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Appunti dettagliati di pedagogia sperimentale, Unipegaso, Appunti di Pedagogia Sperimentale

Appunti dettagliati sulle lezioni di pedagogia sperimentale di Piero Tosi e Lucia Martiniello

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 14/10/2022

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michela-perrone-7 🇮🇹

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Scarica Appunti dettagliati di pedagogia sperimentale, Unipegaso e più Appunti in PDF di Pedagogia Sperimentale solo su Docsity! 1  Definizione di Pedagogia sperimentale lezione 1 La pedagogia è una disciplina che studia l’educazione anche se non è stata sempre tale. Tre sono gli orientamenti che hanno contribuito a dare una definizione della pedagogia: - Teoretico-Speculativo; - Clinico-Esperienziale; - Empirico-Sperimentale. 1. La pedagogia, sin dalla sua origine, ha adottato un punto di vista di natura teoreticospeculativa che studia i principi filosofici, morali e politici che guidano le azioni educative. 2. Secondo il principio clinico-esperienziale la pedagogia si basa su elementi che riguardano il vissuto e la cura delle persone, ma principalmente dei bambini e degli adolescenti che crescono e si “introducono” alla vita adulta. 3. La nascita della Pedagogia sperimentale è da ricondurre all’adozione, di un orientamento empirico-sperimentale, che si basa sull’utilizzo di un metodo induttivo, finalizzato allo studio degli eventi nelle varie azioni educative; pertanto, esso rappresenta un vero e proprio approccio innovativo. Tale disciplina nasce nella seconda metà dell’800, in pieno periodo positivista, quando si sviluppano le scienze sociali come la psicologia, la sociologia e l’antropologia culturale. Prima di questo periodo, dunque, la pedagogia era filosofia dell’educazione, dal momento che non studiava in modo empirico i fatti di natura educativa.  Gli oggetti educativi di riflessione e di studio L’educazione è coeva alla storia dell’uomo, infatti, le pratiche che hanno aiutato i bambini e i giovani ad inserirsi nella vita adulta, nascono con l’uomo e con la sua tendenza alla socializzazione. Gli oggetti della pedagogia in generale e, nello specifico, della pedagogia sperimentale sono: - gli eventi educativi; - i processi formativi; - i contesti comunicativi. Quando si parla di eventi educativi è opportuno distinguere tra fatti reali (accadimenti), fatti vissuti dalle persone (eventi) e azioni intenzionali. I romani distinguevano fra l’accadimento e l’evento definendo il primo, id quod évenit (ciò che accade nella realtà), e l’evento, id quod cuique evènit (ciò che è accaduto ad un soggetto). L’accadimento diviene un evento nel momento in cui entra a far parte dell’esperienza personale. Possiamo dire che dal punto di vista dell’evento educativo, vi sono dei fatti reali di cui conosciamo l’esistenza, ma solo nel momento in cui vi prendiamo parte essi diventano eventi significativi. Ci sono, poi delle azioni intenzionalmente prodotte per essere educative si pensi, ad esempio, alle azioni intenzionali che si svolgono all’interno delle scuole e delle università, dove obbligatoriamente si producono interventi di natura educativa e formativa. Esiste, dunque, una differenza tra eventi che riguardano i fatti reali, eventi che riguardano i fatti vissuti e quelli vissuti come fatti intenzionali. Questi tre elementi costituiscono l’oggetto di studio della pedagogia sperimentale La seconda area di studio riguarda i processi formativi, che vanno distinti dagli eventi, perché essi avvengono all’interno di azioni che si svolgono indipendentemente dall’educazione. I processi formativi si distinguono in: - crescita biologica e allevamento; - inculturazione e socializzazione; - apprendimento e istruzione; - formazione umana e professionale. La crescita biologica e l’allevamento, accomunano l’uomo agli altri animali. Naturalmente è possibile, studiare cosa avviene nel periodo di vita iniziale dei bambini da un punto di vista educativo, senza dimenticare che esistono dei processi evolutivi cosiddetti “naturali”, i quali avverrebbero comunque anche in mancanza di interventi educativi specifici così come avviene, appunto, per le altre specie animali. Altri processi sono quelli di inculturazione e di 2 socializzazione. Infatti, ogni soggetto viene al mondo in una determinata società, in una precisa zona geografica del mondo, in cui esistono differenti culture, differenti religioni e modi di pensare. All’interno di questa organizzazione sociale, si acquisiscono conoscenze, regole di vita, sistemi di pensiero, che sono spesso del tutto indipendenti da processi specifici di istruzione. Altro caso di processo educativo è quello in cui l’apprendimento di conoscenze, di abilità, di competenze, è organizzato all’interno di strutture formali di istruzione come la scuola. Il secolo scorso è stato definito “il secolo della scuola”: la scuola si è estesa in tutto il mondo, dapprima riferita solo al grado primario, interessando successivamente quello secondario, sino ad approdare all’università. È un fenomeno recentissimo quello di un’organizzazione dell’istruzione che permette di guidare, di migliorare, di direzionare i processi dell’apprendimento L’ultimo tipo di processo formativo riguarda quella che possiamo chiamare la formazione umana e professionale connessa, ovviamente, ai contesti lavorativi. Gran parte della nostra vita, infatti, è riferita all’acquisizione di competenze per svolgere un mestiere, una professione. Anche in questo caso esiste una crescita umana legata al fatto che si diventa produttivi per la società. La terza area degli oggetti di studio, riguarda i contesti comunicativi, che vanno tenuti distinti dai processi formativi e dagli eventi educativi. Il primo contesto di comunicazione educativa è sicuramente la famiglia e i gruppi sociali ad essa collegati. In questi contesti è possibile effettuare una ricerca pedagogica al fine di capire come avvengono i processi comunicativi e che tipo di influenza hanno questi contesti rispetto all’educazione. Un altro contesto comunicativo-sociale è la scuola. La scuola è un’istituzione artificiale, all’interno della quale lo svolgimento dei processi formativi e lo studio degli eventi educativi sono dipendenti dalla organizzazione del contesto stesso e, quindi, possono essere studiati in modo specifico adottando tecniche, metodi e strumenti. Un altro contesto da prendere in considerazione è quello delle organizzazioni del lavoro. Esse non sono, evidentemente, finalizzate all’educazione ma alla produzione di oggetti, di beni o diservizi. È importante capire quali sono, all’interno di queste organizzazioni, i processi di natura formativa e quindi di diffusione non formale della cultura. Fino a qualche tempo fa la pedagogia si occupava solo dei bambini e dei giovani. Al giorno d’oggi, con la diffusione della formazione continua, life long learning, si è in grado di studiare come gli adulti si sviluppano, da un punto di vista educativo, all’interno delle organizzazioni di lavoro, e quale contributo essi possono dare all’evoluzione, all’innovazione, alla competizione delle imprese in una società globalizzata, come questa attuale in cui, non essendoci più chiusure culturali di sorta, la sfida è totalmente aperta. Un altro ambito importante è rappresentato dai luoghi sociali del tempo libero. In tutte le società, infatti, si assiste al passaggio da un’idea dell’uomo inteso come semplice cittadino, all’idea che lo considera, invece, come consumatore, non solo di beni materiali, ma anche immateriali quali sono, appunto, quelli coltivati nel tempo libero (es: arte, musica, turismo). Ebbene, in questi luoghi sociali, si attuano processi educativi (si pensi, ad esempio, alla funzione educativa dei musei, delle rassegne teatrali, cinematografiche, artistiche, etc). Un ultimo contesto da prendere in considerazione è quello degli ambienti mediali e multimediali, come Internet, che possono essere definiti una “seconda realtà” oltre quella che viviamo concretamente a livello sociale. I mass media ci propongono una interpretazione quotidiana e in tempo reale di ciò che succede nel mondo. Questa interpretazione costruisce per noi i modelli con cui giudichiamo e comprendiamo la prima realtà. Con Internet, possiamo dire, che si è addirittura costruita un’immagine speculare della realtà in cui viviamo:”Second life” è un grande gioco in cui milioni di persone hanno ricostruito un mondo speculare in cui agire. Quali sono i paradigmi con cui viene affrontato lo studio di questi oggetti e contesti educativi? La Pedagogia sperimentale si avvale dell’adozione di due paradigmi: 1. il paradigma neopositivista; 2. il paradigma fenomenologico-ermeneutico. Secondo il paradigma Neopositivista la realtà materiale e sociale esiste realmente e quindi è conoscibile seppure solo in maniera imperfetta e probabilistica. A seguire Popper vi sono dunque entità del mondo reale, entità del mondo delle idee e dei concetti ed entità che misurano le relazioni fra le prime e le seconde, che appartengono al mondo dei simboli. Secondo il paradigma Fenomenologico- ermeneutico, il mondo conoscibile è solo quello dei significati che il soggetto attribuisce agli eventi. Secondo tale paradigma non esiste una realtà sociale conoscibile per principio, ma esistono delle realtà multiple che vengono costruite a livello sociale dagli individui, dai gruppi e dalle culture. 5  La ricerca orientata alla conoscenza e la ricerca orientata alle decisioni La ricerca empirica può avere due grandi campi di applicazione:  una ricerca orientata alla conoscenza;  una ricerca orientata alle decisioni. In ambito educativo, esistono, però, dei limiti alla ricerca. 1) Il primo limite è di natura deontologica. Quando si conduce una ricerca bisogna sempre tenere in conto il fatto che si esaminano delle persone, spesso in età dello sviluppo e, quindi, non si può condurre una ricerca che ha come finalità quella di modificare, violentare la crescita dei soggetti, ma è necessario condurre lo studio nel rispetto dell’identità delle persone. 2) Il secondo limite è legato al contesto in cui si svolge la ricerca. Fare ricerca nella scuola o nella famiglia significa rispettare il normale equilibrio dello specifico contesto analizzato. 3) Il terzo limite è rappresentato, invece, dagli attori dei contesti di ricerca. Infatti, nel momento in cui si conduce la ricerca, gli operatori educativi devono essere aiutati al fine di divenire essi stessi dei ricercatori. Se si adottano metodi quantitativi, nella ricerca orientata alla conoscenza, si privilegia la ricerca sperimentale, se invece, si usano metodi qualitativi si conduce una ricerca idiografica di natura interpretativa dei singoli soggetti o casi. La ricerca orientata alle decisioni, se adotta metodi quantitativi, dà vita ad una ricerca operativa, se invece usa metodi qualitativi produce la ricerca-azione. Le finalità della ricerca educativa sono:  la comprensione, intesa come attività finalizzata a rilevare il collegamento logico con gli altri eventi (ad esempio il collegamento logico tra gli esiti scolastici, il profitto degli allievi, il contesto familiare e il ceto sociale è utile per comprendere i risultati finali del processo di apprendimento).  La predizione, al fine di conoscere ciò che avverrà. Predizione significa creare un rapporto empirico con gli eventi antecedenti, in modo tale da apportare miglioramenti oprendere provvedimenti rispetto ai processi che probabilmente si svolgeranno nel modo previsto.  Il controllo degli eventi di natura educativa. Tutto il sistema di valutazione, di natura formativa e sommativa all’interno di tutti i sistemi educativi, tende a controllare i processi formativi. Per fare ciò è necessario 6 manipolare variabili indipendenti, connesse funzionalmente per ottenere risultati, cioè delle variabili dipendenti di miglioramento. La ricerca scientifica intorno agli eventi educativi tende, dunque a “comprendere, predire, controllare” ed è per questo che si parla di pedagogia sperimentale, una disciplina che adotta metodi empirico - sperimentali. La ricerca orientata alle conclusioni generalizzabili, rappresenta una ricerca orientata a scoprire delle leggi di comportamento generale, mentre una ricerca orientata alle decisioni è finalizzata a determinare dei cambiamenti all’interno delle istituzioni e delle organizzazioni. Ma analizziamo le caratteristiche delle due ricerche. Una ricerca orientata alle conclusioni è quasi sempre motivata dai ricercatori e dai professionisti della ricerca, che sono a conoscenza di problemi presenti in aree che non sono state ancora esplorate fino in fondo. La ricerca orientata alle decisioni, invece, prende vita dalla situazione problematica specifica, cioè da un problema che non si riesce a risolvere (ad esempio l’inserimento dei bambini stranieri a scuola, rappresentava un problema sconosciuto sino a qualche anno fa, ma nel momento in cui riguarda il 10% degli allievi nella scuola italiana, tale fenomeno assume lo status di problema per i docenti che non sono preparati ad affrontare tale situazione). Se una ricerca orientata alle conclusioni è una ricerca “nomotetica”, cioè finalizzata alla ricerca di regolarità, la ricerca orientata alle decisioni, invece, come lo studio del caso, o la ricerca azione è ricerca “idiografica”, orientata allo studio del singolo individuo, o del gruppo o dell’ambiente. La ricerca orientata alla conoscenza si pone come fine primario la spiegazione dei fenomeni educativi, mentre la ricerca orientata alle decisioni ha come fine primario la comprensione dei fenomeni. Il primo tipo di ricerca è autonomo, mentre la ricerca orientata alle decisioni è al servizio di chi ha il potere decisionale e di chi è coinvolto all’interno delle istituzioni. La ricerca orientata alla conoscenza predilige la verificabilità, la consistenza, la generalizzazione dei risultati, la ricerca orientata alle decisioni privilegia l’utilità sociale dei risultati e delle soluzioni ed è contestualizzata allo specifico caso. La conoscenza rappresenta l’obiettivo della ricerca orientata alle conclusioni, mentre l’obiettivo per la ricerca orientata alle decisioni è rappresentato dal valore che si va a costruire. Il piano con cui si conduce il lavoro di ricerca, per quanto riguarda la ricerca orientata alle conclusioni, è di natura sperimentale e osservativa, mentre, nel caso della ricerca orientata alle decisioni, bisogna adattare la ricerca all’intervento degli attori. Nella ricerca orientata alle conclusioni si tende a svolgere uno studio che abbia un riconoscimento di validità sia interno che esterno ed è quasi sempre una ricerca monodisciplinare. Nella ricerca orientata alle decisioni si svolge, invece, uno studio di natura multidisciplinare, una ricerca che si misura con la credibilità, con forme di analogia e con altre situazioni piuttosto che con la validità interna ed esterna. La distinzione tra ricerca orientata alle conclusioni generalizzabili che si regge sull’osservazione e sulla sperimentazione e quella orientata alle decisioni, ci permette di capire quali sono le teorie di riferimento e come si conduce la ricerca. La ricerca empirica in educazione è una ricerca che vuole portare un miglioramento nei processi educativi, formativi, all’interno delle istituzioni, nei contesti sociali, quindi è una ricerca sempre finalizzata a determinare un miglioramento sia quando si ricercano regole generali dei comportamenti, sia quando si ricercano interventi specifici in contesti particolari. 7  Integrazione dei metodi quantitativi e qualitativi Tornando alla questione dei metodi quantitativi e qualitativi, non è più possibile renderli fra di loro non complementari e integrabili, infatti, i due paradigmi, quello neopositivista, che utilizza metodi di natura quantitativa e quello fenomenologico-ermeneutico, che utilizza metodi di natura qualitativa, sono due modalità da integrare anche nella ricerca di natura empirico-sperimentale. Tali paradigmi rappresentano due approcci distinti ma complementari perché i soggetti dell’educazione sono allo stesso tempo simili (leggi generali) e diversi (differenze specifiche). Per studiare le similarità, è opportuno utilizzare metodi di natura quantitativa, mentre per analizzare le diversità si adottano metodi di natura qualitativa. Il metodo di natura quantitativa è riconducibile alla generalizzazione dei risultati della ricerca nomotetica e della verifica delle ipotesi che avviene attraverso la logica statistica (l’esempio classico consiste nel passare da un campione rappresentativo all’intero universo di coloro che presentano le stesse caratteristiche, dunque, una generalizzazione dei risultati). Per quanto riguarda la ricerca idiografica non si possono generalizzare i risultati, ma si dovrebbe riuscire a trasferirli, poiché l’interpretazione dell’evento avviene in base ad una logica di natura euristica e non statistica. Due diversi modi per conoscere la realtà sociale ed educativa, due diversi stili di ricerca e un’unica logica, quella dell’inferenza, che parte dallo studio della realtà per giungere alla costruzione della spiegazione dei fenomeni educativi e alla comprensione delle persone che vivono e producono questi fenomeni.  Introduzione alla Ricerca Empirica lezione 3 Parlando di ricerca empirica è necessario fare la distinzione tra una ricerca di natura osservativa e una ricerca di natura sperimentale. La ricerca di natura sperimentale si fonda sulla modifica di una situazione educativa esistente, intervenendo con un progetto prestabilito che viene realizzato utilizzando la relazione tra variabili indipendenti e variabili dipendenti. Introducendo un fattore di modifica sperimentale, si agisce in maniera tale da verificare se il risultato conferma o meno l’ipotesi su cui si è fondato il progetto di ricerca. La ricerca osservativa, al contrario, non interviene sulla situazione educativa, per modificarla. La ricerca osservativa viene utilizzata in maniera sistematica dagli organismi educativi come la scuola perché non va a modificare sostanzialmente l’attività formativa. I due concetti essenziali, introduttivi alla ricerca empirica di natura osservativa, riguardano: - il che cosa osservare; - il come osservare. Il che cosa osservare riguarda i comportamenti verbali e non verbali degli allievi, degli educandi, nella situazione che si sta prendendo in considerazione. Il come osservare riguarda: 10  Le tecniche e gli strumenti Le tecniche di osservazione sono numerosissime, è possibile raggrupparle in due grandi famiglie:  la prima famiglia riguarda l’osservazione sistematica che si avvale di griglie di osservazione.  La seconda famiglia, invece, non fa riferimento ad un’osservazione diretta, sistematica dei comportamenti e degli eventi di natura educativa, ma fa riferimento ad un’osservazione di natura esperienziale o indiretta quale potrebbe essere l’intervista, il questionario o il diario di bordo. Due caratteristiche importanti, da tenere presenti nell’utilizzo degli strumenti sono la validità e l’attendibilità. Gli strumenti che vengono utilizzati nella ricerca empirica di natura osservativi sono tanti, ma ci limitiamo a prendere in considerazione i tre più importanti. 1. Il primo tipo di strumento è la check list a cui si ricorre, ad esempio, per valutare il comportamento di allievi e di formatori in situazione educativa. La costruzione di una check list generalmente inizia con la stesura di un elenco di comportamenti e atteggiamenti che si intendono analizzare ottenendo così lo schema di partenza. Una griglia nota a livello internazionale, è la check list elaborata da Almy per il comportamento in classe degli allievi. Sono presenti in questa griglia ben ventisette descrizioni di comportamento. Ciò che è importante in una griglia come questa è che è possibile applicare delle scale di valutazione o meglio di misurazione che permettono di capire in che misura un certo comportamento è presente o meno e l’intensità con cui si ripete. Le scale di misurazione possono essere composte in vario modo (ad esempio è possibile identificare i livelli con dei numeri e quindi avere sostanzialmente una scala di natura numerica). 2. Ci sono delle scale di misurazione che hanno un’importanza notevole in quanto è lo stesso allievo che si autovàluta e, quindi, ragiona sulle modalità con cui egli stesso determina alcuni risultati comportamentali. C’è un questionario molto interessante sulle strategie di apprendimento prodotto da Pellerey e Orio che misura come uno studente valuta le sue capacità, la sua disponibilità a collaborare, la sua intensità dicollaborazione durante l’attività di natura formativa soprattutto all’interno dei lavori di gruppo. 3. L’ultima modalità riguarda i sistemi di categorie detti anche di categorizzazione. Essi considerano, a differenza della check list e delle scale di valutazione, la situazione nella sua complessità e quindi analizzano l’evento per tutta la sua durata.  L’analisi del comportamento docente Diventa interessante analizzare le dinamiche che si producono all’interno di un evento per capire l’intera gamma dei comportamenti osservati secondo categorie che sono state precedentemente definite. Nell’analisi del comportamento all’interno di un gruppo, si prendono in considerazione sia le dinamiche verbali di relazione che adottano insegnante e allievo sia le dinamiche dei cosiddetti linguaggi non verbali. Il modello che viene adottato per condurre l’analisi delle interazioni verbali è quello ideato da Flanders, che permette un’analisi approfondita della modalità di insegnamento e anche delle modalità di partecipazione degli allievi all’attività di natura formativa. Analizza, da un lato, la comunicazione verbale e non verbale dell’insegnante, dall’altro quella degli allievi e prende in considerazione anche quegli elementi in cui il discorso non c’è come per esempio il silenzio, il rumore, la confusione che sono normali all’interno di una classe e che non permettono una serie di attività produttive. Nel modello di Flanders viene osservato il tipo di comunicazione dell’insegnante rispetto all’influenza diretta e indiretta che ha sull’allievo, così come vengono analizzate tutte le modalità di feedback, cioè di reazione dell’allievo, alle proposte del docente di natura verbale.  La strategia interpretativa dello studio di caso lezione 4 L’esplorazione e la comprensione dei fenomeni e degli eventi educativi può utilizzare una strategia interpretativa propria delle scienze umane (Wilhelm Dilthey) in cui il ricercatore condivide la stessa natura dei soggetti che studia all’interno di un contesto sociale e di un ambiente definito (Max Weber). Assieme alla ricerca osservativa (sul campo o in un ambiente artificiale, diretta o indiretta, partecipante o non partecipante) di cui abbiamo visto le fasi metodologiche, le tecniche e gli strumenti, un posto sempre più importante ha assunto la ricerca basata sullo studio 11 di caso. Infatti, secondo David Campbell «la conoscenza qualitativa precede ed orienta quella quantitativa». I soggetti (singoli, piccoli gruppi, classi scolastiche, team di lavoro o di studio, comunità locali, ambienti educativi o di lavoro) sono studiati in un arco temporale ben definito nei loro aspetti identitari e nelle relazioni tra loro e con il contesto in cui agiscono (natura idiografica della ricerca). Lo studio tende a comprendere la motivazione alla base del loro agire, ricostruendo storicamente gli eventi e approfondendo ecologicamente i contesti sociali e di vita. (es. abbandono scolastico o universitario).  Le tecniche principali: intervista, colloquio in profondità, pensiero ad alta voce Gli strumenti e le tecniche utilizzate nello studio di caso sono: 1. L’intervista con basso grado di strutturazione (scaletta non rigida degli argomenti) basata sulla relazione partecipata: intervista biografica, intervista ermeneutica, intervista di gruppo. 2. Il colloquio in profondità (intervista rogersiana: non direttiva, finalità psicoterapeutica) in cui la motivazione all’interazione è intrinseca ai due interlocutori (es. colloquio clinico piagetiano: scopo e ipotesi, situazioni stimolo, dialogo, controllo). 3. Il pensiero ad alta voce o riflessione parlata ha formalizzato la metodologia ispirata a Piaget assegnando un compito/problema, chiedendo di esprimere le opinioni mentali (es. induzione,deduzione, abduzione, valutazione).  I tre tipi di intervista: biografica, ermeneutica, di gruppo Una breve descrizione dei tre tipi di intervista citati precedentemente è necessaria. 1. L’intervista biografica è finalizzata, attraverso la narrazione, da parte del soggetto, della propria storia di vita, alla comprensione di motivazioni, intenzioni, vissuti, sentimenti, credenze, relazioni gruppali e sociali. Dal racconto del soggetto/i devono emergere chiaramente: l’ambiente di riferimento, la scansione temporale degli eventi,il punto di vista del soggetto nella ricostruzione degli eventi (es. raccontami la tua vicenda scolastica/universitaria/di lavoro). 2. L’intervista ermeneutica è finalizzata, attraverso l’autoriflessione da parte del soggetto sul mondo della vita quotidiana, a far emergere esplicitamente l’universo di credenze, certezze pregiudizi, senso comune, rituali, abitudini, regolarità, consuetudini. E’ quel “sapere di sfondo”, socializzato con il linguaggio della comunità di appartenenza e interiorizzato in norme e valori, sul quale non si esercita più vigilanza cognitiva e critica e che invece va portato fuori dalla condizione di “dato per scontato”, tematizzato e narrato. All’intervistato va instillato il dubbio attraverso una “dialettica dialogica” (sensibilità etica e pedagogica dell’intervistatore) in modo da trasformare le proprie opinioni nel corso dell’intervista stessa. 3. L’intervista di gruppo, a seconda di alcune modalità organizzative (ruolo direttivo o meno dell’intervistatore, interazione alta o bassa tra i partecipanti, ambiente naturale o artificiale) può essere utilizzata per diverse finalità.  Tre esemplificazioni dell’intervista di gruppo: focus group, brainstorming, tecnica Delphi Le modalità per condurre l’intervista di gruppo possono essere ricondotte a tre tipologie: focus group, brainstorming, tecnica Delphi. 1. Nel focus group il moderatore presenta un tema specifico (es. applicazione agli istituti scolastici delle norme ISO per la certificazione della qualità) a soggetti interessati e competenti (dirigenti, docenti, esperti) per rilevare opinioni (per ricerche, progetti, interventi ecc.). 2. Nel brainstorming l’intervistatore pone un tema su cui i partecipanti sono invitati ad esprimere idee e spunti creativi in piena libertà. La stimolazione del pensiero divergente dovrebbe portare dei suggerimenti alle soluzioni innovative, al problema presentato (es. come migliorare l’offerta formativa della scuola?), 12 soprattutto quando ci si serve di tecniche ausiliarie (es. uso di post-it per diagrammi di affinità, di causa- effetto, di campo di forze). 3. La terza tipologia è quella del gruppo nominale, conosciuta come tecnica Delphi, in cui i soggetti (es. dieci esperti di ICT) scelti dal moderatore (solo lui conosce i nomi) vengono invitati a rispondere ad alcune questioni (es. l’uso delle TIC nella formazione continua) utilizzando la via telematica. Analizzate le risposte vengono confrontati e riassunti gli elementi più significativi, riproposti per un secondo turno di approfondimenti. Nella fase finale i partecipanti vengono a conoscenza delle reciproche identità ed opinioni e i risultati complessivi costituiscono spesso parti di ricerca o report scientifici autonomi.  La richiesta basata sulla matrice di dati lezione 5  Inchiesta e intervista strutturata, la natura qualitativa del questionario e la matrice dei dati Assieme alla ricerca osservativa e alla ricerca basata sullo studio di caso una terza tipologia di ricerca empirica che condivide una strategia interpretativa propria delle scienze umane e sociali, nella descrizione in profondità e nella comprensione dei fenomeni e degli eventi educativi attraverso le opinioni, le attese, le intenzioni degli attori coinvolti, è la ricerca basata sulla matrice di dati ricavati da una intervista strutturata. Solitamente si tratta di una inchiesta (survey) somministrando ai soggetti un questionario autocompilato, seguendo precise norme per la sua costruzione. Quando l’indagine riguarda argomenti complessi o richiede particolare precisione, il questionario è compilato da un intervistatore, che interroga i singoli partecipanti e riporta le risposte. In questo tipo di ricerca la raccolta e il trattamento di dati avvengono attraverso metodi quantitativi di natura matematica e statistica. La matrice dei dati, infatti, è una tabella rettangolare – caricata su computer con il programma fogli elettronici (es. Excel) per poche migliaia di casi o con database (es. Access) per numeri di casi più grandi – composta da tante righe quanti sono i soggetticasi considerati e tante colonne quanti sono i fattori studiati (es. risposte variabili ad ogni domanda). Per chiarezza metodologica va sottolineato che la scelta qualitativa dei dati personali, dei comportamenti, delle intenzioni/preferenze/opinioni e degli atteggiamenti dei soggetti intervistati, avviene ad opera del ricercatore sulla base dei suoi criteri interpretativi. L’elaborazione quantitativa è quindi a supporto degli elementi significativi , costruiti, individuati dal ricercatore per rendere visibile e per dare senso, attraverso un sistema di relazioni tra fattori, ai fenomeni studiati. Interpretazioni, dunque, della complessità dei processi educativi e dei sistemi formativi e delle intenzionalità che stanno alla base dei comportamenti di educatori ed educandi, attraverso evidenze empiriche di regolarità o di idealtipi, secondo la definizione di Weber. 