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Appunti di Estetica - Professor Gino Zaccaria, Appunti di Estetica

Università Bocconi, CLEACC 1° anno. Appunti dettagliati delle lezioni di Estetica del professor Gino Zaccaria.

Tipologia: Appunti

2018/2019

In vendita dal 09/10/2020

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4.6

(5)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Appunti di Estetica - Professor Gino Zaccaria e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! Estetica CLEACC, Università Bocconi Professor Gino Zaccaria Introduzione Filosofia dell’arte Il termine estetica viene dal greco e intende la sensibilità, la sensazione, l’impatto vissuto. Estetica presenta il discorso sull’arte come un discorso che ha come suo tema la sensazione, l’impatto vissuto. Nel vissuto riferimento alla vita, nell’impatto c’è uno scontro. Il senso dello scontro e il senso del vissuto sono nel termine aestis. La vita per noi è un termine guida. L’arte è quindi una questione del vissuto. Estetica per questo è termine problematico, mette in gioco significato da ben capire. C’è solo il lato del vissuto per incontrare l’arte? Presunzione è una tipica struttura del vissuto. Nel termine filosofia dell’arte compare il termine arte. Scienze sociali raggruppano discipline come economia, sociologia, linguistica. Le scienze sociali/umane si contrappongono alle scienze della natura, come la fisica. Negli ultimi 100 anni le scienze umane si riferiscono alla metodologia delle scienze della natura, ad esempio l’economia guarda alla fisica come esempio, ad esempio con l’uso della matematica. Il rigore di una scienza dipende dallo strumento usato o da ciò che viene studiato? L’essere dell’uomo è matematizzabile? Il rigore del pensiero e della scienza non può essere confuso con l’esattezza. L’uso della matematica è problematico persino per quella scienza che la utilizzò per prima, ossia la fisica (vedi Leibnitz, Newton e Galileo). Ma l’uomo è esso stesso natura, e non si può pensare ad una natura senza uomo. Uomo come un fantasma, immagine inattendibile che però ha forza di verità. Siamo abituati a muoverci mediante immagini. Nella fisica newtoniana e galileiana l’uomo è l’osservatore dello spazio fisico. La matematizzazione della natura avviene a prezzo della trasformazione dell’uomo in osservatore. La fisica di Aristotele è una disciplina non matematizzabile, si occupa del senso della natura. in Aristotele il riferimento al buono è tale per cui l’uomo non è ridotto ad osservatore ma assume un carattere diverso. L’idea dell’uomo osservatore porta alla matematizzazione, osservatore è uomo ridotto a centro di calcolo, ente confutazionale. Senza l’uomo osservatore, l’uomo ha un significato diverso. Triade di arte-opera d’arte-artista. Spesso confondiamo questi tre elementi tra di loro. È l’arte o l’artista che produce l’opera d’arte? C’è una confusione di termini. Aporia in greco vuol dire mancanza di passaggio. L’arte esiste se c’è un’opera d’arte, che a sua volta è fatta da un artista, il quale però si deve riferire all’arte per fare arte. La filosofia tenta di raggiungere lo stato aporetico pienamente. Lo stato aporetico crea imbarazzo, un rifiuto. È ciò a cui la filosofia all’inizio tende, altrimenti non trova la sorgente e l’energia per potersi muovere. È uno stato dove manca la rotta, al suo interno l’uomo può, se guidato, trovare una via. La via che si trova dallo stato aporetico è una via che ha già elaborato la condizione aporetica, e inizia a conoscere quelle rotte che non portano a nulla. Un artista può non sapere cosa significa arte? Nello stato aporetico sappiamo di non sapere, dettame primario di Socrate. Aporia viene tradotta in italiano anche come difficoltà. Il dialogo filosofico crea la difficoltà da se stesso, fa in modo che nulla risulti facile. Nella storia dell’arte è raccontata la vicenda artistica delle epoche, in prospettiva storica; immaginiamo delle correnti fantasma nel corso della storia. Nel racconto storico, pur necessario, dell’arte, si tendere a dimenticare la prospettiva dell’artista. L’artista diventa un elemento del racconto stesso, e il suo discorso deve essere confrontato con il discorso di un altro, ma magari stava dicendo qualcosa senza pensare ad alcun confronto. Anche negli artisti stessi compare l’occhio storico, essi guardano ad altri artisti e si lasciano prendere dal confronto e dalla prospettiva storica. Arte e filosofia Ma la filosofia incontra l’arte? La filosofia dell’arte fonda l’arte, le conferisce il suo senso? La filosofia è un sapere che si auto fonda, fonda se stesso in quanto tale rimanendo all’interno della propria struttura, non è cieca quindi rispetto a se stessa e può fondare a sua volta altro da sé. La filosofia è quindi un “dono del fondo”, ossia offre la sedia e la base. Non si può rispondere alla domanda se prima non abbiamo caratterizzato e chiarito dove si collochi l’arte, se dalla parte del sapere scientifico (doppia cecità) o dalla parte del sapere filosofico (doppia visione). L’arte è auto fondata, è un sapere autonomo e libero. Istituisce primariamente un senso o riduce gli oggetti a qualcosa di uniforme? L’arte si fonda da sé, non in qualcos’altro. È un sapere libero ma non arbitrario, sono cosa diverse, l’arbitrio vuole sembrare libertà ma non lo è. l’arte si fonda da sé non una volta per tutte, ma ogni volta che si crea un qualcosa di artistico. Ogni fare artistico è un’azione che si fonda ogni volta da zero. La filosofia e l’arte sono quindi vicine, seppur essenzialmente scisse. Sono due modalità dell’auto fondazione dell’uomo. O ci auto fondiamo artisticamente o filosoficamente, quindi sono due conoscenze e sapienze auto fondate ma scisse, e la scissura è fondamentale. L’espressione “filosofia dell’arte” quindi non vuol dire che la filosofia oggettivizza l’arte a qualcosa di filosofico, ma nemmeno essa preserva l’arte nel modo in cui è attendibile che essa sia preservata da un’economia dell’arte. Quindi tra filosofia e arte vige una relazione di vicinanza che si può caratterizzare. La filosofia dell’arte, nel dialogo con l’arte e in suo ascolto, tenta di chiarirne (e non di spiegarne) l’indole. Questo chiarimento è esplicitazione, volta a lasciare l’arte nel suo libero e autonomo generarsi e nel suo artistico dirsi. L’arte non è bisognevole di essere fondata, ma ha comunque bisogno di tale esplicitazione. Dice Klee: “Se l’arte rende visibile, ossia lascia apparire (in una figura) l’inapparente dimensione che concede l’apparire, l’esplicazione filosofica raccoglie nell’invisibile, dicendoli, i tratti costitutivi di tale concessione” Opera d’arte è ciò che fa diventare flagrante l’inapparente dimensione che rende visibile tutto ciò che esiste. La filosofia quindi fa un passo indietro, deve rendere esplicito qualcosa solo per aiutare l’arte comportandosi esattamente come l’arte. Quindi la filosofia impara dall’arte. La filosofia trova la propria indole nel tentativo di raccogliere nell’invisibile i tratti costitutivi dell’arte. L’arte, nel suo bisogno di essere preservata, istituisce per sé un’economia e a sua volta, nel suo bisogno di essere istituita, l’economia trova la propria indole precisamente nel compito della preservazione dell’arte. Quando si arriva all’economia dell’arte, essa dovrebbe essere una preservazione dell’arte. Ma come può essere preservante e non oggettivante? Filosofia, arte, scienza Analogia tra filosofia dell’arte e filosofia della scienza è solo apparente. La filosofia dà fondamento alla scienza ma non all’arte. Filosofia non è un corpus dottrinario. Quando Kant introduce un suo corso di filosofia, ricorda la differenza tra discipline che possono disporre di un manuale (come la geometria euclidea) e discipline che invece non si appoggiano ad alcun manuale, come l’insegnamento filosofico. L’apprendista nella filosofia non deve imparare “la” filosofia, ma deve imparare a filosofare, ossia a pensare e a farlo con la propria testa. La filosofia va costruita. La scienza impara dalla filosofia a conoscere il proprio fondamento, ad esempio la biologia apprende il concetto di vita da un sapere che non è biologia. Non può la biologia determinare il concetto di vita biologicamente, lo prende dal chiarimento della filosofia, come tentativo di chiarire il senso della vita. Ma non dona il fondamento all’arte, la aiuta e la sostiene affinché un concetto di arte attendibile possa manifestarsi, funzione di chiarimento. l’arte non impara dalla filosofia, ma è la filosofia così costruita che nel momento stesso in cui è capace di filosofare che piuttosto impara dall’arte. La filosofia sostiene il discorso dall’arte e impara qualcosa dall’arte. Vi è una reciprocità tra arte e filosofia, ed è quel filosofare che sostiene il discorso dell’arte e impara qualcosa del proprio fondamento, qualcosa su cui il filosofare stesso si è costituito e generato. Questo prende il nome di colloquio tra filosofia e arte. Un colloquio non è necessariamente dialettico, è un dire reciproco che genera qualcosa di chiaro ma anche degli oscuramenti. Arte mai intesa come un che di filosofico e filosofia mai intesa come un che di artistico, colloquio prevede un mantenimento dello scisma. Il colloquio tra arte e filosofia vive nello scisma. Il modo in cui la filosofia impara ad accorgersi dell’indole è l’interrogazione, il domandare filosofico. Doti native Nell’espressione “filosofia dell’arte”, ovvero colloquio dell’arte con la filosofia, filosofia e arte non hanno il senso di ambiti contingenti dell’agire umano. filosofia e arte sono invece doti native dell’essere umano. Così dicendo si intende che ogni uomo, nella misura in cui è uomo (l’essere uomo non è un dato biologico e contingente, ma l’essere uomo è un compito), quindi si auto comprende come compito e non come dato, si accorge che è già in rapporto con l’arte e la filosofia. Un compito è un dover ogni volta essere. Non smettiamo mai di dover essere. Ma ciò non vuol dire che ogni uomo è artista e/o filosofo, ma nella misura in cui un uomo è uomo questo rapporto sussiste come pura attendibilità. Il fatto stesso di esistere significa già filosofare, non si può smettere di considerare come un compito il proprio esistere. Chi ha una certa vocazione giunge al filosofare compiuto e formalizzato, e questo vale anche per l’arte. Esistere vuol dire avere in sé il germe della creazione artistica. E qua si intende anche il germe del colloquio tra arte e filosofia. La dote nativa non va confusa con la capacità innata. Le doti native sono le due verità e accettabilità dell’essere umano. innato è tutto ciò che l’uomo acquisisce per il mero fatto di nascere, eredita per il fatto che è un essere vivente. Un uomo può avere un innato talento nel fare qualcosa che per gli altri richiede tempo ed esercizio. Perché si manifesti è sufficiente che la natura faccia il suo corso, non sia ostacolata. Una capacità innata può essere ostacolata, serve un lavoro di assecondamento della natura. Le capacità innate non sono doti native, l’arte e la filosofia quindi non sono capacità innate. La dote nativa è anche indole, che non vuol dire semplicemente “carattere” ma etimologicamente indica qualcosa che si genera ma si genera come promessa, un tratto che certamente si genera ma lo fa come attendibilità, promessa e come speranza. Implicito nelle parole nativo e indole è un riferimento alla natura. Ma la natura ha in questo caso un senso interamente diverso e indica la dimensione attendibile dell’essere umano. L’attendibilità Anche inteso come verità, accettabilità, concepibilità. Concepibile inteso come progettare, senso della progettazione ossia ciò che si attende con un certo lavoro. Attendibile è ciò che da qualcosa ci si attende, è allo stesso tempo ciò che attende qualcosa, ossia rimane in attesa di essa orientando l’atteso essere. Ciò che ci si attende e ciò che resta in attesa sono due modi di intendere la stessa cosa. Da un seme ci si attende che diventi albero, l’albero resta in attesa del seme. Da uno studente ci si attende la