pagliaro è funzionalista: al centro c’è il parlante con la funzione di significare, che è fondamentale rispetto al modo di concepire la lingua. Pagliaro è autore di saggi di storia delle idee linguistiche, chiamati dall’autore saggi di critica semantica. Il perno è l’analisi storica dell’emergere di particolari significati che viene indagata a partire dal contesto storico in cui il significato si costituisce. Filosofia del linguaggio e storia contemporanea delle idee linguistiche: De Mauro De Mauro è il curatore del Corso di Saussure: non si tratta di una curatela qualsiasi, ma si tratta di andare a ripescare le reali intenzioni dell’autore, che con gli appunti degli studenti non erano venuti alla luce. Anzi, secondo Jäger e Trabant erano state travisate completamente. Tullio De Mauro scrive un’introduzione alla semantica di cui fa un’operazione teorico- storiografica molto precisa. Cioè da un lato individua nel Saussure di certe elaborazioni del corso e nel primo Wittgenstein e nel primo Croce un rischio effettivo di solipsismo. Per De Mauro, Saussure, quando arriva ad enucleare il punto di vista della langue concettualizzandolo in un modo per cui effettivamente esso è indipendente dalla massa parlante, in qualche modo arriva poi a rendere inspiegabile la comunicazione tra i parlanti. Abbiamo questa langue che è un insieme di segni che traggono il valore dalla loro reciproca connessione e in qualche modo non sappiamo bene come funziona la selezione, l’associazione sintagmatica di questi elementi e del loro valore nei singoli parlanti, e anche nella decodifica dell’interlocutore. Anche il primo Wittgenstein, nel momento in cui propone una concezione di linguaggio in cui l’unica funzione è quella rappresentativa e in cui la comunicazione, i parlanti, i riceventi scompaiono completamente, è chiaro che la comprensione è possibile solo se un’altra persona ha già pensato per conto suo le stesse cose. Ugualmente nel primo Croce, se l’atto è radicalmente individuale, unico e irripetibile, come potrà l’altro comprenderlo nel suo carattere irriducibile, a meno che lui stesso non sia incline a produrre atti che in qualche modo misterioso sono in convergenza? Per De Mauro la soluzione è legata al fatto che per lui gli atti individuali erano forme epifenomeniche dello spirito assoluto, unico di cui erano espressione. De Mauro ci mostra che nel ripensamento di Wittengstein (secondo W.), nel procedere di Croce nel riconoscere la lingua come istituzione e, infine, in Saussure nel riconoscimento della massa parlante come componente interna alla langue…abbiamo il superamento di queste posizioni che lui racchiude nell’etichetta di “solipsismo”. De Mauro propone un proprio modello di langue, di sistema collettivo, con un approccio che vuole sottolineare il carattere interno degli utenti  non si può separare il parlante del sistema, in quanto esso non significa da sé ma attraverso le intenzioni dei parlanti. Quindi De Mauro non è solo interprete di Saussure, ma anche un autore che ha fatto una propria proposta filosofico-linguistica. In particolare si basa sullo strutturalismo di matrice hjelmsleviana. Per De Mauro, da un lato, siccome sono permeate dalla traccia degli utenti, sono caratterizzate da una indeterminatezza semantica e onniformatività semiotica  le lingue sono in grado di riplasmare i contenuti di qualsiasi altro codice linguistico, ma questo, così come l’indeterminatezza semantica, porrebbe il parlante nuovamente in una condizione virtuale di incomunicabilità. Che cosa consente, in caso di incertezza, di arrivare ad un accordo sul senso che si è proposto nell’enunciazione? Un’altra nozione fondamentale mutuata dallo strutturalismo è la metalinguisticità riflessiva  è la capacità che ha il parlante di riflettere sui propri usi e di porre delle domande in caso di dubbio sul modo in cui l’altro ha usato determinate espressioni. Proprio questa possibilità consente di arrivare ad una particolare determinazione, rispetto al senso dell’enunciato. Quindi ci sono due perni teorici: da un lato l’indeterminatezza semantica e dall’altro la metalinguisticità riflessiva. Sono questi che consentono di capire come questa pragmaticità radicale delle lingue funziona: se la lingua è sempre espressione del significare del parlante, questo ha grandi possibilità di variare e modificarsi, ma la metalinguisticità riflessiva ci pone il vincolo dell’interlocutore, che ci invita anche a non discostarci troppo dagli usi correnti, altrimenti c’è il rischio di non essere capiti. L’indeterminatezza semantica è legata alla concezione del significato come un continuum, mentre seguendo un’altra pista dello strutturalismo concepiamo il significato come elemento discreto, come unità minima, per cui possiamo analizzare i tratti semantici (sememi) come costituenti di un elemento linguistico, ci muoviamo su un’altra strada, una strada che ripartendo dalla nozione di segno considera simmetrici significante e significato. De Mauro, seguendo una tradizione che invece nega questa simmetria dice che il significato non può avere carattere discreto nelle lingue storico-naturali, come mostra proprio il principio di indeterminatezza semantica Indicazioni bibliografiche della natura umana e delle sue attività segniche. Ma perché Vico si contraddice? C’è