15 (indipendente) cresce o decresce la variabile y (dipendente) (ad esempio con l’incremento della motivazione aumenta il profitto) e l’entità di questa correlazione può essere statisticamente misurata, oppure si può asserire che tra le due variabili c’è una relazione probabilistica (di causalità ?), se tutte le volte che il ricercatore manipola la variabile x (indipendente) ottiene un effetto conseguente sulla variabile y (dipendente). In questo caso deve realizzare un esperimento nel quale tenere sotto controllo o neutralizzare tutti gli altri fattori (variabili: ambientali, assegnate, di disturbo, ecc). Ecco allora l’importanza nel delineare il piano o disegno sperimentale, in modo da garantire la validità interna ed esterna della ricerca.  Le variabili e le loro relazioni Nella ricerca educativa si considerano normalmente tre tipologie di variabili indipendenti (ambientali, personali, didattiche) dalla cui moderazione per le prime due e manipolazione per la terza dipendono le variabili dipendenti con i loro numerosi effetti della formazione (livello degli apprendimenti, evoluzione affettiva, motivazione, precisazione degli interessi, autostima, emergere delle scelte professionali ecc.).  Il piano sperimentale a due gruppi In questo quadro e tenendo conto della letteratura italiana e straniera, secondo le quali “la percezione di competenza, di autodeterminazione e l’attivazione causale” influirebbero sulla motivazione allo studio, è probabile che l’apprendimento cooperativo, essendo una nuova pratica didattica centrata su esperienze di autodeterminazione, di costruzione di competenze, di relazione sociale, di autovalutazione, possa incidere sulle attese di efficacia degli studenti e quindi incrementare la motivazione. Gruppo 1: R O1 X O6 O Gruppo 1 R O1 X O2 Gruppo 2 R O3 O4 Il disegno sperimentale dovrà prevedere almeno due Gruppi per poter confrontare i livelli motivazionali a fine anno del 1° gruppo, che ha fruito del trattamento sperimentale (cooperative learning) e del 2° di controllo che ha ricevuto il trattamento ordinario (metodo tradizionale di insegnamento). Per garantire l’omogeneità dei gruppi è necessario nel nostro caso costruire e validare una scala di autovalutazione della motivazione rivolta ad esempio a soggetti di 11-12 anni da somministrare a 24 classi prime di scuola secondaria di 1° grado (1° media). Si possono individuare 4 16 coppie di classi con risultati pressoché equivalenti, situate in quartieri caratterizzati da condizioni socioeconomiche differenti, in modo da vagliare l’efficacia dell’intervento in situazioni diverse. In ogni coppia del campione si individuano: il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo. E’ questo un tipo di campionamento “a gruppi casuale e sistematico”, in cui la selezione riguarda non i soggetti singoli ma le classi, avviene per estrazione fra tutte le prime medie di una città, stabilendo il numero di classi su cui operare. Se nel gruppo sperimentale si è rilevato un incremento significativo della motivazione intrinseca allo studio rispetto alle classi di controllo (p < 0,01), allora l’ipotesi iniziale viene confermata. Gruppo 3 R X O5 Gruppo 4 R O6 R: equivalenza dei gruppi O: osservazione/misurazione: pre-test e post-test X: trattamento sperimentale  Il piano sperimentale a quattro gruppi Quando non si opera in una sola scuola con due gruppi – classe equivalenti, ma si può disporre di un campione più ampio, come nel caso esemplificato – è consigliabile il piano sperimentale classico a quattro gruppi, per poter meglio controllare o neutralizzare gli effetti indesiderati che potrebbero inficiare la validità della ricerca. I primi due gruppi mantengono la stessa organizzazione e finalità: controllare la significatività del trattamento sperimentale. EFFETTI - trattamento - pre-test - selezione, regressione, mortalità - storia e maturazione Nel terzo gruppo non si somministra il pre-test per verificarne l’influenza sul risultato finale: nel post-test si ripetono infatti le domande iniziali. Nel quarto gruppo non si somministra il pre-test né si eroga il trattamento sperimentale, potendo così individuare la portata dell’effetto maturazione (quando il trattamento dura a lungo come nel caso esemplificato) sul risultato finale. In conclusione l’incremento significativo, ricavato dal confronto tra i primi due gruppi, va depurato dall’effetto pre-test e dall’effetto maturazione e quando è possibile, come nel nostro caso, disporre nel campione di altri quattro gruppi equivalenti in cui ripetere l’esperimento, si riescono a neutralizzare anche altri: storia (trasferimento insegnanti, malattie degli alunni ecc.), mortalità sperimentale (abbandono di alunni), casualità (fattori soggettivi riferiti ad alunni ed insegnanti).  La validità interna ed esterna della ricerca Le ricerche sperimentali, oltre alla validità interna garantita dalla rigorosità delle procedure e del controllo dei risultati, ambiscono ad una validità esterna per estendere i risultati ad altre situazioni simili. La possibilità di generalizzazione in contesti reali non vuol dire che esistano leggi universalmente valide nei processi educativi e nei sistemi formativi, ma che le spiegazioni riscontrano regolarità evidenziate empiricamente e quindi utilizzabili da insegnanti, educatori, formatori per innovare le metodologie e migliorare gli interventi formativi.  La definizione della ricerca-azione e le sette caratteristiche distintive individuate da J.P. Pourtois lezione 7 17 Insegnanti educatori, formatori se vogliono dare razionalità e scientificità alla loro prassi educativa e soprattutto innovare e migliorare, devono fare riferimento obbligato alla ricerca scientifica. Quella sperimentale è difficile da applicare per condizioni oggettive e quasi sempre i problemi incontrati non sono riducibili ad una sola variabile. Anche la ricerca osservativa sistematica e gli studi di caso, pur essendo meno difficoltosi da organizzare, sono sentiti come strumenti “eccezionali” per situazioni particolari. La ricerca-azione, essendo orientata alle decisioni, utilizzando prevalentemente metodi qualitativi con intenti idiografici e mirando a risolvere problemi specifici in contesti definiti, può saldare la separazione tra ricerca educativa e pratica didattica, almeno nella percezione degli attori coinvolti. Per chiarire la natura originale della ricerca-azione, saranno illustrate criticamente le sette caratteristiche distintive, individuate magistralmente da J.P. Pourtois in un saggio pubblicato in Italia nel 1986 ed esemplificati i tratti peculiari di un progetto sui curricoli dell’intercultura, condotto in 60 scuole della Puglia e diffuso in 1500 scuole in Italia.  1.1 La connessione con i problemi socio-educativi La r/a, a differenza di quella sperimentale o di quella basata sull’inchiesta orientate alla conoscenza, non nasce da una questione epistemica, ma da un problema socio-educativo avvertito come rilevante da una comunità educativa. Essa ha per scopo la soluzione di questo problema, attraverso un intervento di cambiamento della realtà socio- educativa concreta e determinata. R/A orientata alla decisione.  1.2 Il circolo analisi-azione La r/a si basa su un passaggio continuo e reciproco tra il piano della riflessione e il piano dell’azione. I risultati a cui si perviene rispecchiano un processo di apprendimento dall’esperienza, attraverso un confronto interpersonale e un accordo intersoggettivo circa la qualità del cambiamento che si va a realizzare. L’“agire formativo” si esplicita in un “agire comunicativo” condiviso, che interpella la teoria pedagogica.  1.3 L’elaborazione delle transazioni La r/a, non limitandosi ai risultati formativo-didattici di innovazione, pretende l’adeguamento dell’ambiente educativo-istituzionale e del contesto sociale ai bisogni di tutti gli “attori” (insegnanti, alunni, genitori, educatori, decisori politici, ecc.). La r/a implica, perciò, una dimensione politica e una trasformazione in profondità dei rapporti sociali.  1.4 L’emancipazione degli “attori” Nella r/a, insieme agli esperti degli specifici contenuti e delle metodologie implicate nei progetti, sono gli operatori educativi che assumono il ruolo di ricercatori. Essi hanno il potere di determinare il corso dell’azione, attraverso la partecipazione sia alle fasi progettuali sia a quelle operative. La negoziazione delle scelte da prendere tra gli attori avviene sulla base dei diversi saperi (teorici, metodologici, pratici) e di specifici percorsi di formazione in servizio degli operatori educativi (Just in time). Solo in questo modo le decisioni- interpretazioni democratiche possono garantire legittimità scientifica e corrispondere alle quattro “pretese di validità” di Habermars: l’intelligibilità, la verità, la giustificazione, la sincerità.  1.5 Il coinvolgimento esistenziali degli “attori” A differenza della ricerca sperimentale ma anche di molta parte della ricerca osservativa e di quella basata sulla inchiesta o sull’uso dei questionari, in cui si richiede al ricercatore un atteggiamento di distanza dall’oggetto studiato, nella r/a si considera peculiare il coinvolgimento esistenziali degli attori educativi. Anzi viene richiesto ad ognuno il contributo della propria soggettività, della propria concezione del mondo, della propria visione delle questioni che vengono affrontate, delle proprie abilità e competenze anche tecnico-professionali.  1.6 La riabilitazione dell’affettività e dell’immaginario 20 videocassetta con le metodologie di analisi/lettura dei due film; un CD-ROM con i percorsi interattivi per gli allievi, di costruzione dei giornali, dei giornali radio e dei telegiornali. La decisione di realizzare forme di comunicazione multimediale (a stampa, audiovisiva, informatica) per operare la trasferibilità (11° fase), nelle scuole ha comportato un’ulteriore fase di validazione scientifica. Il nostro “dispositivo di raffinazione”, secondo l’impostazione metodologica di Pourtois è consistito nell’adozione di due procedure di generalizzazione: - la leggibilità dei risultati attraverso la strutturazione delle conoscenze scientifiche (5 progetti didattici) e delle metodologie di lavoro (7 unità didattiche) proposte dal pacchetto multimediale; - la contestualizzazione dei risultati attraverso il coinvolgimento non solo degli allievi ma anche degli insegnanti e dei genitori di sette scuole elementari e medie rilevando con questionari, da un lato, le loro opinioni, atteggiamenti, stereotipi nei confronti degli immigrati e indagando, dall’altro lato, le modalità con cui i media (giornali, radio, televisioni, cinema) rappresentano gli immigrati e contribuiscono a costruire le interpretazioni simboliche che influenzano le pratiche sociali. I risultati dei questionari di contestualizzazione sociale per alunni, insegnanti, genitori, erogati all’inizio dell’anno di applicazione de progetto e di uso del pacchetto multimediale, i risultati in termini di conoscenze, abilità di scrittura tecnica e di competenze critiche acquisiti dagli allievi, le valutazioni positive di efficacia didattica emerse dal questionario finale per gli insegnanti, hanno convinto il M.P.I. ad una diffusione del Curricolo di educazione mediale in 1500 scuole elementari e medie nelle varie regioni italiane. Il progetto complessivo di innovazione dei 7 curricoli ha completato un originale percorso di conclusione attraverso la costruzione di: - un videogame interattivo per i ragazzi dal titolo “Interground – la metropolitana dell’intercultura” - un sito internet con i materiali di tutti i cuccioli (integround per insegnare) organizzati secondo una mappa concettuale, attivamente modificabile e ampliabili dalle esperienze delle scuole sul territorio nazionale e europeo. Il successo della ricerca-azione in ambito educativo, come dimostra l’esempio portato, deriva dalla possibilità di innovazione educativa e didattica, attraverso la partecipazione democratica di tutti gli attori sociali.  Le sei fasi della ricerca empirica in educazione lezione 8 Sintetizziamo, in questa lezione, le fasi che scandiscono il processo di ricerca. Alcune sono state richiamate ed esemplificate nelle lezioni precedenti, ma abbisognano di un ordinamento logico nella loro sequenzialità, seguendo le indicazioni magistrali di J. Dewey. La prima fase riguarda l’identificazione del tema, l’esplicitazione del problema conoscitivo/socio-educativo connesso e in riferimento al quadro teorico. Ogni ricerca empirica nasce dal bisogno di trovare soluzioni più soddisfacenti a problemi che emergono nelle pratiche didattiche e nei contesti educativi. Ad esempio: Come evitare l’abbandono scolastico? Perché solo alcuni ragazzi con famiglie disagiate hanno risultati scadenti? Il lavoro cooperativo di gruppo migliora le prestazioni individuali? Naturalmente il ricercatore si pone un obiettivo specifico come ad esempio studiare i fattori che determinano l’abbandono o le relazioni tra motivazione e profitto scolastico. Tema, problema ed obiettivo necessitano di un quadro teorico di riferimento sugli studi e i risultati della ricerca, con un esame storico-critico della letteratura nei settori specifici. Ricerca in biblioteca, sul web, autorevolezza delle fonti, classificazione del materiale. La seconda fase consiste nella formulazione delle ipotesi, che i dati empirici – qualitativi e/o quantitativi – dovranno confermare o confutare. Da una prima formulazione dell’ipotesi teorica (es. c’è una relazione tra frustrazione ed aggressività o atteggiamento incoraggiante dell’insegnante e clima della classe) occorre passare a definizione operative con individuazione delle variabili. Ad esempio: Si ipotizza che ci sia una relazione tra l’assistere ad episodi di violenza e l’incremento dell’aggressività. Ipotesi specifiche: I bambini che assistono a scene violente manifestano condotte aggressive più frequenti dei compagni non esposti a interazioni violente oppure I bambini che assistono a scene violente dirette tra adulti, manifestano più aggressività dei compagni che guardano scene violente rappresentate nei cartoni giapponesi. Abbiamo già visto come valutare la significatività delle relazioni tra variabili indipendenti e dipendenti. Nelle ricerche basate sullo studio di caso e sull’intervista le ipotesi possono essere implicite e rese poi esplicite con l’elaborazione dei dati. La terza fase consiste nella formulazione del piano della ricerca. Abbiamo visto sia nella ricerca osservativa 21 sia in quella sperimentale come si definiscono i diversi disegni per l’attuazione concreta delle azioni nei gruppi sottoposti a rilevazione dei comportamenti naturali o indotti dal fattore sperimentale. Un passaggio obbligato, qualunque sia la strategia di ricerca e i metodi utilizzati (qualitativi e quantitativi) consiste nella definizione dei soggetti (persone) o oggetti (strutture) con cui operare. Si tratta di individuare la popolazione di riferimento e scegliere un campione rappresentativo, cioè casuale o probabilistico nella grande maggioranza dei casi, o non staticamente probabilistico come nello studio di caso o nella ricerca-azione. La trasferibilità dal campione all’intera popolazione è legata appunto all’interpretazione statistica del campionamento, che può essere: casuale semplice, sistematico (numero/ampiezza) stratificato (sottogruppi omogenei) a gruppi o a grappoli (scuole) per stadi (regioni, province, scuole, classi). La quarta fase consiste nella raccolta dei dati durante l’effettiva realizzazione dell’intervento di ricerca, in forma strutturata, così da consentirne poi la classificazione delle osservazioni e la misurazione delle caratteristiche che si vogliono studiare. Questa operazione di classificazione, di discriminazione delle caratteristiche qualitative, per contare il numero di casi è detta misura su scala nominale. Sono misurazioni su scala ordinale quelle che suddividono i dati in classi ordinate in base al grado di intensità con cui le caratteristiche sono presenti. La scala ad intervalli si utilizza per misurare proprietà continue, stabilendo le distanze tra i punti della scala (es. test psico- attitudinali, reattivi di profitto). La scala di rapporti utilizzata per le grandezze fisiche (es. lunghezza, volume, temperatura, ecc.) raramente si usa nella ricerca empirica educativa, se non nel trattamento statistico successivo dei dati classificati. 22 Gli strumenti utilizzati possono essere orali (intervista, focus group, colloquio) o scritti (questionari, interviste strutturate, check-list, scale di auto/etero valutazione, test psicologici, prove oggettive dei risultati di apprendimento). La quinta fase consiste nell’analisi statistica dei dati, per operare confronti tra i risultati, calcolare percentuali, proporzioni, rapporti. Oltre al calcolo delle misure di tendenza centrale, le tecniche statistiche permettono di calcolare gli indici di variabilità, i coefficienti di connessione e di correlazione tra le variabili, i test di significatività delle differenze e l’analisi della varianza e della covarianza. Nei corsi di Docimologia e di Statistica è possibile approfondire i concetti richiamati ed esercitarsi nella loro operatività applicativa. La sesta fase è dedicata dal ricercatore ad una elaborazione critica dei dati, che la statistica ha aiutato a leggere, e quindi ad una interpretazione dei risultati. Questi elementi si possono evincere dalla necessaria comunicazione della ricerca attraverso report su riviste o saggi in testi, in modo da poterli sottoporre a valutazione secondo quattro criteri: qualità, rilevanza, originalità/innovatività, potenziale innovativo internazionale. DEFINIZIONE DI QUALITÀ E DI VALUTAZIONE lezione 9  La qualità e la valutazione - L’attenzione ai sistemi di assicurazione della qualità e alla valutazione sta determinando una richiesta sempre più pressante di trasparenza alle istituzioni universitarie. - Occorre però rimuovere dubbi e resistenze che potrebbero minare alle fondamenta anche il miglior progetto di sviluppo della qualità.  Definizioni Cosa si intende con il termine qualità? Ecco una lista di definizioni possibili: Idoneità allo scopo e/o idoneità dello scopo;  Conformità, ovvero zero difetti;  Soddisfazioni dei clienti;  Value for money;  Miglioramento, ovvero capacità di cambiare se stessi;  Controllo e valutazione per gestire il cambiamento necessario;  Eccellenza. - È possibile individuare diversi modelli di assicurazione e gestione della qualità e quindi diversi modi di intendere la valutazione. La valutazione può avere: - Funzione meritocratica, cioè di evidenziare i migliori rispetto ad una serie di criteri identificati ad opera di un soggetto abilitato ad esprimere giudizi; 25 - L’acquisizione, l’integrazione e la validazione dei dati e dei diversi strumenti di analisi è essenziale perchè la garanzia dell’affidabilità dei dati è un presupposto imprescindibile per un sistema di valutazione accettato. - La capacità diagnostica è il requisito fondamentale per il modello, che deve essere adattato alla specifica natura dell’organizzazione, alla sua cultura, al contesto di riferimento ed al mercato accessibile, alle sue infrastrutture e alle tecnologie disponibili. - L’elemento cruciale da tenere in considerazione nella scelta del metodo da adottare è la minore intrusività possibile della valutazione, che dovrebbe in realtà entrare a far parte delle ordinarie procedure con cui il lavoro didattico, di ricerca e amministrativo si esplica quotidianamente. - Altro elemento da considerare è l’importanza che si vuole rispettivamente attribuire agli aspetti quantitativi e qualitativi della valutazione. - L’esperienza europea dimostra che l’approccio più interessante è quello dell’integrazione dei metodi, con una prima fase di autovalutazione ed una successiva peer-review esterna. - L’assicurazione della qualità prevede la partecipazione di tutta la comunità accademica al processo.  LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA La progettazione e l’attuazione della valutazione coinvolgono in modo coordinato diversi soggetti: per la ricerca il Delegato alla ricerca, l’Ufficio ricerca, il Consiglio dei direttori di struttura. Per la didattica il Delegato, gli Uffici dedicati, i responsabili dei corsi di studio.  Il progetto è gestito da un Comitato per la qualità che si avvale di tutori, i quali aiutano i Dipartimenti nell’autovalutazione, e del responsabile dei dati.  IL MODELLO PER LA VALUTAZIONE DELLA DIDATTICA Nella fase di autovalutazione ogni corso di studio valuta se stesso con l’obiettivo di analizzare e rendicontare la qualità dei propri programmi di formazione.  I risultati dell’autovalutazione sono riportati all’interno di un Rapporto di autovalutazione - RAV. In particolare, nel RAV debbono essere analizzati tutti i seguenti elementi caratterizzanti, elencati ed illustrati nelle linee guida preparate dal Comitato per la qualità, ad opera di autovalutatori preventivamente preparati. A. Sistema organizzativo - A1. Sistema di gestione - A2 . Responsabilità - A3. Riesame B. Esigenze e obiettivi - B1. Esigenze delle parti interessate - B2. Obiettivi generali - B3. Obiettivi di apprendimento C. Risorse: - C1. Risorse umane - C2. Infrastrutture D. Processo formativo: - D1. Progettazione - D2. Erogazione e apprendimento - D3. Servizi di contesto E. Risultati, analisi e miglioramento: - E1. Risultati - E2. Analisi e miglioramento  IL MODELLO PER LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA L’autovalutazione segue queste linee guida e si avvale dei dati forniti dall’Ufficio per la ricerca. Il RAV elenca gli ambiti dell’attività di ricerca e le sue linee, analizza i risultati: 26 - i progetti finanziati - i progetti in conto terzi - i convegni - le partecipazioni a centri di ricerca - le collaborazioni nazionali ed internazionali - i fondi acquisiti - le pubblicazioni  LINEE GUIDA PER LA STESURA DEL RAPPORTO DI AUTOVALUTAZIONE (RAV) lezione 12  Gli scopi Scopo del RAV è fornire una sintetica ma esaustiva presentazione delle attività e dei processi dell’Università valutata, con una particolare attenzione alla capacità di analisi e di autocritica. Il RAV deve supportare l’Università nell’ identificare ed analizzare i suoi punti di forza e/o di debolezza, le opportunità da cogliere e i rischi da scongiurare. E’ molto importante che alla stesura del RAV partecipino tutte le componenti della Comunità Accademica, i Docenti, gli Studenti, il Personale tecnico - amministrativo. Debbono essere valutate tutte le attività: i Corsi di studio, la Ricerca, il Dottorato, i Servizi, le Strutture e le Infrastrutture, gli Organi di gestione e tutti i Processi di governance.  INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO E’ necessario elencare i corsi di studio offerti nei tre cicli: - Laurea - Laurea magistrale - Dottorato Ed inoltre: - i loro obiettivi generali - le finalità dei titoli di studio - i risultati degli studenti anno per anno - i laureati in rapporto agli iscritti - i tempi di laurea - gli abbandoni - gli ingressi nel mondo del lavoro - i principi per la valutazione degli studenti - tutto ciò che riguarda l’informazione. Per i corsi di studio dovrà essere valutata la loro conformità con il Processo di Bologna, l’uso del sistema dei crediti, il diploma supplement.  E soprattutto si dovrà valutare se l’atteggiamento dei docenti nei confronti degli studenti è centrato sull’insegnamento o sull’apprendimento. Le tipologie di rapporto docenti-studenti, dalle lezioni ai seminari, al laboratorio, ai corsi online saranno oggetto di analisi, così come la valutazione degli studenti.  Verificare se, durante il corso e a conclusione, si sono raccolte le opinioni degli studenti ed elencati i provvedimenti assunti sulla base delle loro osservazioni. Fondamentale è l’analisi delle risorse di docenza rapportate all’offerta didattica e, conseguentemente, l’analisi dell’impegno orario dei docenti nella didattica.  RICERCA 27 Sono oggetto di analisi: - la strategia in materia di ricerca - le aree tematiche della ricerca. Occorre rispondere ai seguenti interrogativi: - Se nell’Università c’è una vera cultura per la ricerca - Se vi è una effettiva collaborazione nella ricerca all’interno e con il mondo esterno dell’Università. Verranno analizzate le risorse disponibili e le modalità di acquisizione dei fondi, con un calcolo degli investimenti in ricerca negli ultimi cinque anni. Saranno analizzate le infrastrutture per la ricerca, nello specifico: la biblioteca e le tecnologie informatiche. Saranno valutati: - numero e qualità delle pubblicazioni - libri scritti e curati - articoli in riviste con comitato editoriale - articoli in altre riviste - capitoli di libri - la percentuale dei docenti inattivi nella ricerca Il RAV dovrebbe anche contenere l’analisi dei rapporti dell’Università con: - il mondo esterno - gli organismi professionali - il mondo del lavoro - i progetti sociali - i contatti con gli ex alunni - le consulenze L’analisi delle risorse umane e strutturali richiede l’ analisi del trend relativo a: - numero dei docenti - numero del personale tecnico-amministrativo - i profili professionali - l’età Di significativa importanza: o l’analisi della situazione finanziaria dell’Università, con entrate ed uscite nei vari capitoli di bilancio o l’adeguatezza delle infrastrutture per le attività istituzionali E’ necessario rispondere ai seguenti interrogativi: - come vengono prese le decisioni - di chi è la responsabilità decisionale - quale è la partecipazione alle decisioni dei vari componenti della Comunità accademica Questo vale anche per le modalità di nomina degli Organi e per il reclutamento del personale. Un capitolo, iniziale o finale, del RAV dovrà essere dedicato all’analisi delle strategie dell’Università, al fine di garantire e migliorare la qualità di tutte le sue attività: - gli organismi preposti alla qualità - la loro composizione - le modalità di svolgimento delle loro attività 30 - Quali sono le prospettive per le quali il CdS intende preparare gli studenti che conseguiranno il titolo di studio. - E’ stato consultato il mondo della produzione, dei servizi e delle professioni ed è stato tenuto conto delle loro istanze. - Obiettivi di apprendimento. - Piani di studio e caratteristiche degli insegnamenti e delle altre attività formative (prova finale compresa). Verificare se: - Il sito riporta per il(i) docente(i) titolare(i) degli insegnamenti e delle altre attività formative informazioni aggiornate sull’ attività di ricerca svolta e sulle pubblicazioni più recenti e sulle esperienze professionali qualificanti più recenti. - Il sito riporta i requisiti per l’accesso al CdS e i criteri di ammissione.  AUTOVALUTAZIONE PERIODICA Viene richiesto se: Il CdS e la struttura di appartenenza effettuano, per quanto di competenza e in modo coordinato, e documentano il riesame periodico del sistema di gestione del CdS, al fine di assicurare la sua continua idoneità, adeguatezza ed efficacia.  ESIGENZE DELLE PARTI INTERESSATE Viene richiesto se: Il CdS e/o la struttura di appartenenza individuano e documentano le esigenze delle PI, con particolare riferimento al settore in cui è presumibile che gli studenti che conseguiranno il titolo di studio possano inserirsi.  OBIETTIVI PER LA QUALITÀ Il CdS e/o la struttura di appartenenza stabiliscono e documentano, per quanto di competenza, obiettivi per la qualità - con particolare riferimento agli obiettivi di apprendimento, intesi come: - Conoscenze: cioè sapere. - Capacità: cioè saper fare. - Comportamenti: cioè saper essere attesi nello studente alla fine del processo formativo, obiettivi coerenti con gli indirizzi generali per la qualità.  Risorse Viene richiesto se: - Il CdS dispone di personale docente e di supporto alla didattica e all’apprendimento adeguato ai fini del conseguimento degli obiettivi di apprendimento. Per ogni insegnamento viene richiesto se: sono disponibili e documentate informazioni relative a: - Posizione accademica (settore scientificodisciplinare di appartenenza, fascia di appartenenza, tempo pieno o tempo definito) e qualificazione professionale, rispettivamente per i docenti universitari e per i docenti a contratto esterni. Per ogni insegnamento viene richiesto se sono disponibili e documentate informazioni relative a: - Modalità di copertura degli insegnamenti: compito istituzionale, supplenza, affidamento, contratto, ecc. - Carico didattico complessivo dei singoli docenti, con riferimento a tutti i compiti didattici svolti anche in altri CdS. 31 - Analizzare se il CdS dispone di infrastrutture fisiche, con le relative dotazioni e/o attrezzature, e virtuali adeguate ai fini del conseguimento degli obiettivi di apprendimento. - Il CdS ha progettato e documentato un piano di studio con le caratteristiche degli insegnamenti e delle altre attività formative coerenti con gli obiettivi di apprendimento.  RELAZIONI ESTERNE E INTERNAZIONALI Analizzare se il CdS e/o la struttura di appartenenza hanno relazioni internazionali con Università, Facoltà e Corsi di studio di altri Paesi per la promozione dell’internazionalizzazione, in particolare per la mobilità degli studenti, adeguate ai fini del conseguimento degli obiettivi di apprendimento.  DIPLOMA SUPPLEMENT E’ una certificazione integrativa del titolo conseguito che contiene la descrizione dei contenuti del corso di studi, della didattica utilizzata, dei requisiti per il conseguimento del titolo, del curriculum con crediti e voti, e della votazione finale. Inoltre certifica lo stato professionale conferito e gli sbocchi nel mercato del lavoro. Serve a rendere trasparente il titolo, favorisce la mobilità nazionale ed internazionale e l’accesso ad ulteriori studi.  Facilita il rapporto con il mondo del lavoro. Nasce con: - Convenzione di Lisbona. - Autonomia didattica sancita nel 1999. - Decreto del MURST del 2001 con cui si delineavano i dati della carriera degli studenti. - Successive tappe dell’accordo europeo interministeriale.  