disponibilità a crescere nell’apprendimento, l’attendibilità dello studente è l’imparare ad imparare. Chi apprende, non deve imparare solo la nozione, ma come imparare la nozione. L’insegnamento è insegnare ad imparare. L’insegnante stesso mentre insegna impara. “Attendere” vuol dire quindi aver cura, non aspettare. È un attendere a qualcosa, come attendere ad un compito etc. vuol dire rilasciare qualcosa nella provenienza del suo essere costitutivo e mantenerlo nella propria provenienza. Attendere a qualcosa vuol dire donargli l’essere. Ma l’essere va donato? Comunemente pensiamo che un essente per il solo fatto che si presenta sia già qualcosa. L’essere invece non è qualcosa di ovvio, da dove deriva l’apparire? Non è decidibile in termini di mero dato: appare qualcosa e inizia lì il suo carattere enigmatico, ossia l’attesa di essere inteso in quanto tale, ossia nella sua provenienza costitutiva, nel suo essere ciò che è e nel suo non essere ciò che non è. l’essere essente è per ogni cosa un compito, un impegno, una speranza. L’essente si costituisce in quanto essente quando ha il dono dell’attendibilità. Il singolo dato naturale, dato della realtà, è un niente. Niente non è un termine negativo, niente vuol dire che attende, è libero di attendere. Il donare l’essere non proviene da una soggettività già costituita, la soggettività è una conseguenza dell’apparire. Gli artisti dicono che nel momento stesso in cui si fa arte, non si sa più chi si è. L’io soggettivo quindi scompare e vi è un offrirsi. Nel donare l’essere, chi dona l’essere si dona interamente al dono, è un sacrificio. La filosofia quindi interroga l’arte. L’arte e la filosofia sono quindi indoli dell’essere uomo, ma non sono mai dati a disposizione dell’uomo, ma pure attendibilità del suo costituirsi come uomo. La filosofia si interessa unicamente di doti native, essendo essa stessa una dote nativa. Quindi interroga l’arte in quanto indole, e non indagine dell’arte come presunta capacità innata dell’uomo o attività contingente dell’uomo. La filosofia dell’arte è un colloquio tra indoli. Il piano dell’attendibilità non è toccato dalla contingenza: l’attendibilità resta sempre intatta. Attendibilità non è nulla di contingente. Attendibilità non si lascia negare da niente, nulla di contingente può negare l’attendibilità. Se un seme non diventa albero, tuttavia ciò non cambia l’attendibilità. Il non giungere allo scopo non annienta l’attendibilità. Il piano dell’attendibilità è indipendente dal piano della contingenza e dalle sue modalità. Le modalità della contingenza sono: l’effettività, la possibilità e la necessità. La contingenza è l’effetto di qualcosa che chiamiamo opera di contingentamento. Contingenza indica un toccare, un tatto. Modalità della fattualità riguarda un atto già disposto ad essere computato sia in modo qualitativo sia in modo quantitativo. La seconda modalità è la possibilità, dell’ordine della contingenza. Poi vi è la necessità. Attendibilità non è mai nella fattualità, nella possibilità e nella necessità. È scisso dal contingente, scissura che non è solo una separazione, è una scissura in senso essenziale. Qualcosa è scisso da qualcos’altro quando si ha la possibilità di cogliere i due scissi e di conseguenza la scissura. Ma non è questo il caso, non si osserva la loro scissura, si è costretti ad accorgersi della scissura. Non si può esibire e dimostrare la scissura, ci si può solo accorgere. Differenza tra qualcosa come uno scorgimento e qualcosa come un dimostrare. Ogni pensiero filosofico si fonda su uno scorgimento, può dimostrare perché prima di tutto si accorge di qualcosa. Siamo abituati a pensare che le cose veramente chiare sono nel fattuale, ma l’autentica chiarezza si ha quando l’urto della fattualità è messo a tacere, si risveglia così lo scorgimento, attitudine ad accorgersi che è propria dell’essere umano. ciò che non può essere dimostrato va scorto. La scissura è dell’ordine di ciò che può essere scorto, allora si può dire che l’attendibile è già di per sé scismatica, quindi il carattere dell’attendibilità è primariamente scismatico. Esempio dell’atleta attendibile à L’atleta attendibile è capace di ottenere un risultato vittorioso. Consideriamo un atleta come l’attendibile vincitore di un certo gioco. Vuol dire che ha le capacità sufficienti per giungere al traguardo in prima posizione (attendibilità guarda alla sufficienza e viceversa). L’atleta resta attendibile: 1) anche quando è solo un possibile vincitore; 2) anche quando si trovi nella impossibilità di vincere; 3) anche quando, essendosi ritirati tutti gli altri atleti, abbia la certezza della vittoria; 4) anche quando abbia trasformato la sua condizione di possibile vincitore in vincitore effettivo; 5) anche quando non sia giunto al traguardo per primo. della cosa ma dell’essere, dell’indole. La filosofia dell’arte è un’interrogazione dell’essenza dell’arte. Ma cosa significa “tentare” e cosa significa “essenza”? Tentare è quell’azione che risponde all’attendibilità, è una forma dell’attesa, non significa provarci (è nell’ordine del contingentamento). Il provare è un esperimento, diverso dall’esperienza. Il primo appartiene al contingentamento, il secondo all’attesa, all’attendibilità e quindi al tentare. La tentazione è il rischio del tentare, il tentativo è operazione che racchiude in sé il pericolo di trasformarsi in ciò che non sono. In ogni tentare c’è la tentazione di scadere sul piano della contingenza. Piano della contesa tra i due piani. Tentare una scalata non vuol dire provarci, ma di comprendere la rotta che deve essere seguita. In ogni tentativo c’è già un pre-avvistamento della rotta. Essenza significa il concetto generale di qualcosa nel linguaggio comune, ossia concetto talmente ampio da poterlo applicare anche a casi particolari. Un’opera d’arte, come la montagna di Sainte- Victoire di Cezanne, non è la rappresentazione del concetto generale di montagna declinata nel caso particolare della tale montagna. Il dipinto non ribadisce una cosa nota, non racchiude un concetto generale. Non riceviamo solo una conferma di ciò che sapevamo già, ossia cos’è una montagna. L’opera d’arte mette sotto i nostri occhi qualcosa di inaudito, non qualcosa di già noto. L’opera d’arte non è una conseguenza di un già noto, tanto meno messa in termini di concetto generale. Dinanzi ad un’opera d’arte siamo costretti a sospendere il nostro concetto comune di “essenza”. Il contegno della sospensione è più adeguato di ogni negazione. Si sospende perché è inadeguato, quindi inattendibile. Essenza significa quindi ciò che fa sì che un certo essente sia singolare, irripetibile, unico. Le cose non sono casi concreti di casi generali, ma non si può negare che ogni cosa ha comunque una sua particolarità. Ogni montagna ha il suo modo particolare e inconfrontabile di essere montagna. Ogni montagna è riconoscibile come “la montagna” ma è anche irripetibile. L’essenza fa si che ogni cosa sia propriamente ciò che è, e niente altro. Due concetti di essenza: come concetto generale e come ciò che fa cogliere la rarità e l’unicità. Rimane valido il secondo, il primo è inessenziale mentre l’altro è essenziale. Ma chiedere “che è l’arte?” non significa cercare il suo concetto generale? Siamo davanti ad una palese inattendibilità, ossia “L’arte in generale”, che non può sussistere. Non si può trovare un tale concetto generale di altro. Si potrebbe ricavare per induzione da tutte le arti un concetto che le rinchiuda tutte. Ma non si può cercare il concetto di arte dalle singole arti, ossia da ciò che è già chiamato arte, si ribadisce un che di già acquisito. Inoltre, il procedimento induttivo stride con il modo in cui incontriamo l’arte, che non ci viene mai incontro come esemplare dell’arte in generale, né contiene in sé concetti generali. Solo il concetto essenziale di essenza è adeguato all’indole arte. Quindi il concetto di indole arte è a sua volta unico e irripetibile. Il metodo induttivo dà conferme di ciò che si sa già, crea solo delle tautologie. Ogni volta, il senso dell’arte è unico e irripetibile, ogni volta ha bisogno di essere ripreso integralmente, sin dall’inizio. Ogni artista segue il suo cammino artistico perché ogni volta ritrova l’indole dell’arte. Un frammento di Eraclito dice: “Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume” Il fiume è sempre variabile, cambia, non ci si bagna mai due volte nelle stesse acque. Pensiero del divenire, al quale viene contrapposto l’essere. Essere come stabilità, divenire come un cambiamento universale. Questo è ciò che dicono i manuali, ma il frammento si può interpretare diversamente. Ogni volta, il bagno nel fiume è irripetibile. Il fiume è immagine del senso dell’essere, ogni volta il senso dell’essere è nuovo altrimenti non sarebbe un senso. Il senso presenta sempre in modo nuovo. Il tuffo nel fiume, il tuffo nell’intesa del senso, è sempre nuovo. Non si può accumulare alcuna conoscenza, non si può accumulare conoscenza di un senso, il senso va rinnovato. Il grande artista è qualcuno che ogni volta si bagna nell’indole arte come se fosse la prima volta. L’attendibilità è ogni volta nuova. Attendibilità è ciò che può essere perso, allora si tenta l’attendibilità. Essa è sempre nuova e sorprendente. Non è attendibile il fatto di accorgersi due volte, allo stesso modo, della stessa indole. La replicabilità richiede l’assicurazione dell’indole stessa, che però è di per sé sfuggevole. Da ciò discende la massima: “là dove qualcosa sia incontrabile con un procedimento che si può ripetere e replicare in modo meccanico, la cosa incontrata non è un’indole”. È invece un che di contingentato. Ciò detto sul termine essenza, valgono anche per l’essere. I termini attendibilità, essere, essenza appartengono allo stesso ordine. Il senso comune considera l’essere come la cosa più ovvia e scontata. Questo concetto di essere è analogo al concetto di essenza come concetto generale di qualunque cosa. È il “qualunque cosa”. Il senso dell’essere, che sembra essere il concetto più generale di tutti i concetti possibili presenti passati e futuri, all’inizio della nostra tradizione di pensiero fu visto come ciò che non aveva nulla di ovvio. La non ovvietà dell’essere dà inizio alla filosofia. Scorgimento che l’essere non costituisce un concetto generale vago e indeterminato. Fu pensato e inteso come elemento prezioso e degno di attenzione, che una cosa sia non è ovvia, infatti potrebbe anche non essere. Non c’è ovvietà. Se non vi fosse riferimento al non essere allora sarebbe ovvio, ma il riferimento al nulla c’è e rompe l’ovvietà dell’essere perché ci mette dinanzi a qualcosa di stravolgente. Questione filosofica del perché inizia il qualcosa e non il niente, posta da Leibnitz. Il non essere può anche significare “non avere alcun essere”. Qualcosa può costituirsi ed essere percepito, e tuttavia non avere essere. Le cose che non hanno essere sono ad esempio le cose che non hanno essere. Il contingentato ha perso l’essenza, si configura come un qualcosa che sta nel non. Che una cosa non sia non significa che non sussista, magari è presente come un essente e contingente ma non ha alcun essere. Molte cose sussistono, poche cose sono. La domanda tipica dell’interrogazione filosofica è “che cos’è?” ossia quando possiamo dire che qualcosa è. noi siamo abituati alla domanda sul piano della contingenza. L’interrogare filosofico e il domandare operativo La filosofia è avversa a ogni convincimento, non si tratta mai di convincere. Il dialogo filosofico se condotto secondo l’opinione scade nel tentativo di convincimento, portando ad un confronto sterile. In filosofia c’è lo scorgimento, non il convincimento, che porta alla fertilità del confronto. Domanda filosofica è: in cosa consiste il “Che (cos) è?” filosofico? Domanda diversa da tutte le altre questioni perché la domanda filosofica non smette mai di interrogare, una domanda è detta filosofica se mantiene il suo carattere interrogativo. La risposta non chiude la partita, semmai la apre. La risposta di