una tensione inerente all’oggetto stesso di cui si occupa. Come tutti i pensieri complessi e innovatori, quello di Vico si presta a essere letto in modo unilaterale da coloro che sono affetti da “sindrome da aut aut” (far dire a Vico cose che sono in linea con posizioni personali). La lingua di Vico è abbastanza anarchica perché ai suoi tempi non esisteva ancora un italiano standard, ci sono molti calchi dal latino. La sematologia di Vico come “scienza nuova dei segni antichi” Vedere Vico come filosofo del linguaggio è un approdo interpretativo relativamente recente. I due autori che hanno lanciato questa prospettiva sono Pagliaro e Coseriu, che si sono dedicati al nucleo filosofico-linguistico della Scienza nuova di Vico. Un’opera a cui faremo costantemente riferimento per la filosofia del linguaggio di Vico è l’opera di Trabant La sematologia di Vico (1994): questo studioso sostiene che la filosofia del linguaggio di Vico è la sematologia, in quanto Vico individua dei segni primitivi non identificabili con le lingue storico-naturali, chiamati sémata. Essi coesistono fin dall’origine e procedono in interazione con altri tipi di segni, quindi il plurisemiotismo è una realtà funzionale-evolutiva, insieme all’evoluzione della specie umana. Questo plurisemiotismo viene spiegato introducendo tutte le dimensioni culturali, quindi la religione, la politica, la morale, l’economia, la geografia… tutti capitoli della Scienza nuova, tanto che uno studioso tedesco di scienze culturali, Friedrich Kitler, ha individuato nella SN un progetto di studi culturali dell’età moderna, un progetto ambizioso che vuole occuparsi di tutti i prodotti culturali della specie umana in tutte le epoche e in tutte le comunità. Il termine “sémata” è mutuato dall’Iliade, è un apax legomenon (termine che compare un’unica volta). I sèmata sono una modalità visiva dei segni (la lingua verbale ha una modalità acustica-fonica), mentre da un punto di vista della produzione troviamo oggetti e fenomeni molto eterogenei. Come nasce questa proposta sematologica? Da due elementi fondamentali: 1. da un lato un ripensamento originale della retorica, dato che insegnava questa disciplina all’università  trasformò l’insegnamento in una riflessione sull’origine delle capacità simboliche umane, servendosi del funzionamento delle figure retoriche; 2. Dall’altro, il rapporto con la filosofia di Descartes, fondamentale per capire la proposta filosofica di Vico. Vico contro Descartes I conti con la filosofia di Descartes, Vico li fa nella sua autobiografia, concepita da Vico stesso in opposizione con l’autobiografia Discorso sul metodo, quindi per Vico è molto importante mettere in scena il suo pensiero ma anche mostrare come la messa in scena della filosofia di Descartes sia legata a una serie di scelte stilistiche che, sebbene voglia fare apparire come legate al proprio percorso, hanno anch’esse una finalità retorica. Ecco che per Vico è importante dialogare con il creatore della filosofia moderna, proponendo anche un posizionamento diverso, dato che il Discorso sul metodo è scritto in prima persona, quindi c’è questo “io” enfatizzato, perché il percorso di Descartes conduce alla scoperta del cogito, qualcosa che è accompagnato dalla narrazione di un io che si ritrova a prescindere da tutto il resto. Vico risponde parlando di sé in terza persona, chiamandosi “signore” e ringiovanendosi di un paio d’anni e si situa storicamente, perché per Vico non c’è mai un soggetto isolato, mai una prima persona, ma un tessuto socio-culturale. Quindi Vico si situa in quel contesto. Per lui i filosofi monastici, perdono una componente importantissima, cioè il mondo civile, delle istituzioni sociali e storiche, il mondo della collettività. Quindi Descartes è in questo agli antipodi, ma è anche un filosofo da cui apprende moltissimo: Vico ne emulerà alcuni gesti filosofici e sottolinea le convergenze di natura biografica: entrambi hanno interrotto gli studi, entrambi sono estremamente dotati, ma lui al contrario di Descartes veniva una famiglia molto umile. Descartes ha una formazione classica, si può permettere di aver messo alla prova varie scienze, che secondo lui non portano davvero a una conoscenza certa  Descartes farà un viaggio per il mondo, mentre Vico non può fare un viaggio del genere, in quanto non ha mezzi economici. Il viaggio di Descartes lo porta su una visione ancora più scettica, perché in qualche modo le differenze tra i diversi popoli sono altrettanto grandi quanto quelle tra i filosofi. Quindi Descartes arriva a uno scetticismo radicale, che anche Vico condivide e che sarà drammatizzato a livello narrativo nella SN. Descartes racconta che il periodo di dubbio scettico lo porta all’abbandono completo dell’erudizione e degli studi della giovinezza, Vico ritiene che quest’affermazione non corrisponda a verità e che sia piuttosto una “favola”, una finzione elaborata allo scopo di accentuare la novità della propria filosofia; a essa Vico oppone un resoconto verace del proprio percorso: per Vico il gesto di Descartes è solo un gesto retorico astuto per dare valore alla propria filosofia, ma al prezzo di una grande illusione a cui vengono sottoposti coloro che vi si avvicinano. Perché appunto Descartes sembra pensare che il cogito sia sufficiente e fa