CORSI DI STUDIO TELEMATICI lezione 15  Tipologie La valutazione sopra descritta si applica anche ai Corsi di studio telematici. Questi sono suddivisi in modalità: - Totalmente blended, cioè parzialmente in presenza e parzialmente in e-learning. - E-learning. - ICT - based learning. - Online learning. Per e-learning si intende un apprendimento che prevede l’utilizzo della connessione in rete per la fruizione dei materiali didattici, con interattività con i docenti. Prevede l’impiego dei personale computer, una notevole indipendenza del percorso formativo da vincoli di presenza fisica o di orario. L’ e-learning prevede inoltre: - Frequenti momenti di autovalutazione e valutazione. - L’interazione fra diversi media. - L’interattività con i materiali per la personalizzazione del percorso formativo. - L’interattività con i docenti e con gli studenti, con la creazione di contesti collettivi di apprendimento. L’educazione a distanza è insomma caratterizzata da una interazione scritta, asincrona. 32 - Le tecnologie digitali funzionano non solo per grandi gruppi ma anche per piccoli gruppi di studenti e, comunque, favoriscono il passaggio dall’apprendimento centrato sul docente a quello centrato sullo studente.  INDAGINE DELL’EUA- EUROPEAN UNIVERSITY ASSOCIATION In una indagine fatta dall’Associazione Europea delle Università (EUA) è stato rilevato che l’82% delle Istituzioni universitarie offrono corsi online. Gli studenti, in quello studio, hanno affermato che l’ online learning è apprezzato perché consente di studiare a chi lavora, a chi risiede in aree lontane, a chi necessita di educazione continua, o per ragioni socio-economiche. I Corsi online riguardano in particolare: - Finanza e Management - Training degli insegnanti - Matematica ed Informatica - Ingegneria - Scienze sociali - Lettere - Scienze mediche - Scienze naturali - Giurisprudenza - Architettura e Arte. I corsi telematici attivati fino ad ora prevedono in un terzo dei casi la valutazione interna della qualità e, in una percentuale un po’ minore, la valutazione esterna. In sostanza, le differenze fra i corsi online e quelli convenzionali vanno diminuendo anche da questo punto di vista. Ciò richiede però che i principi e i processi per l’assicurazione della qualità debbano correlarsi ed adeguarsi per far fronte al cambiamento in atto. Tre quarti delle Istituzioni universitarie europee considerano i corsi online un mezzo per: - Potenziare l’apprendimento di massa. - Rivedere i metodi di insegnamento rivolti a grandi numeri di studenti. - Il monitoraggio della carriera degli studenti. - La collaborazione interattiva tra studenti. - Il potenziamento del pensiero critico attraverso la flessibilità.  VALUTAZIONE Nei documenti ANVUR si raccomanda che: o Per i Corsi di studio online e blended siano previsti incontri di pianificazione, coordinamento e valutazione dei risultati fra docenti e tutori. o Sia prevista la formazione dei docenti per lo svolgimento della didattica online e per la realizzazione di prodotti didattici multimediali. o Sia programmata la metodologia delle valutazioni intermedia e finale degli studenti.  Siano previste le modalità per sostituire apprendimenti che richiedono la presenza fisica degli studenti con tecnologie online. o Sia ovviamente valutata l’adeguatezza numerica del corpo docente, anche alla luce della necessità della preparazione dei materiali didattici (ad esempio, per la didattica per problemi, per lo studio di casi, simulazioni, ecc.) Molto importanti sono: la presenza e la competenza dei tutori.  L’AUTOVALUTAZIONE DEL DOTTORATO DI RICERCA lezione 16 35 33 Informazi 4.1 42 43 44 45 Requisiti di ammissione. Indicare il titolo di ammissione richiesto e l'esistenza di eventuali prove o esami di ammissione Cm] Didattica utilizzata. Indicare se il corso è a tempo pieno o a tempo parziale. Indicare se il corso utilizza la normale didattica in presenza o forme di didattica a distanza (teledidattica, on-line, ecc.) (Requisiti per il conseguimento del titolo. Indicare le attività formative (previste dal regolamento didattico del corso di studio e i crediti ad esse torrispondenti. Utilizzare la descrizione dell'offerta formativa dell'ateneo, allegando una descrizione sintetica del percorso didattico previsto per il curriculum seguito dallo studente. Curriculum, crediti e voti ottenuti. Riportare (o allegare) il certificato degli esami effettivamente sostenuti e delle altre attività formative certificate con il relativo ammontare in crediti e la votazione riportata, allegando preferibilmente la descrizione delle attività formative del corso di studio contenuta nella quida di ateneo ed utilizzando le relative codifiche. Descrizione del sistema di votazione ed eventuale distribuzione statistica dei voti. Indicare la scala di valutazione standard e, se disponibile, la distribuzione statistica dei voti per il corso di studio considerato Votazione finale conseguita, relativa scala di valutazione, distribuzione statistica dei voti finali per il corso di studio considerato. Indicare il voto finale ottenuto (ad esempio: 110 è lode) è la scala di valutazione standard. Indicare la distribuzione statistica delle votazioni finali per il corso di studio considerato nell'ultimo anno disponibile Ante REN 5.2 6.2 Accesso a studi ulteriori. Indicare a quali percorsi formativi il titolo conseguito dà accesso Status professionale conferito dal titolo. Indicare gli sbocchi professionali previsti dal corso di studio, indicando eventualmente le caratteristiche professionali acquisite con il curriculum seguito dallo studente Altre fonti di informazione. Indicare, ad esempio, il sito web dell'ateneo (o della facoltà/corso) o l'indirizzo dell'ufficio relazioni internazionali dell'ateneo VAN TILT 7.1 7.2 7.3 74 Data di rilascio La firma è quella dell'autorità accademica abilitata al rilascio della certificazione Carica del firmatario Timbro ufficiale dell'ateneo 36  Riepilogo Lezione 21 - Contesto internazionale: sistemi di assicurazione della qualità e valutazione - Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 marzo 2006 in materia di certificazione della qualità - Eliminare dubbi e resistenze Qualità come : - *idoneità allo scopo e/o idoneità dello scopo - *conformità (zero difetti) - *soddisfazione dei clienti (una definizione per gli studenti) - *value for money (una definizione per chi investe nell’università) - *trasformazione e miglioramento - *controllo dei processi e della propria organizzazione per il cambiamento migliorativo - *eccellenza (in un “mercato” globale) Qualità come : - *idoneità allo scopo e/o idoneità dello scopo - *conformità (zero difetti) - *soddisfazione dei clienti (una definizione per gli studenti) - *value for money (una definizione per chi investe nell’università) - *trasformazione e miglioramento - *controllo dei processi e della propria organizzazione per il cambiamento migliorativo - *eccellenza (in un “mercato” globale)  Differenza tra valutazione e misurazione Valutazione: - Non si tratta di semplice “misurazione”, concetto che presuppone la disponibilità di riferimenti oggettivi e lascia trasparire l’eliminazione di ogni certezza attraverso la corretta applicazione di metodologie sofisticate - Valutare, invecem implica una componente di giudizio, collegata a una procedura di analisi e di ricerca, che si vale anche di misure, ma non si riduce a queste.  Differenza tra valutazione e accreditamento Accreditamento - Consiste nel riconoscimento di un determinato standard qualitativo (minimo o di eccellenza) ad un programma o ad una istituzione di istruzione superiore, da parte di un organismo a ciò deputato, in seguito ad una procedura di verifica e accertamento di requisiti prestabiliti. - La procedura di accreditamento può prevedere qualche forma di valutazione. VALUTAZIONE MISURAZIONE ACCREDITAMENTO VALUTAZIONE 37 Differenza tra valutazione e sistemi di controllo e di gestione I sistemi o meccanismi operativi della gestione “confinano” con i metodi di valutazione e si prestano a qualche utile connessione e sinergia, ma hanno altri scopi più pratici e immediati, come controllare i costi, incentivare il personale, monitorare l’attività, ma non sono metodi di valutazione in senso pieno e proprio, né la loro presenza basta ad attivare una vera valutazione.  2 Logiche, 2 anime, 2 famiglie di strumenti per la valutazione all’università - Responsabilità - Garanzia - Redicontazione - Verifica dei risultati Sanzione positiva o negativa dei risultati ottenuti (incentivi e discentivi, “premi e punizioni”) - Miglioramento - Apprendimento - Intelligenza - Promozione della qualità Stimolo, incoraggiamento, sostegno, aiuto a cambiare e migliorare il servizio  Criticità del sistema di valutazione nazionale Se prevale l’idea di valutazioni nazionali come contrappeso dell’autonomia riconosciuta alle università e come garanzia per i vari stakeholder, con effetti sul finanziamento, sul riconoscimento e sulla convalidazione di corsi di studi. ALLORA I metodi adottati devono garantire l’affidabilità delle rilevazioni e la loro effettiva e significativa comparabilità Gli organi sia a livello nazionale che di Ateneo devono rispondere all’esigenza primaria di affidabilità ed imparzialità, oltre che naturalmente di professionalità specifica. 40 piano pratico degli interventi, siano essi educativi oppure terapeutici (abilitativi, riabilitativi, di sostegno, etc.). Senza considerare che non c’è una stretta linea di demarcazione tra l’educativo e il terapeutico, Tutt’altro. L’ampiezza e la complessità delle questioni che la riguardano delineano un quadro disciplinare piuttosto poliedrico, rendendola oggetto d’interesse di variegati settori di ricerca scientifica, da quella psicologica a quella medica, da quella pedagogica a quella sociologica. Settori che risultano molto spesso contigui tra di loro, fino ad essere fortemente interconnessi sia nella definizione delle procedure e delle metodologie di ricerca, sia nella formulazione delle proposte a corredo degli esiti stessi della ricerca. Una esemplificazione esplicativa di quanto detto è la notazione che l’attuale dibattito sul tema centrale della disciplina, ossia la valutazione della competenza motoria, trova difficoltà a chiarire su quali basi /teoriche e/o strumentali) sia possibile definire una nuova metodologia per la rilevazione e la misurazione di detta competenza per una sua corretta valutazione (interpretativa e/o di applicazione pratica), stabilendo eventuali analogie o differenze con la tradizionale procedura orientata a misurare la performance quantitativa e qualitativa. La questione è riconducibile, probabilmente, non soltanto ad una mancata (e difficile) definizione epistemologica dei concetti chiave cui essa rimanda (abilità, capacità, competenza), ma anche alla molteplicità dei contesti in cui detti concetti trovano applicazione (formazione, potenziamento cognitivo e comportamentale, addestramento tecnico, pratica ludica e sportiva, etc.). È doveroso, quindi, precisare subito il significato con cui i predetti termini e quelli ad essi correlati vengono qui utilizzati. Termini quali "abilità", “capacità", “competenza”, “potenzialità” molto spesso sono utilizzati in forma ambigua, generalizzata, come sinonimi, seppure sia evidente il loro rimando a situazioni e a contesti esplicitativi di senso e di significato molto differenti tra loro. Assumendo a riferimento il campo specifico della pratica motoria e della sua valutazione, per gli effetti (azioni formative, abilitative, terapeutiche) che ne possono derivare, è da ritenere utile attribuire a ciascuno di essi un significato preciso, così identificabile. È piuttosto frequente il rimando al concetto di "abilità" per indicare il possesso e la padronanza d’uso di una determinata combinazione di movimenti, conformanti uno schema motorio specializzato. Cosicché, il termine indicherebbe sia la possibilità di realizzare una serie di movimenti (potenzialità d’uso), per effetto di un’apposita pratica addestrativa e con un allenamento costante basato sull’esecuzione di esercizi mirati al perfezionamento dell’efficacia e degli automatismi motori (abilità in senso stretto), sia la disposizione a cogliere e a comprendere le caratteristiche e le dinamiche dei movimenti eseguiti o da eseguire per adattarle alla circostanza, alle condizioni e agli obiettivi di riferimento (competenza). Sono abilità motorie, secondo il significato anzidetto del termine abilità, i gesti della danza, dell’attività atletica, delle prestazioni acrobatiche e delle arti marziali, ecc., che si acquisiscono con l’esercizio e l’allenamento. Sono abilità motorie pure i movimenti coordinati della testa, dei piedi, delle mani, del corpo, in generale. Ed ancor più, i gesti della danza, dell’attività atletica, delle prestazioni acrobatiche, delle arti marziali, ecc. In realtà, le abilità motorie vanno ben distinte dalle competenze motorie, che rappresentano il corretto uso segmentario di una parte del corpo in contesti e situazioni generalizzate: ad es., della mano (nella scrittura o nel disegno), oppure dei piedi nella pratica sportiva individuale (nella corsa o nel salto) e in quella di gruppo (nel calcio, ad esempio). Come pure nell’uso coordinato di più segmenti corporei (corpo, mani e piedi) richiesto da molte pratiche sportive (tennis, pallacanestro, etc). L’efficienza e l’efficacia della pratica motoria, come espressione di abilità (ma anche di competenze), non sono casuali ma dipendono dal livello di acquisizione, mediante l’esercizio e/o l’allenamento, di schemi motori complessi e specializzati. È una acquisizione che non è mai lasciata all’improvvisazione, ma va progettata, concretizzata e monitorata nel corso del suo sviluppo, con una valutazione oggettiva delle abilità/competenze motorie già possedute dal soggetto e disposte nel quadro più generale delle sue capacità (termine usato per definire, insieme, la consistenza accertata e le potenzialità di sviluppo delle singole abilità, così da potere stabilire i modi e i tempi delle diverse pratiche motorie per scopi che possono essere tanto educato-formativi, quanto terapeuticocompensativi o riabilitativi, come pure di supporto alla efficienza tecnico- artistica del gesto e/o all’agonismo sportivo.. - Il termine "capacità", invece, nel linguaggio comune, ma spesso anche nelle trattazioni aventi carattere scientifico, è utilizzato per indicare i potenziali di acquisizione e d’uso di schemi motori specializzati. Con la precisazione che esse sono riconducibili a fattori ereditari, ossia determinate soprattutto dal patrimonio genetico posseduto alla nascita. In realtà, il concetto di capacità non è affatto identificabile con quello di potenzialità. Come si è già detto, con riferimento alle abilità, il termine capacità va utilizzato per indicare contestualmente l’insieme delle abilità e delle potenzialità di sviluppo possedute da un soggetto, riguardo l’espletamento di funzioni ben declinate e rappresentate con l’indicazione anche del relativo grado di acquisizione. Il 41 tal modo, un soggetto è raffigurabile come un “contenitore”, un sistema unitario e integrato, che ha una sua specifica capacità (dove il termine è utilizzato al plurale, con il rimando a contenuti diversi: abilità, potenzialità, conoscenze, competenze, etc.) Il termine potenzialità, dunque, dovrebbe essere usato per delineare il possibile livello di sviluppo, anche residuo, di una “funzione” (una abilità), quale quella motoria, rispetto a un modello atteso e compatibile con le condizioni strutturali e funzionali del soggetto di riferimento. È da registrare, però, che nell’uso più comune, come pure in ambito culturale e scientifico, nell’indicare le dinamiche motorie, soprattutto quelle espresse a livello individuale, prevale il significato che lo assimila a quello di abilità o di competenza. Basta citare la distinzione che viene operata all’interno del concetto di capacità, quando si stabilisce la differenza tra “capacità condizionali” e “capacità coordinative”:  le "capacità condizionali" sono quelle legate alla condizione fisica, e costituiscono l'insieme delle caratteristiche biochimiche e morfologiche che definiscono le potenzialità fisiche di un individuo. Esse dipendono dal grado di sviluppo degli apparati dell'individuo, e sono quindi "strutturali", cioè sono parte della struttura genetica.  le "capacità coordinative", sono quelle che consentono all'individuo di calibrare e regolare la dose del movimento, ovvero di eseguire un gesto nella maniera più composta ed economica. Esse dipendono dal grado di efficienza del sistema nervoso e degli organi sensoriali, e sono pertanto "funzionali", ossia legate alla funzionalità del sistema nervoso. Le prime, indicate come capacità condizionali, sono, in effetti, caratteristiche strutturali, del sistema di esplicitazione della motricità, mentre le seconde, indicate come capacità coordinative, sono abilità/competenze funzionali del sistema nervoso, necessarie a regolare la qualità del gesto motorio. Infine, il termine “competenza motoria”. Termine che è motivo di forte ambiguità d’uso, non solo per la polisemia dei suoi significati (diverso per ciascun ambito scientifico-disciplinare e nei vari contesti istituzionali di riferimento), ma anche per le implicazioni metodologiche che esso comporta. Nonostante detta difficoltà d’uso, sembra oggi stabilirsi una certa convergenza sull’assunzione di una sua accezione che rimanda al possesso di una padronanza nell’uso integrato ed adattivo (in contesti anche diversi e/o implicanti azioni che vanno anche oltre la semplice pratica esecutiva) di conoscenze e di abilità. Una padronanza che permette di declinare un’efficace coniugazione tra sapere, saper fare, saper essere. Invece, capita di vederlo usato per indicare il possesso, da parte della persona, della capacità di esibire comportamenti adeguati ad un vasto spettro di azioni e situazioni, facendo leva su un repertorio di abilità motorie, tecnico-sportive e mimico-gestuali, conoscenze e disposizioni individuali (motivazioni, autoefficacia percepita). La competenza, quindi, è concepita come una estensione della capacità. Concordiamo perfettamente con il Pellerey, quindi, nel sostenere, in modo più estensivo, che una competenza si esprime quando si riesce ad attivare e coordinare un insieme di conoscenze, abilità, comportamenti ed atteggiamenti personali, al fine di svolgere positivamente il compito o l’attività prescelta, sapendo anche individuare, utilizzare e coordinare risorse esterne, contesti e situazioni. 2 In buona sostanza, la competenza scaturisce, grazie all’esercizio sistematico di esperienze complesse, da atti intenzionali finalizzati alla relazione e/o alla comunicazione. Atti basati sulla combinazione coordinata e integrata di conoscenze e di abilità e supportati dal coinvolgimento attivo delle componenti psichiche, quali: volontà, emotività, affettività, motivazioni, etc. È questa combinazione dinamica tra componenti psico-mentali e corporeità che consente al soggetto e/o al gruppo (in situazioni ludiche o sportive) di affrontare, in modo consapevole, contesti vari e situazioni diverse, variando opportunamente (in funzione degli obiettivi) le strategie d’azione. Per esemplificare, in termini operativi, quanto fin qui argomentato, vengono qui proposte delle tabelle, utilizzabili per declinare e/o per codificare, in sede anche diagnostica e terapeutica, alcuni degli aspetti propri della motricità riferita, ad esempio, ad una particolare prestazione. 42 La pluralità di dette variabili e la molteplicità della loro combinazione, nella progettazione e nella gestione di atti motori, rendono abbastanza composita e problematica la possibilità di pervenire a una condivisa chiave di lettura e di interpretazione valutativa di detti atti, seppure di notevole aiuto, in questa direzione, sia la classificazione stadiale dello sviluppo umano (vedi ad es. la formulazione di J. Piaget). Una classificazione che consente di rapportare i modi e i tempi della maturazione motoria nel costituirsi della personalità nel corso dell’età evolutiva. Percorso di maturazione che aiuti a comprendere anche le dinamiche comportamentali dell’età adulta. Ciò che appare certamente condivisibile, in questo quadro, la necessità di fornirsi di un sistema di rappresentazione, sperimentalmente testato e convalidato, delle variabili che entrano in gioco nella gestione della motricità, come insieme di atti volontari finalizzati, connessa con i diversi contesti della sua espressione. Una esigenza, questa, che trova giustificazione soprattutto nella presa d’atto che l’atto motorio in sé non dice nulla al suo osservatore: non chiarisce la sua coerenza o meno con le condizioni 45 comprenderla, di rispondervi. E' nell'atto della organizzazione ed esecuzione della "risposta", dunque, che il movimento acquista una valenza soggettiva, poiché da atto percepito si trasforma in "situazione pensata", la cui attuazione è un atto di verifica che coinvolge l'intera realtà psicofisica individuale. E', perciò, nell'atto del "controllo" della risposta che il soggetto identifica se stesso e la sua proiezione nello spazio e nel tempo. Un controllo che è, insieme, condizione di relazione ed esito apprenditivo”.4 “Esiste, dunque, una stretta correlazione tra movimento corporeo e attività della mente. La strutturazione e la funzionalità della mente stessa dipendono dal modo di oggettivarsi del corpo come unità di relazione con lo spazio e nello spazio. In sostanza, il movimento (come atto motorio) è espressione di ciò che l'individuo percepisce e pensa nel rapporto tra sè ed il suo ambiente, ma è anche manifestazione della vitalità dello spazio. Il manifestarsi del movimento nello spazio è motivo di problematizzazione per l'individuo e dà luogo all'organizzazione delle strutture senso-percettive ed emotivo-affettive che partecipano al processo elaborativo della conoscenza. Un processo, questo, che troverà consolidamento nella capacità di memorizzazione del movimento stesso, da cui deriva la progressiva capacità di rappresentarsi l'ipotetica utilizzazione, per la soluzione dei problemi di relazione, e da qui lo strutturarsi della dimensione temporale del pensiero che rende l'individuo capace di superare il limite stesso della realtà e della sua esistenzialità”. Attraverso l’atto motorio ciascuno esprime stati di piacere, di conflittualità, paure, fobie, bisogni, interessi, soggettività ed efficienza operativa, etc.. Tutti elementi, questi, che conformano la personalità. Non a caso questa “rappresenta la risultante imitaría ed integrale delle condizioni oggettive di mediazione individuale con le problematiche ambientali, nelle sue diverse accezioni di materialità, socialità e cultura”. “E' nell'ambito della definizione di tali condizioni, perciò, che possiamo cogliere l'importanza data dal sistema formativo, ed in particolare dalla scuola, al modo di esprimersi e di articolarsi del movimento nell'arco dello sviluppo individuale, oltre che alla sua incidenza nella maturazione delle diverse componenti della personalità; ma, anche al suo modo di rendersi problematizzante e, quindi, oggetto di conoscenza. Non a caso, l'intero processo apprenditivo è correlato, se non subordinato, l'esprimersi e allo strutturarsi del movimento, soprattutto nel periodo dello sviluppo quando l'attività apprenditiva è più dinamica, più intensiva e più produttiva”. L’atto motorio come risposta ai bisogni Ogni essere umano ha un proprio modo, del tutto peculiare, di relazionarsi con il contesto di appartenenza, elaborando e manifestando proprie modalità adattive e/o reattive, mediante azioni motorie. In linea generale, gli atti motori rappresentano l’insieme delle scelte operative (delle azioni) che l’individuo elabora e mette in campo per la gestione del sé, per il raggiungimento degli scopi e/o delle finalità dei gruppi di appartenenza (ad es., nei contesti aggregativi, ludici e/o sportivi), come anche per l’adattamento della realtà alla soddisfazione di specifici bisogni. E’, dunque, soprattutto lo stato di bisogno, nelle sue diverse connotazioni, che mette in moto le risposte motorie allo scopo di stabilirne il superamento e/o il soddisfacimento. La definizione dei bisogni è, dunque, una necessità sia per comprendere la natura degli atti motori in un soggetto, sia per definire, progettare ed eseguire modalità d’azione inquadrabili in ottiche diverse, da quella educativa a quella terapeutica, fino a quella delle elevate prestazioni in ambito atletico e sportivo. Per la delineazione di detti bisogni, un ottimo schema di riferimento è la Scala piramidale proposta da Maslow. Come si può rilevare, nella scala sono riportati i molteplici bisogni umani attribuendo ad essi una collocazione articolata su più livelli di sviluppo: alla base sono posti quelli che sono legati alla sopravvivenza dell’essere umano (quali il respirare, l’alimentarsi, il riposarsi), mentre al vertice sono collocati quelli a più elevato livello di sviluppo, ossia quelli riguardanti la ricerca dell’autorealizzazione e la spiritualità. In sostanza, il movimento, come atto motorio umano, soprattutto se è sostenuto dalla volontà e dalla intenzionalità, rappresenta il modo con cui 46 un soggetto affronta un bisogno con l’obiettivo di superarlo per gratificarsi. È un modo di risposta che è del tutto personale, seppure sia inquadrabile in modelli generali di rappresentazione. Con l’atto motorio, dunque, l’identità personale ha modo di esplicitarsi nella sua specificità e peculiarità, acquisendo i caratteri della espressività e della comunicatività. Bisogna, però, ricordarsi che esso non è affatto stabile, maza come pure di ina, tende a modificarsi nel tempo, con lo svolgersi degli apprendimenti e delle esperienze, come anche per la modificazione, anche profonda, della struttura corporea, da quella muscolare, a quella neurologica, da quella scheletrica a quella psico- mentale e a quella endocrina. Certo, ognuna di queste componenti incide in modo diverso nella gestione della motricità (sia essa automotivata oppure richiesta dal contesto di vita relazionale) e con livelli differenziati di esito, determinando la specificità prestazionale, in termini di efficienza, padronanza, competenza, costanza, come pure di inadeguatezza, irregolarità, precarietà, immaturità, disabilità. Di qui, il convincimento che la corretta conoscenza delle dinamiche del suo esprimersi e la comprensione e valutazione dell’incidenza che hanno le diverse variabili (strutturali e funzionali del corpo) nel costituirsi e manifestarsi di queste dinamiche, rivestono un significato e una rilevanza pratico-operativa di indiscutibile valenza pedagogica e, quindi, culturale e sociale.  Gli ambiti di ricerca sulla motricità. L’ambito psicologico lezione 23  La multifattorialità dell’atto motorio La base argomentativa di questa lezione è riconducibile alla notazione che il movimento è soggetto ad essere rilevato (a livello plurisensoriale), pensato (interpretato, elaborato, progettato, finalizzato) e agito in funzione di uno scopo (personale e/o sociale). È, quindi, soggetto al lavoro della mente, alla maturazione dell’intelligenza e allo svolgersi dell’esperienza. In effetti, ogni attività motoria non rappresenta solo l’esito esclusivo dell’azione mentale, soprattutto di quella parte che è preposta al controllo e alla gestione dei movimenti, ma è espressione composita e integrata di essa e degli apporti forniti da tutte le altre componenti corporee. Il suo costrutto concettuale (qualitativo e quantitativo) rappresenta, perciò, l’esito complessivo delle interazioni e degli apporti forniti da ciascuna di esse alla elaborazione e alla esecuzione del movimento stesso. In questo processo elaborativo ed esecutivo entrano in gioco e a vario titolo, secondo la tipologia del movimento stesso, l’apparato muscolare e scheletrico, il sistema cardiocircolatorio e respiratorio, lo status psicologico e il livello di maturazione intellettiva, la funzionalità del sistema vestibolare1 e del sistema endocrino, etc. Ne deriva che, affinché l’atto motorio trovi un suo meccanismo espressivo in termini di funzionalità rispetto allo scopo cui è destinato, è necessaria l’integrazione armonica tra gli apporti di tutte le predette componenti. La disfunzionalità di una sola di dette componenti influenza, spesso anche in modo significativo, la qualità e l’efficienza del movimento nel suo insieme. Il movimento umano, in sé, non è una semplice prerogativa di funzionalità connaturata con la specie, innata, autoreferenziale, ma implica, nel suo progressivo perfezionarsi in termini qualitativi di efficienza e di efficacia rispetto ad una sua finalizzazione, il perfezionarsi degli schemi motori (soprattutto di quelli specialistici), da una parte, e l’attivazione di coerenti processi di connessione tra schemi diversi, attraverso i meccanismi mentali di gestione del movimento stesso (intenzionalità, finalizzazione, monitoraggio e controllo del movimento stesso), dall’altra. Affinché detto meccanismo si renda efficace, soprattutto con l’esercizio degli automatismi che ne riducono i tempi di esecuzione e di controllo, è necessario che il soggetto impari ed abbia la possibilità di “rappresentarsi” l’azione motoria prima che questa venga eseguita, per rapportarla a uno scopo ben definito (prestazione). È soprattutto la riuscita dell’atto motorio, cioè il raggiungimento dello scopo, che consente di fissare in memoria i meccanismi messi in atto, perché ritenuti utili, costruendo corrispondenti schemi motori di lavoro, da attivare con gli automatismi di esecuzione ogni qual volta si ritiene che essi siano utili (in funzione, cioè di uno scopo personale e/o sociale). Come ha dimostrato il costruttivismo e, soprattutto, il Piagèt, la fase più importante dello sviluppo mentale che rende possibile lo svolgersi di detto processo è quella in cui l’intelligenza sensomotoria viene a consolidarsi lasciando spazio all’evolversi dell’intelligenza rappresentativa. È una fase, questa, in cui si assiste al superamento del condizionamento percettivo e si manifesta la disposizione a ricorrere a “strumenti di supporto” per lo svolgimento delle azioni (ad esempio, il soggetto che vuole avvicinare a sé un oggetto ricorre all’uso di un bastone, oppure utilizza una scopa per cavalcarla simulando con essa il cavallo). Con l’evolversi dell’età, detto processo maturativo è soggetto a una progressiva implementazione, grazie all’uso del linguaggio (Vygotskij). Mediante il linguaggio, infatti, il soggetto non solo è in grado di controllare e di declinare situazioni diverse in funzione di scopi normalmente correlati ai suoi stati di bisogno e/o di interesse, ma impara anche a svolgere azioni connettendole con le variabili spaziali (avanti-dietro, destra-sinistra, sopra-sotto, alto-basso) 47 e le variabili temporali (prima-dopo, presente, passato e futuro). È la fase, questa, che si svolge tra i 2 e i 7 anni e in cui prendono corpo i cosiddetti “giochi simbolici”, grazie ai quali il soggetto umano riesce a superare il proprio egocentrismo (l’essere al centro di ogni atto) per approdare al “pensiero sociale” e mettere in atto comportamenti (gesti e movimenti) socialmente finalizzati e accettati. Ciò anche grazie al passaggio, nel corso della stessa fase, della rappresentazione mentale che è in grado di procedere oltre il realismo percettivo per assumere il potere immaginativo. Nella sostanza, si può affermare che l’essere umano coglie la realtà ed elabora le sue conoscenze grazie al movimento e, nello stesso tempo, la conoscenza e la padronanza d’uso di esso sono condizioni fondamentali dell’agire (personale e sociale) e dell’approdo a sempre nuove conoscenze.  