un interrogare filosofico inaugura, non chiude. Conserva il proprio carattere interrogante fin dentro la risposta, che se è una risposta filosofica rilancia l’interrogazione. Se invece la risposta non reca traccia del carattere interrogante scade in un sofisma. L’esaustività nell’interrogare filosofico non ha un carattere qualitativo o quantitativo, ma è esaustiva se è sufficientemente interrogante, la risposta deve chiarificare il carattere interrogante dell’interrogazione stessa. Ma questo interrogare filosofico è dunque un domandare infinito? No. l’interrogare socratico è un interrogare senza conclusione, manualisticamente pensando si risponde che così ci si abitua all’etica del dialogo. Ci si abitua al dialogo solo se le risposte mantengono il carattere interrogativo, altrimenti ci si scambia solo degli impatti vissuti. Il dialogo è inteso come uno scambio, si pensa che il fulcro del dialogo siano i dialoganti, ma nel dialogo filosofico il fulcro è il tema del dialogo, e non il modo in cui i dialoganti si atteggiano. Dialogo che esemplifica il domandare filosofico è Teto di Platone, sulla conoscenza: Socrate dà tre risposte alle domande “Cos’è l’episteme?”, tutte e tre inconcludenti, ma rilanciano la domanda sull’episteme inviandola ad una risposta che è contenuta in modo nascosto nel terzo excursus del dialogo, in cui Socrate spiega la differenza tra coloro che hanno avuto una educazione filosofica e coloro che invece non l’hanno ricevuta. Emerge la risposta compiuta e piena nella differenza tra l’educato e il diseducato filosofico. Ironia socratica, che allena il dialogante a rimanere sveglio sulle questioni fondamentali. Il domandare filosofico può apparire come un esercizio dialettico solo se è osservato dall’esterno, dal punto di vista comune. Ma il domandare filosofico è un domandare interessato solo alla verità di ciò che è. Il termine verità è il primo dei problemi, filosoficamente si può chiedere non “Qual è la verità?”, ma in fondo: “Che significa verità?” Non quale sia la verità assoluta o quella relativa, ma cosa voglia dire verità e quando si può dire che si sia generato un che di vero. Per avere un criterio nella verità bisogna chiedersi cosa la parola stessa voglia dire. Se il rapporto con la verità viene interpretato come ricerca della verità sorge un problema. Siamo abituati a pensare che la verità sia da ricercare, come se ci fosse un che di vero da qualche parte, e la conoscenza è orientata verso la verità. Se così fosse, la verità sarebbe un contenuto di senso già stabilito (si può andare alla ricerca di qualcosa solo se si presume che quel qualcosa possa essere catturato). E quindi se fosse così non si capisce a cosa possa appartenere quello spazio precedente all’afferramento della verità. Se la si va a cercare, si presuppone che il cercante sia fuori dalla verità, ma allora come avviene il percorso da fuori a dentro la verità? Così facendo la verità è un contenuto indipendente dall’uomo, che esisterebbe anche se non ci fosse l’uomo. Esempio I: Si suppone di chiedere quale fosse la struttura della società ateniese al tempo di Socrate. Si giunge ad un modello della stratificazione sociale. Esempio II: ci si chiede come siano composte le rocce della montagna Saint Victoire. Si giunge ad un modello che illustra la composizione chimico fisica delle rocce. Le domande presuppongono una volontà di contingentamento. Le due domande cercano la verità, ci si è orientati però verso un certo concetto mai discusso di verità, guidati dall’operatività (volontà performativa di ottenere un risultato calcolabile e quindi incassabile e controllabile). Le domande sono poste scontando il senso dell’operatività. Nel primo caso la verità deve essere tale da poter essere raccontata, bisogna ottenere un racconto storico plausibile, ma in ogni racconto c’è un conto, qualcosa di contabile, insieme di notizie che possono essere comunicate. Aiuta a comprendere il quadro nel quale si inserisce la vicenda socratica. La vicenda socratica è assunta come ovvia, si cerca il quadro storico, frutto del modello, e dal modello si cercano degli elementi per dare corpo alla filosofia socratica. Analogie e differenze tra la nostra società e quella ateniese possono essere individuate. Quello che segna il carattere non filosofico della questione è il dare per scontato il concetto di “società”. Il termine società viene dal latino societas e vuol dire mettersi insieme per ottenere un certo vantaggio, per affari. Società è un tipico concetto da business. Nella società greca c’è invece la polis, che non significa città stato. In senso greco non c’è niente di pubblico perché non c’è niente di privato. Domandare che vuole ottenere risposte che possono essere utilizzate. Questa forma non filosofica di domandare è il domandare operativo: domandare che ha l’operatività come sua sorgente. Il domandare operativo ha in sé la capacità di poter apparire come un interrogare filosofico. Si presenta come preliminare, come la domanda sulla società greca che fa da cornice all’interpretazione della filosofia greca. Idea che così si possa entrare in rapporto con il filosofare. In realtà il domandare operativo è interessato alla verità, a stabilire una verità (anche se diventa problematico il senso della verità), si risponde alla verità se si risponde al funzionamento di qualcosa. Si cerca la verità operativa, la verità performativa. Il senso comune associa la verità al funzionamento. Il funzionamento interessa perché da informazioni per poter agire. Ma il funzionamento è solo un elemento, in certi casi persino fuorviante. Le domande si basano su presupposti che non diventano mai tema della domanda stessa, caratteristica fondamentali. Negli esempi la prima domanda racchiude e dà per scontato il concetto di società, la prima domanda dà per scontato che la montagna sia un aggregato di rocce chimicamente e fisicamente determinabili. Così funziona il denota quell’essente che noi chiamiamo uomo, assunto in uno stato detto creativo. Quindi l’artista è l’essere dell’uomo intonato al contegno dello stato creativo, ovvero lo stato aporetico, e quindi disposto al gioco. Lo stato aporetico richiede di rinunciare a ciò che già sappiamo e crediamo. Arte è quindi ciò che è libero dall’assalto dell’ente. Arte rinvia a niente, ad un senso che non è contingentabile, perché manca l’ente. Manca l’ente, quindi manca la tentazione del contingentamento. L’arte è un senso che invia a ciò che non è ente. Non ha nessun riferimento ontico, il termine arte non può essere trattato come un oggetto e non è trattabile nemmeno come un che di essente, intendendo ciò che costituisce l’attendibilità dell’ottenimento dell’oggetto. All’arte non corrisponde nulla che può essere oggetto di un contingentamento. Il rapporto tra artista e opera d’arte Non sono confondibili. L’opera d’arte non porta i segni dell’artista. Il “grande” artista è qualcuno che dinnanzi alla propria opera la vede come estranea, e non riesce a dire da dove sia provenuta la capacità di fare qualcosa del genere. Siamo improntati a vedere nell’opera la sensibilità dell’artista, ma il vero grande artista è il primo a stupirsi dinnanzi alla propria opera, la considera come opera dell’arte, e la sente come estranea. Riprende il gioco solo se si sarà liberato da ogni senso di possesso. L’opera non è “sua”, né di qualcuno, è solo qualcosa che ha potuto vedere la luce grazie al fatto che l’artista si è offerto alla creazione, entrando nel gioco della creazione. Queste sono le esperienze artistiche che si addicono al “dialogo” o colloquio tra filosofia e arte. La filosofia impara dall’arte qualcosa che mai avrebbe potuto comprendere senza il colloquio con l’arte stessa. L’opera e l’artista sussistono in una differenza. Ogni artista ha certo uno stile, ma lo stile in realtà non è tanto il modo di fare dell’artista, ma la modalità con cui quell’artista si è messo a servizio dell’arte stessa. Lo stile è quindi il segno dell’estraneità. Lo stile non è lo stilema, ossia il modo di fare. L’artista conosce l’essenza essenziale dell’arte, per questo è l’unico che davvero si intende di arte. La confusione tra astratto e concreto La distinzione tra astratto e concreto quindi non ha alcun senso. Non ci sono parole astratte e parola concrete. Prendiamo ad esempio la parola giustizia, che non corrisponde ad alcun ente. Rinvia ad un niente, ovviamente diverso dal niente a cui rinvia l’arte. In ogni che di giusto splende la giustizia, e non è importante stabilire se si è imparato prima il giusto o prima la giustizia. Indipendentemente da come siamo arrivati a pensare in termini di giustizia, riconosciamo che in tutto ciò che è giusto vi è la giustizia. Ma allora giustizia è un termine astratto e ciò che è giusto è concreto? No, perché la giustizia splende ed è chiara proprio in vista di ciò che è giusto. Lo stesso vale per la libertà, per la verità. La verità brilla in tutto ciò che è buono e vero. Se si ragiona in termini di astratto e concreto, succede che la giustizia si confonde con ciò che è giusto, la libertà si confonde con ciò che è libero, perché ci sembra di ricavare l’astratto dal concreto. Ma pensiamo al male. Se dovesse accadere la confusione tra il male e il singolo male, la cosa diventa molto grave. In fondo il grave sussiste tra gli uomini confondendosi con il “di volta in volta” maligno. Si pensa che per eliminare il male si possa eliminare ciò che è maligno. Il cuore del male sta nel fatto che si possa sempre confondere l’astratto con il concreto, il senso con ciò che è il sensato. La libertà, la giustizia sono quindi proprio quelli elementi concreti. È il male che è concreto, non ciò che è maligno, che ha solo l’apparenza di essere il male. C’è una generale confusione tra concreto e astratto. Nella confusione tra il senso e ciò che è sensato, vi è qualcosa come un furore: tentativo di chiudere rapidamente i conti con questioni di questo genere. Il furore è l’impiego improprio con il tempo, un disturbo del rapporto con il tempo. Il male è quindi lo scatenamento della furia. Arte e “niente” L’intelletto comune ci fa pensare che il termine arte sia una parola vuota, così come tutte le altre parole che si definiscono “astratte”. Ma questo niente non può essere inteso né in senso positivo, né negativo né neutro. La parola niente indica qualcosa di costitutivo ma noi lo contingentiamo e lo facciamo diventare il vuoto, che corrisponde all’insensato. Il niente è la condizione di tutte le determinazioni in senso filosofico, ma anche questo non rende merito alla parola. Niente è non-ente, ma vuol dire rifiuto dell’ente, non negazione dell’ente. È un divieto, vieta all’ente di giocare. L’ente deve rimanere nella sua misura, senza prendere campo. La lingua ha avuto bisogno nel suo sviluppo di indicare il niente. Rifiutando l’ente si dice no a qualcosa che si può fare con l’ente, ossia contingentare. Siamo abituati al contingentamento d’impatto, ossia all’impatto vissuto. Il niente difende l’essere dell’uomo dalla tentazione e dalla minaccia del contingentamento, e questo è il vero significato di niente. Quando diciamo che arte corrisponde al niente, diciamo che si riferisce ad una dimensione incontingentabile. Il niente sostiene la discontingenza, è il baluardo contro la contingenza, un riparo, una custodia. Il niente è come parola progettata affinché l’uomo si accorga di essa come difesa da ogni contingentamento. Scorgimento e dimostrazione L’arte indica quindi i reciproci riferimenti di artista, opera e arte stessa. Tutto ciò che concerne l’arte non può essere oggetto di dimostrazione, differenza tra scorgimento e dimostrazione. Il filosofare non inizia dalla dimostrazione, da una tesi. Ogni grande filosofia, come ogni grande arte, nasce dallo scorgimento. Viene scorto un senso, un’indole. Si scorge l’inizio di una via, da cui inizia un percorso, dentro il quale ci possono anche essere deduzioni, dimostrazioni. Lo scorgimento è attività inferenziale. Senza lo scorgimento non ci sono inferenza, né deduzioni e dimostrazioni. Ogni dimostrazione