finta che la sua formazione non abbia avuto nessun ruolo, mentre Vico sa bene che non è così e lo accusa quasi di ingannare i giovani. Quindi Vico recupera questa “divina erudizione”, ma il gesto di far cadere questa zavorra e dubitare in maniera radicale di quello che le discipline umanistiche lo fa anche lui e forma quindi la sua scienza su basi diverse. Vico recupera la cosiddetta filologia e dà un fondamento epistemologico. Nella Scienza Nuova c’è questo momento di notte densa di tenebre: è necessario ridurci in uno stato d’ignoranza di tutta l’umana e divina erudizione, fare come se non ci fossero libri nel mondo  qui Descartes è molto presente. Quel cammino che porta Descartes a dubitare viene condotto anche da Vico ma poi c’è un superamento: una luce che squarcia le tenebre. Quindi l’approdo di Vico, contro quello di Descartes, non è il cogito, ma l’idea che il mondo storico degli esseri umani è stato fatto dagli uomini (principio epistemologico fondamentale) e bisogna capirne il funzionamento, che verrà spiegato nella Scienza Nuova. Quest’approdo consente di superare quella difficoltà di leggere la produzione culturale, quindi la SN nasce come superamento di strumenti ermeneutici ancora inadeguati che sono legati al fatto di non aver attuato un’integrazione efficace tra indagine filosofica e filologia (tutto ciò che si offre all’interpretazione filosofica in quanto prodotto della storia umana). Il passaggio attraverso l’ignoranza è fondamentale. È importante riconoscere che all’inizio del proprio percorso, dell’evoluzione, c’è l’ignoranza. Questo secondo Vico lo ha capito lui per primo. Prima, nella filosofia e nell’erudizione prevalgono la boria dei dotti, che proiettano la loro sapienza come condizione onnipotente e onnipresente e la boria delle nazioni, che ritengono che quello che sanno loro sia antico come il mondo. Vico decostruisce la sapienza: supera il logocentrismo, l’idea che all’origine dell’umanità ci sia il logos, la ragione. C’è l’ignoranza e una serie di facoltà a essa compatibili, come immaginazione, la memoria, l’ingegno… Vico non è né logocentrico né etnocentrico, si distacca da entrambe le borie. Se invece uniamo filosofia e filologia riusciamo a proporre un’indagine per capire cosa c’era dietro i primi prodotti culturali umani. La filosofia scende da questo empireo. La svolta linguistica critica la metafisica e la situa nel linguaggio  già Vico fa questo: nel momento in cui la filosofia dev’essere sempre condotta filologicamente, e la filologia non può che essere declinata filosoficamente altrimenti non comprende i propri prodotti culturali, ecco che ci ritroviamo in un orizzonte simbolico  analizziamo filosoficamente dei simboli e cerchiamo di capire come sono stati prodotti = prospettiva genetica. Quindi Vico, proprio perché ha recuperato una filologia filosofica, si oppone alla tabula rasa di Descartes. Descartes, quando arriva al cogito ergo sum, si è fatto piazza pulita da tutto il mondo culturale. Vico, invece, dopo aver attraversato la fase di dubbio e dopo aver riconosciuto che all’origine c’è l’ignoranza, recupera la tavola delle cose civili, quindi da un lato c’è un distacco violento dalla filologia, la necessità di un’epoché, una sospensione dalle griglie categoriali tipiche dell’etnocentrismo e del logocentrismo, ma dopodiché si deve ricostruire un’indagine che parta dalle prime produzioni storiche di quelli che Vico considera esseri umani estremamente primitivi, non sapienti, ma “bestioni”, che hanno creato le prime lingue, in cui i sémata hanno un ruolo privilegiato. LEZIONE 17 – Modelli pedagogici, difesa della retorica e critica del cogito cartesiano: Vico contro Descartes La visione del linguaggio da parte dei due dipende anche dalla disciplina della retorica, in senso pedagogico in Vico, che ha poi influenzato il mondo scolastico italiano. È molto interessante cercare di capire il confronto con la cultura francese e con Descartes, il quale è ovviamente espressione di una cultura e di una lingua molto diverse rispetto all’Italia; tutte caratteristiche che Vico vuole mettere in luce. Il discorso pedagogico di Vico fa anche perno su un’analisi delle facoltà che determinano l’apprendimento. Il modello francese si fonda solo sull’intelletto. Il motivo per cui la pedagogia italiana ha avviato un percorso d’inclusione scolastica è legato al fatto di considerare l’apprendimento in maniera estremamente riduttiva, omogenea, come qualcosa che si fa mettendo in atto solo l’intelletto. Vico ha però un’idea molto diversa: un’educazione linguistica democratica è anche un modello pedagogico che fa perno su più capacità e su diverse espressioni segniche. RIPRENDENDO IL FILO Descartes mette in scena un’analisi dei saperi ,che gli vengono impartiti secondo il modello pedagogico del suo tempo, che lui ritiene inadeguati rispetto a una conoscenza certa. Quindi c’è un approdo a un dubbio scettico e ad una critica che Descartes. Il modello culturale e pedagogico e le sue degenerazioni sono per Vico molto più pericolosi e gravi, perché Descartes rimane un grande filosofo, ma i giovani educati tramite il suo modello, rischiano di non diventare cittadini abbastanza buoni, di avere mancanze in quanto membri della collettività, quindi la critica di Vico ha un aspetto