Una chiave di lettura della motricità: quella psicologica Nella interpretazione della motricità e nella rappresentazione di essa nei diversi contesti culturali e scientifici della sua applicazione (psicomotricità, sociomotricità, formazione sportiva) sono individuabili tre distinti ambiti di indagine, i quali però, come si è già detto, possono trovare una sostanziale unitarietà di riferimento se collocati in una logica pedagogica, la quale ha come oggetto privilegiato la formazione della persona nella sua duplice caratterizzazione: individuale e sociale. Detti ambiti d’indagine sono relativi a tre diverse modalità di ricerca scientifica, da cui scaturiscono peculiari e autonomi sistemi codificativi disciplinari, e più precisamente: - la psicologia; - la neuro-fisiologia; - la sociologia. Ciascuna, con una sua peculiarità epistemologica, contenutistica, metodologia, strumentale, legata ai modelli d’indagine che le sono propri e in stretta correlazione con i campi della sua applicabilità in contesti reali dove sono necessari atti di relazione motoria. In linea generale, si può affermare che il movimento corporeo (motricità), nelle sue varie forme, ha una individuale specificità manifestativa, le cui componenti strutturali hanno origine ereditaria, ma la cui funzionalità, anche in termini di potenziamento qualitativo e quantitativo, dipende dall’apprendimento e dalla continuità della sua applicazione (con l’esercizio e l’allenamento). È stato dimostrato, infatti, che per il suo esercizio vengono coinvolte, in modo combinato e integrato, tutte le componenti corporee (fisiche, psichiche, neurologiche, scheletriche, muscolari, endocrine, etc.) e che le prestazioni motorie sono più efficaci e consistenti nel corso dell’età evolutiva e nelle fasi immediatamente successive dello sviluppo, mentre tende a regredire progressivamente con l’avanzare dell’età adulta. Per comprendere quali siano le componenti attive che regolano il comportamento umano nella espressione motoria, come atto di relazione o di mediazione tra il sé corporeo e l’ambiente di vita, è certamente utile prendere in considerazione il processo attraverso il quale la motricità prende forma e consistenza nella sua fase evolutiva. Un processo che, nel corso dello sviluppo della ricerca scientifica in ambito psicologico, ha avuto diverse interpretazioni e valutazioni, secondo la matrice culturale di riferimento. Tutte, però, confluenti in una metodologia rappresentativa comune, quella stadiale. Una metodologia che ha la sua fonte originaria in J. Piagèt, e che in tempi recenti ha trovato ampia conferma e approfondimento. Meinel & Schnabel (1977)2 , ad esempio, hanno individuato tre fasi dell’apprendimento motorio: 1. Fase di coordinazione grezza 2. Fase di coordinazione fine 3. Fase di disponibilità variabile La prima fase, quella della coordinazione grezza, ha vari stadi manifestativi: ha un primo livello di sviluppo nei primi tre anni di vita. Successivamente a questa età si assisterà ad un suo progressivo consolidamento, per poi incrementarsi repentinamente dopo i 7 anni fino ai 10-13 anni, età in cui si manifesterà una certa stasi che durerà fino ai 15 anni quando riprenderà con deciso vigore, grazie all’aumento del tono muscolare, della rapidità di esecuzione e della abilità di controllo. Detta fase si attiva con la proposta di uno o più schemi motori che inducono il soggetto ad una risposta di esecuzione grossolana (per tentativi ed errori e/o per imitazione) con un’alta frequenza di errori e/o di imprecisioni. La seconda fase, quella della coordinazione fine, è rappresentata dal miglioramento 50 personalità, nel suo insieme. I processi di costruzione dell'immagine corporea non avvengono soltanto nel campo della percezione, ma hanno anche i loro paralleli nella costruzione del campo libidico ed emotivo. Gli oggetti d'amore esterni, le nostre relazioni con essi e i loro atteggiamenti verso di noi sono a questo punto di enorme importanza".5 Si deve a Henry Wallon, tuttavia, il merito di avere fornito un quadro di sintesi concettuale che declina lo sviluppo della personalità assumendo a riferimento la costruzione dello schema corporeo. Egli afferma, infatti, che la rappresentazione più o meno globale, più o meno specifica e differenziata che il soggetto ha del proprio corpo rappresenta un elemento di base indispensabile alla costruzione della propria personalità. Di questo processo evolutivo il Wallon indica tre momenti fondamentali: 1. il tempo che intercorre dalla nascita ai tre anni. È la fase identificabile come "periodo del corpo vissuto". In questa fase “il comportamento motorio è globale e le sue ripercussioni emozionali sono potenti e non controllate (espressione spontanea). Il bambino procede per prove ed errori: metodo che gli permette di acquisire dei modi di comportamento usuali. Vi si riscontra il passaggio dai primi riflessi alla marcia ed alle prime coordinazioni motorie, grazie al dialogo tonico madre-bambino prima chiuso e poi aperto”; 2. la fase della "discriminazione percettiva", che va dai tre ai sette anni. “Durante tale stadio evolutivo, nel bambino si sviluppa la capacità di controllo posturale e respiratorio, si affermano la lateralità e la conoscenza della destra e della sinistra. Egli passa da uno stato globale e sincrético ad uno delle differenziazioni ed analisi. In questa fase, ha anche acquisito una buona conoscenza della totalità del suo corpo. Anche se il suo tono muscolare non è ancora sviluppato, egli può assumere e non conservare a lungo degli atteggiamenti per imitazione e, in seguito, di ordine verbale;” 3. la fase dell'organizzazione definitiva dello schema corporeo, che interessa il periodo che va dai sette e i dodici anni, durante la quale il soggetto “ha la possibilità di rilassamento globale e segmentario, può passare dalla conoscenza di sé a quella delle persone che gli stanno intorno e, quindi, può sviluppare la capacità di apprendimento e di relazione socializzanti col mondo esterno (Wallon, 1967).” Affinchè detto processo si realizzi nel modo migliore è necessario che il soggetto abbia una conoscenza precisa della propria corporeità e stabilisca una corretta relazione tra la conoscenza del proprio schema corporeo e lo spazio dove egli compie i movimenti. Concetto questo che verrà ripreso da K. Lewin e che darà luogo alla sua teoria dello “spazio vitale”. Il Lewin afferma, infatti, che “il bambino, attraverso il movimento, conquista spazi sempre più ampi (casa, giardino, scuola), scoprendo, in questo modo, realtà e rapporti sociali utilissimi per la sua maturazione intellettuale. E', dunque, da considerare particolarmente importante il rapporto tra individuo e ambiente, in quanto determina, sulla base delle modalità relazionali, l'origine della produzione soggettiva del sociale. Il bambino è sempre teso ad esplorare la realtà che ha intorno, adattandovisi ed esprimendo, così, il sociale. In questo modo interiorizza e personalizza la complessità delle espressioni dell'uomo. Egli impara, quindi, a conoscere il suo modo plurale di essere, anche attraverso i suoi movimenti e, di conseguenza, l'uso socializzante che egli stesso ne fa.” 9 Un ulteriore contributo sull’importanza dell’acquisizione dello schema corporeo per lo sviluppo delle conoscenze e per la gestione delle dinamiche relazionali è quello fornito da Milton Erickson il quale ricorre all'espressione "identità dell'Io" per designare il nucleo centrale della personalità individuale. Secondo la sua teoria, “ogni bambino è dotato di pulsioni autonome che interagiscono con il suo ambiente in modo tale che alla fine emerge l'Io. Il senso dell'Io non è innato, ma affiora con il passare del tempo. Tale processo evolutivo si sviluppa attraverso una serie di fasi che Erickson considera universali in tutti gli uomini, di tutte le culture ed in ciascuna delle quali l'Io emergente viene messo di fronte ad un "compito". Lo sviluppo normale prevede la risoluzione di un problema,prima che si ponga quello relativo alla fase successiva. L'uomo entra comunque e sempre in relazioni di coppia, di gruppo, di dimensioni sociali sempre più ampie, mettendo in rapporto il proprio essere soggettivo con l'essere soggettivo degli altri.”10 Attualmente, come ha bene evidenziato S. Sica, “anche la ricerca pedagogica è riuscita a dimostrare come la padronanza del proprio corpo influenzi notevolmente l'apprendimento, favorendo le capacità espressive e di ragionamento. Quest'ultime permettono, infatti, di entrare con più possibilità di successo in rapporto con il mondo degli altri.” 11 Tra l’altro, continua Sica, “la nozione di corpo proprio non è, per il bambino, un dato fisico immediato e primitivo, ma necessità della preliminare integrazione tra i vari ambiti funzionali o, se vogliamo, le varie sensibilità.” 51  Sviluppo cognitivo e risposta motoria lezione 24 1 Sviluppo cognitivo e risposta motoria La ricerca psicologica, anche quella più attuale, ha dimostrato che la relazione soggettoambiente è regolata con l’organizzazione e la strutturazione di schemi mentali d’azione. Organizzazione e strutturazione che prende avvio già con i primi riflessi motori, per poi perfezionarsi e svilupparsi nel corso dell’età evolutiva, fino ad assumere connotazioni specialistiche per conseguire obiettivi anche complessi, rispondenti a bisogni individuali e/o sociali. È stato dimostrato, altresì, che questo processo evolutivo si accompagna al progressivo sviluppo delle strutture corporee e al maturare delle corrispondenti funzioni. Un processo che viene ad essere potenziato mediante la continuità e la sistematicità del suo esercizio, trovando varie forme di applicazione in situazioni di esperienza. In tal modo, gli schemi mentali diventano delle vere e proprie “strutture operatorie”. Il Piaget, a conferma di quanto aveva rilevato Claparède, ha spiegato che la costruzione degli schemi mentali d’azione scaturisce dalla necessità individuale di affrontare e risolvere “bisogni”. Sono i bisogni che spingono all’azione, che dovrà essere sempre più efficace, cioè sempre più funzionale al loro soddisfacimento. In particolare il Piaget ha notato che gli schemi mentali d’azione variano con una sequenza ordinata di comparsa, riconoscendo in questa sequenza una continuità genetica o funzionale. Detta continuità, seppure possa interessare età diverse, è costante nella specie umana, per cui è rappresentabile in “stadi evolutivi”. Cosicchè, assumendo a riferimento detti stadi, è possibile stabilire rilevazioni diagnostiche sullo stato psico-fisico di ciascun soggetto e di progettare specifici e correlati modi d’intervento educativo, abilitativo, riabilitativo, formativo, etc. In modo abbastanza sintetico, gli stadi dello sviluppo cognitivo sono così rappresentabili: 1. Stadio dell’intelligenza senso-motoria (0-2 anni), antecedente allo sviluppo del linguaggio; 2. Stadio preoperatorio (2-6/7 anni); 3. Stadio delle operazioni concrete (6/7-11 anni); 4. Stadio delle operazioni formali (11 anni in poi). Ed è nel corso dello sviluppo dei primi tre stadi (0-11 anni) che prendono progressivamente forma e si strutturano le abilità di relazione motoria, attraverso un passaggio importante che va dalla forma grosso-motorio a quella sempre più organizzata e specializzata che consentirà di padroneggiare le conoscenze e faciliterà la comunicazione.  Le abilità grosso-motorie Si deve al Piaget (1952) il riconoscimento del ruolo fondamentale che la motricità ha per lo sviluppo delle abilità cognitive nell'uomo. In presenza di una limitata attività motoria si registra sempre uno sviluppo lento, se non addirittura ridotto, della maturità cognitiva. È durante i suoi primi anni di vita che il bambino compie le sue esperienze di interazione con il suo mondo esterno (strisciando, rotolando, camminando carponi, fino a camminare in forma eretta), cogliendone le caratteristiche fondamentali e sperimentando le proprie attitudini e abilità. Attività, queste, che creano le premesse per la conquista dei successivi apprendimenti che aprono gli spazi a una più funzionale e armonica espressione e relazione motoria, quali l’abilità nella danza e nello sport. Nella pallacanestro, così come nel calcio e in altri sport, ad esempio, l’atleta deve saper padroneggiare le abilità grosso-motorie basilari del ricevere e lanciare una palla, e anche del correre velocemente in varie direzioni, oppure evitare il contrasto fisico con l’avversario. Se un soggetto ha sviluppato un alto grado di efficacia nelle abilità grosso-motorie di base è sicuramente facilitato nel comprendere e nel gestire i movimenti legati alla specificità degli atti motori richiesti da una certa pratica sportiva, trasformando gradualmente dette capacità in competenze d’uso. Inoltre, è ampiamente dimostrato che la conquista della padronanza delle abilità grosso-motorie incide profondamente non solo sulla percezione e sulla rappresentazione del sé, ma anche sul controllo intenzionale delle abilità sociali (Gallahue, 1982; Williams, 1983). È facile rilevare, ad esempio con il test sociometrico di Moreno, che i soggetti meno dotati sul piano del controllo motorio risultano candidati all’emarginazione e all’esclusione nelle attività comuni. Ancor più tale situazione si rende evidente in un contesto di adulti. Ed è di per sé evidente che la condizione di emarginazione o di esclusione prepara il terreno non solo per il rifiuto di una migliore espressività motoria, ma anche per l’esprimersi di 52 esplicite disuguaglianze sociali. Il che non è concepibile in una società, quale la nostra, che vuole essere partecipata, libera, inclusiva, democratica.  Gli schemi motori La esteriorizzazione dei movimenti del corpo umano, che declinano la presenza o meno di abilità grosso-motorie, non avviene per caso, ma ubbidisce a una serie di schemi che maturano in successione tra loro e che corrispondono all’evolversi dello sviluppo psico-motorio individuale. È sulla base di detti schemi che il soggetto organizza, gestisce e controlla i propri movimenti per esprimersi e comunicare. La loro classificazione è ordinata, normalmente, in tre livelli di sviluppo: 1. schemi motori statici (movimenti fondamentali); 2. schemi motori di base; 3. schemi motori specializzati;  Gli schemi motori statici La elaborazione, il coordinamento e la gestione dei movimenti del corpo umano sono espressione di un agire estremamente intricato ma funzionale. Innanzi tutto il cervello deve analizzare e catalogare le informazioni che riceve dagli organi di senso coinvolti, stabilendo così, in maniera multipla, quale sia il contesto di riferimento motorio, ossia quali siano gli elementi che entrano in relazione e/o la loro posizione, rispetto al corpo e a uno scopo, così da tradurre tali informazioni spaziali in comandi opportunamente inviati ai muscoli interessati, gli unici organi in grado di consentire l'effettivo movimento. I principali organi di senso che forniscono al cervello informazioni spaziali sono la vista, il tatto, l'udito, e le loro informazioni sono plurime anche in un solo istante, in quanto l'integrità multisensoriale favorisce una più completa rilevazione di presenze, di posizioni e di dinamiche di interattività. Tra tutti i possibili movimenti espletabili dall'essere umano esistono i cosiddetti "movimenti fondamentali", vale a dire espressioni motorie che coinvolgono una sola articolazione, senza prevedere uno spostamento globale del corpo; pertanto sono anche definiti "schemi motori statici". Ne sono esempio i movimenti di adduzione e abduzione, di flessione ed estensione, di circonduzione, di oscillazione, ecc.  Gli schemi motori di base La motricità, che ha inizio già nel grembo materno, si consolida, già a cinque anni, in uno schema corporeo che consente di raffigurare il proprio corpo, conferendo consapevolezza e coscienza nel movimento. Si chiamano "schemi motori di base" le principali forme di espressione della motricità, i movimenti essenziali che l'uomo utilizza per spostarsi, relazionarsi coi suoi simili e con l'ambiente circostante. Sono esempio di schemi motori di base i movimenti più consueti e spontanei compiuti dall'uomo, come: camminare, correre, saltare, arrampicarsi, rotolare. Essi costituiscono, dunque, la condizione stessa del movimento intenzionale e la base strutturante delle abilità motorie. Abilità che nel tempo diventano sempre più specifiche e specializzate, grazie al perfezionarsi (qualitativo e quantitativo) di questi schemi per effetto delle loro interazioni con le varianti esecutive del movimento stesso (coordinative, condizionali, temporali, spaziali, quantitative, qualitative, etc.) Per detta ragione, detti schemi sono definiti pure "schemi motori dinamici", perché, a differenza degli schemi motori statici, incidono sul movimento complessivo del corpo.  Gli schemi motori specializzati Gli schemi motori che sono finalizzati al raggiungimento di uno scopo ben definito, quale quello riferibile ad una particolare pratica sportiva, sono indicati come "schemi motori specializzati". Facendo ricorso a detti schemi, l’essere umano progetta e realizza le sue azioni (motorie e relazionali) esercitando nel modo più efficiente possibile l’insieme delle abilità, conoscenze e competenze possedute, le cui dinamiche manifestative, correlate con l’esito prodotto, configurano ciò che viene unitariamente definito con il termine “prestazione”. Recentemente, D. Colella ha 55 strutture sovrapposte e da una successiva rielaborazione dei piani di struttura in nuove integrazioni. Il modello vale per tutti i sistemi di gestione della conoscenza e della comunicazione, incluso il linguaggio. Il riferimento a questa specifica variabile (il linguaggio, appunto) non è casuale, dal momento che essa favorisce, meglio di altre variabili, la descrizione del rapporto tra strutture e funzioni cerebrali, tenendo conto che le funzioni sono organizzate e gestite da una struttura nervosa composita, il cervello, che si presenta distinta in due emisferi (destro e sinistro) collegati fra loro da fasci di fibre. L’emisfero destro viene configurato quale sede specifica delle rappresentazioni che si riferiscono a sensazioni, ad immagini e significati non verbali della comunicazione. In esso si sviluppa il pensiero creativo ed i suoi processi elaborativi sono rapidi e paralleli, cioè attivi simultaneamente (per questo sono anche detti olistici). Un esempio di tale attività non verbale sono le percezioni visuo-spaziali, spesso definite analogiche. All’emisfero sinistro, invece, sono attribuite le funzioni logiche e il controllo del linguaggio verbale. I processi che vi si sviluppano sono relativamente lenti, lineari, attivi sequenzialmente, perché tempo-dipendenti. In un certo senso, si potrebbe sostenere che l’emisfero destro riproduce fedelmente il mondo nelle sue molteplici caratterizzazioni e manifestazioni, mentre l’emisfero sinistro provvede alla sua elaborazione in unità di informazione che, sottoposte ad una ulteriore elaborazione mentale, consentiranno di attribuire alla realtà una valutazione di significato e, quindi, richiedenti specifiche forme di risposta. Le funzioni cerebrali Le informazioni sulla realtà esterna sono acquisite dal cervello mediante i canali percettivi (visivi, uditivi, olfattivi, gustativi, tattili) non sono mai assolutamente oggettive. Infatti esse verranno integrate (accomodate, direbbe il Piagèt) con l’insieme delle conoscenze già possedute in memoria, interpretate alla luce delle variabili intrapsichiche (idealità, emotività, sentimenti, interessi, bisogni, attese, inconscio, etc.) e utilizzate come indicatori di riferimento nella gestione degli atti comportamentali, sulla base soprattutto di scelte intenzionali. In sostanza, è la funzione senso-percettiva a mettere in relazione l’uomo con l’ambiente, oltre che con la sua dimensione interna. L’esercizio di detta funzione consente l’acquisizione di informazioni dal mondo esterno, le quali, attraverso i molteplici canali sensoriali, raggiungono i centri nervosi per essere adeguatamente elaborati e integrati a quanto già posseduto. Esse, dunque, costituiscono gli elementi di base sui quali viene ad essere organizzata la conoscenza che ciascuno possiede di sé e del mondo in cui vive. Grazie all’esercizio di questa abilità, fisiologicamente determinata, l’essere umano crea un costante e continuo rapporto con il versante intrapsichico di se stesso e quello esterno, e questa doppia relazione gli permette di raccogliere ed organizzare i dati della realtà (Cfr. Areale 2004) per stabilire forme adeguate di risposta. Attraverso il processo percettivo, un incessante e variegato flusso di stimoli entra nel campo della nostra coscienza e produce sensazioni come suoni, odori, sapori, colori, forme e dimensioni degli oggetti, temperature, impressioni tattili, secondo una gamma pressoché infinita di qualità ed intensità. I momenti cruciali grazie ai quali si svolge il processo percettivo sono: 56 - la sensazione; - la percezione; - la rappresentazione. Con la sensazione avviene il contatto tra le componenti interne corporee e l’ambiente. Un contatto che, grazie al processo biologico della stimolazione dei recettori sensoriali periferici, determina, a livello psichico, la presa d’atto e la rappresentazione di dati di conoscenza della realtà. Da questa assunzione scaturisce il processo che da luogo alla esperienza percettiva, ossia all’integrazione della sensazione con gli elementi intrapsichici, mnestici ed esperienziali. La percezione, dunque configura il processo mentale con cui avviene il riconoscimento attivo dei dati oggettivi della realtà, di identificarne la specificità di contenuto e forma, di discriminarne i caratteri e di classificarli mentalmente in apposite categorie d’appartenenza. Dunque, il processo percettivo si realizza grazie all’azione della mente ed alla sua elaborazione sintetica ed integrativa dei dati sensoriali, che vanno a strutturarsi nel vissuto esperienziale della persona. In detto processo di integrazione, la rappresentazione è l’atto mentale con cui si realizza l’anzidetta strutturazione. Ciò anche grazie alla memoria. La rappresentazione, quindi, è una riproduzione mentale della realtà, basata su esperienze percettive pregresse, grazie alla quale si possono ricreare (mentalmente) le caratteristiche di un oggetto nello spazio e nel tempo, indipendentemente dalla sua concreta esistenza. Per questo motivo, la rappresentazione mentale consente al pensiero di rendere presente il passato e di proiettarsi verso il futuro.1 Esistono dunque differenze significative fra l’esperienza percettiva e l’esperienza rappresentativa, perché l’oggetto rappresentato, diversamente da quanto avviene per l’oggetto percepito, non possiede una forma ben strutturata, stabilmente definita. L’oggetto rappresentato presenta caratteri di minore precisione formale, rispetto all’oggetto percepito, perché è meno nitido e preciso, meno stabile e costante, essendo questo il prodotto dell’attività elaborativa della mente. 2 L’esito delle stesse funzioni sensoriali si modifica in relazione alle componenti intrapsichiche, sino a rendere presenti e reali anche oggetti, soggetti e situazioni che non esistono affatto. Tutti i bisogni, soprattutto quelli organici, tendono a condizionare l’atto percettivo. Così pure determinano un condizionamento le esperienze pregresse, quelle proprie e quelle condivise con altri soggetti. Ogni individualità tende ad essere coerente con se stessa, nei propri giudizi percettivi, proprio perché la percezione è frutto anche della propria identità.  La corteccia cerebrale Composta da complessi aggregati di cellule nervose (sostanza grigia), la corteccia cerebrale è la sede delle più elevate funzioni psichiche ed è organizzata in centri corticali, con funzioni diverse: motorie, sensitive, associative, ecc. Dal punto di vista filogenetico si distinguono tre tipi di corteccia cerebrale: 1 la neocortex, la parte più esterna, sede delle funzioni più evolute; 1. l’archicortex (ippocampo); 2. il paleocortex (lobi olfattivi). Il neocortex comprende diversi “lobi” (frontale, parietale, temporale, occipitale). La funzione motoria è svolta da quella parte della corteccia, indicata come corteccia motoria e situata nel lombo frontale, che è coinvolta nella pianificazione, nel controllo e nell'esecuzione dei movimenti volontari del corpo. Essa ha la funzione di trasmettere alle cellule dei nuclei dei nervi cranici e alle cellule delle corna anteriori del midollo gli impulsi per i movimenti intenzionali da compiere. La corteccia motoria può essere suddivisa in diverse aree funzionali: - la corteccia motoria primaria (M1), che controlla direttamente l'esecuzione dei movimenti; - la corteccia motoria secondaria (M2), che comprendente: - la corteccia pre-motoria, che controlla l'organizzazione dei movimenti dei muscoli prossimali e del tronco; - l'area motoria supplementare, che presiede alla coordinazione e alla pianificazione dei movimenti complessi, quelli cioè che coinvolgono una sequenza di movimenti o la coordinazione dei movimenti degli arti distali. Anche se non è un'area del lobo frontale, talvolta si indica come parte della 57 corteccia motoria anche quella situata nella corteccia parietale posteriore. Struttura, questa, che è coinvolta nell'integrazione dell’informazione somato-sensoriale con quella di altri sistemi sensoriali, soprattutto con quelle del sistema visivo. Una informazione, questa, che risulta essenziale per la percezione e l'interpretazione delle relazioni spaziali e per l’apprendimento delle funzioni coinvolte nella coordinazione del corpo nello spazio. Di fatto, è una caratteristica importante della corteccia motoria l’essere in costante interazione con le altre strutture nervose coinvolte nel movimento, quali il sistema dei gangli della base e il cervelletto. Nell’immagine che segue (estratta da Wikimedia Commons, l'archivio di file multimediali liberi) è indicata la posizione di detta struttura. Strutturalmente, questa corteccia è costituita da più lobi, delimitati da solchi sinuosi abbastanza profondi: 1. Il lobo frontale, nella regione anteriore; 2. Il lobo parietale, nella regione media e superiore; 3. Il lobo temporale nella regione media inferiore; 4. Il lobo occipitale, nella regione posteriore. Inoltre, in base alle differenze strutturali dei tessuti che la compongono ed alle funzioni svolte, essa è suddivisa in tre grandi aree: 1. Area motoria; 2. Area sensitiva; 3. Area sensoriale. La figura che segue è descrittiva di dette aree e delle relative funzioni. Se è integro, il cervello umano, nell’atto in cui provvede ad esplicitare e a gestire un’azione motoria mirata e/o intenzionale è in grado di coordinare e di sovraintendere le diverse funzioni corticali degli apparati sensoriali, motori e associativi, necessari alla sua effettiva realizzazione. Inoltre è in grado di valutare gli esiti di funzionalità dell’atto motorio rispetto allo scopo stabilito. Valutazione che, grazie a un’azione di feedback, potrebbe indurlo ad attivare gli aggiustamenti compensativi che si rendessero necessari per il raggiungimento dello scopo. Sul piano procedurale, per l’attivazione del processo di organizzazione motoria, è necessario che il cervello sia preliminarmente in grado di stabilire, mediante gli organi di senso (vista, udito, tatto, propriocezione vestibolare e muscolare), quale sia la posizione degli oggetti esterni rispetto alla posizione del corpo, oltre che definire quale sia la destinazione del movimento corporeo rispetto alla situazione di contesto, così da poter “tradurre” queste informazioni in appropriati segnali di comando diretti a tutti i muscoli interessati (gli effettori). In questo processo, le funzioni e i dati delle aree 60 determinandone un aumento di efficienza funzionale (Goswami 2004). Viceversa, questo stesso aumento di efficienza contribuirà al potenziamento della struttura cerebrale, che inciderà a sua volta sullo sviluppo successivo dell’efficienza cerebrale, stabilendo così un circolo virtuoso tra potenziamento strutturale ed efficienza funzionale.  