presuppone uno scorgimento. Alcune cose possono essere solo scorte. Nessuna dimostrazione è attendibile se non si fonda su uno scorgimento originario. Cezanne: pittura e verità Cezanne si chiede in che senso la pittura risponde ad un tratto costitutivo dell’essere umano, e cosa voglia dire dipingere. Cosa significhi dipingere lo sa solo il pittore. L’artista deve conoscere l’essere umano in un certo modo particolare, e la pittura guarda all’arte. Interrogazione dell’arte diventa l’opera stessa di Cezanne, il suo tema è la pittura stessa, lui dipinge la pittura. Dice in una lettera ad Emile Bernard: “Je vous dois la vérité en peinture, et je vous la dirai” Vi devo la verità in pittura, e ve la dirò. Cezanne non è solo un grande pittore, è il pittore che fa apparire il senso della pittura dalla pittura stessa. Dire vuol dire indicare, indicazione significa focalizzazione, e nella focalizzazione accade che il che focalizzato entra in luce, qualcosa è portato in luce, e il resto entro in una specie di ombra, da cui qualcosa emerge. Per la lingua latina parlare vuol dire portare in luce il senso di qualcosa, ossia indicare. Cezanne pensa quindi alla pittura come una modalità della parola. Ogni arte è una modalità della parola. Non dice che farà vedere dei bei quadri, ma parla di verità. La verità ha a che fare con l’arte per Cezanne, anzi proprio l’arte ha innanzi tutto il compito della verità. Parla di “verità in pittura”. L’opera pittorica di Cezanne è una modalità del dire, e il suo atteggiamento è quello di un rapporto adeguato con il dire, fa una promessa, è un uomo di parola. Offre la propria pittura al chiarimento dell’essenza stessa della pittura, in quanto luogo della verità. Cezanne è quindi il pittore della verità della pittura come pittura della verità. È pittore di ciò che la pittura è (verità rinvia al senso d’essere della pittura) come pittura della verità, ossia dipingere la verità. Il senso d’essere della pittura è quindi la pittura della verità. Non è però la verità come corrispondenza, il suo senso è interamente diverso. Il senso della verità di Cezanne è la condizione di attendibilità del senso di verità come corrispondenza. Ci guida nell’esperienza concreta di uno scorgimento universale. Ciò che Cezanne dice in modo universale è ciò che ogni esperienza artistica dice in modo unico e irripetibile, e in questo sta la sua rarità. La verità è l’indole detta dagli artisti. Ogni arte è l’arte Con Cezanne abbiamo parlato di pittura. Arte e pittura, o arte e poesia, non sono la stessa cosa, ma sono il medesimo. Il senso dell’uguale è diverso dal senso del medesimo. Non sono uguali, non coincidono, perché sono insieme il medesimo. Due cose uguali non appartengono al medesimo, sono perfettamente sovrapponibili. Se sono raccolte nel medesimo senso, si presuppone proprio che siano differenti e che proprio nella differenza convergano nel medesimo. Il medesimo raccoglie i differenti, ha un senso di raccolta. L’uguale è un contingentamento del medesimo. Ogni arte particolare, quindi, è l’arte medesima. Arte come discontingenza è riproposta in questo concetto, l’arte medesima è ciò che raccoglie tutte le arti nella discontingenza. Arti raccolte nel niente, raccolte nella discontingenza. Quindi parlare di pittura è parlare di arte. Ogni arte, quindi, è l’arte. La sfuggevolezza E qua si incontra un problema. La parola dell’arte è normalmente sopraffatta o sostituita da un discorso sull’arte, quindi da una parola non artistica. L’arte non è quindi nelle condizioni di manifestare la propria essenza artistica, e tutto ciò non dipende da un difetto e da una mancanza umani. È l’arte stessa che ha in sé l’attendibilità di essere mal-trattata. È colpa dell’arte, un suo tratto caratteristico è di tendere a sfuggire. L’essenza dell’arte è un senso di niente, ed è quindi sfuggevole. L’essenza dell’arte è sfuggevole, ma di che natura è questa sfuggevolezza? Riguarda il senso della discontingenza. Tale sfuggevolezza tenta variamente l’uomo, generando una varietà di reazioni. Una è quella dell’inarrivabilità, avvertiamo la sfuggevolezza, ne siamo più o meno consapevoli (inconsciamente consapevoli) e la mettiamo in termini di “non si può raggiungere”, di inarrivabilità e irraggiungibilità. Molti artisti rispondono che l’arte non si può definire, è una risposta automatica della sfuggevolezza. Se è indicibile, l’arte stessa sarà indefinibile. La confusione tra sfuggevolezza e inarrivabilità è generata non dall’uomo ma dalla sfuggevolezza stessa in quanto tale. La sfuggevolezza dell’arte ci mette in fuga, fuggiamo dalla sfuggevolezza. La prima indicazione da recepire è di resistere alla sfuggevolezza dell’essenza dell’arte, bisogna resistere dalla scappatoia dell’inarrivabilità. Questo è il contegno della filosofia dell’arte. Come si può apprendere il contegno della filosofia dell’arte? Ovviamente dall’artista. Il grande artista tenta di volta in volta un’opera, cioè si offre al tentativo in cui l’opera consiste. L’artista sa la costitutiva sfuggevolezza dell’arte, quindi gli resiste. Rinuncia ad ogni sicurezza, si insedia nella mancanza di assicurazione. Un artista che intraprende una via sicura non è un artista. La mancanza di assicurazione è l’elemento sorgivo del creare artistico. Il grande artista conosce questo suo lavoro come mancante per costituzione di assicurazione. Ogni contingentamento dell’essente è una forma di assicurazione. L’assicurazione è un carattere tipico di ogni parametrizzazione e di ogni contingentamento. L’artista che resiste alla sfuggevolezza comprende il gioco ed è disposto a non essere assicurato, è disposto alla tentazione di ogni contingentamento, e non ha nessuna assicurazione. Sembra che l’artista abiti nella mancanza dell’assicurazione, come elemento negativo. L’artista però ha già inteso l’inattendibilità dell’assicurazione per il creare artistico. La mancanza è in positivo, l’assicurazione è un deficit. In Filosofia e conoscenza d’impatto Fin dall’inizio della sua genitura, il pensiero filosofico si è accorto del fatto che una conoscenza che sia fondata unicamente sull’impatto vissuto, è una conoscenza insufficiente e fallace. La filosofia si genera in questo ambiente, in cui gli uomini nella polis si lanciano verso la vita (verso l’impatto). Il fatto che sia fallace, non gli impedisce di dare degli effetti. La conoscenza d’impatto è efficace, e ciò suscita l’impressione che sia un sapere precostituito e fondato, non bisognoso di essere interrogato nei suoi fondamenti. L’ottenimento di un risultato dà l’efficacia, si induce che il sapere che dà dei risultati è fondato. Nasce il pensiero filosofico che chiede: Da dove proviene l’attendibilità della conoscenza d’impatto? Si chiede da dove venga l’attendibilità ma anche se si tratta alla base di qualcosa di attendibile. Questa è la tipica domanda filosofica. Platone si accorge che la conoscenza d’impatto non è sufficiente a determinare l’attendibilità dell’esperienza. Bisogna riferirsi a qualcosa di più profondo e nascosto, una conoscenza ulteriore. L’esperire può essere chiarito mediante la conoscenza d’impatto? Si possono incontrare molti alberi, ma il conetto di albero non si impara dall’albero stesso. per poter incontrare molti alberi devo già avere avuto il concetto di albero, quindi l’attendibilità dell’albero viene prima rispetto alla sua contingenza, quindi prima della sua conoscenza d’impatto (o sensibile). Non possiamo staccare da una parola il senso che sottintendere, non si può staccare il senso dal suono. Platone chiama sensibile l’impatto vissuto, parola greca aestesis. È la sensibilità, la conoscenza d’impatto. Aristotele dice: e guardiamo un fiore, se prendo la direzione che va da me verso il fiore, se parto da me (con il mio andare verso) mi sembra di incontrare prima il fiore, poi il senso del fiore. Movimento conoscitivo dall’uomo verso l’ente fa sembrare che il senso venga dopo l’impatto. Pensiamo quindi che il senso sia un supplemento del dato, che può essere compreso successivamente. Se questo fenomeno dell’apprendimento lo analizziamo dal fiore verso di noi, è il senso che innanzitutto ci parla, ci fa riconoscere un che in quanto fiore. Conoscenza d’impatto è non tener conto dell’altro lato della conoscenza del fenomeno. La filosofia si appropria di questa questione per fondare un sapere che non si lascia influenzare dalla conoscenza d’impatto. Platone chiama idea quello che fa si che si possa incontrare un fiore, un albero. Idea è ciò che presta a qualcosa il suo riguardo di essere quel determinato qualcosa. Senso del presto, l’idea presta all’albero il suo essere albero. Senso del prestare è fondamentale. Il senso è l’idea. Idea vuol dire quel senso che guardando l’uomo lo chiama nel gioco nell’intesa del senso. Quindi il mondo delle idee non è separato, idea dell’Iperuranio solo nel Fedro. Le idee costituiscono il tema di un sapere che è distinto dal sapere d’impatto delle scienze, e questo sapere è la filosofia. Le idee diventano il tema della filosofia stessa. Alla luce della conoscenza d’impatto, il sapere filosofico sembra astratto. Ma è un sapere più concreto, perché interroga le condizioni della contingenza senza considerarle come ovvi. Il problema della conoscenza La filosofia irrompe nel bel mezzo della conoscenza d’impatto. Ogni comunità umana, per il fatto stesso che l’uomo si raccoglie in comunità, ha già da subito la minaccia della conoscenza d’impatto. La conoscenza d’impatto si rigenera in ogni nascita, ogni volta che un uomo nasce, con lui nasce anche la minaccia della conoscenza d’impatto. Però si genera anche simultaneamente la capacità di staccarsi da tale conoscenza, l’attendibilità di interrogare le condizioni di attendibilità. La filosofia non nasce dalla meraviglia del mondo, lo stupore è che il mondo possa fondarsi sulla conoscenza d’impatto. Tutte le domande nascono dallo stupore verso la forza della conoscenza d’impatto. La filosofia è tentativo di rimedio della polis. È tentativo di fondazione della polis. Ecco perché il dialogo più importante di Platone è “Politeia” (tentativo di fondare l’attendibilità della polis, non repubblica). Politeia è “modo in cui la polis ha luogo sulla terra”. Come dev’essere fondata una polis? Nella conoscenza d’impatto non c’è misura, ma soltanto smisuratezza. Fondare una comunità umana, una polis, significa da dove prendere la misura per abitare. Scompare il riferimento alla sorgente della misura là dove vige l’impatto nella comunità. Smisuratezza è mancanza del problema di stabilire la fonte della misura. La filosofia quindi è sempre inattuale, perché non trova il rimedio alla smisuratezza. Ogni volta che inizia una comunità umana bisogna riprendere il problema della minaccia, e trovare nuovamente un rimedio, e di per sé nasce inattuale e muore inattuale. Ogni volta inizia e muore, e lo fa inattuale. L’inattualità vuol dire che ogni volta è gettata in un ambito in cui sarà respinta, perché la conoscenza d’impatto fiuta un pericolo che non conosce e la rifiuta. La paura è un contegno di fuga difronte a ciò che non si conosce. Con il tempo di comprendere, la paura diventa gioia. È inattuale perché nasce libera dalla contingenza, quindi ogni volta è inattuale e futura. Ai giorni nostri c’è il trionfo della conoscenza d’impatto. La conoscenza d’impatto vuole essere filosofia, la sua vera passione è quello di presentarsi come filosofia. polis richiama un verbo che significa “essere”, e non vuol dire città stato. Vuol dire ottenere uno spazio grazie ad un certo tempo. Allora la Politeia è il tentativo di fondare l’essere della comunità umana. Ci sono quindi due forme di conoscenza: conoscenza d’impatto e la filosofia. Esse hanno come oggetto rispettivamente la contingenza e l’attendibilità. Il domandare operativo tende a sostituire il domandare filosofico, ponendosi esso stesso come domandare filosofico. L’occhio storico È una forma della conoscenza d’impatto particolarmente tenace e difficile da sradicare. È la forma che si è attestata nella nostra epoca. La