etico- sociale. Descartes sembra dire: a cosa serve studiare se non si arriva mai alla conoscenza certa, non è buon esempio. La cosa più importante, sottolinea Vico, è diventare bravi cittadini, e la cultura umanistica è fondamentale in questo. Perché l’Italia ha abolito la legge Codignola che permetteva l’accesso all’università solo ai licei? Perché si è fatta convincere da un intellettuale come Vico  studiare serve per diventare cittadini che siano in grado di comprendere il sistema complesso della società in cui viviamo. Quindi è importante che tutti abbiano la possibilità di studiare. Ecco perché il modello cartesiano per Vico non va, prima di tutto perché per Descartes i pensieri umanistici non mediano una conoscenza certa, quindi tanto vale studiare solo scienze naturali e matematica. Secondo Vico qui c’è una finzione cartesiana, e che Descartes fa un’astuta propaganda che poi fa sì che chi può permetterselo studia comunque e tutto, e invece è un modello pedagogico che fa sì che gli Stati incoraggino a studiare discipline scientifiche, poiché gli studi umanistici non servirebbero a imparare un mestiere. Questa è un’illusione per Vico, che sì, magari viene fatta per il bene illusorio della società  gettare l’enfasi solo sulle scienze va a discapito della coscienza democratica delle persone, in quanto anche questo è frutto della formazione personale. Quindi Vico vuole tornare a interrogare i metodi pedagogici, in cui ritrova una contrapposizione tra il metodo della topica e il metodo della critica. - metodo della topica  classico, il trivio che incarna la formazione umanistica, formato da grammatica (latino), retorica e dialettica (filosofia) - metodo della critica  scientifico. Vico è un filosofo moderno, quindi per lui geografia e matematica hanno un ruolo fondamentale quanto la topica, quindi lui ritiene che i due metodi si dovrebbero integrare l’un l’altro. Quindi per Vico è molto importante avere in mente che la retorica non è una disciplina che serve a dei tecnici: con la sua forte enfasi sul verosimile e sul senso comune e sulle norme di saggezza ordinaria che fanno parte del nostro sapere collettivo, per Vico questi insegnamenti non servono solo per creare bei discorsi, ma soprattutto per non diventare degli esseri strani, che fanno cose inconsuete, per non diventare dei disadattati. Serve ad aderire in maniera consapevole e creativa alla società in cui ci troviamo, ad essere dei buoni cittadini che non obbediscono alle regole. La regola, per un cittadino ben educato, che conosce anche una serie di storie e tradizioni, è anche qualcosa di affettivo, ci mancherebbe. Però il cittadino può anche metterla in discussione e fare la rivoluzione. Ricordiamoci che la città di Vico aveva già visto la rivolta di Masaniello, quindi Vico è chiaramente un filosofo che vuole in qualche modo essere in adesione con le istituzioni in cui vive e lavora (docente universitario di giurisprudenza). Quindi qual è l’importanza del verosimile e del vero? Il vero è cartesiano, è anteriore a ogni immagine, è qualcosa che non possiamo ricondurre a una storia, a una tradizione, quindi il cittadino da un punto di vista pedagogico, fa poco con il vero. Dunque l’obiettivo del modello pedagogico dev’essere quello di partire dalla facoltà dei propri utenti, quindi se il fanciullo ha più vive determinate facoltà, ciò che gli viene insegnato deve partire da questo  come far imparare determinate materie partendo dalle diverse abilità dei fanciulli. Quindi le abilità differenti sono incluse nel modello pedagogico. Grazie a questa diversificazione di abilità, capiamo anche meglio come il cosiddetto normale può apprendere. Spesso diamo per scontato che quello è il modo in cui apprende meglio, invece introducendo altri metodi tarati su un diverso tipo di discente, magari vediamo che sono utili per tutti. Quindi nel modello vichiano partiamo da questo: i fanciulli hanno un’immaginazione molto viva, tutto ciò che è sensibile cattura la loro attenzione, quindi facciamoli lavorare con la geometria, usiamo anche in matematica dei metodi analogici, facendo riferimento a oggetti e situazioni concrete, cosa che oggi a scuola accade. Ma all’epoca di Vico si trattava di un modello pedagogico innovativo. Vico propone di partire dalla topica, per lui è anche importante fare una critica di tipo diverso al prevalere delle scienze naturali. Perché il mondo fisico è estremamente complesso, quindi è impossibile applicare dei metodi con la pretesa di comprenderlo in maniera esaustiva: Vico pone semplicemente l’attenzione sull’approccio riduzionista dello studio delle scienze naturali. Per Vico è importante anche da un punto di vista religioso osservare che la finzione, rispetto alla possibilità di avere una conoscenza esaustiva del mondo naturale, è anche un atteggiamento non religioso. Per Vico quindi noi possiamo fare delle dimostrazioni geometriche, una descrizione di una determinata figura, ma il mondo naturale non l’abbiamo creato noi, quindi non possiamo avere la pretesa di conoscerlo in modo esaustivo. La conoscenza, per Vico, non è una conoscenza analitica di qualcosa che già c’è, ma ha sempre un valore euristico16 ed è qui che Vico mutua dalla retorica la dimensione dell’ingegno, qualcosa che permette di collegare delle cose molto lontane tra di