L’atto motorio nella relazione formativa Ciò che risulta particolarmente rilevante per la comprensione del ruolo della motricità nella formazione espressiva e comunicativa della personalità, ossia del perché e del come viene a definirsi l’atto motorio quale atto di relazione intenzionale tra il soggetto e il proprio ambiente, è l’assunzione del ruolo della mente e, di riflesso, quello della struttura cerebrale, considerata nella duplice sua caratterizzazione, ossia qualitativa e . Cosicché, tenendo conto anche del fatto che la componente qualitativa è strettamente correlata con quella quantitativa, risulta importantissima la nota che il cervello si sviluppa e si plasma soprattutto per gli effetti degli stimoli ambientali e dell’esercizio dell’esperienza, cioè in funzione della esplicitazione delle sue funzioni (caratteristica qualitativa), quali quelle psicologiche legate alla percezione e alla rappresentazione di sé, ai bisogni, ai sentimenti e alle emozioni, alla storia dell’inconscio, etc.2 Dunque, è evidente che tra mente, cervello, strutture corporee, stimolazioni ambientali, esperienza, motivazioni sociali, etc., c’è una stretta interconnessione che si riflette sul costituirsi della personalità, il cui processo di formazione non può essere indagato a livello segmentario o mono-disciplinare, ma implica una strategia d’indagine più composita, multidisciplinare, fondata su precisi assunti etici, mirata a declinare e a giustificare la dimensione reale dello spazio e del tempo in cui la persona è immersa nell’esercizio delle sue esperienze di relazione. Strategia d’indagine che è propria della Pedagogia. Ecco perché appare particolarmente interessante, per l’economia di questo lavoro, rifarsi alle tesi sostenute dallo psicolinguista Marcel Danesi, docente all’Università di Toronto in Canada, secondo il quale per raggiungere risultati che possono essere considerati di successo devono esistere sempre più stretti collegamenti tra neurologia e pedagogia. Collegamenti che vanno indagati e sperimentati, sul piano contenutistico e didattico, fornendo le basi per la fondazione di una nuova scienza: la neuropedagogia, alla quale, ovviamente,va affiancata la neurodidattica. Fondamentale, quest’ultima, per la gestione della dinamica evolutiva della personalità in senso lato, dal momento che si fonda su una visione “olistica” della persona. Motivo per cui, essa assume una importante peculiarità, contenutistica e metodologica: quella di non rappresentarsi come una “didattica speciale” che mira a fornire strumenti, metodi e contenuti per apprendimenti destinati a sconfiggere la disabilità, bensì come «una didattica impegnata a rendere effettive le occasioni per apprendimenti significativi e per l’esercizio della memoria a lungo o a breve termine» (Rosati, 2006, p. 55). Le ricerche di M. Danesi (Danesi, 1988a, 1988b,1988c) si fondano prevalentemente sul modello neurologico “bimodale”, in base al quale il cervello umano costituisce una entità globale e unitaria, per cui il funzionamento psichico deriva ad un’attività sinergica e integrata tra i due emisferi cerebrali. L’attivazione di questa sinergia è possibile con l’esercizio dell’attività didattica. Di qui, l’elaborazione del principio di apprendimento bimodale, che di fatto consente alla teoria bimodale di entrare nel campo della didattica come una vera e propria strategia di apprendimento, in particolare per l’apprendimento linguistico. Nella prospettiva bimodale è forte il richiamo condiviso alla sensorialità e alla valorizzazione delle esperienze, tanto che Danesi elabora tre principi fondamentali su cui basare l’azione didattica: - la direzionalità (inserire le forme da apprendere in contesti significativi in modo che risultino pratiche, realistiche e coinvolgenti); - la formalizzazione (dare forma ai concetti attraverso la sensorialità e la contestualizzazione); - l’affettività (determinare la scelta dei contenuti di apprendimento tenendo massimamente conto della realtà e delle esperienze significative della persona che apprende). (Danesi, 1991). Un ulteriore contributo chiarificativo al problema è dato da Jensen, secondo il quale la chiave per diventare più intelligenti consiste nel creare più connessioni sinaptiche tra le cellule cerebrali, senza perdere le connessioni esistenti. La costruzione di una rete sempre più vasta di connessioni favorisce la qualità dei processi che permettono di capire, di risolvere i problemi e di apprendere. (Ginnis, 2002, p. 24.) E qui si inserisce un altro aspetto fondamentale, legato all’apprendimento: è la modalità mediante la quale le informazioni in entrata vengono organizzate e memorizzate. Secondo Ekwall e Shaker, infatti, le persone ricordano: - il 10% di quello che leggono; 61 - il 20% di quello che sentono; - il 30% di quello che vedono; - il 50% di quello che sentono e insieme vedono; - il 70% di quello che dicono; - il 90% di quello che dicono e insieme fanno. In sostanza, un ruolo importante nella formazione del pensiero, che è strettamente legato agli apprendimenti, è svolto dal linguaggio. Ma, il linguaggio, come tutte le altre funzioni cognitive e percettive, dipende dai sistemi cerebrali (corteccia, gangli della base e cervelletto) che assommano in loro componenti motivazionali e cognitive, ma soprattutto motorie. Dunque, è la componente motoria a rivestire un ruolo fondamentale in tutti i processi di apprendimento che traggono spunto dalla relazione individuale con la concretezza della realtà. Inoltre, alcuni recenti studi hanno dimostrato che la motricità ha un ruolo importante anche nello svolgersi dei processi mentali astratti, quali quelli che riferibili all'apprendimento del calcolo matematico. Infatti, osservando le aree cerebrali mediante le tecniche di Brain Imaging, Stanilas Dehaene e i suoi collaboratori hanno dimostrato che due sono i percorsi che può seguire il pensiero: uno più antico e indipendente dal linguaggio (i bambini molto piccoli sono in grado di valutare le quantità anche se non sono in grado di contare), l'altro, in termini evolutivi più recente, è connesso all'apprendimento del linguaggio e consente di fare calcoli e valutazioni sofisticate. Il pensiero matematico, infatti, si avvale di due tipi di intelligenza: quella visivo-spaziale e quella linguistica. La prima più concreta, la seconda più astratta e simbolica. (Dehaene et al., 1999) In sintesi, come ben evidenzia Francesco Simeti “l'organizzazione delle conoscenze e dei processi del pensiero non si sviluppano in modo indipendente dal corpo fisico”, ed è “strettamente condizionata dallo sviluppo delle funzioni del sistema nervoso.”4 Altrettanto vale per l’esercizio della motricità, coordinato e controllato dallo stesso sistema. Il che appare di particolare rilievo per la rilevazione e la valutazione degli atti motori, dal loro originarsi nel corso dell’infanzia e nel successivo livello della loro maturazione espressiva in contesti sociali, quali quello della competizione sportiva.  Gli stili di apprendimento In campo pedagogico e didattico è ormai ampiamente condiviso l’assunto che l’atto dell’insegnare è strettamente correlato con l’individuale potenziale di apprendimento e con lo specifico stile cognitivo o di apprendimento. I molti studi sul tema hanno dimostrato, infatti, che ogni soggetto umano ha propri stili di apprendimento, formatisi nel corso del processo di formazione e di maturazione della sua funzione cognitiva. Un processo che dipende da una molteplicità di fattori, ed in particolare: dalle caratteristiche strutturali e funzionali degli apparati corporei, dal modo di cogliere e di interpretare i bisogni, dal senso che viene assegnato alle aspirazioni, dalle motivazioni alle relazioni (in risposta alle variegate sollecitazioni sensoriali ed emozionali), ed infine, dalle occasioni che il soggetto stesso ha di sperimentare le proprie abilità e competenze nello stabilire atti comportamentali di mediazione relazionale e/o di risposta alle varie sollecitazioni. La molteplicità di detti fattori è il motivo per cui si hanno svariate modalità di rappresentazione degli Stili di apprendimento, ognuno dei quali si differenzia secondo i punti di vista utilizzati per conoscere. A puro titolo esemplificativo, è sufficiente richiamare gli Stili ad oggi più diffusi: - Il modello sensoriale: Visivo, Uditivo, Verbale/Non verbale, Cinestesico - Il modello multimodale - Lo stile di apprendimento della dominanza emisferica - Il modello sociale solitario - Il ciclo dell’apprendimento di Kolb - Il modello Honey e Mumfords - La tassonomia di Blooms. Altrettanto interessante è, secondo la nostra ottica, la classificazione fornita da C. Cornoldi, comprendente 5 stili cognitivi: - Globale/analitico - Sistematico/intuitivo - Impulsivo/riflessivo 62 - Verbale/visuale - Autonomo/Creativo o dipendente dal campo (contesto). Senza entrare nel merito di dette classificazioni, è da ritenere che ognuna di esse ha una sua specificità declinativa dell’intelligenza nelle dinamiche del suo funzionamento e del suo esprimersi in atti comportamentali. Caratterizzazioni che lo Sternberg ha rappresentato utilizzando tre variabili: - Analitica (che utilizza le modalità del valutare, scomporre, fare confronti, individuare dettagli, giudicare); - Creativa (legata all’intuizione, all’immaginazione, alla creatività, alla produzione di novità); - Pratica (basata sull’organizzazione, su abilità d’uso di mezzi e strumenti, sulla progettazione e/o sull’applicazione di piani mirati a obiettivi concreti). Una distinzione, questa, che tuttavia non esclude la loro compresenza e/o la loro reciprocità d’azione nello svolgersi dell’intelligenza. Proprio per questo, l’azione formativa dovrebbe essere conformata al potenziamento e all’uso contestuale di tutte e tre le variabili.  Gli stili di insegnamento Ovviamente, se si riconosce l’esistenza di specifici Stili di apprendimento, non si potrà non convenire che, per la qualità relazione formativa, sia di enorme rilevanza ricorrere a specifici Stili di insegnamento, senza dimenticare, però, che esiste uno stretto legame tra le modalità della relazione educativa e l'oggetto dell'insegnamento- apprendimento. Infatti, nelle sue azioni di mediazione didattica il docente è tenuto ad individuare gli aspetti caratterizzanti il proprio sapere disciplinare e le relative logiche interne, in modo tale da poter rendere funzionali i propri atti di relazione formativa (stile di insegnamento). Una funzionalità che dipende dal successo o meno del tentativo di coniugare, in atti intenzionali di mediazione educativa e didattica, le caratteristiche proprie di ciascun discente (modi e livelli di apprendimento, disposizione alla elaborazione di idee e progetti, gestione degli atti comportamentali, controllo emotivo, esercizio della volontà, etc.) con lo svolgersi del progetto formativo, comprendente gli obiettivi formativi per ogni singolo allievo e i corrispondenti modi di facilitazione acquisitiva (tempi, procedure, strategie, monitoraggio, etc.). Pertanto, il mediatore formativo (il docente in primis) non potrà in alcun caso affidarsi alla casualità o all’improvvisazione nel gestire la propria azione di esercizio formativo e/o didattico, bensì dovrà costantemente rifarsi a una metodologia che abbia una base scientifico- sperimentale e un carattere dinamico- processuale. In termini esemplificativi, assumendo a riferimento la specificità dell’azione docente, la suddetta metodologia può essere configurata con il seguente schema di rappresentazione. 65  La motricità nell’ottica didattica lezione 27 Motricità e scuola Si è più volte sostenuto che l’approccio alla motricità quale componente maturativa ed espressiva del soggetto umano ha variegate matrici culturali, tra le quali un posto di primaria importanza è da riservare alla pedagogia, essendo essa la scienza che si occupa della formazione globale della persona. Formazione che pone in vista la sua più piena integrazione nel proprio contesto di vita. Un’importanza che le deriva dalla sua stessa natura disciplinare. Infatti, la pedagogia, nella sua accezione più moderna e condivisa,1 è configurabile come una disciplina (un sapere) “teoreticamente fondata e scientificamente strutturata”, seppure dotata della più ampia autonomia riflessiva e progettuale. Il quadro teoretico del suo impianto, includente sia le ragioni fondative sia le delineazioni prospettiche dell’educazione, è il risultato di una sistematica, autonoma e critica, elaborazione concettuale che si avvale degli apporti della ricerca filosofica, nelle sue diverse connotazioni (etica, estetica, politica, etc.), e delle varie 66 scienze che forniscono spiegazioni, sperimentalmente provate, riguardo la natura costitutiva dell’essere umano e le dinamiche del suo relazionarsi nell’ambiente in cui vive.2 Relazioni che implicano, a vario titolo, un’armonica ed equilibrata gestione della sua intelligenza e della sua corporeità, che si manifestano attraverso la sua espressività motoria. Ovviamente, corpo, intelligenza, espressività motoria, sono tutte entità che vanno soggette a trasformazioni nel tempo, attraverso variegate modalità di sviluppo e di maturazione, delle quali deve occuparsi in primo luogo la scuola. Non a caso nelle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2007) si legge che “la scuola è il luogo in cui il presente viene colto ed elaborato nel complesso intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto”. Il principio su cui si fonda detta espressione è che ogni persona è inevitabilmente influenzata da ciò che accade ed è presente nel proprio spazio di vita e, oggi, anche nel mondo, per cui avverte il peso della precarietà delle condizioni esistenziali, sempre più dinamiche e globalizzanti, con il rischio di perdere di vista il suo futuro e di non saper assumere in modo adeguato le responsabilità che gli derivano nella costruzione di questo stesso futuro. È da questo principio, avente matrice sicuramente sociologica, ma anche antropologica, psicologica, filosofica e soprattutto pedagogica, che scaturisce la definizione delle finalità e dei compiti propri della scuola (responsabilità formativa delle personalità individuali), del ruolo attivo delle agenzie formative collaterali presenti nel territorio (famiglia, agenzie della comunicazione, del tempo libero e dello sport, del culto e della salute, istituzioni per la tutela e la valorizzazione dei beni ambientali e culturali). Finalità e compiti che devono essere declinati in funzione della specificità dei bisogni, anche speciali, degli alunni e nel rispetto delle loro attitudini e capacità, oltre che gestiti con una competenza professionale fondata su criteri scientifico-sperimentali e soggetta ad attenta riflessione critico- costruttiva. In sostanza, nelle società moderne, la scuola ha un duplice compito: quello di educare e di istruire le nuove generazioni, in vista dell’acquisizione individuale e collettiva di una competenza matura di cittadinanza nazionale, europea e mondiale. Con l’educazione favorisce l’esprimersi di comportamenti intenzionali, basati quanto più possibile sul potenziale della creatività e del pensiero critico, coerenti con i bisogni, gli interessi e le aspirazioni individuali; comportamenti che, tuttavia, devono risultare socialmente apprezzati e condivisi, strettamente correlati con l’identità culturale di appartenenza e, soprattutto, sostenuti con efficaci livelli d’istruzione. È con l'istruzione, infatti, che viene favorita l’appropriazione individuale della cultura di appartenenza, nelle sue varie espressioni e dimensioni (storiche, geografiche, antropologiche, etc.), dando concretezza alla identità sociale e fornendo le chiavi di lettura della realtà esistenziale nelle sue molteplici e variegate espressioni. Attraverso l’istruzione, inoltre, vengono ad essere “mediati” e “sperimentati” efficaci occasioni di approccio al reale, nel suo essere e manifestarsi come entità spazio-temporale sempre più dinamica e, perciò, anche problematica e instabile, dal cui livello di conoscenza e di attribuzione di significati e di senso dipende la codificazione e l’esprimersi delle esperienze individuali e sociali. Esperienze che, in ultima analisi, sollecitano il maturare della intelligenza o delle “intelligenze multiple” (Gardner), ne stimolano e ne controllano i processi elaborativi, ne sperimentano e ne misurano l’efficienza nella gestione delle relazioni individuali con il sociale e con l’ambiente. Detti compiti (di educazione e di istruzione), perciò, devono essere assunti e svolti dalla scuola con un’ottica di effettiva contestualizzazione e di aderenza a un progetto (anche sociale) identitario ben definito, ideologicamente fondato e rispettoso della centralità e della valorialità della persona. Entrambe le azioni (istruzione ed educazione), infatti, hanno normativamente per finalità la formazione integrale ed integrata della personalità, che nella sua forma più elevata si esplicita con l’esercizio delle varie possibili competenze (oggi se ne contano almeno otto), supportate dalla consapevolezza identitaria, dalla plasticità critica del pensiero e dalla gestione corretta ed equilibrata delle relazioni nei vari contesti di vita. L’obiettivo generale è quello di dare vita a forme di cittadinanza libere, sostenibili e solidali, in cui ogni singolo membro è parte attiva e consapevole.  Il contesto formativo Oggi è piuttosto marcata l’attenzione che la scuola rivolge al “contesto” formativo. Un contesto che comprende non soltanto gli alunni, ma anche lo spazio fisico e culturale della scuola, il territorio, il sociale e il culturale. Luoghi in cui si acquisiscono conoscenze, si sviluppano le intelligenze e si sperimentano abilità e competenze. Luoghi che conformano il cosiddetto contesto di vita e che stimolano, in modi e tempi diversi, il costituirsi dell’identità, comunicativa e relazionale, di tutti coloro che lo partecipano. Il contesto formativo, come parte del più generale contesto di vita, ha un ruolo fondamentale per lo svolgersi degli apprendimenti, per il formarsi e il consolidarsi delle 67 abilità in competenze condivisibili, per sperimentare attitudini, bisogni e aspirazioni. Esso, pertanto, deve essere pensato ed organizzato con l’ottica della promozione e del sostegno all’esercizio della pluralità delle esperienze, stabilendo, al suo interno, reali e concrete condizioni per l’esprimersi del dialogo e del confronto e per un adeguato supporto delle variegate esigenze formative, liberandolo da ogni pregiudizio ideologico e culturale e rendendolo utilmente adattivo (come anche propositivo) al variare delle esigenze formative delle individualità (gli alunni), oltre che al modificarsi delle situazioni (anche esistenziali) che declinano le conformazioni sociali. Cosicché, detto contesto formativo (la scuola) deve corrispondere a criteri d’azione di tipo dinamico, basati su principi di flessibilità e di aderenza ai bisogni (formativi ed esistenziali) individuali, in modo da favorire l’esprimersi di risposte formative di qualità, ossia realmente rispondenti alle più varie situazioni emergenti. In questa direzione e con quest’ottica, la scuola, nel procedere alla definizione e alla organizzazione del suo contesto, non può non assumere la centralità della persona come fattore ispirativo e armonizzante di tutte le sue scelte operative, da quelle strettamente formative destinate ai singoli, a quelle più estensivamente mirate a favorire lo stabilirsi di un corretto rapporto con il sociale di riferimento, per coglierne le istanze e le proiezioni di sviluppo e concorrere al processo della sua costruzione identitaria. La qualità stessa del “prodotto” educativo (esito di formazione individuale e sociale) dipende dal livello di funzionalità del processo attuativo che ne sta alla base, il cui cardine è rappresentato dal suo potenziale di raccordo tra il momento (o i fattori) della specificità e quello della globalità (confluenza delle parti) secondo l'ottica più generale della complessità. In ogni caso, i temi della persona e delle sue relazioni nel proprio spazio di vita sono motivo di forte attenzione nella moderna riflessione culturale e scientifica, da quella sociologica a quella psicologica, da quella antropologica a quella pedagogica. Il principale motivo di detta attenzione è riconducibile al tentativo, e alla necessità, di cogliere la specificità differenziata dei bisogni, individuali e/o collettivi. Bisogni da cui muovere per definire modelli condivisibili di interpretazione e per stabilire correlate ed efficaci ipotesi di risposta (formativa), sostenute da adeguati servizi e procedure (metodologiche e didattiche). L’obiettivo in prospettiva, direbbe Dewey, è quello di un modello di vita a misura di ciascuno e di tutti, realisticamente sostenibile.  La funzione docente I compiti formativi della scuola sono prerogativa prevalente dei docenti i quali perseguono le finalità educative adottando procedure educative e didattiche di tipo scientifico-sperimentale, coerenti con la centralità della persona e con l’obiettivo di assicurare al sociale cittadini con una personalità matura e in grado di gestite liberamente e criticamente bisogni e aspettative individuali e sociali. La gestione di detti compiti presuppone una precisa intenzionalità educativa e didattica, che viene codificata in progetti formativi coerenti con la specificità manifestativa della personalità degli alunni, con la realtà del contesto formativo e con la domanda sociale di educazione e di istruzione. Sul piano procedurale, i docenti sono chiamati a definire, in sede di progettazione educativa e didattica, soprattutto a livello di formazione di base, gli “obiettivi formativi” (abilità, conoscenze e competenze) per ciascun alunno, nel rispetto delle sue specificità di pensiero e di azione, senza trascurare la prospettiva di un profilo generale di formazione identitaria e di cittadinanza, così come viene sottolineato dalle nuove Indicazioni nazionali (2012).4 La logica che sottende tutte le azioni (educative e didattiche) dei docenti è rappresentabile con le procedure stesse del loro agire (scientifico-sperimentale), basate sul presupposto che ogni azione va sistematicamente progettata, improntata al rispetto delle caratteristiche identitarie di ciascun alunno, riferibili ai suoi bisogni, ai suoi modi di pensare e di apprendere (stili di apprendimento), di relazionarsi, di agire e di comunicare, attuata sperimentalmente, monitorata e verificata nel corso del suo sviluppo e, infine, valutata rispetto alla congruenza degli esiti prodotti con le attese previste.  La didattica In linea generale, la didattica configura le modalità di relazione che vengono a stabilirsi tra docente ed alunno, per la mediazione di contenuti culturali e con l’obiettivo di pervenire alla formazione integrale ed integrata della personalità, individuale e sociale, di quest’ultimo. Il suo svolgersi implica, tra l’altro: - la contestualizzare dell’azione docente - il rispetto più totale e la valorizzazione della identità individuale degli alunni (personalizzazione) 70 5. il potenziamento delle “chiavi” cognitive, per apprendere ad apprendere, favorendo la formazione di un pensiero critico-costruttivo, disposto alla implementazione delle conoscenze e in grado di superare i limiti dell’imprevedibilità e delle emergenze.  Rilevazione e valutazione della motricità  La formazione delle competenze motorie lezione 28 L’attuale ricerca scientifica svolta in più campi, da quello psicologico a quello pedagogico e didattico, ha posto in chiara evidenza l’importanza fondamentale che hanno le attività motorie nel complesso processo della formazione individuale, a partire da quello che viene attivato nel corso della scolarità, per finire a quello che trova svolgimento nel corso dell’età giovanile e adulta. Si deve agli esiti di detta ricerca, infatti, la coniazione del concetto di Competenza motoria. Concetto che non rimanda più all’idea di prestazione (abilità motoria), quale ad esempio quella espressa in ambito sportivo, ma declina la funzionalità più ampia, globale, di tutte le componenti che conformano la personalità e che entrano in gioco nell’atto in cui viene ad esprimersi la relazione individuale con il proprio contesto ambientale. È da condividere pienamente l’idea che una competenza motoria esprime l’integrazione tra conoscenze (i saperi che sottendono l’esecuzione di un compito), abilità motorie (i gesti del saper fare) e comportamenti (i modi del saper essere). Un soggetto esprime una competenza motoria quando riesce a fornire una risposta coerente con un’attività (es. sportiva) prescelta o con un compito richiesto, ricorrendo in modo intenzionale e utilitaristico a tutte le proprie risorse (strutturali e funzionali) ed in particolare alle proprie conoscenze e abilità (motorie) orientate e sostenute dalle componenti emotivo-affettive, propriocettive, motivazionali, etc. È necessario, altresì, che le modalità di risposta trovino estensione applicativa in situazioni e contesti anche diversi o più estesi. È di per sé evidente che detta competenza si acquisisce progressivamente, con l’evolversi strutturale e funzionale della corporeità e con le azioni di promozione e di supporto che i mediatori formativi forniscono in ambiti istituzionali e non. Le questioni che investono la progettazione, l’esecuzione e la valutazione (efficienza ed efficacia) delle azioni formative, sono molteplici. Una prima questione è l’individuazione delle variabili che entrano in gioco nel processo di apprendimento della competenza motoria, per poi correlare ad esse le metodologie d’intervento formativo più adeguate. In questo processo di ricerca bisogna, in primo luogo, evitare la tentazione (e il limite) di pensare alla competenza motoria come “precisione gestuale” oppure come “rendimento prestazionale”, come nella pratica sportiva, per cui la pratica formativa si conformerebbe a rigide forme di condizionamento. Si partirebbe, cioè, dalla presa d’atto di un gesto tecnico ideale (diretto o videoregistrato) che verrebbe analizzato nei minimi particolari al fine di riprodurli in contesti di simulazione. La procedura metodologica di azione formativa, in questo caso, è di tipo induttivo, ciò dal semplice al complesso, dalla parte al tutto. Il che contrasta con la visione unitaria e integrale della persona e della sua espressività comunicativa e relazionale. Per detto motivo, la tendenza metodologica più attuale, soprattutto per ciò che riguarda l’ambito motorio, mira a conciliare l’esercizio dell’autonomia della persona nel progettare ed eseguire le modalità delle sue azioni di relazione con l’ambiente (attività prestazionale) con il rigore di una esecuzione tecnicamente corretta ed efficace dei gesti corrispondenti (rispetto a quanto richiesto e atteso dal contesto). A questa richiesta risponde la psicocinetica, scienza del movimento umano, applicata allo sviluppo della persona, che ricorrendo agli esiti delle scienze umane e delle scienze biologiche, si impegna a fornire modelli interpretativi riguardo la utilizzazione educativa del movimento. Una delle interpretazioni del significato di competenza motoria, riferita soprattutto all’ambito sportivo, è quella che declina i comportamenti di un soggetto in grado di: - elaborare ed organizzare in forma integrata le informazioni propriocettive ed esterocettive; - estendere ad altri contesti e situazioni i gesti appresi; - eseguire un compito motorio secondo un determinato livello di difficoltà, intensità, durata, varietà esecutiva (rapporti tra abilità motorie, capacità coordinative e condizionali); - apprendere ulteriori gestualità motorie; - cogliere e valutare le proprie esperienze motorie; - esprimere una motivazione intrinseca all’apprendimento motorio ed un adeguato livello di autoefficacia percepita; - utilizzare processi metacognitivi di apprendimento e di controllo; 71 - stabilire forme efficaci d’interazione con gli altri per il raggiungimento di uno scopo comune. Il raggiungimento dello scopo formativo, relativo all’acquisizione di competenze motorie, presuppone, però, il ricorso ad una metodologia di approccio legata ad un’adeguata conoscenza delle variabili declinative delle caratteristiche strutturali e delle funzioni cognitive e relazionali del soggetto di riferimento.  La rilevazione e la valutazione dei dati strutturali e funzionali della persona Nel rispetto integrale della logica culturale e scientifica di una metodologia di azione didattica (ma anche terapeutica) basata su criteri scientifici e sperimentali, il percorso attuativo della progettazione educativa e didattica non può lasciare alcuno spazio alla casualità degli eventi e/o dei risultati. Esso, pertanto, va attentamente progettato e motivato, attuato con responsabilità e competenza, ben sostenuto sul piano metodologico, organizzativo e strumentale, costantemente monitorato, efficacemente valutato (in itinere e al termine del percorso) e sottoposto periodicamente a giustificazione o a rimodulazione compensativa. Tutto ciò implica, per gli operatori della formazione, l’impegno di provvedere, fin dall’inizio delle attività, ad un’attenta e responsabile azione di accertamento e di valutazione delle condizioni e delle potenzialità (apprenditive e relazionali) di ciascun alunno, oltre che del contesto in cui verrà ad essere esplicitata la loro azione. Altra valutazione dovranno essi formulare, in itinere, sulla base di verifiche ricorrenti riguardo i risultati di apprendimento e di maturazione delle competenze, espressi dagli alunni. In sede conclusiva del percorso educativo e didattico, infine, essi sono chiamati a valutare “complessivamente” i risultati ottenuti, in stretta correlazione con quanto previsto in sede progettuale, così da poter formulare un corrispondente giudizio di “congruità”, ossia di efficacia e di efficienza rispetto agli obiettivi (generale e specifici) del servizio formativo. È di fondamentale importanza, quindi, che la valutazione, nelle sue diverse fasi, venga attuata con competenza, responsabilità e spirito critico, in modo da poter orientare e sostenere la nuova progettualità formativa. Inoltre, essa deve risultare trasparente e ben documentata, adeguatamente comunicata agli alunni e alle loro famiglie, oltre che ad altre eventuali strutture di servizio (terapeutico, ludico, sportivo) agenti sulla persona e/o per la persona. In questa azione di conoscenza e di valutazione, gli operatori della formazione possono ricorrere al contributo professionale di altri operatori (psicologi, neuropsichiatri, etc.) in grado di fornire un quadro appropriato di identificazione delle caratteristiche individuali dei soggetti che vengono affidati alla loro azione. Questi ultimi operatori, in genere, ricorrono a procedure e a strumentazioni osservative e diagnostiche accreditate, basate su solide concettualizzazioni teoriche, strutturate sulla base di consolidate basi scientifiche, ben testate, soggette a sistematiche valutazioni critiche di funzionalità, da parte della comunità scientifica, che possono implicare una loro opportuna revisione, agevolmente comprensibili, facilmente adoperabili da operatori diversi. La valenza ottimale di dette strumentazioni dipende, ovviamente, dalle circostanze riferibili al contesto e/o alla singolarità degli utenti, rispetto ai quali sono prefigurabili gli obiettivi d’uso. Per le progettualità riferibili a contesti in cui sono presenti soggetti in età evolutiva con difficoltà nell’esercizio delle facoltà apprenditive, relazionali, motorie, etc., gli strumenti diagnostici più utilizzati sono l’ICF, l’ICD10, il DSMV e il TGM. Mentre, per i soggetti in età prestazionale più avanzata si fa ricorso a strumentazioni rispettose della specificità della loro chiamata in causa. Ad esempio, con riguardo alla motricità, si fa ricorso a strumenti di “Valutazione antropometrica del movimento”, oppure di “Analisi biomeccanica del gesto sportivo”.  