conoscenza d’impatto fornisce delle informazioni che sembrano derivare dalla nostra diretta e vissuta esperienza. Sembra il nostro stesso pensiero, la nostra opinione, ma è solo conoscenza d’impatto. Parte dal presupposto che si possa partire da un punto di vista esterno visto come neutrale, che non entra in gioco. Questo punto d’osservazione disconnesso da tutto e neutro lo chiamiamo “occhio storico”. L’occhio storico è quel guardare che si auto fonda come la prospettiva ultima sull’essere di ogni cosa, dunque come l’unica prospettiva attendibile. Cerca di sistemare il tutto in modo da intenderlo in modo neutro. Oggettivo è termine tipico dell’occhio storico. Qualsiasi agire umano può essere osservato dall’esterno attraverso l’occhio storico. In fondo presuppone che su ogni agire umano ci si possa affacciare come da un balcone, balcone dal quale ogni cosa appare dalla sua oggettività. Chiunque può diventare spettatore di qualunque cosa dal balcone storico, ospita chiunque di noi. Spettatore è qualcuno che guarda e si fa rapidamente un’idea. Il balcone storico tiene una distanza di sicurezza sufficiente in modo che non ci riguardi, in modo che ci si possa fare un’idea. Il balcone non è solo un punto di osservazione, ma una vera e propria postazione. Su di esso ci si apposta, l’occhio storico fa la posta ad ogni cosa in modo da vedere se essa possa trasformarsi in qualcosa di utile e fruibile. Nulla sfugge all’occhio storico. Ci sono tre caratteri fondamentali dell’occhio storico: 1. Ha la pretesa di contenere tutti gli altri sguardi. Si tratta quindi di un occhio che pretende di contenere tutte le altre visioni, è una pretesa universalizzante. Secondo l’occhio storico, anche l’artista ha un occhio storico, così come lo scienziato e il filosofo. Si dirà quindi che l’artista risente dell’epoca in cui vive, che esprime i valori della sua epoca storica. L’occhio storico si alimenta del pensare mediante valori, è un pensiero valoriale e quindi svalorizzante, è un’aziendalizzazione del senso del mondo. 2. Non conosce lo stupore. Ignoranza dello stupore. Ogni cosa è un factum brutum, ovvero qualcosa di già fatto, il cui apparire è assunto come un dato. C’è anche lo stupore storico, che è solo una posa dell’impatto vissuto. 3. Non deve mai mostrare le proprie condizioni di attività. È una modalità insigne della conoscenza d’impatto, non deve mai mostrare il modo in cui esso stesso è costituito. Ignoranza della propria attendibilità. Si presenta d’impatto come attendibile, anzi come il più attendibile sguardo possibile. Oggettuazione e soggettuazione L’occhio storico vive nella dimensione in cui tutto può essere ridotto a oggetto, e possono essere stabilite tutte le prospettive per cui qualsiasi cosa possa essere oggetto. Sta nel luogo della universale oggettivazione. Oggettivazione è anche oggettuazione, che è un termine più vicino al senso della “riduzione a oggetto”. Non si tratta di rendere qualcosa oggettivo, ma riduzione di qualunque cosa a oggetto. Occhio storico vuol dire quindi occhio oggettivante o oggettuante, è lo sguardo che trasforma la cosa in oggetto. L’oggettuazione è la premessa di una pluralità di soggetti. L’uomo come soggetto, il fatto che ognuno di noi si sente soggetto (intersoggettività), è una configurazione dell’uomo. Ad un certo punto nasce il soggetto come carattere dell’uomo, ma l’uomo non è sempre stato inteso così da se stesso. l’interpretazione dell’essere uomo diventa una auto interpretazione, lungo la storia della nostra cultura. Siamo abituati a pensarci come soggetti perché per poter essere un insieme di soggetti è necessaria una oggettuazione già avvenuta. Il fatto che uomo come soggetto significa che ha il suo modo di vedere darebbe idea di una libertà di ciascuno di noi, che però è apparente, dipende dalla condizione implicita dell’oggettuazione. I soggetti sono giocatori che si esprimono sul fenomeno già avvenuto dell’oggettuazione, ne sono vincolati. È una libertà non genuina, non profonda. I soggetti confluiscono sull’oggetto. Dove accade un’universale oggettuazione avviene una soggettuazione. Quando l’arte è ridotta a oggetto, diventa funzionale alla formazione di una molteplicità di sguardi soggettivi su di essa. Oggettuazione e soggettuazione sono elementi complementari dell’occhio storico. L’occhio storico viene internalizzato dal soggetto stesso e diventa parte integrante della sua soggettività. Fanno parte dell’occhio storico sia il guardare all’arte come esperienza personale, vissuto soggettivo, sia come la visione dell’arte in termini storico critici. Sguardo oggettivo e sguardo soggettivo fanno alleanza contro ogni attendibilità di ogni scorgimento originario. Lo scorgimento originario nella sua attendibilità non può avvenire, o può avvenire solo scontrandosi con la potenza dell’occhio storico che ogni volta lo impedisce. Il contegno geniturale La triade non ha nulla da spartire con l’oggettuazione. Nel gioco dell’arte oggetti e soggetti non entrano mai in gioco, nonostante siano proiettati dall’occhio storico nel gioco. Il contegno artistico non è mai storico. È un contegno creativo. Creare vuol dire portare alla luce. Il creare porta alla luce qualcosa avendo data per scontata la circostanza che quel qualcosa ha un fine di rimedio. Nello stesso creare c’è in vista l’attendibilità che il creato abbia già scontato il proprio carattere di rimedio, ossia che deve essere in qualche modo fronteggiato. Altrimenti non è creazione, è mettere in luce qualcosa sperando che venga riconosciuto in qualche modo. L’occhio artistico riduce la creatività artistica alla creatività tecnica, diventa una modalità tecnica del creare. Questo contegno creativo, che porta alla luce quel qualcosa che ha in sé carattere di rimedio, è contegno generativo. Creare non è solo produrre qualcosa, ma farlo con in sé il carattere del rimedio. È contegno “geniturale”, aggettivo costruito sulla parola genitura. Il contegno artistico è geniturale, procreativo, creativo, rimediante. Il termine rimedio consuona con meditazione, meditare ha la stessa radice di meditare, appartengono allo stesso orizzonte di senso, così come anche mediazione. Il procreare è una meditazione, si dice anche concepire che vuol dire aver procreato. Appartiene all’indole dell’arte il generare ogni volta una dimensione dell’abitare umano. l’opera d’arte mira all’abitare umano, mira a costituirsi come rimedio, sostegno, cura dell’abitare. Il contegno geniturale concede anche l’attendibilità dell’occhio Il pensiero scismatico La formula della triade Il gioco dell’arte è costituito dall’arte come ciò che non rinvia a niente (libertà dalla presa del contingentamento). Chiamiamo 0 arte. Ogni opera d’arte, quando si genera nel gioco dell’arte, non è cumulabile con l’altra. In Giacometti, ogni rappresentazione di uno stesso soggetto è sempre la prima, il gioco va ripreso sempre da capo, non è cumulabile e non è assicurabile. Opera quindi è 1, mentre l’artista nel gioco è il medio, quindi l’1/2, l’intermediario, il mezzo del niente verso l’unicità dell’opera. Star fuori dalla triade vuol dire non comprendere cosa vogliano dire arte, artista e opera d’arte. Dice il poeta René Char: “Il canto è ili compiuto amore del desiderio rimasto desiderio” Si tratta di rimanere innamorati del desiderio che rimane tale, non smette mai di essere desiderante. Il gioco dell’arte appartiene alla vaghezza, si rimane nel piano dell’invaghimento, non può essere di nessuna pacificazione. Quando un artista compie la sua esistenza artistica non ha compiuto assolutamente niente. La parola “attendibilità” L’essenziale attende che l’uomo si dedichi alla sua custodia e salvaguardia, alla sua reconsione. L’uomo è quindi davvero tale solo se attende all’essenziale, ne ha cura e riguardo. Attendibile per l’uomo è ciò che lo riguarda in modo costitutivo, ad esempio il pensiero filosofico e il creare artistico che si esprime nella triade. L’attendibilità sussiste indipendentemente da ogni contingenza, è originariamente libera dal contingentamento, ha in sé il farmaco contro la tentazione del contingentamento. Attendibilità vuol dire anche “resistenza contro la tentazione”. Ha già scontato la tentazione, conosce la tentazione del contingentamento. È scisso dal regime della contingenza. Costituisce una scissura originaria dalla contingenza, però ogni contingentamento ha bisogno dell’attendibilità per essere ciò che è. l’attendibile è invece libero, in grazia dalla sua indole, dal contingentamento. Potremmo mai essere chiamati a prendere le misure del contingentamento senza il senso dell’attendibile? No, l’attendibilità deve esserci alla base. Tutte le ricerche scientifiche, tramite il concetto di scientificità, abitano nella dimensione dell’attendibilità seppure non la riconoscano. Il contingente non può annientare l’attendibile, può solo infirmarlo e coprirlo. Infermo è colui che non ha fermezza, infirmare vuol dire togliere la fermezza di un certo argomento. Il contingente può sostituirsi all’attendibilità. La scissura Il piano dell’attendibilità è scisso dal regime della contingenza. Possiamo concludere che il piano dell’attendibilità non è “scissura da” ma “scissura verso”. La scissura non è una mera separazione, non sono due campi paralleli senza interrelazioni, ma anzi ce n’è una fondamentale ossia che il piano della contingenza attinge senza saperlo all’attendibilità. Il piano dell’attendibilità offre. Ogni volta il senso di un essente è dovuto al piano dell’attendibilità. Il pensiero dell’attendibilità è quindi pensiero scismatico, che non vuol dire separato, ma sempre scismatico verso. Quindi il pensiero scismatico si contrappone al pensiero contingente, che ha come sua stoffa e come vigore l’impatto vissuto. Consiste nella continua fabbricazione, è una forma mentis che continua ad operare, industria del pensiero contingentante che fabbrica tutte le condizioni e prospettive capaci di porre in atto il contingentamento di ogni cosa e del mondo stesso, che ogni volta deve essere potenziato e istituito. Il carattere di fondo del pensiero contingente è il suo spiegarsi sotto forma di pensiero a binario unico. Vuol dire che va in unico senso, quello delle direttive del contingentamento, che si auto comprende come definitivo. Si alimenta nell’occhio storico, ci trova un suo carattere essenziale. Il pensiero contingente è unilaterale, infatti nei suoi imperativi troviamo molto strano il pensare scismatico. Senso di stranezza che il discorso sull’attendibilità produce in noi è la prova dell’essere a binario unico e non contrattabile del pensiero contingente, che in noi prende il sopravvento. Esso non è che un pensiero scismatico ignaro della propria fonte, è scismatico senza saperlo, un pensiero non potrebbe non essere scismatico. È una differenza di senso. L’ignoranza della propria sorgente gli dà delle particolari forze, chiama in causa la contingenza e l’impatto vissuto togliendo la parola allo scisma, ossia alla sua provenienza. Rifiuta la sua provenienza. Il metodo Il pensiero a binario unico non è il pensiero unico. il binario non lo costruisce il pensiero contingente, se lo ritrova già fatto, almeno nel suo punto di partenza e avvio che indica i moti che il pensiero contingente dovrà seguire. Questo è il metodo scientifico, che non è la via attraverso cui si ottiene un certo risultato. Metodo vuol dire anche questo, ma il significato più autentico del metodo è il binario, ossia inquadramento costruito con regole che vanno rispettate. Metodo vuol dire inquadrare qualcosa e seguire delle regole già stabilite, regole universali e generali, indipendenti da ciò che viene indagato. Pensiero in costruzione Sono sia il pensiero contingente sia il pensiero scismatico dei pensieri ancora in costruzione. Il senso della costruzione è determinante, un pensiero sarà scientifico solo se sarà in costruzione, altrimenti sarebbe una mera dottrina. Tanto il pensiero contingentante viene costruito e tanto lo è anche il pensiero scismatico. Forme di conoscenza in continuo progresso, così si