loro, scoprendo e inventando un collegamento che anteriormente non era stato notato. Quindi per Vico, nel rifarsi al termine barocco di acutezza, è la metafora lo strumento di quest’attività euristica, perché una buona metafora fa proprio quest’operazione: mette in collegamento due aspetti della realtà dischiudendo su di essa una prospettiva inedita. Questo meccanismo ingegnoso va utilizzato costantemente in quanto è un dispositivo cognitivo che fa leva su una dimensione immaginativa, e non esclusivamente razionale, ma è alla base di ogni scoperta, quindi questa connessione va curata facendo soprattutto riferimento al fatto che nei fanciulli questo avviene naturalmente, anche sul piano linguistico. Vico dice che l’insegnamento deve partire da quello che i bambini sanno già fare proponendo dei compiti che valorizzino le loro capacità. Quindi adottare solo il metodo scientifico è pernicioso per quel che riguarda la competenza civile. Seguire la razionalità per la maggior parte degli esseri umani è anche difficile, mentre far perno sull’affettività e sul senso comune, permette di creare un buon cittadino. Importante anche lo studio delle lingue: per Vico è importante capire la specificità delle varie lingue. Il genio della lingua fa riferimento al fatto che c’è una continua osmosi tra lingua e cultura. Quindi ritroviamo nella lingua, in particolare nella dimensione semantico- lessicale e nella costruzione discorsiva, espressione di tale genio. Qui ritroviamo la grande orazione che Vico pronuncia all’università Federico II per l’inaugurazione  qui Vico ci 16 detto di ipotesi che viene assunta precipuamente come idea direttrice nella ricerca dei fatti, e del metodo stesso di ricerca così condotta: mezzo e., in senso lato, mezzo di ricerca. ricorda come i francesi hanno creato questa nuova critica (si riferisce a Descartes) proprio perché hanno un sottilissimo idioma, rispetto all’acutezza della lingua italiana, quindi l’idea di questa lingua è che tutto va condotto alla massima astrazione, mentre la lingua italiana è più ingegnosa e metaforica. Nonostante l’Italia non fosse unita, Vico aveva ben chiara l’idea dell’Italia come culla di cultura e ne era orgoglioso. Il procedimento analogico appare proprio una caratteristica della lingua italiana e quindi l’italiano diventa espressione di una certa cultura, quindi la pedagogia che Vico vuole proporre nasce all’interno di un certo contesto linguistico-culturale. Qui ritroviamo elementi che Vico rielaborerà nella SN. La retorica qui appare come dispositivo cognitivo essenziale, in particolare i tropi e la metafora devono essere integrando nell’insegnamento. Nella SN troveremo uno slittamento verso la prospettiva genetica, filogenetica, verso l’origine della specie e non come questa orazione e come negli scritti pedagogici nella prospettiva ontogenetica. Sostiene che grazie all’ontogenesi si può anche riflettere sulla filogenesi. LEZIONE 18 – Verum-factum, ordine divino e geroglifici del mondo civile Verum-factum Uno degli elementi fondamentali di confronto tra Vico e la filosofia moderna è la filosofia cartesiana: con essa ha in comune lo scetticismo sull’umana erudizione. Ma mentre Descartes approda alla certezza del cogito, Vico approda a una certezza più forte, cioè alla certezza che il nostro mondo culturale è stato fatto da noi. Quindi il principio del Verum-factum è un principio epistemologico che circoscrive l’ambito della conoscibilità per gli esseri umani e il criterio per circoscrivere tale ambito è operazionale: possiamo conoscere quel che abbiamo fatto noi. È principio epistemologico ma funge anche da cartina tornasole rispetto ad un assetto di saperi, perché certo, è un principio rispetto ai limiti della conoscenza. È principio epistemologico perché fa riferimento all’episteme, termine greco che vuol dire “scienza”. Lo possiamo chiamare anche principio civile ma non riuscì a vincere il concorso. Il Diritto Universale divenne invece il punto d’avvio del suo capolavoro filosofico. L’intuizione di tentare una nuova scienza la troviamo anche nel DU, opera divisa in due volumi, scritta in latino: 1.De uno universi iuris principio et fine uno (1720) 2. De constantia iurisprudentis (1721). Per anticipare il contenuto dei due libri Vico scrive un opuscolo pubblicato nel 1720 senza titolo, la cosiddetta “Sinopsi del Diritto Universale”, in italiano. Nel DU la maggior parte del materiale della “filologia” utilizzato è tratto dalla storia del diritto romano. Vico ci propone una prospettiva universalista: afferma che le leggi che ricava dalla sua analisi di questi avvenimenti storici possono essere estese alle origini e agli sviluppi di tutti i popoli e fa riferimento sia pure sporadicamente ala storia greca e a quella ebraica. Formigari ha osservato che la riflessione vichiana sulle forme primitive di linguaggio ha origine da una filosofia del diritto che vede in azione nelle prime forme contrattuali del popolo romano delle modalità simboliche non convenzionali, “il diritto è tutte scrupolosità di parole”, come si dirà nella SN. Tali modalità si affidano a gesti, a rituali che devono essere osservati rigorosamente. 