Gli strumenti della valutazione diagnostica Oggi, si hanno a disposizione diversi strumenti di valutazione che, al loro interno, consentono di cogliere la motricità come componente declinativa di situazioni cliniche riferibili alla presenza, in un individuo, di patologie (mentali, fisilologiche, comportamentali, etc.) che ne condizionano in modo significativo l’esistenza e le relazioni. I più diffusi, adoperati in contesti di età evolutiva, sono il l’ICD, l’ICF, il DSM e il TGM. Strumenti che nel tempo, a seguito del loro approfondimento scientifico e della loro verifica applicativa, hanno subito diversi aggiustamenti e integrazioni, dando vita a diverse codificazioni ed edizioni, quali, ad esempio, i più recenti DSM-V e ICD-10 GM 2012. Detti strumenti presentano, nel loro insieme, molti elementi di convergenza, ma anche molti elementi di differenziazione, 72 sia sul piano della loro impostazione descrittiva dei disturbi e delle patologie, sia sul piano della loro incidenza applicativa.  L’ICD e l’ICDH Uno dei più diffusi strumenti di rilevazione diagnostica e di classificazione delle malattie è l’ICD (International Classification of Diseases), curato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO) a partire dalla metà degli anni ’90, con l’intento di favorire una più estesa condivisione dei criteri e dei dati di rappresentazione delle diverse patologie, con riguardo alle loro caratteristiche cliniche e alle relative cause di insorgenza. L’iniziativa dell’OMS, che originariamente era centrata sull’attenzione per l’aspetto eziologico della patologia, le cui caratteristiche venivano rilevate e classificate ricorrendo a specifici codici alfanumerici, si perfezionò negli anni ’70 e soprattutto nel 1996, grazie anche al lavoro di Ruter e altri, quando venne adottato il sistema multiassiale. Intanto, l’OMS, preso atto dei limiti fino ad allora manifestati dall’ICD nella sua applicazione a livello internazionale, nel 1980 provvedeva a redigere un nuovo strumento diagnostico: l’ICDH (Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap). 2 Strumento, questo, che, come ha modo di sottolineare la stessa OMS, non era e non è da intendersi conflittuale o alternativo all’ICD, bensì da usare in modo complementare ad esso. In effetti, il pregio di questo nuovo strumento consiste nel fatto che l’attenzione diagnostica non è più limitata alle variabili eziologiche della patologia, ma è estesa al ruolo che assumono i fattori ambientali nella vita di ciascuno. Vi è, quindi, la presa di coscienza che sono anche i fattori ambientali ad influenzare il costituirsi e il manifestarsi di forme patologiche nella struttura psicofisica dell’individuo, tanto da incidere in modo anche significativo sul suo stato di salute. Si comprende bene, perciò, che con l’ICDH viene superato il concetto stesso di malattia, inteso come menomazione, ed avanzato il concetto di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, nella sua globalità, e la sua interazione con l’ambiente. Come sottolinea la stessa OMS, l’utilizzo contestuale dell’ICD e dell’ICDH è ottimale, perché consente di formulare diagnosi aventi una visione d’insieme, unitaria e integrata, dei dati eziologici della patologia e dell’impatto che questa ha sull’individuo (ossia, sul suo stato di salute), anche per effetto della incidenza che l’ambientale ha sul vissuto individuale e, quindi, sui processi di strutturazione del suo sistema psico-fisico e relazionale. Il che è di estrema utilità per la progettazione e l’attuazione tanto delle prassi educative, quanto delle pratiche abilitative o riabilitative. Nel rispetto di tali ragioni, l’OMS ha provveduto, nel 1999, ad aggiornare l’ICDH, con la formulazione dell’ICDH-2 (Classificazione Internazionale del funzionamento e delle disabilità) e, nel 2001, a redigere un nuovo strumento diagnostico: l’ICF (Classificazione Internazionale del funzionamento, disabilità e salute). Uno strumento, quest’ultimo, decisamente innovativo per la sua caratteristica multidisciplinare e per la sua visione (unitaria e integrata) di approccio ai temi della salute.3 Invece, per quanto concerne l’ICD, è da registrare la più recente versione (2012), indicata con l’acronimo ICD-10 GM 2012, che ha la sua fonte originaria nella precedente versione dell’ICD 10, del 1990, approvata nel corso della 43esima Assemblea mondiale della sanità dell'OMS e utilizzata a partire dal 1994. Per quanto concerne gli effetti applicativi dell’ICD-10 GM 2012, a puro titolo esemplificativo, si può fare riferimento ai Disturbi extrapiramidali e del movimento che sono collocati in G20/G26, le cui specificazioni riguardano, ad es. il Morbo di Parkinson (G20) o i Disturbi del movimento (G25).4 Come pure vi troviamo il Disturbo evolutivo specifico della funzione motoria (F.82), il Disturbo evolutivo specifico della funzione grosso-motoria (F.82.0), la Sindrome iperattiva associata a ritardo mentale e a movimenti stereotipati (F.84.4) e le Sindromi ipercinetiche (F.90).  L’ICF Come si è già detto, l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) elaborato dall’OMS nel 2001, è uno strumento innovativo di rilevazione diagnostica, in quanto consente di descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo). La sua destinazione principale è quella di cogliere e rappresentare le difficoltà (relazionali, comunicative, comportamentali) che un soggetto incontra nelle sue interazioni con il proprio ambiente. Nello specifico, l’ICF non si limita ad una declinazione rappresentativa di una patologia e di una disabilità, ma mira a fornire una descrizione delle caratteristiche proprie dei soggetti in relazione alle condizioni ambientali in cui vivono e che ne condizionano l’esistenza, assumendo, in linea di principio, che ogni persona è un’entità unica, irripetibile, il cui stato di salute è indicativa delle influenze che essa riceve dal suo 75 ludiche della vita infantile ed adulta. Anche la ormai classica distinzione del gioco infantile in gioco di esercizio, gioco simbolico e gioco con regole, riconsiderata sotto il profilo funzionale ed evolutivo, più che strutturale, rivela la continuità vitale della esperienza ludica del bambino. All’interpretazione del gioco è importante accedere con un approccio globale più che con una analisi distintiva delle diverse forme e manifestazioni della condotta ludica. Non interessa soltanto classificare la gamma dei comportamenti, ma ricondurre a spiegazione unitaria, se pur complessa, la loro interpretazione. Utilizzeremo i più recenti contributi della ricerca psicologica per leggere l’intera gamma delle forme ludiche, sullo sfondo della relazione che il bambino instaura con le cose, con se stesso e con gli altri, come ricerca di padronanza e di senso, e di intesa sociale. Nel gioco, il bambino può liberarsi dei vincoli normativi della realtà ed aprire all’agire gli orizzonti della immaginazione; può creare nuovi vincoli e nuove condizioni, può esprimere un dominio sulle cose e sul mondo che ancora non è in grado di gestire sul piano della realtà2 . Egli non può ancora puntare ad una padronanza tecnica o concettuale sul mondo, il suo tentativo di dominio magico e verbale è effimero, non così la padronanza di senso. Seguendo il progressivo emergere delle strutture motorie, percettive, linguistiche, intuitive, logiche e socio-relazionali che caratterizzano lo sviluppo infantile è possibile cogliere l’unità funzionale ed evolutiva delle varie forme ludiche ed il loro coerente contributo alla maturazione personale e sociale del bambino. a) Nel gioco di esercizio sono prevalentemente coinvolte le strutture della coordinazione motoria e percettiva, il gusto del gioco sta nella ripetizione o nella imitazione, lo scopo è nella verifica di padronanza di una abilità. Lungo questo filone il gioco evolve dalla mera ripetizione ludica di un gesto, fino all’esercizio di presa, di lancio o di equilibrio e dalla prestazione di sforzo o di resistenza, sino alla prova motoria di tipo atletico e agonistico. Quando si coniuga allo sviluppo di nuove strutture cognitive, si può spostare sul piano dell’esercizio di abilità mentali in cui la dimensione motoria può essere più o meno implicata, come ad esempio nei giochi con il domino, i puzzles, il meccano, ecc. Questa linea di sviluppo sembra avere per comune denominatore la esigenza di una verifica di sé che facilmente evolve anche in termini agonistici e competitivi; le strutture implicate sono strutture motorie e percettive, via via anche cognitive, sia di tipo intuitivo che logico. L’attitudine ludica si fa allora tendenza alla padronanza del mondo, alla gestione competente del proprio rapporto con le cose, al controllo sulla realtà. b) Nel gioco simbolico, che diventa possibile quando dal piano della percezione e della rappresentazione mentale il bambino passa a quello delle immagini mentali ove il residuo percettivo si carica di valenze simboliche in rapporto al vissuto personale, riscontriamo condotte molto diverse da quelle del gioco di esercizio. Se quello appare come impegno a misurarsi con la realtà, questo sembra invece volerla eludere, mistificare, alterare; acquista il carattere di finzione immaginifica, si ricollega più alla dimensione affettiva che a quella cognitiva, fa emergere aspetti inespressi del mondo interiore a scapito dell’aggancio alla realtà. Il Piaget definisce questo gioco “assimilazione distorta” ed anche “pensiero egocentrico allo stato puro”, coglie la frattura che in esso si verifica fra gioco e realtà, sottolinea la prossimità che esiste fra simbolo ludico e simbolo onirico, anche se avverte il diverso livello di coscienza che essi implicano. Questo tipo di gioco appartiene al regno della fantasia, non a quello della conoscenza veridica; risponde alle esigenze dell’Io più che alle istanze della realtà, ma non è pura evasione: il bambino, infatti, anche quando è tutto preso dalla sua creazione fantastica, sa bene che cosa è realtà e che cosa è frutto della immaginazione. È a tutti evidente che il gioco non è follia, non è alienazione, è invece ricerca di equilibrio fra mondo interiore e mondo esterno, è tentativo di elaborazione del divario, è impegno a costruire un mondo in cui sia possibile assumere insieme i dati di realtà e i processi interiori di significazione senza che questi vengano schiacciati dalla valenza univoca, convenuta, già stabilita e rigida del dato. In questo modo i vissuti interiori, i bisogni, i desideri propri del bambino possono dar vita alla realtà e questa non resta inerte e totalmente già definita e determinata. Nel gioco simbolico non sono l’oggetto o l’azione a determinare il significato, ma questo predomina su di essi sino a produrne la trasformazione immaginifica. La sedia non è più solo fatta per sedersi, ma, cavalcata, diventa un magico destriero. Questa dominanza del significato sul dato è quella che consente poi il grande gioco del linguaggio magico, del rito, del mito, dell’enigma, della metafora e persino dell’arte e della retorica man mano che si coniuga alla dimensione concettuale del pensiero. È chiaro che lungo questa linea evolutiva, la dimensione affettiva inizialmente prevale su quella cognitiva; quando però nel pensiero le forme logiche e concettuali diventano dominanti, l’affettività si integra ad esse per conferire il 76 colore personale del senso all’arida determinazione dei nessi logici. Allora emerge l’importanza dell’essere capaci di attribuire un senso personale oltre che strumentale alle elaborazioni concettuali, di poter dominare ed orientare la logica combinatoria per esserne padroni e non schiavi. L’attitudine ludica si pone allora come tendenza alla elaborazione personalizzata della esperienza, attraverso la ripetizione, la ri-creazione, la ridefinizione, oltre che la invenzione delle dimensioni della realtà. Così il processo di personalizzazione coinvolge non soltanto il soggetto, ma anche il mondo e la cultura e questa si fa creazione oltre che condizione dell’uomo. c) Nel gioco sociale, cui il bambino accede man mano che supera la disposizione egocentrica, emergono le regole. Nella percezione comune sembra quasi esservi una contraddizione di fondo fra gioco e regola, come v’è contrasto fra serio e faceto, affidabile ed imprevedibile, produttivo e futile. Le regole fanno parte del mondo della realtà, il gioco appartiene al mondo della fantasia; eppure, nel gioco, le regole non sono assenti, nemmeno in quello simbolico, che pure sembra creare un mondo fantastico avulso dalla realtà. Il gioco non è elusione della realtà, se mai è ricerca delle dimensioni e del significato del reale; in esso, le norme regolative delle azioni non sono dettate dai vincoli del dato, ma da quelli del senso. Uno dei maggiori contributi alla comprensione del gioco è certamente quello che ne sottolinea la natura transizionale e ne fa un’area intermedia fra le costrizioni e i vincoli del mondo esterno, le leggi di natura e le regole sociali che governano ogni situazione, e la rappresentazione interiore e personale del mondo che ognuno elabora e ricostruisce attraverso l’esperienza. Mondo dato e mondo vissuto si incontrano nel gioco sociale. Il gioco non è totale disimpegno; spesso è ardua gestione dell’equilibrio fra adesione al mondo e distinzione da esso, fra accoglienza del mondo e azione sul mondo, fra appartenenza al mondo e autenticità personale. Questo equilibrio richiede delle regole. Un laborioso equilibrio fra farsi altro e restare se stesso va conservato non soltanto nell’incontro con il mondo delle cose e delle situazioni, ma anche e soprattutto nell’incontro con gli altri. Allora più che mai le regole sono necessarie perché il dialogo non è più soltanto fra mondo interiore e realtà esterna; in questa realtà si collocano e si esprimono altri mondi interiori con le loro particolari e speciali esigenze di senso, di orientamento e, soprattutto, con le loro intenzioni. Un accordo sul piano operativo è possibile se le intenzioni si coniugano e si coalizzano verso uno scopo comune. Questo scopo richiede una condivisione dei motivi, talvolta persino della identità, sempre una partecipazione, talvolta una appartenenza comune; esige un accordo non soltanto empatico perché il sentire insieme, il condividere un vissuto o una esperienza spesso non bastano. L’intesa con l’altro sul piano delle motivazioni dell’agire, per essere affidabile, comporta non soltanto il medesimo sentire (simpatia), ma un accordo operativo, un sistema di regole comuni concretamente esperibile, che garantisca il perseguimento della stessa intenzione, il raggiungimento dello scopo condiviso e, in questa esperienza, il potenziale di crescita è enorme. Il gioco sociale, che assume spesso la forma di gioco di gruppo o di squadra è fondamentalmente un gioco con regole date, un esercizio di accordo operativo in vista di uno scopo già stabilito. In esso convergono l’esercizio di abilità ed il significato simbolico. Non v’è scopo comune senza condivisione di senso e di motivazione e senza concorso di abilità e impegno per il controllo e la padronanza dell’azione in ordine ad un accordo condiviso e ad una intesa operativa. Da questo livello, già estremamente complesso, nella misura in cui la dimensione egocentrica viene abbandonata e l’incontro con l’altro si fa ricchezza anziché minaccia, è possibile lasciare a ciascuno spazi di variabilità creativa. In una squadra ben affiatata, l’innovazione anche improvvisa non disturba, anzi stimola altri, non costituisce errore da correggere, ma provocazione da cogliere e da gestire ricostruendo creativamente l’equilibrio delle parti e dei ruoli. Lungo la linea evolutiva delle strutture motivazionali, il crescente spazio della variabilità comportamentale richiede l’impegno a mantenere l’intesa pur nella rielaborazione creativa del gioco; quando poi interviene la capacità dei soggetti non soltanto di stare nel gioco uscendo da sé, vale a dire con una ottica non egocentrica, ma anche la capacità di stare nel gioco e insieme di sapere uscire da esso, cioè di saperlo anche guardare dall’esterno oltre che gestire dall’interno, allora diventa possibile cambiare le regole del gioco o persino inventare un nuovo gioco senza che a compagine di accordo sul senso dell’agire si spezzi, distruggendo il contesto sociale e la possibilità stessa di continuare a giocare.  Preludio al gioco complesso della vita 77 Per comprendere a pieno la valenza educativa del gioco, occorre saperlo leggere, oltre che in riferimento al progressivo sviluppo delle strutture percettivo-motorie, intuitive e cognitive, anche e soprattutto, nelle sue dimensioni funzionali e permanenti. Considerarne gli aspetti funzionali induce a coglierne le forme stabili, pur nel variare delle strutture evolutive. Ci riferiamo a quelle modalità essenziali del giocare che sono fondate sulla elusione, sulla illusione e sulla collusione; queste sono, per molti aspetti, comuni all’uomo ed al bambino, anche se l’uomo evidentemente le gestisce con dotazioni strutturali e con esperienza personale ben diversa. In qualunque età, giocare vuol dire riuscire a costruire o a conservare la relazione con le cose, con se stessi, con gli altri, pur riservandosi uno spazio di libertà, di creatività, di accordo. Dal punto di vista funzionale un buon gioco è quello in cui lo spazio di libertà e di espressività è ampio per la persona e, allo stesso tempo, funzionale al gioco. Un cattivo gioco è quello in cui lo spazio personale di elaborazione e di significato è minimo (gioco rigido) oppure tale spazio è talmente ampio da mettere a rischio la stessa sussistenza della situazione ludica. Anche di un giunto meccanico diciamo che ha buon gioco se non è troppo rigido o troppo lasco. La situazione ludica è ad un tempo situazione di vincolo e di libertà. È ad un tempo possibilità di contatto e di distanza, di incontro e di allontanamento. Il gioco consente di gestire i rapporti con un distacco che non giunge mai alla perdita e con un coinvolgimento che non diventa mai confusione. Educare al gioco significa educare ad una relazione non univoca con le cose, ad una percezione serena, non enfatica o drammatica di se stessi, ad una relazione non rigida con gli altri. Il gioco infatti “garantisce un’elasticità di rapporti tale da permettere tensioni che altrimenti diventerebbero insostenibili” 6 . Uno spazio di gioco aiuta il bambino a crescere, a scoprire sempre nuove possibilità di coniugare insieme le esigenze della realtà e le spinte del desiderio. Il gioco aiuta a creare un terreno di incontro più ricco di possibilità di azione e di espressione, e soprattutto nuove modalità di riconoscimento, di condivisione e di intesa con le persone. Il gioco esprime fondamentalmente la continua ricerca di una intesa tra l’interiorità personale significante ed i significati già dati nella rigidità oggettiva del reale. Nel gioco, l’impatto con le cose si fa gradualmente esercizio di abilità e di padronanza, il conflitto fra desiderio e realtà produce stupende metafore che aiutano a governare l’azione, l’incontro con gli altri conduce ad una intesa sulla dimensione normativa del convivere, ma soprattutto sul senso da conferire ad esso e sui significati di valore da costruire insieme. Proprio perché il gioco è l’eterno confronto dell’uomo con la realtà, con se stesso e con gli altri può acquisire i connotati della elusione, della illusione, della collusione, e cessa quando intervengono la delusione, lo scacco, l’impossibilità della relazione e dell’intesa. Questo avviene ogni volta che qualcuno spezza la tensione simbolica, la irride o la sconferma7 , ogni volta che qualcosa risulta molto rigido, pesante e determinato, per prestarsi alla elaborazione ludica. La stessa finalizzazione strumentale che caratterizza la maggior parte dei nostri rapporti con le cose corre sul filo dell’in-ludere: tutte le volte che non è un semplice e meccanico costruire, ma implica una tensione valoriale mai completamente esauribile8 . Il gioco è illusione, ma non è falsità; è elusione, ma non alienazione dalla realtà; è collusione, ovvero convergenza di senso e di scopo, che prescinde dalla normatività, ma non è inganno. Il gioco non nega, tuttavia, la norma, la verità, la realtà; non è follia, non è falsificazione del reale; è invece tensione, ricerca di senso, tentativo di incontro e di accordo. Come dice J. Huizinga, è insieme serio e non serio, vero e non vero, impegnativo e divertente, cosi che “il bambino può essere dominato da un’emozione tale da raggiungere lo stato del credere di essere senza perdere completamente la coscienza della realtà consueta”; anzi, quest’ultima è arricchita dalla dimensione ludica, perché, “una volta finito, il gioco non finisce nel suo effetto, bensì si irradia sul mondo ordinario situato al di là, e origina sicurezza, ordine, benessere per il gruppo” e si fa, anche per questo, fondamento della civiltà e della cultura. Il gioco infantile è preludio, anticipazione di tutti i possibili motivi dell’essere, del fare, del socializzare, quando i modi della partecipazione piena al mondo sono già intravisti, ma non ancora possibili. Nel gioco, il bambino tende ad eludere la realtà e tutto ciò che in essa è troppo rigido o univoco, troppo complesso o difficile; il gioco si fa allora divertimento, distrazione, modo per evitare il conflitto, per irridere la difficoltà, per sottrarsi alla responsabilità, ma anche per recuperare spontaneità e integrità personale. Giocare può voler dire ricrearsi, ricomporre l’unità dispersa dai conflitti, ricaricarsi dopo uno sforzo rendendo tutto gradevole, gioioso, sicuro, allegro e magari riproducendo le situazioni di tensione e sdrammatizzandole come comiche e buffe. Nel gioco, il bambino tende ad illudersi, a creare un mondo conforme ai suoi desideri, ad esercitare un potere che non ha, a far vivere i sogni più belli, a demolire gli incubi e le paure, a comunicare l’inesprimibile, a controllare in un modo fantastico e magico quel che più lo preme o lo opprime. Giocare può voler dire conferire nuovo senso alle cose e alle situazioni, circoscrivere il luogo e il tempo di un’azione, anticipare o differire, delimitare e isolare l’istante significativo, estenderlo ed elaborarlo in fiaba e storia: 80  Il gioco educativo Quel che è importante è che il gioco sia un vero gioco e non un gioco falso in cui “diventa sempre più difficile distinguere il gioco e il non gioco” 2 , in cui il gioco è una veste formale ed estrinseca dell’esercizio oppure una meschina puerilizzazione dell’esperienza. Nell’esercizio mascherato da gioco vengono meno l’invenzione, la creatività, lo stupore, la novità, la gioia, l’entusiasmo e tutto risulta esecutivo, ovvero già previsto, prestabilito, univoco, ripetitivo; nel puerilismo, si perde il confronto con realtà e con identità diverse, si infiacchiscono le norme, si banalizza la difficoltà, si enfatizza la dimensione illusoria e, quel che è peggio, la si priva del supporto simbolico, cosicché il senso si fa confuso ed il significato perde di valore. Il puerilismo è, per J. Huizinga, il peggior nemico del gioco nella nostra società; è il modo con cui adulti, avendo perduto l’attitudine ludica, fanno finta di giocare. È anche una minaccia pedagogica, un pericolo non inferiore a quello dell’esercizio mascherato da gioco. Non sempre educare giocando vuol dire educare al gioco. “Giocando imparo” è lo slogan di molte scuole infantili e può essere facilmente frainteso. L’autentica esigenza educativa del bambino non è l’imparare giocando, bensì l’imparare a giocare. Il gioco non è un espediente didattico per l’insegnante: deve farsi vitale esperienza educativa per il bambino. In una scuola intesa come luogo di vita e di esperienza, il gioco è miniera che offre le materie prime della autenticità, della creatività, della produttività. In una scuola artificiale, estranea alla vita del bambino, il gioco può diventare fuga nel passato o nel futuro, mistificazione della realtà, “assimilazione distorta”, mera finzione egocentrica. Il gioco vero colloca il bambino nella realtà presente con una forte carica motivazionale che lo rende capace di sostenere, con l’impegno, l’azione, di governare, con l’intenzione, l’estemporaneità dei desideri e delle pulsioni, di conferire senso agli eventi, di dare ordine alle vicende. Sul piano educativo, è importante educare il bambino a ricondurre il gioco al presente attivo in forma di motivazione non razionale o strumentale, ma vitale. Tutta la vita psichica si conduce sui tre piani temporali del presente, del passato e del futuro. Questo vale per l’adulto come per il bambino. È una caratteristica funzionale comune. Per l’adulto maturo, il passato è storia, il futuro è progetto, ed entrambi confluiscono nel presente con il loro valore motivazionale per regolare la condotta in modo da renderla personale e libera. Per il bambino, il passato è memoria di frammenti emozionali, con un colore positivo o negativo che nel gioco può farsi racconto e storia ed essere ricondotto al presente per acquistare un senso. Il futuro è irraggiungibile illusione di onnipotenza oppure incognita angosciosa, e nel gioco si fa fantasticheria e fiaba, ma può essere anche gestito come sequenza di azioni finalizzate, capaci di costruire qualcosa, insieme agli altri, nel presente. Il gioco vero è quello della vita e si gioca nel presente tanto meglio quanto gli spazi della memoria e della fantasia sono ampi ed articolati. Lasciamo liberi i bambini di giocare anche in maniera elusoria, di sfuggire ai vincoli univoci della realtà, lasciamoli liberi di evadere nel mondo della fantasia, di vivere le loro illusioni, di creare situazioni, luoghi, azioni immaginate. Tutto questo arricchisce la loro capacità di sentire, di vedere il mondo, di agire in modo personalizzato, di attrezzarsi di intenzioni e di predisporre significati, di costruire il consenso sociale, e ciò è possibile nella misura in cui il presente reale è ricco di esperienza viva, lascia spazio all’emozione attuale, consente l’espressione dei sentimenti, promuove l’esplorazione della realtà, sostiene il lavoro comune e lo conduce a conclusione produttiva. Se il presente reale non si oppone al gioco, non lo delude, ovvero non lo infrange, ma se ne arricchisce, è possibile che anche le forme concrete dell’operare si facciano autentico gioco: gioco di costruzione, di esplorazione, di movimento, di squadra, gioco sociale e reale. Il gioco, abbiamo visto, è l’area della verifica di sé, della elaborazione di significato, dell’incontro con gli altri, della condivisione degli scopi e della organizzazione costruttiva delle azioni. È anche il luogo della libertà e della creatività e, allo stesso tempo, della possibilità dell’errore e della sua correzione, senza gli eccessi della intolleranza e le angosce della irreparabilità; è il luogo in cui la mistificazione si fa ironica gestione del falso, la cattiveria viene circoscritta e persino resa funzionale al gioco stesso, e la lode e il biasimo, delimitati entro la situazione ludica, vengono automaticamente ridimensionati. Imparare a giocare vuol dire quindi crescere ed educarsi. Crescere, perché nulla più del gioco coinvolge e promuove le forze evolutive dell’uomo, le sue strutture affettive, cognitive e motivazionali; educarsi perché nel gioco e attraverso il gioco il bambino trova se stesso, costruisce la sua identità, sperimenta le proprie capacità, incontra gli altri ed impara a concordare con loro il gioco serio, complesso e difficile della vita, perché sia gioco libero, creativo e costruttivo. Soltanto il gioco autentico può inculcare nel bambino il gusto del vivere, del convivere e dell’agire. È importante scoprire il senso e il gusto della vita e non soltanto acquisire gli strumenti per gestirla.  