pongono le istituzioni scientifiche e di ricerca (come anche la nostra stessa università). Si pensa che un domani la scienza produrrà degli effetti, si parla di ricerca scientifica fondamentale, ossia libera da utilità pratiche. Si tratta di un senso del progresso verso la verità, la scienza si presente come in moto verso la verità, sintomo di salute dei processi di indagine in corso. Sembra che la verità sia al punto estremo della struttura della materia. Gli scienziati non usano il termine “essere”. Ma questa realtà come si è costituita? Questo moto che va verso la realtà dove si colloca rispetto ad essa? Non è reale, non è vero? E allora come può qualcosa di non reale avere come obiettivo la realtà? Il pensiero scismatico si trova nelle condizioni di dover rispondere ad una domanda operativa, ma non è capace di rispondere con la lingua del pensiero contingente. Quando si trova una mancata risposta viene considerata come una prova dell’inattendibilità del pensiero attendibile, si ha così una radicale inversione dei ranghi. Verso l’arte Quando diciamo che siamo nel cammino verso l’arte (titolo del nostro discorso), questo titolo si capirà solo alla fine del cammino. Nel titolo è già contenuto tutto il discorso, se è un cammino lo è soltanto perché è nel verso dell’arte, allora si può dire che essere nel bel mezzo del cammino ci impone di stare sul piano del pensiero scismatico, è la questione dell’arte che lo richiede. Il gioco dell’arte stessa è vocato alla discontingenza e intonato alle leggi dell’attendibilità. In tal modo si nasconde un aut- aut. O scisma o contingenza. Il verso l’arte non ammette compromessi, si cerchino ovunque ma non nella filosofia e in particolare non nella filosofia dell’arte. Aut aut tra scisma e contingenza. Essere nel tempo Fenomeno della genitura è fenomeno necessario perché si generi un fenomeno come la storia. Il tempo è un grande contenitore misterioso, rapporto fra le umanità che si susseguono. Nella fisica si parla in alcuni casi di nascita del tempo, mentre un altro tipo di fisica parla di tempo come emergenza (Einstein). La fisica dice che il tempo è un carattere della natura, la natura genera il tempo e ci si ritrova nel tempo. Cosa significa “essere nel tempo”? E cosa significa “tempo”? Supponiamo di dire che le umanità si susseguono nel tempo come qualcosa che appartiene alla storia, intesa il nome umanistico del tempo. Il tempo come fenomeno naturale si incontra con l’essere umano. incontro tra uomo e tempo naturale si chiama storia. Si parla di fatti ed eventi storici, quindi ci sono un passato, un presente e un futuro. Il passato dov’è? possiamo vederne delle tracce, delle testimonianze, dei monumenti e a partire dalle tracce si deduce che è esistito un tempo passato, come quello della Roma imperiale. L’essere del presente dov’è? e il presente non si può dire quanto sia lungo, e poi c’è il futuro che è ancora più problematico. Passato e futuro non sono, il presente è ma siccome non si capiscono né passato né futuro anche il presente è problematico. Tutto ciò si chiama storia. Questioni molto serie, il problema del tempo nella storia è totalmente coperto. Parliamo di un passaggio da una umanità all’altra, siamo gli eredi della progenie occidentale ma in che senso non lo si sa, si aprono tantissime questioni. Rimane problematico il concetto di tempo naturale. Dall’angolo visuale del pensiero contingente si ragiona in termini di causa ed effetto, un’umanità causa un’altra umanità ma le umanità dimenticano di essere state causate e quindi perde la memoria storica. Ma si tratta di uno schema causa effetto, ogni epoca dipende dalla precedente. Vi è forse un Super-Fatto che innesta la storicità? Ora si è costretti a seguire questa strada e a chiederci quale sia la causa di una certa causa che produce un certo effetto. Domanda che si cerca di non porre, ma se lo schema di fondo storico è questo, come non chiedersi questo. La causa della causa della causa dell’effetto dell’effetto dell’effetto. Troviamo presto un punto che non ha causa. Vi è un punto che non ha causa e che non è più storico, non è più intendibile dall’angolo visuale dell’occhio storico e dallo schema causa effetto, un punto singolare che non ha i caratteri del fatto, il fatto presuppone un che di fatto. questo punto non è una causa causata, è una singolarità. Di cosa si tratta? È forse un Super-Fatto che innesta la storicità? Si entra in un’aporia, non si può uscire. Se resistiamo sulla via di questo interrogare, ci accorgiamo che dobbiamo ammettere qualcosa che è un inizio, un inizio non fattuale che tutto orienta e guida ciò che chiamiamo eventi all’interno di una cronologia storica e una spazialità geografica. L’inizio, se non è un fatto ma un senso che non può essere oggettuato (se fosse oggettuato sarebbe un fatto), può essere chiamato genitura. Elemento che ha un inizio non fattuale è una genitura. Una certa databilità storica ha bisogno di un senso. Una guerra mondiale come quella del secolo scorso non è solo un fatto, è anche accaduta alla luce di un certo senso che ha reso attendibile la necessità di scontrarsi in certe modalità. Non si può solo mettere sotto i termini di evento storico, perché da qualche parte c’è anche un senso che lo rende attendibile. Bisogna allora chiedersi quale sia quel fatto geniturale che ha fatto si che le nazioni si scontrassero in quel modo e con quegli elementi. La seconda guerra mondiale non ha deciso nulla, in fondo le guerre non hanno deciso assolutamente nulla, al punto tale che potremmo dire che quella guerra in particolare ha sancito esattamente il fenomeno del non dover prendere alcuna decisione. mondo intero si è trovato nell’assenza totale della mancanza di decisioni. Fatto storico è alla luce della genitura. Non si possono ottenere i sensi dei fatti da altri fatti. La parola genitura è il generarsi di quel senso che fa si che possa aver luogo quella data umanità in moto verso un’altra umanità. Il modo in cui un’umanità abita sulla terra si chiama mondo. Agli occhi del pensiero contingente ciò appare solo come storia. Il senso dell’inizio L’inizio pensato come un senso non è mai una fase primitiva o una partenza, si può individuare delle fasi in una certa genitura, però quando si parla di inizio non si parla della fase iniziale. Così ricadiamo nello schema causa-effetto, problematico. Inizio invece è ciò che non trascorre mai, non trapassa. L’inizio è fermo, non passa mai. Lo dice la stessa parola inizio, che viene da “in ire” che vuol dire andare dentro, e alla fine dominare, andare fino in fondo. L’inizio di un amore non è una fase Il “senso comune” dell’essenza dell’arte Opere d’arte sono testimonianza geniturali, incontro con un senso che ci riguarda. Il nostro tentativo di incontro con l’essenza dell’arte incontra un ostacolo fin dal principio. Se da un lato l’arte come indole ci è sconosciuta, dall’altro ognuno dispone di un tenace sapere dell’arte in quanto oggetto dell’occhio storico. L’indole arte dorme sonni tranquilli, l’oggetto arte è da noi assicurato. Chiamiamo “senso comune” questo sapere fondato sulla conoscenza d’impatto e sull’occhio storico. Il senso comune non è un insieme di pregiudizi da cui liberarsi, non si tratta di smascherare dei pregiudizi. È il senso a cui ciascuno di noi fa costantemente appello senza accorgersene. Il senso comune è la nostra sede, il sedile su cui siedono gli uomini nella caverna è il senso comune, è l’allegoria della caverna, che contiene immagini e figure con questi contenuti (questa è l’arte di Platone). I tratti del senso comune sono i tratti della modalità d’uso e del confort, mette a proprio agio. Il senso comune è facile perché è attivato in ogni momento, ed è anche confortevole perché non si offre mai alla de-struzione, ha in sé le difese contro le de-struzioni. L’odierno senso comune ha già variamente interpretato il senso dell’arte. Problema della comune comprensione dell’arte. Abitiamo in un senso comune relativo all’arte, ma come si articola questo senso comune? Non è un insieme di pregiudizi di cui liberarsi. Il senso comune ha i tratti della facilità d’uso e del comfort, non è un insieme di pregiudizi. Chiunque può appoggiarsi al senso comune e lo può usare in qualunque momento. Il termine facilità richiama il senso del fare, significa ciò che può essere fatto, la facilitizzazione è il fare in modo che tutto divenga fatto, quindi fattibile e facile, fattibile in termini di effetti. La facilità rinvia alla velocità. Il senso comune dà questo facilitare continuo e destinato a crescere. Quando ci si abitua al facile, il facile è sempre più richiesto. Il senso comune produce industrialmente la facilità in modo da far crescere il comfort. Tutto questo è indicabile come il regime della fattuazione. Il senso comune implementa la fattuazione, in modo che tutto possa risultare ogni volta un fatto rapidamente ottenuto e messo in funzionamento. Ogni concetto comune è coerente, ogni determinazione si rinforza con l’altra, diventando fruibili e facili. La facilità diventa sinonimo di felicità, la facilità della fattuazione è la felicità. Sinonimo di felicità, performatività. Le intese comuni dell’arte Sono sette modi in cui il senso comune interpreta il gioco dell’arte. Quando noi diciamo “arte” dobbiamo pensare che il concetto comune di arte porta con sé il concetto comune di opera d’arte e il concetto comune di artista. Il senso comune è coerente, quando esprime un certo concetto di arte poi gli altri sono conseguenti. Il gioco è sempre ogni volta chiuso, si parla del gioco con tutte le sue relazioni. Ecco i concetti comuni di arte, ossia i format dell’arte: 1. L’arte come una rappresentazione della realtà. Format molto forte. Quando si pensa che l’arte sia rappresentazione scompare l’arte in quanto niente, non c’è nemmeno il sospetto che possa rinviare a qualcosa che non sia commisurato a nessun ente. Arte è il nome di un’attività, attività che consiste nel rappresentare la realtà. L’artista è quindi un produttore di visioni con cui interpreta la realtà che lo circonda. Di conseguenza l’opera d’arte è il concretarsi della rappresentazione, una forma che rispecchia la realtà. Siamo educati a pensare che la realtà “ci circondi”, ma ci dimentichiamo che siamo noi che non smettiamo mai di circondare le cose, siamo noi che costantemente le circondiamo. I circondanti si sentono circondati. 2. L’arte come pura immaginazione. L’artista diventa così un essere umano lontano dalla realtà che crea oggetti fantastici e irreali. L’opera d’arte è la concretizzazione di cose surreali (vedi il “surrealismo”, che in realtà punta ad una realtà superiore). Il primo e il secondo concetto sembrano apparentemente (non lo sono in realtà) in contrasto. Chi tiene al primo concetto dirà che l’arte dell’immaginazione non è autentica e viceversa. Tra i concetti comuni di arte si crea un contrasto, che è solo apparente. 3. Arte come forma di espressione. Quindi l’artista appare come una soggettività che esprime se stessa, nel senso del suo sentire, della sua persona e del suo vissuto. Il se stesso diventa un’espressione. Ritorna il fratello della contingenza, ossia l’impatto vissuto. Esprimere vuol dire “portare/premere fuori”. L’opera d’arte diventa quindi l’espressione di un individuo creativo. Creazione in questo caso però vuol dire non portare alla luce qualcosa che abbia già in sé il rimedio, che sia capace di fronteggiare l’attacco del contingentamento. Ciò che viene creato qui è l’opposto, ha in sé la traccia del vissuto dell’artista, il quale è colto sotto forma di vissuto (subendo così un contingentamento). Attività creativa coincide con l’esprimere se stessi. 4. Arte come attività del “vissuto”. Non vissuto dell’artista, ma impatto vissuto degli uomini, un vissuto umano. L’artista è quindi una persona che si distingue per una spiccata abilità nel creare oggetti in cui il vissuto si concretizza e diviene tangibile. L’opera d’arte è una creazione in cui la vita stessa diviene trasmissibile e condivisa. Ma questo concetto di vita, da dove proviene? 