1. Dal punto di vista del metodo il De Uno pone in massimo rilievo l’idea di ordine: si tratta cioè di rinvenire il giusto ordine che coincide con le leggi universali della storia umana. L’ordine delle cose umane è il riflesso di quell’indirizzo che Dio stesso ha impresso sulla storia e la natura degli uomini. Condizione di possibilità della conoscenza dell’ordine è una nozione di senso comune che è relativa alle nozioni comuni che risiedono nella mente di tutti gli esseri umani e che consentono a essi di comunicare tra di loro  il senso comune è all’origine delle prime forme collettive di umanità, in questo senso Vico sembra proporre una proto-politica. Sul piano metafisico tale senso comune è conseguenza di quell’ordine eterno che le rende possibili e che è connesso all’idea di uno spirito infinito ossia di un Dio eterno, autore di verità universali. È significativo che il De Uno elabori tali nozioni a partire da una prospettiva dualista che oppone il corpo e la mente e che riferisca il senso comune esclusivamente alla mente. Vico stesso ricorda che la prospettiva teologico-metafisica del De Uno gli è stata ispirata dalla lettura del De Civitate Dei di Sant’Agostino, in particolare per quanto riguarda la concezione dell’esistenza umana come tensione verso la verità infinita e della storia dell’umanità come ritorno progressivo a Dio attraverso un movimento circolare (dal peccato originale al ritorno alla divinità). La dimostrazione vichiana dell’esistenza di tale movimento si fonda su tre punti: 1) la conferma dei principi della storia sacra, che si limita a presentare il modello cristiano di evoluzione della storia umana dopo il peccato originale. Per Vico la storia sacra fornisce un quadro di riferimento essenziale. Nelle varie elaborazioni della SN essa verrà separata in maniera sempre più netta dalla gentilità e, alla lingua ebraica, verranno attribuite caratteristiche diverse rispetto alle lingue dei popoli gentili. Nella SN, il diluvio sarà lo spartiacque tra storia sacra e storia dei popoli gentili (che hanno dimenticato il vero Dio, i pagani, che hanno dimenticato l’idea della divinità, che hanno perso il linguaggio e quindi devono ricominciare il loro percorso). Nel DU invece, così come nella prima edizione della SN, l’ebraico è considerato una lingua poetica ricca di metafore e tropi come le altre lingue delle origini. 2) la definizione del ruolo della provvidenza, che comincia a essere delineato nel DU, Vico insiste sul fatto che, nella sua divina saggezza, Dio sceglie di governare l’universo e il mondo umano in particolare scegliendo il cammino di maggiore facilità ed efficacia e agendo attraverso un ordine naturale, intrinseco alle cose stesse. Il motore della storia è dunque interno alle stesse vicende e alla costituzione antropologica degli esseri umani. E se in generale gli uomini, attenti solo a perseguire i loro obiettivi, non sono consapevoli dell’ordine provvidenziale che muove la storia umana, si può dire che il cristianesimo, con la rivelazione, rappresenta per Vico la possibilità di avere infine accesso alla comprensione del senso, del movimento della verità divina nelle cose terrene. 3) la prova della naturalità del diritto (collegabile al giusnaturalismo), che Vico identifica con gli elementi fondamentali di una storia dell’autorità ossia con la storia dei modi in cui l’autorità degli uomini ha tradotto l’ordine eterno nell’ordine umano. Infatti, nella ricostruzione genetica che Vico propone dell’evoluzione delle società umane, l’autorità giuridica assume un ruolo fondamentale. Vico considera le prime forme di diritto legate alla violenza esercitata dai primi patres. Il diritto delle genti maggiori porterà alla costruzione dei primi nuclei familiari e alla nascita delle prime clientele, ossia di relazioni di subordinazione con i famoli, salvati dalla morte ma posti dai patres in condizione di servitù. Il pendant positivo della violenza e della servitù è l’uscita dall’empietà e dalla ferinità caratteristiche dell’umanità eslege17. Vico individua nelle prime famiglie il nucleo sociale più originario, che coincide con la stessa nascita dell’umanità. L’origine della famiglia e ancor prima dell’istituzione su cui essa si fonda, il matrimonio monogamico, è ricondotta all’emergere del pudore, che corrisponde alla consapevolezza dell’errore degli esseri umani. Esso spinge i primi uomini a rifiutare gli accoppiamenti promiscui nelle selve, che Vico chiamerà, nella SN, “venere bestiale”. Il rifiuto della “venere bestiale”, associato all’emergere del pudore (scoperta della nudità), corrisponde alla prima intuizione della divinità che viene identificata nel cielo in tempesta (per i primi uomini è come se questo segno corrispondesse alla divinità arrabbiata)  È l’intuizione del divino che spinge gli uomini a interrompere la vita raminga e ad accoppiarsi in modo stabile e nascosto con un’unica donna. 