Gioco sociale e civiltà del gioco 81 Nella nostra società complessa e spesso confusa e dispersa, occorre ridare all’uomo la capacità di ricondurre a senso, a significato e a valore, la frammentarietà degli eventi, la relatività storica dei valori, la dispersività dell’esperienza3 . Recuperare una civiltà del gioco vuol dire anche valorizzare la persona come fonte di significato e di valori in un mondo in cui, dopo gli antichi miti, sono crollate anche le nuove ideologie e tutte le fonti stabili di orientamento esterno sono state eclissate dalla invadenza massmediale con il suo orientamento effimero, variabile e non sempre identificabile nella propria matrice valoriale. La crisi d’oggi è sostanzialmente crisi dell’etero-orientamento4 ; per quanto la televisione e la stampa ci inondino di informazioni, si avverte ormai chiaramente che la lettura della realtà è compito dell’uomo, di ciascun uomo, non sostituibile da alcun opinion leader e che l’accordo delle opinioni è possibile soltanto sul piano di interessi e valori universalmente condivisi e non di unilaterali e settarie visioni di parte. Nelle guerre regionali che stanno insanguinando il mondo è in discussione la regressione al separatismo ideologico e religioso o l’affermazione di valori universali intorno ai diritti dell’uomo e della natura. Quel che non riusciamo ancora a capire è che costruire comuni valori non vuol dire perdere l’identità personale o la cultura regionale. Stiamo costruendo una nuova cultura e una nuova civiltà che possono aiutarci a crescere e per le quali ciascuno deve fare la sua parte con grande impegno, responsabilità e rispetto degli altri, per concordare significati, scopi e valori comuni senza perdere l’identità propria. Quella del gioco non è soltanto una metafora: l’impegno a costruire una civiltà del gioco attraverso l’educazione, fuori da ogni utopia, è quotidiano impegno a promuovere un uomo autenticamente libero, consapevolmente partecipe, direttamente responsabile. La ricognizione dei fondamenti psicologici del gioco deve aiutarci a cogliere la portata pedagogica della esperienza ludica infantile. Se il bambino, nel gioco, può vivere l’accordo come senso condiviso, l’intesa, come regola di condotta, l’impegno, come stile di partecipazione, anche l’uomo può superare le angustie egocentriche delle proprie visioni di parte per accedere alla condivisione, alla responsabilità e alla solidarietà. Se il bambino può esprimersi nel mondo attraverso il gioco, arricchire del senso personale l’univocità delle cose, conferire significato alla eterogeneità degli eventi, ricostruire l’accordo fra mondo interiore e mondo esterno nella gestione delle situazioni, accedere alla condivisione nella lettura dei segni e dei simboli, anche l’uomo potrà portare nel mondo la propria cultura particolare e regionale senza per questo escludersi dai significati e dai valori universalmente condivisi, anzi, arricchendoli. Se il bambino può creare un suo mondo ludico senza folle alienazione, ma anche senza piatto conformismo, se può riprodurre, ricostruire, ri-creare, ri-convertire il mondo, con un gusto sempre nuovo, una passione ed un coinvolgimento che disarmano chi non crede nel suo gioco, anche l’uomo potrà costruire, inventare, produrre, un mondo migliore, lavorando con gli altri, scoprendo il nuovo, riconducendo a bene comune tutte le sue opere. Si profila allora una ciclopica responsabilità educativa che potrebbe lasciarci sgomenti; non è questione di portare avanti una visione adultistica o puerile del gioco, bensì di distinguere fra gioco falso e gioco autentico, capace di far crescere il bambino e di preparare l’uomo, fra gioco come parentesi diversiva e gioco come esperienza ricreativa ed educativa. Questo toglie il gioco dall’area del vitalismo spontaneistico e della proiezione elusoria e lo introduce nella vita attiva del bambino ove si fa fonte di impegno, di intenzione, di accordo. Impegno, intenzione, accordo sono i prerequisiti della coerenza e costanza d’azione, della capacità di giudizio e di decisione, della reciprocità di partecipazione, che rendono l’uomo responsabile e possono aiutare le nuove generazioni a ricostruire una civiltà del gioco per vivere nella civiltà complessa senza esserne vittime. Promuovere il gioco educativo come gioco vero richiede competenza e professionalità didattica. L’analisi che abbiamo condotto può dare un contributo affinché il gioco del bambino non sia soltanto estemporanea esperienza di divertimento, ma diventi fondamento della condotta consapevole, responsabile e creativa dell’uomo.  Il gioco come contesto di relazioni Il gioco è espressione della relazione Io-mondo. Una tra le teorie del gioco più accreditate, quella che si rifà agli studi di D. W. Winnicott, considera il gioco del bambino un momento di transizione fra mondo interiore e mondo esterno5 . Giocare vuol dire provare a rendere adeguato il mondo esterno (soprattutto nel gioco simbolico e nel gioco di fantasia) ai propri bisogni e desideri, ovvero cercare di rendere adeguato il proprio mondo interiore alle esigenze del mondo esterno (gioco sociale, con regole, di esercizio, ecc.). Il gioco è esercizio di adeguamento continuo tra mondo interno dei desideri e dei vissuti, e mondo esterno, delle regole oggettive, fisiche e sociali. Se è vero che il gioco è l’espressione fondamentale della relazione Io-mondo, si rende necessario rivedere il concetto di mondo del bambino. Nella visione puerocentrica, il bambino è al centro del mondo. Attorno ad esso ruotano la famiglia, la società, la cultura, che lo influenzano. Ma guardare il bambino in questo modo non è sufficiente. Tutto il mondo che 82 circonda il bambino entra dentro il bambino, viene da lui interiorizzato. Occorre allora un altro modo di considerare il mondo del bambino. Nel primo caso, questo mondo è dato da un sistema di contesti che circondano il bambino, nel secondo caso il mondo del bambino è il mondo interiore, è vissuto ed esperienza della complessità e della differenza del reale. In questa prospettiva, è il bambino che “contiene il mondo”: il mondo della famiglia, della scuola, della comunità, dei media, della cultura, che viene interiorizzato ed è dentro di lui. Capire il bambino significa allora comprendere lo specchio del mondo che è dentro di lui. Per questo è necessario sollecitare il bambino a comunicare il proprio vissuto. Si tratta di offrirgli spazi di narrazione, occasioni di dialogo, di confidenza, tenendo conto che egli può raccontare, con molti linguaggi, la realtà che ha interiorizzato. Soprattutto nel gioco, il bambino può esprimere il proprio vissuto del mondo che è un vissuto di complessità e di differenze, spesso dissonanti. Oggi si pone molta attenzione al mondo degli adolescenti, e si dice che gli adolescenti sono disorientati. Pochi lavorano con i bambini. L’adolescente è disorientato perché non ha imparato da piccolo a gestire la complessità e la differenza. Il disorientamento dell’adolescente è il venir fuori del disorientamento che si portava dentro il bambino e che l’adulto non ha saputo ricondurre a coralità, ad unità, a senso. Gestire educativamente le interazioni tra pari significa fare emergere, anche attraverso il gioco, il mondo interiore del bambino, che è lo specchio del mondo esterno e complesso, frammentato, disorientato, ove la realtà è piena di differenze incomprensibili e di conflitti. Il compito educativo comporta l’elaborazione del vissuto della differenza per trasformarla da occasione di caos, in motivo di bellezza e di ricchezza. Tutto ciò diventa possibile se, attraverso il gioco, si insegna al bambino a gestire la differenza e la complessità, attraverso l’autenticità delle relazioni. Se c’è incapacità di capire e di accogliere le differenze, tutto diventa inautentico, anche il gioco. Il giocare significa per i bambini avere la possibilità di essere sé stessi. Queste considerazioni comportano che si recuperi la centralità del gioco e si dia forma ludica a tutte le attività, anche quelle di apprendimento. È necessario che il progetto pedagogico e l’organizzazione didattica prevedano contesti e situazioni di gioco che abbiano precise e definite identità sicché ogni allievo possa avvertire e distinguere le differenze di ruolo e di identità di ciascuno ed aprirsi con autenticità al colloquio, alla discussione, al dialogo interpersonale e possa cogliere i riferimenti di senso e gli obiettivi che le diverse attività ludiche comportano e perseguono così come l’inizio e la fine delle diverse esperienze in modo che le attività non siano soltanto un fluire magmatico e indistinto di interazioni. Il gioco non può essere soltanto un’occasione di elusione (fare qualcosa per far passare il tempo); il gioco ha un senso molto più profondo. È un incontrare le persone per imparare a confrontarsi con la realtà. È allora che ci si sente forti anche nell’incontrare una realtà complessa, perché c’è questo senso di alleanza, di condivisione, che è alla base del senso del con-vivere, cioè del vivere insieme, dell’affrontare insieme le difficoltà, il mondo che è diverso da quello che vorremmo. Ogni situazione, anche quella scolastica, comporta, in quanto struttura di interazioni con precise connotazioni sociali e culturali, un certo livello di istituzionalizzazione dei comportamenti e quindi attese sociali abbastanza definite e tali da vincolare i soggetti ad un certo coinvolgimento, richiedendo attenzione, impegno, partecipazione. Questi comportamenti talvolta si cristallizzano e le richieste sociali pongono il soggetto in difficoltà. Troppo spesso l’attività ludica viene ridotta a momenti elusivi di distensione, quali misure difensive, volte a mascherare la difficoltà di recepire e gestire le regole del contesto. Il gioco educativo è invece esperienza di relazione e di comunicazione che consente una sintesi costruttiva delle regole e dei significati del contesto. Accordarsi con l’altro, sia nel gioco simbolico che nel gioco con regole, significa incontrare l’altro, ma anche esprimere le esigenze personali, affermare la propria differenza, accogliendo la differenza dell’altro, in altre parole, gestire la complessità. Il mondo di oggi è eterogeneo, complesso ed imprevedibile, non rigido e ripetitivo, e allora è importante che il gioco diventi un contesto ludico nel quale si possano comunicare, riconoscere e coniugare i vissuti soggettivi e le azioni reali, i significati interiori e quelli sociali, e quindi il senso dell’agire, dell’interagire e del convivere6 . Potenziare la dimensione ludica dell’esperienza scolastica, trasformare il gioco individuale in gioco sociale, anche quando è gioco di fantasia, vuol dire avere una fantasia comune, creare insieme un mondo di simboli nel quale può entrare la diversità, perché è sul piano della fantasia che non è difficile incontrarsi. Nel gioco con regole, spesso i bambini giocano insieme in senso competitivo, per vedere chi è il più bravo. Questo non è un incontro, è uno scontro. Giocare insieme non significa gareggiare perché emerga il più bravo, ma valorizzare quello che ognuno può fare per gli altri servendosi di ciò in cui ciascuno è più bravo. Ciò significa mettere insieme le differenze. Ognuno viene valorizzato per l’abilità di cui è portatore, per fare qualcosa che interessa tutti, per costruire il coro nel quale si incontrano le differenze. Il gioco è essenziale al processo di personalizzazione e di socializzazione con cui il bambino impara a collocarsi nel mondo come soggetto autentico ed originale, capace di 85 libertà borghese dei due sessi nel cinema “dei telefoni bianchi”. Un’aporia significativa tra ideologia di regime e modernizzazione. Aporia che emerge anche altrove e prodotta proprio dalla ambiguità di una trasformazione di molte aree europee a Mondo Moderno compiuto o in via di più pieno compimento. Poi è nata una società di massa (che produce modelli culturali vincolanti e omologanti, anche nella visione e uso sociale del corpo, se pure attraverso un controllo reso più sottile, operante nelle coscienze e attraverso l’immaginario), di una società opulenta (che esalta il corpo come mezzo e come fine di consumo: si pensi alla moda, alla cosmesi, al fitness, etc.) e di una società dei simulacri (in cui il reale si doppia nell’immaginario e nel virtuale che, quindi, prendono, sempre più, il posto di quello) o di una società liquida (del cambiamento continuo, in sé instabile, in cui anche l’io, i valori, i modelli si fanno flessibili e incerti e devono vivere questa flessibilità, interiorizzandola: già a partire dal corpo, come corpo vissuto e/o come corpo immaginato). E qui si rileggano i testi di Ortega o anche (e dopo) di Baudrillard, poi dello stesso Bauman per cogliere il complesso intreccio di tutti questi fattori economici, sociali, culturali, immaginari che costituisce l’orizzonte reale e vissuto del nostro tempo, il suo carattere più intimo e decisivo, nel quale l’apertura, la trasformazione, la precarietà, l’innovazione etc. si fanno sempre più costrutti-di-senso. E di senso vissuto. In questa “nicchia” complessa, anzi ipercomplessa, il corpo ha acquisito una nuova condizione di ambiguità. Posta tra valorizzazione/esaltazione e neo-alienazione e/o neo-riduzionismi. A livello e teorico e pratico. Il corpo è, oggi, conosciuto e valorizzato nella sua ricchezza/varietà/complessità (fatta di emozioni, istinti, conoscenza di sé, ruoli sociali, modelli immaginari, etc., come già detto) a partire dai contributi di varie scienze, come già ricordato. Poi la società stessa lo mette al contro e lo esalta e in molti modi: si pensi solo e ancora alla pubblicità. Sì, la pubblicità è – in questo orizzonte del nostro tempo – un dispositivo rivelativo e costruttivo insieme. Che disloca il corpo ora sul consumo ora sulla seduzione ora sulla bellezza ora sulla efficienza e ci rimanda di esso un’immagine mobile/plurale, ma pur centrale e sempre irretita in usi sociali, in collocazioni sociali. Così, lì, il corpo è sempre per-altro/per-altri e mai per sé, anche se è reso un feticcio e un significante. Oggi il corpo è, qui, nella nostra cultura/società, valore, valore primario. Sì, ma è – ancora – sottoposto a nuovi condizionamenti e “sfasature”, camuffamenti, distorsioni. E, ancora, teoriche e pratiche. Teoriche: si pensi solo al ruolo assegnato al corpo biologico dalle neuroscienze e a come esse fungano da regolatore culturale nel discorso sull’uomo, riducendolo a corpo e a corpo biologico: il che ne mina e travolge la stessa complessità, svelata dalla medesima cultura novecentesca. Il corpo umano è una realtà complessa: è sì neuronale e organico, è sì regolato da ormoni, da chimismi e sinergie sinaptiche, ma è anche emozioni vissute, regolato dalla mente, che sta dentro ma oltre il cervello, che cresce sul simbolico, che si fa “spirito” (cultura, società, storia) già a partire dal linguaggio, che si dilata nelle forme della cultura e tutte le rivive (in atto o in potenza, diciamo con Aristotele) e in esse di fatto vive, sempre. Anche il suo corpo biologico è, ormai, culturale: definito e governato da un sapere-potere, la medicina, che è prodotto dalla cultura; anzi, dalle culture, poiché la medicina stessa è, in realtà, un fascio diverso di pratiche-teoriche, sempre culturalmente definite. Pratiche: con forme di neo-alienazione, di cattura sociale, di subordinazione al Mercato, etc. E si pensi ancora una volta alla pubblicità. Ma non solo. Sì, la pubblicità opera per vie esplicite e subliminari. Cattura i soggetti. Impone loro scelte, modelli, etc. Ne regola, in parte (ma in buona parte), l’immaginario: già a partire dall’infanzia. La pubblicità omologa e struttura la mente. Come fa anche la TV che orienta su bisogni e visione del mondo. Che si è fatta l’Educatore Principe. E poi il cinema e, oggi, internet. Tutti strumenti che, nella società degli individui, ne catturano l’“anima”, portando il soggetto fuori di sé, al servizio di ideologie, dette o sottaciute. In primis l’ideologia del Mercato. Allora: il corpo è centrale (culturalmente e socialmente); è complesso (in sé e nella vita sociale e culturale); ma è anche ambiguo: investito, sì, da liberazione/valorizzazione, ma pure da riduzionismi e alienazioni. In questo contrasto radicale che fare per la formazione? È domanda legittima e urgente. E la risposta è una sola: liberare e dare forma autentica, o almeno più autentica, al corpo singolo, proprio, vissuto valorizzandone la complessità e tenendo ferma la sua liberazione. Ma come ciò può avvenire? E qui si fa decisiva la pedagogia del corpo. Un sapere interpretativo e progettuale dell’anthropos che lo rilegge a partire dalla sua corporeità e tende a valorizzarla nella sua attuale “identità ritrovata” (o scoperta che sia). Identità, ancora, di liberazione e di complessità. Ma c’è oggi una pedagogia del corpo? Sì, se pure ora troppo spostata sul biologico ora sul pratico e inerte proprio nel difendere il suo statuto di complessità, di intreccio tra livelli di realtà (un principio essenziale e decisivo), di organicità dialettica di quell’anthropos che va a leggere e regolare e formare nel suo “corpo vissuto” che è un modello-quadro costantemente da ricostruire, da interpretare, da rilanciare nell’agire sociale in toto (e non solo – se pure anche e nettamente – in quello educativo). 86  Tra dialettica e ecologia Su questo terreno della pedagogia del corpo, tesa a comprenderne sì le ambiguità attuali, ma anche a superarle in vista dell’autenticità del corpo (connotata, per noi oggi – dopo gli apporti della stessa “scuola del sospetto”, dopo le analisi delle Erlebnisse proprie della fenomenologia, dopo i contributi dell’ermeneutica e del razionalismo critico: per restare solo agli apporti della filosofia –, da liberazione e complessità) si impone un’idea di formazione anch’essa complessa, aperta e problematica, che tenga conto del pluralismo della corporeità (emotiva, etc., come più detto) e dei dispositivi-regolativi- chiave, ben delineati dalla cultura del Novecento (quella più libera, radicale e ermeneutica) e che devono farsi paradigmi di formazione dell’uomo, a partire dal suo modello di corporeità. E i dispositivi sono: dialetticità e ecologia, come già indicato. Ma vanno, e sempre più, resi operativi nel soggetto, nel soggetto-corpo, ma corpo sempre più sottoposto alla regolamentazione del soggetto. Soggetto che legge il proprio corpo come plurale e tensionale e, quindi, come sempre invischiato in una dialettica di fattori (dal biologico all’immaginale), ma in una dialettica che guarda, pur nella tensionalità costante, a produrre un “sistema in quiete” ecologicamente interpretato e definito. Sì, la dialettica sta insieme all’ecologia. E questa come logica e prassi dell’ecosistema guarda a ricreare equilibrio, se pure sempre un equilibrio aperto e rinnovabile/rinnovato. La tensione è centrale, ma lo è anche l’equilibrio, dinamico che sia. E dobbiamo all’ecologia tale richiamo nell’analisi dei processi vitali, tutti: dalla mente alla città, tanto per esemplificare. Un’ecologia che si è fatta oggi paradigma non solo biologico e ambientale, ma sta attraversando in modo “regale” tutte le scienze umane: dall’antropologia culturale all’etica. E proprio perché sottolinea sia un bisogno della “vita”, sia un compito dell’agire umano, riletto nella sua identità strutturale e ricorrente. Tra dialettica e ecologia c’è opposizione? Sì, forse, a livello logico. Ma sempre relativa. E si possono analizzare le logiche diverse (oppositiva e negativa l’una, sistemica e organica l’altra). Ma dentro o al servizio della formazione – come altrove – l’opposizione si fa integrazione o collaborazione o complementarità. E si fa tale necessariamente. E proprio oggi, nel tempo in cui il corpo autentico si è “rivelato” e di esso possediamo, pedagogicamente, il modello. Tempo in cui la stessa ambiguità proiettata oggi sul corpo può essere, ancora pedagogicamente, aggirata, messa in crisi, tendenzialmente superata (anche se la categoria del superamento, col suo sapore hegeliano, ci appare, forse, un po’ restrittiva e datata, se pure utile), facendo leva sul principio più alto della pedagogia: la formazione. Come formazione-di-sé, di sé quale soggetto-persona, unico e plurale al tempo stesso, che regola il proprio formarsi sul criterio (e pratica, ma pratica teorica), della cura sui.  Cura-di-sé come paradigma-guida Anche rispetto al corpo il paradigma della cura sui svolge un’azione appunto di cura: di riconoscimento, di analisi, di progettazione secondo un iter di sintesi vissuta, orientata e armonica, almeno tendenzialmente. Corpo vissuto che si decanta nella sua varietà/ricchezza e che si integra costantemente nell’io e per l’io, dando vita a un sé che è – insieme – modello e possibilità e costruzione in itinere. Curare il corpo alla luce del paradigma della cura sui è, sì, integrarlo con l’io sociale, l’io spirituale, attraversarlo con un fascio di “esercizi” (di sanità, di efficienza, di disciplina anche) e viverlo in tutte le sue potenzialità, in tutte le sue “facce”, ma è soprattutto integrarlo in tutto l’io-che-si-fa- sé. Avvolgerlo sempre più, in un’ottica spirituale che si nutre di quell’“ermeneutica dell’io” a cui ci ha richiamato Foucault e che costituisce, oggi, una frontiera avanzata (forse la più avanzata) della pedagogia. Una frontiera in crescita e in movimento, ma che ha già un suo netto e organico riconoscimento nella pedagogia attuale. E a livello internazionale. Certo in quella pedagogia che si contrassegna per il suo statuto “critico” (riflessivo, progettuale, antropologico) e per il suo impegno a connettersi al soggetto (e come singolo e come persona) ed a interpretarlo e guidarlo nella sua avventura di vita, che è sempre e comunque un iter di formazione e trasformazione. Ma formazione/trasformazione che deve misurarsi con la sua netta e radicale vocazione a dar corpo a un uomo più integrale possibile, più onnilaterale possibile, capace di emancipare se stesso e di farsi faber della propria identità, interiore e sociale. E a fare di questo modello umano la vocazione di tutti almeno in via tendenziale. Allora: proprio a partire dal corpo la tecnica della cura sui può entrare nelle pratiche del soggetto, nelle sue pratiche-di-vita; può sviluppare l’idea stessa degli esercizi (e per tutta la vita) che devono realizzarla e da lì può espandersi sulle altre frontiere della vita individuale. Ma la centralità e l’immediatezza del corpo, ritrovato oltre le ideologie e reso “autentico” contro di esse (eccedendole e liberandosene), fanno da leva – oggi più di ieri e attraverso quel corpo, ad 87 un tempo, più liberato e da liberare – a tutta la frontiera del prendersi-cura-di-sé e di farlo attraverso un fascio di esercizi. Puntuali e continuativi al tempo stesso.  Corpo e sport nei processi formativi lezione 32 In questi ultimi decenni la pedagogia ha allargato il proprio sguardo critico e riflessivo a molti aspetti della vita individuale e collettiva precedentemente poco valorizzati nella loro valenza educativa come per esempio il genere, la famiglia, l’infanzia, il lavoro, etc. Fra i settori che sono andati ad ampliare la famiglia delle specializzazioni pedagogiche sta avendo sempre maggior risalto la pedagogia dello sport per la ricchezza delle variabili implicate che possono avere significative ricadute nella costruzione del soggetto. Fra le ragioni che hanno spinto la pedagogia ad occuparsi pienamente delle attività sportive se ne possono elencare alcune fra le quali si può ricordare l’interesse mostrato da parte di molti settori disciplinari per un’analisi storica e socio-antropologica dello sport, interesse che si è affermato in Italia a partire dal secolo scorso; la diversa interpretazione data al concetto di corpo sia dalla filosofia che dalla pedagogia del ‘900, con implicazioni rilevanti nel modo di considerare le attività motorie e sportive, intese come sorgenti di apprendimento per favorire lo sviluppo di capacità relazionali, cognitive ed emotive; l’ampio spazio dato nei programmi della scuola elementare dell’85 alla didattica motorio-sportiva (Sarsini 2008) per rilanciare un’educazione fondata sulla corporeità, sulla dimensione attiva e sulla socializzazione; la valenza etica, democratica e civile attribuita allo sport dall’olimpismo di de Coubertin (2003), riaffermata oggi dalla pedagogia come uno dei compiti più autentici dello sport e come antidoto alle derive mercantilistiche e commerciali dell’ideologia dominante. Tutte queste ragioni, brevemente ricordate per collocare storicamente e metodologicamente la nascita della pedagogia dello sport, hanno portato a ripensare dal coté pedagogico lo sport sia per mostrarne luci e ombre che per fissarne il modello più alto fatto di impegno, di responsabilità civili e di istanze etiche (Cambi 2005) che deve andare a costruire l’immaginario collettivo e ad articolare la funzione formativa di ogni pratica sportiva sia a livello professionale che amatoriale. Lo sport, infatti, non è di per sé educativo né rappresenta sempre un’esperienza positiva, come comunemente si dice legando la pratica sportiva all’apprendimento delle regole del vivere collettivo e del rispetto degli altri; anzi, più spesso lo sport, oggi, veicola un’idea di chiusura e di contrapposizione all’altro – l’altro visto più come nemico che come avversario – che di solidarietà e di incontro “nobile” e civile, mentre la sua forma spettacolare e consumistica ne snatura le funzioni fondamentali che sono quelle etiche, sociali ed estetiche. Per riacquistare in pieno il suo potenziale educativo e formativo, la pedagogia affida allo sport quei compiti che gli sono propri e che ne costituiscono gli aspetti più genuini e fondanti, legati alla sua forma agonale, come confronto aperto e leale fra contendenti e come emancipazione di sé, alla dimensione ludica, come divertimento e piacere posto a baricentro dei percorsi educativi infantili e adolescenziali al posto della precoce specializzazione, alla libera espressione corporea e all’uguaglianza delle opportunità, come stimolo ad una partecipazione attiva e consapevole; infine, centrale è l’attenzione posta alla comunicazione, specialmente negli sport di squadra, per favorire la formazione di ruoli e di relazioni diverse e plurime. Iniziando dalla dimensione ludica, vediamo come lo sport possa diventare spazio precipuo di realizzazione di sé e della propria condizione umana per il fatto di essere luogo di confluenza della gioia, della spensieratezza e del piacere. Qualsiasi attività sportiva, infatti, è scelta liberamente e per passione da chi la pratica e quindi chiama in causa l’individuo nella sua totalità sia fisica che mentale, senza mediazioni e nascondimenti. Lo sportivo entra in un rapporto completo con la propria corporeità che gli si rivela come essenza fondamentale e costitutiva dell’esistenza e di cui coglie in forma simbiotica e complessa tutte le articolazioni come modalità diverse ma unitarie della propria identità soggettiva. Le diverse articolazioni con le quali la corporeità si esprime, sia sul piano espressivo, motorio e relazionale che su quello emozionale e cognitivo sono percepite nella loro profonda connessione e nella loro inscindibile unità proprio perché, essendo la direzione ludica quella che indirizza lo sport, crea nel soggetto che lo pratica un dialogo costante e dialettico tra le parti del sé che il corpo attiva e sviluppa, mettendo in contatto i desideri con le difficoltà, le aperture con le resistenze, i limiti con gli equilibri, le contrazioni muscolari con i vissuti relazionali, la leggerezza/pesantezza dei movimenti con il mondo pulsionale; insomma tutte le espressioni fisiche che nello sport prendono forma sono manifestazioni dirette, forse in modo più netto che in altre situazioni, della soggettività e delle sue modalità di relazionarsi con gli altri, con il mondo e con se stesso. Davvero qui, in uno sport pedagogicamente orientato, il corpo diviene composizione (simbolo) e circolazione delle proprie energie con quelle degli altri in uno scambio di legami e di influenze reciproche dove la disgiunzione corpo-mente viene di fatto messa tra parentesi e la singolarità dell’individuo ritorna ad essere permeata 90 obiettivi e queste finalità sono sempre date dall’educazione. Il “bene” dello sport e la sua straordinaria portata sociale non sta dunque in se stesso ma nella finalità educativa che intende perseguire e negli obiettivi educativi che, nell’ambito di questa finalità, può conseguire. Lo sport è uno strumento che l’educazione può utilizzare per perseguire i suoi scopi ed i suoi obiettivi educativi. Senza questo uso funzionale all’educativo, lo sport non potrebbe essere né un valore né un bene per l’umanità e la società. In termini di filosofia dell’educazione si potrebbe dire che lo sport di per sé stesso “insegna” ma non “educa”; può sviluppare competenze, attitudini, comportamenti, convinzioni ed abilità (che possono anche essere eticamente e moralmente discutibili o inaccettabili) nei soggetti che lo praticano, ma non trasmettere valori. Visto in questa luce, lo sport rileva la sua “subalternità” rispetto all’educazione, in quanto è quest’ultima a dare sempre il valore e la configurazione di “bene” per l’uomo e per la donna a questa pratica. Lo sport, quindi, rappresenta, come altri dispositivi sociali, uno strumento che l’educazione ha a disposizione per il conseguimento del bene comune. Va detto, tuttavia, che lo sport presenta in se stesso un implicito educativo che gli deriva dalla sua stessa origine. L’analisi storico-filosofica ha rivelato come lo sport nasca in origine con una finalità educativa e religiosa (si pensi all’origine delle antiche Olimpiadi o degli altri agónes atletici nella cultura greca) concretizzata in una funzionalità volta alla risoluzione pacifica del conflitto (Reid, 2006). Lo sport non è di per se stesso un valore; non genera un miglioramento della vita comunitaria ma è l’educazione a generare tutto questo. Lo sport rappresenta, dunque, quello che in una classificazione dei valori potrebbe essere definito come un valore “misto”, che può essere o non essere un bene per l’uomo. È l’educazione a trasformare questa pratica in un dispositivo sociale e psichico in grado di generare valori. A nostro parere, l’approccio decostruzionista può essere molto utile per analizzare più in profondità questa “ambiguità” dello sport ed a capirne meglio la sua natura educativa e la sua finalità sociale.  