5. Arte come mezzo di comunicazione. È un’intesa basata sulle due precedenti. L’arte è quindi un linguaggio, un codice attraverso il quale transita un messaggio. Il concetto di comunicazione si articola mediante “codice” e “messaggio”. L’artista è allora colui che possiede la competenza codificante (non la capacità comunicativa), l’artista comunica con il codice. L’opera d’arte è la concretizzazione del messaggio codificato. La comunicazione è contingentata secondo codice e messaggio. 6. Arte come “regno dell’indicibile”. L’artista in questo caso sarebbe qualcuno con una singolare sensibilità unita ad un particolare gusto per le cose profonde (oscure e incomunicabili al resto degli uomini). L’opera d’arte assume l’aspetto di un oggetto che vuole manifestare non quindi un messaggio, ma esattamente l’incomprensibilità e il mistero, comunica l’incomunicabile, la misteriosità della “profondità”. Quindi la vera arte consiste solo nel ricordare all’uomo l’incomunicabilità e il mistero, tono ieratico che vorrebbe svegliare gli uomini e dirgli che le cose non sono come gli appaiono, ma la vita e tutto in realtà è mistero, vige l’indicibile. Ma su quale concetto di lingua si fonda questa indicibilità? 7. Arte come promozione di valori. Qualsiasi sia l’intesa della sua essenza, l’arte è innanzi tutto promozione di valori. Mette d’accorto tutte le precedenti. L’opera d’arte è il concretizzarsi di valori nella modalità che si vuole. L’artista diventa per esempio un interprete di valori condivisi, promotore di valori rivoluzionari o distruttore di valori tradizionali. Quando si ragiona così, si dice anche che tutti i concetti di arte possono essere così letti, è il concetto fondante di tutti gli altri. . à giustifica la 1: L’arte è valore, allora l’opera d’arte è una valorizzazione della realtà. Si duplica perché così facendo la si valorizza. La valorizzazione della realtà si traduce in una valorizzazione della contingenza, potenziamento del contingentamento. Il rimedio starebbe nel fatto che la valorizzazione della realtà diventa una cura della realtà stessa. La valorizzazione viene propugnata come cura. In fondo ognuno può combinare come vuole questi concetti tirandone fuori uno nuovo, che però è solo il risultato della combinazione. Questo ci dà un enorme senso di libertà, come se potessimo definire noi cosa l’arte sia per noi stessi. Il format del valore Molteplici posizioni apparentemente in contrasto nel format del valore applicato al gioco dell’arte. L’arte interpreta i valori o ne è creatrice? L’artista esprime valori veramente nuovi? Fino a che punto sarà davvero innovativo? Domande attendibili nel concetto di arte come promotrice di valori. Idea secondo cui la società condiziona la creazione artista e l’epoca storica determina degli effetti di cui l’artista è portatore. Entro la rigidità del senso comune si possono generare infiniti dibattiti, scontri tra posizioni apparentemente in contrasto le quali però si basano su assunti di fondo non interrogabili. Non può avvenire nessuna interrogazione sull’attendibilità dei concetti. Il valore è la benzina stessa del dibattito tra i concetti comuni. Concetti comuni: concetti operativi I concetti comuni di arte sono avvalorati dal fatto che si presentano immediatamente come comprensibili e fruibili. Ognuno di noi semplicemente assume quei concetti senza doverli sostenere, non hanno bisogno di nessun sostegno. L’elemento normativo è sempre nascosto. Non vi è nessuna necessità di giustificare in attendibilità i concetti comuni. Il senso comune è una fitta trama di concetti condivisibili e fruibili senza il bisogno di dover essere sostenuti (ritorna la caratteristica della facilità, agio, comfort). Questi li chiamiamo concetti operativi. Si tratta di concetti che permettono un’operatività. La curiosità ha un istinto operativo, vuole ottenere rapidamente un risultato, è un contegno vocato all’ottenimento di una risposta. Ogni concetto del senso comune si presenta con la possibilità di operare a partire di esso. A partire dall’arte come concetto di espressione di valori si può costruire una storia dell’arte basata sui valori trasmessi e sul loro continuo cambiamento. Le scienze e i concetti operativi Vi è un campo dell’attività umana nella quale i concetti operativi sono ampliamente attivi, sono dei veri concetti che operano, è l’ambito delle scienze. È il sapere articolato nelle varie discipline scientifiche (le scienze sono divise in discipline). Non è detto che la conoscenza divisa in discipline divenga più disciplinata. Se osserviamo il modo di procedere dei settori delle conoscenze scientifiche nelle indagini che le scienze mettono in campo comprendiamo la natura dei concetti operativi. Ogni scienza, in quanto indagine scientifica, parte necessariamente da concetti che non sono interrogati mediante i propri procedimenti, che quindi le consentono di procedere fino a produrre effetti pratici. 1. Fisica Deve partire da un concetto di “spazio” inteso come insieme di punti, di “movimento” come traslazione di corpi nello spazio e da un concetto di “tempo” come successione di attimi. Questi tre concetti devono essere assunti dalla fisica perché possa operare come indagine scientifica. Ma la fisica on può mai dimostrare fisicamente (attraverso un esperimento o un modello matematico) tali concetti. la fisica crea dei modelli matematici e poi verifica sperimentalmente se c’è concordanza tra le predizioni del modello matematico e quello che viene osservato. La fisica aristotelica non è matematizzabile, si sente dire che sia una fisica primitiva, Galileo e Newton ne prevedono gli errori. Per certi versi è vero, ma per altri bisogna presupporre che la fisica aristotelica sia matematizzabile. Dai testi ci rendiamo conto facilmente che quel modo di considerare la physis, non è matematizzabile non perché non ci sia la matematica adeguata ma perché il tema non lo permette, quindi usare la matematica sarebbe un errore di metodo La provenienza dei format dalla genitura della filosofia I format Il format è forse un concetto falso? No, sono insufficienti ma non sono falsi. Sono insufficienti perché si presentano di impatto come sufficienti. L’insufficienza è una modalità dell’apparenza. Il modo comune di ragionare per contrari, la logica a cui siamo abituati, non ci permette di comprendere il vero, bisogna guardare al senso. Non esiste una logica formale che riguarda tutte le parole di tutta una lingua, è una fantasia. Pensare per format vuol dire pensare mediante concetti insufficienti convinti della loro sufficienza. L’insufficienza appare come un rischio meno grave della falsità, invece è l’opposto. Il falso è meno tenace dell’insufficienza, perché può essere fatto apparire in quanto tale. Il primo non fa altro che dichiarare la sua vera natura, ciò che è falso una volta che viene smascherato ammette la propria falsità, mentre l’insufficienza può richiamare all’infinito, non si può mai toccare per via di svelamento. L’insufficienza ha sempre i modi per apparire come sufficienza. Per mostrare un’insufficienza è necessaria una conoscenza dell’ordine dello scorgimento. Principio aristotelico di logica originaria sta alla base della logica aristotelica. Aristotele usa e inventa i sillogismi, ma non nel modo che gli attribuiamo Come dobbiamo intendere l’insufficienza? L’insufficienza non consiste nella superficialità o nell’approssimazione, non è una non profondità dell’indagine. Il pensare per format richiede uomini sempre meglio addestrati all’implementazione dei format stessi, il pensare per format richiede un addestramento ad personam. Si tratta di un addestramento all’implementazione dei format stessi, ciò richiede una certa competenza. Si diventa luminari e sapienti del pensare mediante format. Il pensare per format può essere inesatto o profondamente fallace. Fallace: ricolmo di fallace, ossia di vuoti, che però non appaiono. Perché appaiano bisogna ricorrere al pensiero scismatico. I sette format dell’arte, che abbiamo visto, sono: 1. Rappresentazione della realtà 2. Immaginazione 3. Forma di espressione 4. Trattamento del vissuto 5. Mezzo di comunicazione 6. Trasmissione dell’incomprensibile 7. Proposizione di valori I format possono variamente combinarsi, il loro numero può quindi estendersi all’infinito. Ecco come l’insufficienza si spiega. Combinando i format in modo complesso e sofisticato, andare a risalire al format non è facile. Il singolo che viene chiamato in gioco non è minimamente consapevole del gioco, va avanti pensando di avere degli scorgimenti, di aver imparato ed inventato qualcosa. Si può ad esempio dire che l’artista è interprete della realtà che lo circonda, ma equivale a dare il primo format di arte. Contrasto tra i format I format possono anche contraddirsi uno con l’altro, possono sorgere delle contraddizioni. L’arte può apparire come uno specchio della realtà o una manipolazione della realtà, può esprimere valori universali o particolari, condivisibili o rivoluzionari. Il pensare per format satura ogni discorso e diventa guida indiscussa di ogni accesso al senso. Non è una obiezione sufficiente contro il format lo scorgere delle contraddizioni. Possono anche essere essi stessi contraddittori, ma ciò non li invalida, perché ogni contraddizione mantiene in vigore l’operatività dei format. Il discutere crea un dibattito, e questo alimenta l’operatività del format. La contraddittorietà permette scontri tra “punti di vista” con dibattiti formattati, all’interno della logica illogica dei format. Dibattiti per cui ogni discorso fa sempre riferimento alla formattazione. Ogni dibattito tra format, ogni guerra e dissidio, avvalora il format in quanto tale. Origine dei format Uno dei compiti della filosofia in quanto tale, del pensiero scismatico, è quello di cogliere in flagranza l’insufficienza dei format, e questo non è semplice. Il format si presenta come non interrogabile. L’origine dei format è da ricercare nella tradizione della filosofia, da ricercare perché non è affatto evidente. La tradizione della filosofia è la grande fucina dei format, essa ha ormai assunto il carattere della miniera di concetti e di pensieri che possono essere usati secondo varie dimensioni. I concetti coniati lungo il corso della tradizione della filosofia non sono in nessun senso e da nessun punto di visto dei format, hanno un’indole diversa, ma il pensare mediante format retroagisce sui concetti della filosofia e fa in modo che anche quei concetti filosofici originari appaiano come dei format. à la formattazione ha un potere retroattivo La formattazione si alimenta nell’occhio storico, perché esso non avrà mai un’indole geniturale. La formattazione distrugge l’occhio geniturale a favore della storia. I concetti ontologici I concetti filosofici si distinguono dai concetti operativi. Il termine “ontologico” è una parola proveniente dalla lingua greca. I termini greci che compaiono nella parola sono due parole fondamentali del pensiero, termini che designano il tema del pensiero filosofico. Onto: La componente “onto” viene da toon, che significa ciò che chiameremo “ente”, “essente”. Il termine toon rinvia velocemente all’essere, mentre per noi la parola ente non portano a sentire subito il riferimento al verbo essere, lo fa invece il termine essente. Participio del verbo essere, participio è parola che partecipa di due sensi, il verbo e il nome. Può essere sostantivo grazie al verbo, ma senza il verbo non potrebbe essere un sostantivo. Senso della temporalità è molto netta, indica ciò che è in corso di essere. Il termine “essente” rinvia al verbo essere, ma rinvia anche alla circostanza che ciò he noi chiamiamo essente sussiste nel momento in cui si è già chiarito un certo senso d’essere. Non è solo un riferimento grammaticale al verbo essere, ma vuol dire che quando diciamo che qualcosa è essente diciamo che deve esserci già un senso d’essere per dire che una certa cosa “è”. senza un senso d’essere non avremmo nessun essente davanti ai nostri occhi. Relazione tra l’essere e l’ente