17 che non possiede o non riconosce alcuna legge La Dipintura commentata come introduzione della Scienza Nuova La Dipintura “proposta al frontispizio” che compare dall’edizione della SN del 1730 fu commissionata da Vico al pittore Domenico Vaccaro, L’immagine presenta al lettore, in maniera sintetica e perspicua, la totalità dell’opera dal metodo alla struttura includendo tutti gli elementi di cui essa si compone, insieme alla scelta di utilizzare la lingua italiana e non il latino. Nelle prime righe della spiegazione che, come recita il titolo, “serve per l’introduzione dell’opera”, Vico parla della Dipintura come “Tavola delle cose civili”, una scelta terminologica che, ancora una volta, intende opporre alla tabula rasa del cogito cartesiano, una filosofia che si propone di indagare l’ordine del mondo storico umano. Le facoltà a cui fa appello l’immagine sono quelle che abbiamo già incontrato in connessione con il modello pedagogico della retorica: memoria e immaginazione ossia, come la chiama Vico, fantasia. “Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvidenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filosofi” (SN). Con questo passo comincia la descrizione che Vico dedica alla Dipintura. L’analisi prende avvio dall’immagine in alto a sinistra che rappresenta la Divinità in una prospettiva che è anzitutto quella della Provvidenza. L’occhio nel triangolo irradia una luminosità diffusa all’interno della quale un fascio di raggi raggiunge il petto di una donna dalla testa alata, il cui profilo è rivolto alla contemplazione del triangolo luminoso. La donna alata è la metafisica, che ha un piede poggiato sul globo terrestre (che significa sia il mondo fisico dei cartesiani che la terra abitata e resa civile dai primi uomini). Il globo è posto all’estremità sinistra di un altare. Tale posizione fa ancora una volta riferimento allo sbilanciamento della riflessione filosofica che si è occupata del mondo naturale e non di quello civile, collettivo, storico degli esseri umani. I “geroglifici” di cui è composta la Dipintura hanno dunque un carattere polisemico, funzionale al ruolo di estrema sintesi del progetto filosofico vichiano che essi devono esercitare. Dell’interpretazione che Vico dà della figura di Omero poeta ci occuperemo quando affronteremo il nucleo più propriamente sematologico della sua filosofia. Il quarto libro è intitolato “Del corso che fanno le nazioni”; esso è diviso in brevi sezioni ed è dedicato ad approfondire il senso del carattere triadico che Vico ha dato alla propria scienza. Si compone di sei sezioni: “Tre spezie di nature”, “Tre spezie di costumi”, “Tre spezie di diritti naturali”, “Tre spezie di governi”, “Tre spezie di lingue”, “Tre spezie di carattere” (qui si continua a trattare il tema linguistico avviato in quella precedente. Si procede con l’esposizione delle modalità triadiche fino all’undicesima sezione, dedicata a tre forme di tempi. Seguono poi diversi capitoli dedicati alle “pruove” di quanto asserito nelle sezioni precedenti, ossia a fornire dimostrazioni di tipo filologico tratte dalle storie delle diverse nazioni. Il quinto e ultimo libro dedicato alla dottrina dei ricorsi ed è intitolato “Del ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni”. In una prospettiva religiosa, la storia reale eterna incorre a un certo punto in una serie di degenerazioni, legate alla perdita di un equilibrio tra le varie facoltà razionali. La cura a queste degenerazioni troppo razionali è il ricorso  Esso espone la celebre tesi secondo cui il Medio Evo costituisce una forma di ricorso. Nel periodo medievale si ritornerebbe cioè a una forma di barbarie analoga a quella dei primi tempi divini ed eroici. Vico presenta una riflessione comparativa sul mondo antico e su quello moderno che tiene conto degli aspetti specifici e delle differenze del “ricorso” analizzato. L’intero percorso viene ricostruito in modo sintetico nella trattazione finale, la “Conchiusione dell’opera”. Cronologia Il modello cronologico presentato da Vico è in tutto e per tutto conforme a quello della storia biblica. Paolo Rossi, nei suoi saggi, ha mostrato come l’adesione di Vico a questo modello si iscriva in un dibattito ampio in cui molti pensatori cristiani si impegnarono a confutare la tesi delle “antichità sterminate” del mondo in nome dell’ortodossia cristiana. Per Vico non bisogna infatti ricorrere alle “antichità sterminate”. Anche Vico sostiene la tesi, evidentemente implausibile, secondo cui l’età del mondo non arriva ai seimila anni e afferma che la storia ebraica è l’unica ad aver mantenuto memoria del vero corso delle cose. Tutti gli altri popoli dopo il diluvio universale hanno perduto la memoria degli eventi precedenti insieme alla conoscenza del vero Dio. Da questa tesi derivano la separazione netta tra storia sacra e storia profana e la contrapposizione della religione e della lingua degli ebrei da un lato e, dall’altro, di quelle dei popoli della gentilità. La cesura è costituita appunto dal Diluvio universale e dalla separazione tra i discendenti di Noè (per il pensiero linguistico di Dante è invece Babele, icona del multilinguismo). Dopo il diluvio, i semiti mantengono la vera religione e dunque anche la memoria della loro storia, mentre i discendenti di Cam e Giafet (popoli della gentilità) si disperdono per le selve errando per due secoli e conducendo una vita ferina. Anche la statura degli uomini della gentilità diverge dalla statura “normale” degli ebrei. I “bestioni” delle origini, come li chiama Vico, diventano giganti, animali solitari e senza linguaggio. È interessante notare che, rispetto alla separazione e contrapposizione tra ebrei e gentili ci sono delle oscillazioni nelle diverse redazioni della SN (a partire anzi da quella del Diritto Universale), proprio per quanto riguarda la lingua. Da