Lo sport come phármakon: una prospettiva decostruzionista Da un punto di vista concettuale e filosofico, il concetto di sport appare simile a quello greco di phármakon. Per i greci il termine phármakon indicava sia il “veleno” che il “rimedio”, l’“antidoto” e la “cura” al male ed al danno che quel veleno procurava all’uomo. Questo concetto è stato approfondito dal filosofo francese Jacques Derrida, che ne ha fatto uno dei cardini della sua filosofia decostruzionista. Peraltro Derrida ha approfondito questo concetto in un testo molto interessante dal punto di vista della nostra analisi filosofica socio-educativa, perché ne ha parlato nel contesto dell’uso delle droghe e del doping nello sport (Derrida, 1995). Leggendo il Fedro di Platone, Derrida aveva capito che, al fine di evitare la questione della indecidibilità della traduzione del termine phármakon che compare nel testo, i traduttori che nel corso del tempo si erano avvicendati sull’opera platonica, avevano risolto il problema dell’“impossibilità” della sua traduzione ricorrendo ad un meccanismo teso a decidere quale fosse il senso più opportuno (o corretto) del termine (traducendolo o come “veleno” e “male” oppure come “rimedio” e “cura”) sulla base del contesto di un dato passaggio o secondo l’intenzione dell’autore (Lucy, 2004, p. 90). L’analisi decostruzionista mette in evidenza come il concetto di sport sia assimilabile al concetto di phármakon greco e richieda, per essere compreso, un procedimento simile a quello utilizzato dai traduttori del Fedro platonico: vale a dire, sulla base del fatto che è sempre il contesto a dare il significato ed il senso al concetto. Sulla base di questa analisi, quindi, lo sport rappresenterebbe una vox media, vale a dire un termine che di per sé non presenta un significato definito ed univoco ma neutro, né positivo né negativo, con una stessa distanza tra il polo del significato positivo e quello negativo. Questa equidistanza non permette di attribuire al termine un unico significato, che pertanto dovrà essere di volta in volta ricavato dal contesto. Tuttavia, partendo dal significato e dal valore intermedio (né positivo né negativo) del termine possono essere sviluppati due poli semantico-concettuali, positivo e negativo, sempre presenti, anche se attestati in proporzioni progressivamente disuguali, fino alla netta prevalenza (anche se potrebbe non essere sempre esclusiva) di uno dei due poli. In quanto termine-concetto che “funziona” come quello di phármakon, lo sport non rappresenta di per sé né un concetto positivo e neppure negativo, ma si muove sempre orientandosi tra due poli di significato, uno positivo ed uno negativo, il cui orientamento dipende sempre dal contesto e dall’intenzionalità-finalità che, attraverso l’interpretazione e l’azione, si vuole dare ad esso. Nel caso dello sport, è il contesto educativo e l’intenzionalità legata a quest’ultimo, determinata da una consapevolezza e da una coscienza sviluppata da una interpretazione intenzionalmente educativa del soggetto, a dare alla pratica sportiva quello che riteniamo sia il suo significato ed il suo valore intrinseco positivo, socialmente condiviso e accettato, perché volto al bene della comunità ed al miglioramento delle relazioni sociali tra i suoi 91 membri. Questo valore viene spesso invece solitamente attribuito “a priori” (talvolta solo in forma retorica senza avere una minima consapevolezza dei passaggi logici e filosofici che portano all’attribuzione di tale valore) alla pratica sportiva. La decostruzione mostra che il “bene” ed il “male” nello sport convivono sempre, così come valori e disvalori, e sta al contesto ed all’interpretazione di coloro che agiscono all’interno della cornice sociale e culturale di questa pratica (atleti, praticanti, allenatori, arbitri, genitori, insegnanti, responsabili di enti e federazioni sportive, tifosi, ecc.) farli intenzionalmente emergere (intendiamo i valori “puri” e “positivi” dello sport). Nello sport possiamo dunque ritrovare la dicotomia tra abilità e virtù, tra téchne e areté di cui parlava Aristotele. Il valore (etico e morale) di una abilità (o di una competenza) non sta in se stessa ma nei fini che essa intende perseguire e per cui viene utilizzata. Nello sport le abilità e le competenze (di tipo tattico, strategico o atletico ad esempio) dimostrate nella competizione conducono alla vittoria. Tuttavia, Dal punto di vista filosofico, ad esempio, non possiamo prendere la vittoria o il successo nella competizione o nella gara sportiva come prova della virtù e quindi come un bene per l’umanità e la società. Insomma, lo sport e la competizione (forma nella quale esso si esprime) non sono di per sé valori – come si diceva – ed i valori o il comportamento morale che lo sport e la pratica sportiva possono generare non sono mai il risultato della mera applicazione di teorie di apprendimento, regole o principi (McFee, 2004). Tali comportamenti sono invece il risultato-prodotto dell’esperienza del soggetto, che dovrà essere – più o meno implicitamente, tacitamente o esplicitamente, ma sempre intenzionalmente – volta all’educativo.  Sport ed educazione morale La potenzialità dello sport come educazione morale risiede nel dare alle persone la possibilità di lavorare con concetti morali quali “onestà”, “equità” e “giustizia”, “imparzialità” (fairness), nel contesto vivo della pratica, sperimentando questi stessi concetti, confrontandosi con coloro che non riescono ad agire in base ad essi ed esplorando anche il proprio eventuale insuccesso nel seguirli (Reid, 2012, p. 150). La possibilità etico-morale dello sport sta nel fatto che esso viene praticato in un ambiente relativamente contenuto, controllato e supervisionato, in cui queste possibilità possono facilmente emergere, essere decostruite, sperimentate ed esplorate. Lo sport è quindi un laboratorio morale in cui le astratte regole e gli astratti valori morali della società trovano senso in contesti concreti. In questo contesto controllato qual è appunto lo sport come sistema, si possono imparare regole morali applicandole a situazioni concrete della vita (McFee, 2004). Dalla pratica e nella pratica sportiva non si imparano solo regole ma il modo in cui rapportarsi con le regole e come comportarsi in accordo con i principi etici e morali per il rispetto dei quali vengono stabilite le regole. Non è lo sport a generare valori ma è il contesto del rispetto delle regole a permetterne l’attuazione ed a rivelarne l’acquisizione attraverso i comportamenti dei soggetti. Lo sport è un laboratorio esperienziale di tipo sociale che permette di apprendere realmente, nell’esperienza, i valori del vivere personale e sociale. Il problema dello sport è che generalmente esso non viene compreso in questa sua potenzialità morale ed etico-sociale; raramente si discute sulla funzione educativa dello sport e si riconosce nell’educativo l’essenza stessa dello sport. Gli allenatori, i tecnici sportivi e gli stessi esperti di scienze dello sport non vengono mai formati come educatori morali e non vengono quasi mai sensibilizzati ad avere una coscienza educativa del loro ruolo. Neppure gli atleti sono considerati degli educandi o formandi. Gli atleti (ma questo vale anche per gli allenatori ed i tecnici sportivi), sono spinti a vincere e valutati solo ed esclusivamente sulla base delle vittorie conseguite. Questa dimensione si è acuita e va acuendosi sempre più nella società contemporanea dominata dall’ideologia totalitaria del capitalismo assoluto. Ciò che sostanzialmente manca in molti strati della società è un atteggiamento etico verso lo sport e una sostanziale prospettiva di lettura educativa delle sue potenzialità; lettura senza la quale lo sport non può mai in alcuno modo ed assolutamente essere considerato un “valore” positivo per l’umanità. Si potrebbe dire che lo sport è oggi un laboratorio di educazione sociale che però aspetta ancora i suoi pedagogisti ed i suoi filosofi sociali. O meglio, manca ancora nello sport una filosofia prassica, ampiamente diffusa, collegata con una pedagogia critica decostruzionista di tipo emancipativo ed una sociologia non descrittiva ma interventista (critica anch’essa e volta alla trasformazione della società) in grado di far emergere la componente educativa dello sport nella quale risiede la sua straordinaria potenzialità di promozione dei valori morali ed etici che permettono la socializzazione, l’inclusione sociale e la convivenza pacifica dei membri della società.  Lo sport come laboratorio di riflessione socioeducativa 92 Lo sport rappresenta, dunque, una palestra di riflessione filosofica “totale” sui paradossi e le contraddizioni della società globalizzata, perché ne ripropone sostanzialmente i problemi su larga e piccola scala. Il concetto di sportivizzazione della società è legato al fatto che lo sport è diventato non solo un fenomeno “totale” ma “totalizzante”, che è entrato in ogni contesto del nostro vivere quotidiano, nei nostri modi di pensare e nei nostri stili di vita. Lo sport è un fenomeno culturale totale, che configura un agire umano profondamente legato ad altri modelli culturali al punto che risulta difficile stabilire quando comincia e finisce un comportamento sportivo (García Ferrando, Lagardera Otero, 1998). Si tratta di un comportamento ben adattato alle esigenze della vita attuale che si è trasformato in tanti modelli di comportamento generale in tutte le società (si pensi al concetto di “competizione” sul quale ha la pretesa di fondarsi l’etica dell’ideologia capitalista e liberista). A partire dal XX secolo, lo sport ha profondamente trasformato i costumi sociali ed i comportamenti corporei tradizionali, finendo per sportivizzare gusti estetici, comportamenti, abiti e costumi sociali, modi di pensare e di giocare, ecc., penetrando profondamente nel tessuto sociale e culturale di tutti i gruppi umani (basta pensare all’abbigliamento sportivo ed alla sua influenza su certi stili di vita e di comportamento quotidiano che ricercano la salute e l’“attivismo” fisico permanente). Il filosofo ed il pedagogista sociale, nella loro analisi dei problemi dello sport, debbono pertanto partire sempre dal presupposto che le società complesse, le società della postmodernità (o se si preferisce dell’ipermodernità) sono società sportivizzate e che lo sport rappresenta sempre una forma (che si trasforma in una esperienza in ogni soggetto) di educazione informale; vale a dire un insegnamento che non si vede (amplificato anche dai mezzi di comunicazione di massa) ma che agisce sulle coscienze delle persone, veicolando, più o meno tacitamente, valori e disvalori che influenzano i comportamenti delle persone ed incidono sulle relazioni sociali dei membri della comunità. A partire dal Novecento, grazie all’elaborazione culturale e filosofico-educativa compiuta da De Coubertin, lo sport ha influenzato il sistema dell’etica occidentale ed ha finito in un certo senso per costruirla, veicolando alcuni principi propri della paidéia atletica. Per gli antichi greci, lo sport era fondamentalmente una competizione, un agón, un incontro tra persone che si confrontavano l’una con l’altra nel rispetto dell’uguaglianza dinanzi alle regole e per dimostrare il loro valore dinanzi alla divinità ed alla comunità, secondo il principio dell’essere migliore rispetto agli altri. Alcuni principi dell’agón possono essere ritrovati nel concetto stesso di democrazia che i Greci hanno consegnato alla tradizione culturale dell’Occidente; vale a dire: uguaglianza dell’atleta davanti alle leggi ed ai regolamenti della competizione; pari opportunità per tutti i cittadini di partecipare alle gare (nei limiti della società del tempo); garanzia del controllo e della prevenzione o della punizione dei comportamenti scorretti ed eticamente deprecabili. Lo sport era per i Greci un’agorá socio-culturale, emanazione di un sistema educativo intenzionalmente volto a favorire un “incontro” e non uno “scontro” tra persone che, pur appartenendo a sistemici politici e sociali diversi, si riconoscevano in una comune identità. In questo senso lo sport, attraverso il sistema agonale, permetteva la risoluzione pacifica dei conflitti, la prevenzione della violenza e lo scarico dell’aggressività (Isidori, 2012). Nello sport i Greci trovavano la casa comune, l’éthos, per tutte le genti del loro popolo. Per questo anche oggi lo sport è per sua natura legato – e non va mai dimenticato – ai riti dell’ospitalità e del dono, dell’incontro, del reciproco scambio e della gestione dei meriti e delle ricompense all’interno di un’economia che ricerca oggi (come nella Grecia antica) un equilibrio tra le parti, nel nome di una ricomposizione pacifica delle fratture generate dai contrasti sociali e dagli scontri tra identità soggettive forti. A ben vedere, del resto, è da questo scontro tra identità soggettive “forti” che si genera la violenza sociale in genere, e quindi la stessa violenza nello sport; non dello sport come pratica, che è invece sempre strutturalmente pensata – sin dalla sua origine – come intenzionalmente educativa ed etica.  La prospettiva socio-educativa dello sport “debole” L’approccio decostruzionista allo sport mette in evidenza la necessità di ripensare questa pratica attraverso categorie “deboli”, in grado cioè di destrutturare radicalmente le identità forti che lo sport, ultima delle grandi narrazioni forti dell’Occidente, in modo contraddittorio e paradossale ancora presenta e su cui basa la sua struttura di pratica sociale e culturale ancora non inclusiva. Basta pensare al modo in cui viene concepita comunemente nella società di oggi la competizione e la gara sportiva. La gara e la competizione sportiva vengono viste come performance sociale nelle quali degli attori sociali (gli atleti, ad esempio) si scontrano per affermare la loro superiorità come individui o come gruppo. In questi attori sociali tendono ad identificarsi grandi masse di soggetti interessate ad affermare, attraverso l’identificazione con tali attori, la superiorità (non solo in termini di abilità e competenze) del loro “io” individuale o di gruppo su altri “io” – anch’essi individuali o collettivi – visti come “alterità” e “diversità” costruite attraverso una 95 Un intensissimo e profondo lavoro di teorizzazione si è concentrato - nel corso del Novecento - sul gioco, che è stato portato a completa emersione attraverso un insieme di prospettive disciplinari - dalla psicologia alla sociologia, dall’antropologia alla pedagogia, dalla storia alla filosofia, etc. , articolate in molteplici profili e sollecitate da una serie di nuove istanze. Un lavoro intrecciato con il potenziamento degli studi sull’età evolutiva, che si sono focalizzati sull’infanzia vista come età portatrice di attività proprie, specifiche e fortemente connesse alla ludicità. Questo spiega sia l’attenzione rivolta da parte dei vari campi delle scienze umane/sociali al gioco, sia la ricerca sempre piú sofisticata che si é organizzata e sviluppata attorno al gioco stesso. Da qui é emersa una lettura strutturale del gioco, una capacità di tenerlo fermo nell’ambito della cultura, di leggerlo come un’esperienza fondamentale/ricorrente, di tutelarne la sua dimensione pedagogica, di coglierlo nella sua potenzialità formativa. Una lettura attualissima, che oltrepassa il XX secolo e giunge fino allo scenario attuale, dove i media e la tecnologizzazione dell’esperienza ludica manipolano l’individuo impoverendo il gioco stesso, espropriandolo dei suoi connotati basici, depotenziando la sua capacità formativa. Addirittura, il mercato ha - ormai - irreversibilmente “catturato” il gioco, semplificandolo (spesso) nella gara sempre più tribale (si pensi ad alcuni giochi-sport, che si sono progressivamente allontanati dalla sfera del gioco perdendo la loro identità ludica per assumerne una meramente tecnica, specialistica, adultizzata, professionalizzata, mercificata, etc.) e nella tecnicizzazione di un gioco sempre più “eterodiretto” e “spettacolare”. Basti pensare ai due poli d’oscillazione che si sono imposti nell’attuale “pedagogia ludico-sportiva”: da un lato, il corpo ludico-sportivo come dispositivo pubblicitario, ispirato ad un edonismo diffuso, legato ad un’immagine di sé e finalizzato ad un uso prevalentemente mercantile; dall’altro lato, il corpo ludico-sportivo come dispositivo formativo, come strumento necessario per la percezione di sé, come tessuto emotivo dell’io in grado di esprimere in toto la dimensione umana dell’uomo. Da qui la necessità di sviluppare - in un orizzonte teorico-educativo - il nesso tra cultura ludico-sportiva e processi formativi, indispensabile per “rinaturare” il gioco e ricollocarlo - insieme allo sport - al centro di una prospettiva autenticamente comunicativa e formativa. Si tratta, dunque, di recuperare urgentemente le forme ludiche, sottraendole al controllo della tecnica e del mercato: il gioco fantastico e quello narrativo, ma anche quello libero, di esplorazione e di gruppo, come pure quello legato alle tradizioni culturali. Tutto ciò va fatto senza ignorare la tecnologia, ma guardando ad essa come ad una risorsa da utilizzare criticamente e da impostare su un piano autenticamente formativo. Decostruendola e pensandola come mezzo e non come fine. Quello che sarebbe auspicabile è legato ad una organizzazione/espansione del gioco. Ci sono dei segnali? Forse sì. Riguardo all’organizzazione delle città, degli spazi ludici urbani, della realizzazione e gestione delle ludoteche. Inoltre, dal lato dell’offerta, demandata oltre che all’iniziativa privata anche a quella di enti locali e di strutture pubbliche, va segnalato un ampliamento delle possibilità proposte. Si sono moltiplicate, per esempio, le attività extracurricolari attinenti alla sfera del free time. Non solo. Da almeno un decennio, anche in Italia, per impulso della normativa nazionale e per iniziativa degli enti locali sono state promosse opportunità per l’infanzia e l’adolescenza e sono aumentate le attività strutturate, insieme agli spazi formali e informali dedicati al loisir dei minori. In particolare, i numerosi progetti e interventi hanno privilegiato azioni tese a favorire la cultura/pratica del gioco mediante iniziative che si sono concretizzate in proposte strutturate: organizzazione di spazi urbani e di ambiti di socializzazione come giardini, piazze, spazi pubblici, centri ricreativi, ludoteche, ludobus, etc. Sono segnali che, pur nella loro eterogeneità e disseminazione, permettono di guardare ad un rilancio del gioco, ad una sua rifondazione concreta e organizzativa collegata il più possibile con la quota (alta, molto spesso altissima) che proviene dai contributi teorici che il Novecento ci ha consegnato. Perché il Novecento è stato così fertile di teorie sul gioco? Quanto ha pesato nell’ambito della ricerca educativa? Molto e su più fronti. Si pensi agli studi sul nesso tra gioco e civiltà, sulla civiltà letta/interpretata come convenzione e come gioco, sul gioco osservato come elemento “creatore della cultura” guidato dalla sua “immanenza” storico-culturale, sull’estensione semantica del gioco, sulle varie forme della ludicità (arte, poesia, ritualità, sapere, fantasia, creatività, esplorazione, sperimentazione, immaginazione, etc.). Ma si pensi anche alle ricerche sul rapporto tra gioco ed età infantile/adolescenziale, sul ruolo sviluppato dal gioco per lo sviluppo cognitivo/metacognitivo, mentale/affettivo, personale/relazionale, sul gioco come simulazione, immaginazione, paradossalità e “apertura al mondo”, sul gioco come “attività combinatoria” per la soluzione dei problemi, su su fino alla recente “tecnologizzazione” del gioco accostata alla “scomparsa dell’infanzia”, all’attuale depotenziamento della capacità formativa del gioco e alla necessità di pensare criticamente il gioco e di rilanciarlo per recuperare alcune forme ludiche, come il gioco fantastico, narrativo, libero, di esplorazione, di gruppo, etc. Un coordinamento teorico - necessario e urgente - per esaltare il binomio gioco-vita e per riportare il gioco in un contesto autenticamente ludico. Da Huizinga a Winnicott, da Piaget a Bateson, da Fink a Caillois e a Bruner (per fare 96 solo alcuni, autorevolissimi, esempi) le immagini teoriche sul gioco sono state molteplici e differenziate. Qui intendiamo sviluppare cinque direttrici teoriche assai significative, che hanno costituito, a loro volta, dei paradigmi di riferimento a cui - tuttora - si continua a guardare nell’ambito della ricerca teorica sul gioco. Exempla necessari prima di attraversare quella “condizione postmoderna” che riguarda e connota - oggi - anche le pratiche ludiche.  Huizinga teorico del gioco come funzione sociale Per impostare i suoi studi sul medioevo e sul rinascimento, Johan Huizinga (nato a Groninga nel 1872 e deceduto a De Steeg nel 1945) si avvale di una formazione culturale poliedrica. Una prima fase delle sue ricerche è dedicata, prevalentemente, al tema della formazione della coscienza nazionale olandese. Grazie ai suoi studi egli arriva ad una sistemazione e ad una spiegazione di molti aspetti della vita culturale di un’epoca secondo un modello storiografico che privilegia il modo di pensare rispetto alla storia politica e militare. Un metodo d’indagine che si fonda su uno stretto rapporto con le acquisizioni dell’antropologia, della filosofia e della psicologia del profondo. Infatti, la sua metodologia storiografica, contro ogni illusione positivista, intende l’attività dello storico come ricostruzione intuitiva dello “stile di vita” di un’epoca, in quanto presupposto che rende comprensibili le varie manifestazioni dell’epoca storica: arte, religione, filosofia, vita quotidiana, etc. Infatti, in tutti i suoi studi Huizinga guarda ad una storia della cultura come storia delle forme di civiltà. La sua riflessione trova espressione in uno dei suoi volumi più famosi, Homo ludens (1938). In questa opera storico, filosofica e antropologica, Huizinga sviluppa una teoria del rapporto tra gioco, festa e cultura e propone un’idea di civiltà come convenzione e come gioco. In altri termini, Huizinga introduce un’idea di cultura come complesso di fenomeni sociali utilizzando l’“invariante” storico-culturale del gioco. Secondo lo storico olandese tutti sappiamo che cosa è il gioco, ma con un’analisi elegantissima egli scopre nella nozione di gioco degli elementi che l’uomo sperimenta senza rendersene conto: serietà, solennità, ordine, delimitazione spazio-temporale, etc. Così, egli dimostra che questi elementi/fattori intervengono non solo alla base delle forme competitive come la guerra, ma anche delle più alte manifestazioni di vita: ritualità, cultura, sapere, giustizia, poesia, etc. Secondo Huizinga dobbiamo giungere a riconoscere che ogni azione umana appare come un mero gioco, poiché la civiltà sorge e si sviluppa nel gioco, come manifestazione umana sub specie ludi. In altri termini, per Huizinga si tratta di integrare il concetto di gioco con quello di cultura: il gioco è un fenomeno culturale ed é trattato coi mezzi della biologia, della sociologia, dell’antropologia, della storia, della psicologia, della stessa filosofia. Ovvero, il gioco è per l’uomo/umanità un “concetto primario” e una “funzione piena di senso” che mostra la sua “grandezza culturale” poiché è un “fatto dello spirito” che sta dentro la civiltà e la sua evoluzione/trasformazione.  Bateson e il “paradosso” nel contesto ludico Gregory Bateson (nato a Granchester nel 1904 e morto a San Francisco nel 1980) inizialmente studia scienze naturali e antropologia. In seguito si occupa di psichiatria e diviene l’ispiratore e l’animatore della “Scuola di Palo Alto” formulando la teoria del “doppio legame” (che spiega la frequente incongruità/contraddizione tra la comunicazione affettiva e quella pronunciata verbalmente). Si dedica, infatti, a studi e ricerche sulla comunicazione. Tra i suoi interessi c’è anche il gioco. Bateson mostra come il gioco corrisponda ad una specie di emozione, che viene “radiografata” attraverso la fantasia. In The Message “This Is Play” (1956) si possono trarre alcune ipotesi sugli scopi individuali e sociali attivati dal gioco (come suggerisce anche la lingua inglese “play” ha un significato diverso da “game”, gioco come insieme di regole, e “to play” vuol dire, oltre che “giocare”, anche “suonare” e “recitare”). A partire da questo assunto, Bateson sviluppa la teoria del gioco insieme a quella della fantasia, interrogandosi sulla natura profonda di tutto ciò che è simulazione e immaginazione, riconoscendovi un tratto comune di paradossalità. L’asserzione “questo é un gioco” mostra che tutti gli animali, essendo capaci di giocare, sono anche capaci di comunicare: nel momento in cui fanno gesti stanno utilizzando segnali metacomunicativi. Esempi di giochi fra animali sono il mordicchiare amichevole del cane o il gioco minaccioso e non aggressivo che si trova fra i gatti, le scimmie e alcuni cuccioli. Analizzando la struttura del “morso amichevole”, vediamo la natura doppiamente paradossale del gioco, dato che questo gesto non è aggressione e non è un morso. In questo senso il messaggio “questo è un gioco” è tipicamente metacomunicativo, perché propone la “cornice” che permetterà la comprensione dei messaggi in essa racchiusi; tale aspetto è per definizione paradossale (in quanto insieme di tutti gli elementi che non sono quello che sembrano). Possiamo provare a descrivere il gioco come una specie di emozione, che coinvolge 97 reazioni fisiche specifiche e percepibili, come il divertimento o la catarsi. Inoltre possiamo notare alcune affinità superficiali di sintassi :non si può mai dire a qualcuno “gioca!” o “ridi!”, come non si può dire “piangi!” o “sentiti in colpa!”, nemmeno a noi stessi; una tale comunicazione non può avvenire se non meta-comunicando. Come nota Bateson, il gioco può essere sicuramente un’attività terapeutica (così come anche, ora e da sempre, l’arte, il rituale, il sogno, etc.), ma un’attività impossibile da prescriversi in termini imperativi o autoritari.  Fink e l’“ontologia del gioco” Eugen Fink (nato a Konstanz nel 1905 e morto a Freiburg nel 1975) è stato allievo di Husserl e di Heidegger e uno dei maggiori esponenti del movimento fenomenologico. Il pensiero dell’infinito, del movimento originario e del gioco sono - secondo Fink - tre elementi che devono essere recuperati in un rinnovato pensiero (non più metafisico) del mondo. Nelle sue opere Fink mira ad un’inclusione del campo delle emozioni all’interno del discorso filosofico. Il contributo di Fink a questo allargamento di orizzonte, che in altre opere egli ha esplicitato soffermandosi su fenomeni dell’esistenza come il gioco, il conflitto, il mito o la gioia, si inscrive nel più ampio quadro delle applicazioni del discorso fenomenologico e presenta come un punto di partenza per riflessioni che possono spaziare dalla filosofia alla poesia, dall’arte alla religione. Anche nel suo celebre volume del 1960, Spiel als Weltsymbol, la tesi di Fink è che il fenomeno umano del gioco acquista un significato universale, una “trasparenza cosmica”, e che sia il gioco sia il mondo si prestano ad essere chiariti l’uno alla luce dell’altro. Vi è naturalmente una differenza tra il gioco come fenomeno umano e il gioco del mondo. Tuttavia, la peculiarità dell’essere-nel-mondo dell’uomo fa sì che il gioco umano possa venire assunto come simbolo del gioco cosmico. Attraverso una critica della concezione metafisica del gioco (ossia, da un lato, della teorizzazione platonica che riduce il gioco ad immagine apparente del mondo e, dall’altro, di quella mitica, in cui il gioco viene sacralizzato e, con ciò, ricondotto a regole prefissate, di cui l’uomo non è l’autore, ma lo sono gli dei o i demoni), Fink stabilisce una serie di “determinazioni” del concetto filosofico di gioco. Nel gioco - come in altre condotte fondamentali, quali il lavoro, la lotta, l’amore - l’uomo realizza la sua fondamentale apertura al mondo. Esso è caratterizzato dalla totale gratuità, dall’irrealtà, da un senso di gioia per il sensibile, in cui viene sperimentato il “piacere dell’apparenza”. Nel gioco l’uomo sembra mimare la stessa onnipotenza del mondo. In queste sue peculiarità, il gioco è “simbolo del mondo”, del suo essere senza fondamento, scopo, senso, progetto, ma insieme del suo tenere aperti gli spazi e i tempi per l’essere delle cose, il quale ha una ragione e un fine, è ricco di significato e di valore. A differenza del gioco umano, quello cosmico è un gioco “senza giocatore”, un governo cosmico delle cose che non può essere riferito a nessuna entità personale.  Caillois e il gioco come “atteggiamento fondamentale” L’interesse di Roger Caillois (nato a Reims nel 1913 e morto a Paris nel 1978) si è rivolto all’estetica, alla sociologia, all’etologia, alle scienze naturali e soprattutto ai temi del gioco, del mito, della poesia, dell’immaginazione e del sacro. Ciò che nei suoi lavori accomuna questi territori così eterogenei tra loro è l’attenzione ai lati sotterranei e inverosimili del reale. Les jeux et les hommes (del 1958) riveste una particolare importanza in quanto, a tutt’oggi, rimane l’unico tentativo di fornire una teoria sistematica dei giochi. Accogliendo le tesi fondamentali di Huizinga, Caillois sviluppa prima di tutto un’analisi che permette di determinare, per contrapposizione al resto della realtà, gli ambiti entro cui é possibile definire il gioco. Esso, per Caillois, corrisponde ad un’attività con molteplici caratteristiche: libera (un giocatore non puó essere obbligato); separata (ha dei limiti di spazio e di tempo); incerta (lo svolgimento e il risultato non possono essere conosciuti in anticipo); improduttiva (non crea beni o ricchezza, salvo uno spostamento di proprietà nella cerchia dei giocatori d’azzardo); regolata (risponde a regole proprie che sospendono momentaneamente le leggi ordinarie); fittizia (il giocatore é consapevole delle differenze rispetto alla vita normale). Caillois volge la sua attenzione alla ricerca degli elementi peculiari e irriducibili che permettono di classificare i giochi, una sorta di indagine sugli “universali ludici”. Propone, dunque, una suddivisione in quattro categorie fondamentali. 1) Agon (dal greco: “campo di battaglia”). I giochi di competizione, i giochi in cui vengono create artificialmente condizioni di parità tra i giocatori perché emerga, incontestabile in una particolare qualità, il valore del vincitore. L’Agon può avere carattere “muscolare” (incontro sportivo) o “cerebrale” (gli scacchi).
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