Logico: La componente “logico” viene da “logicos” e dal verbo “leghein”, collegato al termine “logos”. Questa parte della parola è complessa, perché vi è una lunga abitudine sul termine logico, logica, logos. Logos viene tradotto normalmente con “ratio”, parola da cui dipende il nostro termine “ragione”. Quando diciamo ratio, pensiamo alla ragione universale, il principio universale di tutte le cose in Eraclito, la ragione filosofica che prepara la ragione scientifica in Aristotele. In effetti il termine significa ragione, ma non soltanto ragione e soprattutto non significa innanzitutto ragione. Ratio è il nome di una operazione, che consiste primariamente in una forma di computo, di un computare, che avviene prendendo qualcosa, assumendolo come fisso e rapportando tutto il resto a ciò che ho stabilito qui dinnanzi come punto di inquadramento o unità di misura. Infatti, un significato di ratio è rapporto, si prende un qualcosa come riferimento per un qualcos’altro, si mette in corrispondenza qualcosa in modo che ci sia una determinata relazione. Il significato primario di logos viene dal verbo raccogliere. Nel senso greco, il dire (ciò che in latino chiamiamo dire, ossia dicere=indicare) nel greco è inteso come un raccogliere. Il senso della lingua per i greci è una raccolta. Una parola, prima di essere un segno che rinvia a qualcosa di esterno, è una custodia, ossia la raccolta di un senso che così viene stabilito e tenuto fermo in modo che possa essere ancora colto e appreso. Per questo si usa logos, parlare significa raccogliere. Se noi non ci ricordiamo che il termine logos significa raccolta, rimangono incomprensibili sia il pensiero di Eraclito sia quello di Aristotele. Una prova linguistica sta nel fatto che il latino “legere” vuol dire raccogliere, infatti quando diciamo di leggere una frase, vuol dire raccogliere il senso di ogni parola insieme al loro suono. La lettura è raccolta del senso di uno scritto. Per farlo, serve essere in sé raccolti, è necessario un raccoglimento. Cosa significa raccogliere? Raccogliere un frutto significa sceglierlo, selezionarlo, poi farlo apparire sottraendolo alla confusione dell’indifferenziato insieme di frutti, quindi custodirlo. Raccogliendo si sceglie, raccogliere significa scegliere, eleggere. Significa entrare in una dimensione in cui si fa emergere una chiarezza da qualcosa di confuso. Nella raccolta c’è il senso dello scegliere, ma anche ovviamente quello di portare il raccolto in un luogo dove possa essere assicurato, una dimora sicura. Raccogliere vuole anche dire mettere a dimora, ossia scortare, accudire, custodire. La parola è la messa a dimora del senso, in modo tale che proprio quel senso custodito possa essere interrogato e possa ricevere un ulteriore chiarimento, in modo che si costituisca una umanità apprendibile. Nella raccolta c’è certamente una ratio, ma essa è solo un caso particolare di logos. Un concetto ontologico, quindi, è un concetto che custodisce un senso d’essere, custodisce ogni volta l’essere e niente altro che l’essere. La tradizione della filosofia è la scuola del concetto ontologico. La parola “Dio” Nella nostra tradizione, nella parola “dio” risuonano la voce latina “Deus” e la voce greca “Zeus”. Sono termini in cui c’è riferimento ad un suono indoeuropeo che va nel senso della luminosità e del giorno (il “dì”). Zeus è colui che folgorando dal cielo rivolge il proprio fulmineo sguardo alla terra, i greci non pensano alla folgore perché non hanno la scienza, parlano di logos e di senso, e il fulmine fa incontrare il buio e la luce. La folgore mette insieme la notte e il giorno, il dì e l’oscurità, senza la folgore l’oscurità non appare, e questo è il punto che la lingua greca coglie. Zeus è folgore, una volta che il dio è nato rimane il padre della folgore. Nel corso della genitura della filosofia, il dio greco diventa “causa sui”, ossia causa di se stesso. da nascosto custode della relazione tra cielo e terra, diventa l’increato creatore della terra e del cielo, creatore ingenerato di tutti gli essenti. Così nasce il concetto ontologico di dio. Concetto che una volta creato raccoglie tutto l’essere. Si dirà da quel momento che Dio è l’essere stesso, l’increato creatore, il fondamento di tutti gli enti. San Tommaso dirà “Deus esse”, essere e dio diventano sinonimi. Si conia il concetto ontologico di dio. Il conio si interromperà perché arriverà un pensatore della stessa tradizione che annuncerà la morte di dio (Nietzsche), che non è una dichiarazione di ateismo. Il concetto di “morte di dio” è un concetto ontologico, custodisce l’essere in modo che non sia più inteso come coincidente con dio. Ma qual è Si può osservare che nella nostra epoca la parola valore sostituisca il termine senso. Ogni cosa dotata di valore appare anche come dotata di valore, e ogni senso non sembra possibile se non c’è un valore. Ha senso solo ciò che ha valore, ciò che è svalutato perde senso. Il senso diventa graduabile, tanto più vale tanto più ha senso e viceversa, senso di contabilità. Quando il valore diventa sinonimo di senso, il valutare diventa l’unico modo ammissibile di cogliere il senso di una cosa: valutare diventa, quindi, sinonimo di “giudicare”. Un giudizio che non sia in grado di fornire un valore è privo di consistenza e quindi è inutile. è così avvenuta un’intersezione, un incrocio. Giudicare non significa valutare, significa cogliere il senso di qualcosa che può essere conservato, il giudizio è l’atto del pensiero che coglie il senso di qualcosa con il fine di custodirlo nella sua dignità. Giudicare vuol dire mantenere il senso nella sfera della dignità, nella sfera del rispetto, giudicare vuol dire rispettare il senso di qualcosa, assecondarlo. Il giudicare coincide con il pensiero scismatico, la filosofia è la tradizione dell’atto del giudicare. Valutare significa contingentare, ossia parametrizzare qualcosa che grazie a dei parametri diventa un tornaconto. Il pensare diventa un pensiero secondo valori, che si disabitua al giudicare (che si è lasciato sostituire dal valutare). Arte come promozione di valori ha alla sua base la forma di pensiero che oggi domina ogni campo dell’agire umano. Da dove proviene questo format? Nietzsche è il filosofo che ha avuto il compito di parlare di valore. Si conia il senso del valutare e dal valore in un modo particolare, concetto ontologico, che poi diventa il format. Alla domanda “che significa essere?” Nietzsche risponde che essere significa “valere”. Posizione filosofica ricavata dalla questione dell’arte, tutti i suoi scorgimenti e le sue conseguenze provengono dalla necessità di dover chiarire il senso dell’arte. In questa prospettiva, qualcosa è se vale, e se non vale non è. questo concetto di valore è un concetto ontologico, da cui deriva come conseguenza non voluta il format. Oggi tale format domina l’esistenza umana e il suo modo di pensare sulla terra. Normalmente pensiamo che i concetti della filosofia appaiano come astratti. Ma Nietzsche disse: “Sono le parole più silenziose quella che portano la tempesta. I pensieri che arrivano con passo di colomba governano il mondo” Una parola silenziosa è una parola coniata nella libertà del pensare filosofico, non ha la funzione di essere subito pubblicata e data a tutti. Il sottotitolo di “Così parlò Zaratustra” è “un libro per tutti, un libro per nessuno”. I pensieri che arrivano con passo di colomba, però, governano il mondo. Avverte come pericoloso il tema che sta affrontando, un tema che se non è compreso può portare a gravi fraintendimenti. Senso di timore che in ogni grande pensatore è sempre presente. I pensieri con passo di colomba, ossia senza clamore, creano conseguenze di portata incalcolabile. Non ci sono portate calcolabili, altrimenti non sono portate. Il pensiero non può essere giudicato a partire dalle sue conseguenze, dunque il valore come concetto ontologico non può essere compreso a partire dal suo format. La questione dell’essere Prima di comprendere l’equazione di Nietzsche di essere=valore, nel senso della forza e dell’energia, dobbiamo chiederci cosa significa essere, ossia che è l’essere. Ipotetico circuito nella domanda tra è e essere non è problematico, perché l’interrogante abita già nel senso d’essere ponendo la domanda “Che è l’essere?”, l’essere vuole proprio che si chieda del suo essere. Qual è l’essere dell’essere? Il suo senso può essere determinato mantenendosi in rapporto con l’essere, abitando con l’essere. Quindi è proprio la prima domanda da porre, è la domanda attendibile. Il senso d’essere parla anche a prescindere dalla nostra volontà. Che rapporto c’è tra l’essere e la parola? L’essere parla attraverso la lingua, questo non è qualcosa che si può ignorare, proprio attraverso la via della lingua madre si può giungere ad un semplice chiarimento del senso che si cerca. Si può anche dire che “il niente è”, perché anche dicendo “il niente non è” si presuppone l’essere, ritorna il riferimento all’essere, allora nella logica scismatica possiamo dire che anche il niente si avvale dell’essere per costituirsi per ciò che è, per costituirsi anche come vuoto. L’uomo è non esattamente come “l’albero è”, o come la “mela è”. la copula assume ogni volta qualcosa di diverso, ogni volta qualcosa è a suo modo, ci sono diversi modi d’essere (uomo, albero, mela, Dio). C’è anche il modo d’essere dell’essere, ma anche il modo d’essere del nulla, che sono singolarità. Anche il modo d’essere dell’uomo è a suo modo una singolarità. In realtà, conosciamo già il senso della parola essere. Ne facciamo infatti continuamente uso, e lo facciamo anche con piena confidenza, ci affidiamo continuamente al verbo “essere” fidandoci che da tale uso si generi un’intesa concreta. Intendiamo pienamente anche il senso del “non essere”. L’essere è un concetto vuoto e indeterminato, si può ammettere, eppure lo intendiamo perfettamente in modo determinato. Ma allora è determinato o indeterminato? L’indeterminatezza è un’apparenza. Essere è una parola astratta ed evanescente, ma ne intendiamo concretamente il senso. Che significa, insomma, “essere”? Via linguistica per capirlo, si prendono alcune frasi semplici con il verbo essere alla terza persona singolare: la paroletta è (is, ist). A seconda del contesto, il verbo cambia, sostiene la contestualità del senso. Questo verbo, coniugato in quel modo, è particolarmente resistente alla sostituibilità, non si può sostituire con dei sinonimi. Velocemente il verbo assume significati diversi. - La lezione è in N29 Possiamo dire che la lezione si svolge in N29, ha luogo in N29. - Il cane è in giardino Possiamo dire che il cane si trova in giardino, ma ci sono molti contesti in cui la parola può parlare. - Rosso è pericolo Frase più complicata, basti pensare alla bandiera rossa di pericolo. Rosso è pericolo vuol dire che il rosso significa pericolo, invita ad un’attenzione. Si può dire che rosso indica, significa pericolo. - La sedia è di legno Modo in cui la sedia è fatta, materia di cui è costruita. Il verbo essere ci sostiene in questa intesa. Possiamo dire che la sedia è fatta di legno. “Su tutte le cime è quiete” (Goethe) Come si fa a tradurla in sinonimi? Suona male dire che su tutte le cime regna quiete, perché dovremmo aggiungere l’articolo, dovremmo dire che su tutte le cime regna la quiete. La vacuità del verbo essere è sfuggevolezza, quindi vaghezza. Vago però non vuol dire vuoto. Leopardi dice: “Al poeta e al letterato le parole più vaghe (convergono)” Vuoto in apparenza che è ricchezza e pregnanza di senso, ma anche ricchezza tonale. La lingua poetica è il culmine della ricchezza tonale della lingua. La lingua madre, in fondo, alla luce della vaghezza, è poesia dimenticata. Ogni parola è un canto, poi l’origine canora si trasforma in un termine con cui noi comunichiamo, ma la sua origine è tonale, di suono. Anche la lingua ordinaria è canto dimenticato. Ogni parola indica un senso, suona, e quel suono è canto. Carattere canoro della lingua in generale.
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