un lato Vico distingue da subito in modo netto la conoscenza del vero Dio degli ebrei, che poi sarà anche quella del mondo cristiano, da quella dei gentili che inventano delle divinità a partire dalla percezione di fenomeni naturali, anzitutto del cielo che tuona divinizzato nella figura di Giove, che ha equivalenti presso tutti i popoli della gentilità; dall’altro Vico sostiene nel DU e nella SN del 1725 che anche l’ebraico è una lingua poetica come le lingue della gentilità. La tesi della poeticità dell’ebraico avrebbe consentito un quadro comparativo capace di includere tutte le lingue delle origini e di sottoporle alle stesse regole. Vico finisce però per comprendere l’intrinseca contraddittorietà di questa tesi rispetto al quadro teologico-metafisico in cui ha inserito la propria riflessione. La poeticità dell’ebraico avrebbe implicato una corrispondente capacità creativa rispetto all’intuizione della divinità, quella insomma attraverso cui tutti i popoli delle origini inventano il loro Giove e fanno uso della divinazione; mentre gli ebrei hanno una conoscenza diretta e puramente spirituale del vero Dio. Per questo, nell’ultima versione della SN, nella sezione “Della logica poetica”, Vico distingue nettamente il carattere puro della lingua ebraica, creata attraverso l’onomatesia18 di Adamo per rispecchiare la vera essenza delle cose, dalle lingue poetiche dei popoli gentili: “cotal primo parlare, che fu de’ poeti teologi, non fu parlare secondo la natura di esse cose (quale dovett’esser la lingua santa ritruovata da Adamo, a cui Iddio concedette la divina onomathesia ovvero imposizione de’ nomi delle cose secondo la natura di ciascheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine” (SN). Assiomi o degnità La prima e la seconda degnità della sezione “Degli Elementi” sintetizzano in maniera efficace la dimensione critica e profondamente innovativa del progetto filosofico di Vico: “L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo” (SN) “è altra proprietà delle mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalla cose conosciute e presenti” (SN) 18 Nelle parole del Vico, è la «facoltà di imporre il nome alle cose, secondo la natura di ciascheduno» La boria delle nazioni consiste nella credenza che esse per prime avessero creato “i comodi della vita umana” conservando la memoria della loro storia fin dalle lontanissime origini. A questa forma di vanagloria che accomuna tutti i popoli “caldei, sciti, egizi, chinesi”, Vico contrappone la verità della storia sacra secondo cui l’età del mondo è “quasi giovine” (SN). Alla boria delle nazioni è complementare la boria dei dotti, che proiettano all’indietro nel tempo il loro sapere e vogliono “che sia antico quanto che ‘l mondo” (SN) Conseguenza di ciò è l’interpretazione erronea dei miti delle origini su cui si proiettano significati razionali molto posteriori. Nella quinta degnità Vico prende le distanze dai “filosofi monastici o solitari”. Come abbiamo visto, sotto tale categoria rientrano anche i filosofi cartesiani. Vico fa riferimento qui solo ai filosofi antichi: egli considera modello negativo di filosofi monastici che negano la provvidenza gli stoici (che lo fanno in nome del fato) e gli epicurei (che lo fanno in nome del caso). A essi Vico contrappone i filosofi politici e in particolare i platonici: essi “convengono con tutti i legislatori in questi tre principali punti: che si dia provvidenza divina, che si debbano moderare l’umane passioni e farne umane virtù, e che l’anime umane sien immortali” (SN). La filosofia che considera l’uomo “quale dev’essere” deve ispirarsi al diritto che considera l’uomo qual è, riuscendo a trasformare, attraverso la legislazione, i vizi connaturati nella natura umana (in primis ferocia, avarizia e ambizione) in attività utili alla vita collettiva (=eterogenesi dei fini). La provvidenza consente che le passioni degli uomini, invece di condurli a vivere in solitudine vite di bestie, producano invece ordini e virtù civili. Il libero arbitrio umano è debole e riceve un aiuto costante dalla provvidenza divina (e uno soprannaturale dalla grazia). Esso consiste nell’indirizzarli in modo che, non essendo in grado di conoscere la verità, si attengano al certo. Il certo è l’ambito della filologia che si occupa di come determinate forme di autorità abbiano indirizzato la condotta umana. La filologia deve però farsi indirizzare dalla filosofia che contempla la ragione. Quest’ultima deve superare la propria contemplazione astratta, nutrendola con i contenuti fatti emergere dalla filologia. La SN si incarica proprio di attuare questa sintesi di dimensioni, integrando filosofia e filologia. Per questa ragione Vico arriva a introdurre una serie di nozioni che sono il frutto diretto di questa integrazione. La prima è quella di senso comune, che viene definito “un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano” (SN) Complementare al concetto di senso comune è la tesi secondo cui “idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon aver un motivo comune di vero” (SN). È su questa tesi e sull’idea di senso comune che Vico costruisce una “nuova arte critica” che si propone di portare alla luce l’uniformità dei sensi comuni in tutte le nazioni.
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